Diritto Tributario
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22925 - pubb. 24/12/2019
Accertamento tributario e raddoppio dei termini in presenza di seri indizi di reato
Commissione tributaria regionale Bologna, 26 Novembre 2019. Pres. Mainini. Est. Morlini.
Termini per accertamento tributario - Raddoppio ex artt. 43 d.P.R. n. 600/1973 e 57 d.P.R. n. 633/1972 - Presupposti - Modifiche apportate dal d.lgs. n. 128 del 2015 e dalla l. n. 208 del 2015 - Regime transitorio - Coordinamento
In tema di accertamento tributario, i termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l'IRPEF e dall’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, come modificati dall’art. 37 del d.l. n. 223 del 2006, convertito con modifiche in l. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza o neppure presentata, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, già notificati, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, nella parte in cui sono fatti salvi gli effetti degli avvisi già notificati. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)
RG. 358/2017
Fatto
La presente controversia trae origine da una più ampia indagine effettuata da Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza nei confronti della Monti Ascensori s.r.l. e del suo dominus Patrizio Colombarini, e riguarda, nell’ambito di cessioni d’azienda intervenute tra diverse società, l’avvenuta cessione di crediti IVA ritenuti dall’Ufficio inesistenti con conseguente indebita detrazione.
In particolare, a seguito di tale indagine sono stati emessi sette avvisi di accertamenti in sette diverse procedure, tutte ora all’esame di questa CTR, con recupero in capo alla cessionaria dell’indebita detrazione IVA su acquisti effettuati dalla cedente e ritenuti acquisti inesistenti. In particolare, i casi sono i seguenti:
a seguito di cessione di ramo d’azienda per il prezzo di € 1.220, la cessionaria Gestir SI s.r.l. ha acquistato dalla cedente Progetto Nettuno 2006 s.r.l., che poco dopo si è cancellata dal registro delle imprese e trasferita in Russia, un credito IVA di € 260.000, utilizzato in compensazione dalla contribuente cessionaria con riferimento all’anno di imposta 2007 (RGA n. 358/2017);
a seguito di cessione di ramo d’azienda per il prezzo di € 9.933, poi nuovamente ceduto a Monti Ascensori s.p.a. pochi mesi dopo, la cessionaria Serv.Bo.IT s.r.l. in liquidazione (all’epoca CSA Italia s.r.l.) ha acquistato dalla cedente Stefan Servizi Ascensori s.r.l. (già CSA Elevatori Mantova), un credito IVA di € 305.087, utilizzato in compensazione dalla contribuente cessionaria con riferimento all’anno di imposta 2009 (RGA n. 359/2017);
a seguito di cessione di ramo d’azienda per il prezzo di € 6.706, la cessionaria CSA Elevatori AIRE s.r.l. ha acquistato dalla cedente Elvecta s.r.l., che poco dopo si è cancellata dal registro delle imprese e trasferita all’estero, un credito IVA di € 425.142, utilizzato in compensazione dalla contribuente cessionaria con riferimento all’anno di imposta 2009 (RGA n. 413/2017);
a seguito di cessione di ramo d’azienda per il prezzo di € 6.750, la cessionaria Certificazioni Felsinee s.r.l. ha acquistato dalla cedente 2006 Project s.r.l., che poco dopo si è cancellata dal registro delle imprese e trasferita in Russia, un credito IVA di € 283.500, utilizzato in compensazione dalla contribuente cessionaria con riferimento all’anno di imposta 2008 (RGA n. 414/2017);
a seguito di cessione di ramo d’azienda per il prezzo di € 1.473, la cessionaria Gestione Servizi Amministrativi s.r.l. ha acquistato dalla cedente Novalift Elevatori s.r.l., che poco dopo si è cancellata dal registro delle imprese e trasferita in Romania, un credito IVA di € 241.330, utilizzato in compensazione dalla contribuente cessionaria con riferimento all’anno di imposta 2006 (RGA n. 415/2017);
a seguito di cessione di ramo d’azienda per il prezzo di € 15.109,94, la cessionaria Gestirsi s.r.l. in liquidazione ha acquistato dalla cedente Gestir SI s.r.l., la quale a sua volta aveva acquistato il ramo di azienda da una società poi trasferitasi in Russia, un credito IVA di € 584.918, utilizzato in compensazione dalla contribuente cessionaria con riferimento all’anno di imposta 2009 (RGA n. 417/2017);
a seguito di cessione di ramo d’azienda per il prezzo di € 10.000, la cessionaria Cagliari Servizi Elevatori s.r.l. ha acquistato dalla cedente MA.RI.FE di Tagliavini Giulio & C. s.a.s., che poco dopo si è cancellata dal registro delle imprese e trasferita in Romania, un credito IVA di € 203.802, utilizzato in compensazione dalla contribuente cessionaria con riferimento all’anno di imposta 2006 (RGA n. 419/2017).
L’Ufficio in ciascuno dei casi sopra indicati ha emesso un avviso di accertamento per recuperare a tassazione in capo alle cessionarie l’indebita detrazione IVA, sul presupposto della mancata prova del credito IVA in capo alla cedente, stante l’omessa produzione della documentazione contabile e delle fatture passive in grado di attestare la detrazione sugli acquisti della cedente stessa.
Tutti gli avvisi sono tutti stati impugnati dalle contribuenti, difese dallo stesso legale, avanti alla CTP di Bologna, che ha però rigettato i ricorsi e regolato le spese di lite sulla base del principio di soccombenza.
Avverso le sentenze di primo grado hanno interposto appello le parti private, affidandosi a molteplici motivi, soprattutto di rito, e sostanzialmente riproponendo tutte le doglianze disattese dalla CTP, mentre ha resistito l’Agenzia, sul presupposto della correttezza della sentenza gravata.
Le appellanti hanno altresì depositato memorie ex articolo 32 D.Lgs. n. 546/1992.
Non si è proceduto alla riunione delle controversie, nonostante la connessione oggettiva, stante la non piena connessione soggettiva e stante il fatto che i motivi di appello non sono pienamente sovrapponibili in tutte le procedure.
La presente controversia riguarda la procedura RGA n. 358/12017, nella quale l’Agenzia ha recuperato a tassazione in capo alla Gestir SI, in sigla GES s.r.l., l’indebita detrazione IVA di complessivi € 300.003, importo relativo all’IVA portata in detrazione dalla GES nella propria dichiarazione derivante dagli acquisti effettuati nell’anno dalla società acquisita Progetto Nettuno 2006 s.r.l. e relativamente ai quali non è stata fornita prova, non essendo state esibite le fatture passive.
DIRITTO
a) Preliminarmente, si osserva come l’appellante si dolga del fatto che l’Ufficio si sia costituito dopo i sessanta giorni decorrenti dalla notifica dell’appello, in violazione dell’articolo 23 D.Lgs. n. 546/1992.
Ciò detto, la doglianza è inconducente.
Infatti, è ben vero che, ai sensi del combinato disposto dagli articoli 54 e 23 D.Lgs. n. 546/1992, il convenuto in appello deve costituirsi entro 60 giorni dal giorno in cui ricorso è stato notificato.
Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità, dalla quale non vi è motivo di discostarsi, “nel processo tributario, la violazione del termine previsto dall’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992 per la costituzione in giudizio della parte resistente comporta esclusivamente la decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi, sicché permane il diritto dello stesso resistente di negare i fatti costitutivi dell'avversa pretesa, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate e di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del detto decreto” (in questi esatti termini, cfr. da ultimo la massima ufficiale della recentissima Cass. n. 2585/2019; per le medesime conclusioni, si vedano anche Cass. n. 6734/2015 e Cass. n. 18962/2005).
Ne deriva che, non avendo parte convenuta né proposto eccezioni non rilevabili d’ufficio, né formulato istanza per la chiamata di terzi, nessun profilo di invalidità è postulabile, dovendosi escludere qualunque sanzione di inammissibilità per il solo fatto della tardiva costituzione.
b1) Con il primo motivo, l’appellante deduce l’inesistenza giuridica della notifica dell’avviso di accertamento, essendo sulla busta verde ricevuta “in bianco lo spazio riservato alla firma dell’ufficiale giudiziario o del messo autorizzato”, con mancanza quindi della sottoscrizione del soggetto notificante.
L’eccezione è manifestamente infondata e frutto di un evidente errore di prospettiva giuridica.
Infatti, la notifica è stata effettuata tramite servizio postale ai sensi dell’articolo 14 della legge n. 890/1982, senza l’intermediazione di un ufficiale giudiziario, ma semplicemente su richiesta di un funzionario dell’Ufficio, il quale non ha compiuto alcuna attività specifica di notificazione, ma ha affidato la spedizione dell’atto impositivo all’ufficio postale.
In tal caso, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati - e non quelle della legge n. 890 del 1982, attinenti alla notificazione eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c. - per cui non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento, ma solo una menzione delle attività svolte (cfr. Cass. n. 14501/2016, Cass. n. 5898/2015, Cass. n. 4567/2015, Cass. n. 16949/2014, Cass. n. 15317/2014, Cass. n. 15315/2014, Cass. n. 6395/2014, Cass. n. 1091/2013, Cass. n. 15746/2012, Cass. n. 9111/2012, Cass. n. 17598/2010, Cass. n. 15948/2010, Cass. n. 14327/2009).
In ogni caso e comunque, anche a volere in mera ipotesi diversamente opinare e ritenere sussistente un qualche vizio di notifica -ciò che, come detto, assolutamente non è- detto vizio non potrebbe mai comportare l’inesistenza della notifica, ma al più ed a tutto concedere una mera invalidità od irregolarità, come tale perfettamente sanata ex articolo 156 comma 3 c.p.c. dalla ricezione dell’atto e dalla sua piena conoscenza da parte delle appellanti, che hanno tempestivamente impugnato l’atto e diffusamente dedotto in ordine alla pretesa esistenza di molteplici vizi, di talché è esclusa la configurabilità di ogni forma di lesione del contraddittorio e delle prerogative difensive.
b2) Con il secondo motivo, l’appellante deduce l’illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione dell’articolo 12 comma 7 L. n. 212/2000, in quanto emesso senza la propedeutica redazione del verbale di chiusura delle operazioni di verifica, con ciò impedendo l’attività difensiva endoprocedimentale e violando il principio del contraddittorio.
Anche in questo caso l’eccezione è manifestamente infondata, non essendo la norma invocata applicabile alla fattispecie per cui è causa.
Sul punto, basta osservare che, secondo il piano dettato letterale della norma, ai sensi del primo comma l’articolo in questione si applica nei casi di “accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali” del contribuente, e quindi l’emissione di un processo verbale di contestazione è previsto solo nel caso di accertamento emesso a seguito di accessi, ispezioni e verifiche nei locali destinati all’esercizio dell’attività; mentre nel caso che qui occupa non vi è stato alcun accesso, ispezione o verifica, essendo stato svolto un accertamento a tavolino, ciò che spiega l’assenza di un processo verbale di contestazione.
Quanto poi alla pretesa violazione del diritto al contraddittorio preventivo, trattasi di eccezione doppiamente infondata.
Infatti, ha spiegato la Suprema Corte che, al di fuori dell’ambito di operatività dell’articolo 12 e quindi dell’accesso materiale, nel caso di tributi non armonizzati, in assenza di specifiche prescrizioni normative non vi è per l’Amministrazione alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante in caso di violazione l’invalidità dell’atto. Nel caso invece di tributi armonizzati, quale l’IVA per cui si procede, la violazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta l’invalidità dell’atto solo alla condizione che, in base alla cd. prova di resistenza, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni, valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio, si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto (giurisprudenza pacifica a partire da Cass. Sez. Un. n. 24823/2015. Conformi le successive Cass. n. 10903/2016, Cass. n. 2875/2017, Cass. n. 10030/2017, Cass. n. 20799/2017, Cass. n. 21017/2017, Cass. n, 25044/2017, Cass. n. 26943/2017, Cass. n. 16641/2018, Cass. n. 21767/2018, Cass. n. 2873/2018, Cass. 701/2019, Cass. n. 22644/2019). Nel caso che qui occupa, i contribuenti nemmeno hanno dedotto quali sono le ragioni che avrebbe fatto valere, di talché l’eccezione va all’evidenza rigettata.
Da un secondo punto di vista, e l’argomentazione è dirimente, in realtà le parti private nemmeno possono dolersi dell’assenza di contraddittorio, atteso che risulta per tabulas come l’Ufficio si sia sempre tempestivamente attivato per l’instaurazione del contraddittorio, sia prima della fase dell’accertamento sia successivamente per l’attivazione del procedimento di accertamento con adesione, invitando più volte le contribuenti ad incontri per rendere chiarimenti (cfr. all. 3 e 4).
b3) Con il terzo motivo, l’appellante deduce la violazione dell’articolo 6 comma 4 L. n. 218/1997, per mancata convocazione del contribuente entro i quindici giorni dalla ricezione dell’istanza di accertamento con adesione.
Il rilievo è però da un lato inconducente e dall’altro lato comunque infondato: infatti, per un verso l’inconducenza deriva dal fatto che, anche laddove la convocazione fosse avvenuta dopo i 15 giorni dall’istanza di accertamento con adesione, da ciò non potrebbe certo desumersi la nullità derivata dell’avviso di accertamento qui impugnato; l’infondatezza deriva invece dal fatto che risulta per tabulas come la convocazione sia stata comunque tempestivamente effettuata, e ciò ha portato all’invio di documentazione da parte del legale rappresentante Cioverchia e dalla di lui delegata Silvia Bellini (cfr. all. 3 e 4).
b4) Con il quarto motivo, l’appellante deduce l’intervenuta decadenza dall’esercizio del potere di accertamento, essendo stata l’azione accertatrice esercitata dopo il quarto anno successivo alla presentazione della dichiarazione, e non potendosi ritenere configurabile il raddoppio dei termini in quanto la denuncia penale è stata depositata successivamente alla scadenza del termine quadriennale.
In particolare viene contesta la decadenza dell’Ufficio dal potere di emettere l’avviso opposto, atteso che sarebbe inapplicabile l’istituto del raddoppio dei termini di accertamento ex artt. 57 comma 3 DPR n. 633/1972, posto che lo stesso presupporrebbe una denuncia penale da parte dell’Ufficio prima della scadenza del termine originario, mentre nel caso che qui occupa la denuncia è stata presentata dall’ufficio alla Procura della Repubblica tardivamente dopo la scadenza del termine di accertamento ordinario quadriennale.
La doglianza è però infondata.
Infatti, ai fini del raddoppio del termine di accertamento non deve ritenersi necessaria le denuncia penale, posto che, nella formulazione applicabile ratione temporis, l’art. 57 comma 3 DPR n. 633/72 prevedeva il raddoppio dei termini “in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74”.
La disposizione non richiedeva che fosse stata effettuata la denuncia, ma solo che fosse riscontrata una violazione che comporti l’obbligo di denunciare.
E già la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 247/2011, aveva chiarito che “l’unica condizione per il raddoppio dei termini è la sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento” (cfr. punto 3.1), ribadendo poi al punto 5.1.2 della pronuncia che “è, perciò, del tutto irrilevante che detto obbligo, come osservato al punto 3.1., possa insorgere anche dopo il decorso del termine ‘breve’ o possa non essere adempiuto entro tale termine. Ciò che rileva è solo la sussistenza dell'obbligo, perché essa soltanto connota, sin dall'origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l'applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento”.
Infatti, i termini raddoppiati “non costituiscono una proroga di quelli ordinari. Al contrario, sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (allorché, cioè, sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari); pertanto, non può parlarsi di riapertura o proroga di termini scaduti perché i termini ‘brevi’ e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro, difatti i termini ‘brevi’ operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale di reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 e quelli raddoppiati operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia” (sempre Corte Costituzionale n. 247/2011).
Deve pertanto concludersi che “il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale” (ancora Corte Cost. n. 247/2011).
Ciò è ulteriormente confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 9974/2015 e Cass. n. 11620/2018).
Di conseguenza, essendo pacifico che trattasi di violazione tributaria per la quale vi è obbligo di denuncia penale di reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, a nulla rileva se e quando la denuncia è stata effettuata.
Irrilevante è poi altresì il richiamo operato dalla difesa dell’appellante ai più recenti interventi del legislatore sull’impianto normativo della disciplina del raddoppio dei termini, che hanno portato nel 2015 dapprima a ridurre la portata dell’impianto normativo originario con il D.Lgs. n. 128/2015, per poi pervenire all’abrogazione dell’istituto con la L. n. 208/2015.
Infatti, l’art. 1 comma 132 della L. n. 208/2015 fa espresso riferimento agli avvisi di accertamento relativi ai periodi di imposta precedenti a quello in corso al 31 dicembre 2016 che “devono essere notificati” – a partire dal 1 gennaio 2016, data della sua entrata in vigore - entro il termine di decadenza, mentre omette del tutto la menzione degli atti di controllo già notificati alla data della sua entrata in vigore.
Dal tenore letterale della disposizione si evince che la L. n. 208/2015 ha quindi inteso modificare le precedenti disposizioni soltanto con riferimento agli atti di controllo relativi ai periodi di imposta precedenti al 2016 che, al 1 gennaio 2016, non siano ancora stati notificati.
Gli avvisi di accertamento già notificati alla data di entrata in vigore delle nuove norme rimangono pertanto assoggettati alla disciplina dell’art. 2 del D.Lgs. n. 128 del 2015, ivi incluse le disposizioni che fanno salvi gli effetti degli atti impositivi già notificati al 2 settembre 2015, in vigenza delle precedenti disposizioni, per i quali, pertanto, il raddoppio dei termini per l’accertamento opera in presenza di violazione che comporti l’obbligo di denuncia, a prescindere dalla trasmissione o presentazione della stessa entro il termine ordinario dell’accertamento.
Ciò, dopo una iniziale divergenza interpretativa nell’ambito della giurisprudenza di merito, è stato definitivamente chiarito dalla Suprema Corte, confermando le pronunce favorevoli all’Amministrazione finanziaria: è stato così statuito che per gli atti impositivi già notificati al 2 settembre 2015, il raddoppio dei termini per l’accertamento opera in presenza di violazione che comporti l’obbligo di denuncia, a prescindere dalla trasmissione o presentazione della stessa entro il termine ordinario dell’accertamento (cfr. Cass. n. 26037/2016 e Cass. n 16728/2016, le cui massime ufficiali recitano: “In tema di accertamento tributario, i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l'IRPEF e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l'IVA, nella versione applicabile "ratione temporis", sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l'obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d'imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 e già notificati, incidano le modifiche introdotte dall'art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria ivi introdotta, che richiama l'applicazione dell'art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, che fa salvi gli effetti degli avvisi già notificati”. Nello stesso identifico senso anche la più recente Cass. n. 11620/2018).
Da tale autorevole insegnamento, pienamente condivisibile, il Collegio non ha motivo discostarsi.
Pertanto ed in conclusione sul punto, sulla base delle statuizioni delle menzionate sentenze della Corte di Cassazione, deve ritenersi destituita di fondamento la tesi di parte appellante relativa alla decadenza dal potere accertativo, in quanto nel caso di specie gli avvisi di accertamenti sono stati notificati sotto la vigenza della norma di salvaguardia fissata dal citato comma 3 dell’art. 2 D.Lgs. n. 128/2015.
b5) Con il quinto motivo, l’unico attinente al merito, l’appellante censura il mancato assolvimento dell’onere della prova in capo all’Ufficio in ordine alla inesistenza del credito IVA, ed argomenta che il diritto alla detrazione dell’imposta afferente le operazioni passive è stato effettuato sulla base delle liquidazioni periodiche poste in essere dalle cedenti il credito IVA, e che l’Ufficio avrebbe dovuto chiedere alle cedenti, non già alle cessionarie, la documentazione contabile di tale credito.
La contestazione non coglie però nel segno.
In realtà, se è vero che il diritto alla detrazione dell’imposta afferente ad operazioni passive viene esercitato in primo luogo in sede di liquidazioni periodiche, è altrettanto vero che tale diritto viene riepilogato in sede di dichiarazione annuale Iva ed è proprio tale dichiarazione che ha la funzione di portare a conoscenza dell’amministrazione finanziaria i relativi dati, affinché venga esercitato il controllo sulla corretta applicazione delle disposizioni di legge.
Ne consegue che le liquidazioni periodiche costituiscono solo una determinazione provvisoria del debito e del credito del contribuente, mentre la dichiarazione riepilogativa annuale adempie alla funzione di liquidazione definitiva, salvo il potere di rettifica o accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria, che può esercitarsi soltanto in sede di dichiarazione annuale, così come stabilito dall’articolo 54 DPR n. 633/1972.
Pertanto, essendo state le società cessionarie del credito IVA a presentare la dichiarazione annuale, sono tali società cessionarie del credito a dover fornire all’Ufficio i documenti per dare contezza di quanto esposto, sia con riferimento al diritto alla detrazione connesso alle operazioni passive, sia con riferimento all’imposta a debito connessa alle operazioni attive costituenti il volume d’affari.
Correttamente, quindi, l’Ufficio ha richiesto alle società cessionarie del credito IVA la documentazione a giustificazione di tale credito, poiché sono state tali società le reali utilizzatrici del credito stesso; e tali società cessionarie, attuali appellanti, non hanno in alcun modo prodotto documenti giustificativi che provassero l’esistenza e l’ammontare del citato credito.
A nulla vale replicare, da parte dell’appellante, che la documentazione potrebbe essere in possesso delle cedenti, poiché è del tutto evidente che, nel caso di cessione del ramo d’azienda e dei relativi crediti, il cessionario, utilizzando la media diligenza dell’operatore economico, avrebbe dovuto richiedere al cedente copia dei registri IVA e delle fatture attive e passive poste a fondamento del credito ceduto, ciò che anche sancito dall’articolo 1262 c.c., al fine di fare valere detto credito verso il Fisco.
Né può opinarsi che l’Ufficio avrebbe dovuto richiedere direttamente al cedente la giustificazione del credito ceduto e poi portato in compensazione dal cessionario: in realtà, ribadito che l’Ufficio ha correttamente contestato la sussistenza del credito a chi tale preteso credito ha azionato nei suoi confronti, e cioè al cessionario, è pienamente coerente anche con il sistema civilistico di cessione del credito il principio per cui il debitore può opporre al cessionario le eccezioni che erano opponibili al cedente.
Risulta invece evidente una programmata strategia di non documentare il credito IVA fruito, invocando la responsabilità di soggetti economici ormai non più esistenti e trasferiti all’estero poco dopo la cessione.
Significativa, da questo punto di vista, è anche l’oggettiva difficoltà di rinvenire nel contratto stipulato una ragione imprenditoriale diversa da quella del tentativo di monetizzare un (inesistente) credito IVA, atteso che i rami d’azienda trasferiti risultano privi di immobilizzazioni e consistenze patrimoniali diverse dal credito IVA; che le società cedenti si sono quasi sempre immediatamente cancellate dal registro delle imprese subito dopo la cessione e trasferite all’estero; che la sede legale di quasi tutte le società coinvolte è nel medesimo indirizzo di via Roncati 4 a Bologna; che quasi tutte le società coinvolte vedono come legale rappresentante tal Gino Cioverchia, il quale appare come mero prestanome; che l’intreccio tra tutte le società è ulteriormente lumeggiato dal fatto che esse appaiono dapprima come cessionarie e poi come cedenti del medesimo ramo d’azienda (si veda ad esempio Gestir SI, cessionaria nella causa RG 358/2017 e cedente nella causa RGA n. 417/2017).
Altrettanto significativo è poi il fatto che la mancata documentazione del credito IVA dedotto in compensazione, in alcune delle controversie qui oggettivamente connesse riguarda non solo quelli oggetto di cessione d’azienda, ma anche quelli propri della società cessionaria, per i quali ovviamente nemmeno si dovrebbe porre il problema della difficoltà a documentare il credito, a conferma di una situazione di fatto complessivamente e strategicamente volta all’evasione IVA in ordine a crediti oggettivamente inesistenti.
Tutto il percorso argomentativo seguito dall’Amministrazione per supportare le proprie conclusioni in ordine alla inesistenza del credito IVA, è poi stato chiaramente esplicitato nell’avviso di accertamento, nel pieno rispetto dell’obbligo di motivazione incombente in capo all’Ufficio.
Pertanto, la pretesa dell’Ufficio è anche nel merito pienamente fondata.
b6) Con il sesto motivo, l’appellante deduce una motivazione apparente in ordine al rigetto della domanda di non comminare le sanzioni.
In proposito, va replicato che l’elemento soggettivo della colpa che giustifica la sanzione tributaria, deve ritenersi normalmente connesso all’esistenza della violazione tributaria, salvo casi eccezionali e particolari di situazioni quali contrasto giurisprudenziale, legittimo affidamento o causa di forza maggiore, tutti casi che nella vicenda per cui è causa non sono provati, ed in realtà nemmeno dedotti.
Anzi, in ragione di quanto più sopra esposto, la mancata produzione della documentazione attestante il diritto alla detrazione IVA, è circostanza quantomeno ascrivibile a colpa degli appellanti, di per sé sufficiente al recupero dell’imposta con sanzioni per illegittima detrazione e infedele dichiarazione; e la stessa dinamica della cessione del credito così come riassunta nei punti precedenti, lumeggia addirittura un comportamento doloso piuttosto che colposo.
b7) Con il settimo motivo, l’appellante ripropone molteplici doglianze che assume non esaminate nella pronuncia appellata e che richiama, riferendosi al ricorso di primo grado, con i numeri 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 11 e 12.
Così però non è, perché la sentenza impugnata ha esaminato tutte le eccezioni della contribuente e le doglianze di cui al presente motivo di appello riguardano argomentazioni già sviluppate negli altri motivi di appello.
Infatti, i rilievi di cui al numero 2 (relativo alla pretesa violazione dell’articolo 12 comma 2 L. n. 212/2000), al numero 3 (relativo all’omessa redazione del processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica), ai numeri 4 e 5 (relativi alla pretesa violazione dell’articolo 12 comma 7 L. n. 212/2000), al numero 6 (relativo alla pretesa lesione del principio del contraddittorio), sono meramente ripetitivi del secondo motivo di appello e tutti già esaminati al punto b) della presente sentenza.
Il rilievo di cui al numero 7 (relativo alla pretesa decadenza dal potere di accertamento), è meramente ripetitivo del quarto motivo di appello ed è già stato esaminato al punto d) della presente sentenza.
Il rilievo di cui al numero 8 (relativo alla pretesa mancanza di prova dell’inesistenza del credito Iva) è meramente ripetitivo del quinto motivo di appello ed è già stato esaminato al punto e) della presente sentenza.
I rilievi di cui ai numeri 11 e 12 (relativi alla comminazione delle sanzioni), sono meramente ripetitivi del sesto motivo di appello e sono già stati esaminati al punto f) della presente sentenza.
Per quanto concerne invece il rilievo di cui al punto 2, relativo alla supposta nullità dell’avviso di accertamento per difetto di sottoscrizione stante l’assenza di delega di firma, è facile replicare che, per un verso, trattasi di doglianza inammissibile, essendo stata formulata in primo grado come motivo aggiunto nella memoria ex art. 32 D.Lgs. n. 546/1992, ma mai notificato all’Ufficio ex articolo 24 comma 4 D.Lgs. n. 546/1992; e per altro verso trattasi comunque di doglianza infondata, avendo l’Ufficio prodotto la rituale delega di firma (cfr. all. 5).
b8) Con l’ottavo ed ultimo motivo, l’appellante censura la pronuncia nella parte in cui la ha condannata alla rifusione delle spese.
Trattasi di motivo palesemente infondato, atteso che le spese di lite sono state correttamente addebitate alla parte soccombente, in piena aderenza a quanto prescritto dagli articoli 15 D.Lgs. n. 546/1992 e 91 c.p.c., e liquidate peraltro in misura inferiore ai minimi tariffari previsti dal DM n. 55/2014, pur se sul punto non può provvedersi in assenza di appello incidentale.
c) In ragione di quanto sopra e stante l’infondatezza di tutti i motivi proposti, l’appello va rigettato, con conseguente conferma dell’impugnata sentenza.
Non vi sono ragioni per derogare ai principi generali codificati dagli artt. 15 D.Lgs. n. 546/1992 e 91 c.p.c. in tema di spese di lite, che, liquidate come da dispositivo con riferimento al D.M. n. 55/2014, sono quindi poste a carico dei soccombenti contribuenti appellanti, in solido tra loro, ed a favore del vittorioso Ufficio appellato, tenendo a mente un valore prossimo ai minimi nell’ambito dello scaglione entro il quale è racchiuso il decisum di causa, e con la riduzione del 20% prevista dall’articolo 15 comma 2 sexies D.Lgs. n. 546/1992, essendo il vittorioso Ufficio difeso da un funzionario.
Così come chiarito dalla maggioritaria giurisprudenza della Suprema Corte, non è possibile procedere alla condanna ex art. 13 comma 1 quater DPR n. 115/2002 (Cass. n. 23980/2018, Cass. n. 20018/2018, Cass. n. 15111/2018; contra la sola Cass. n. 17215/2018).
P.Q.M.
la Commissione Tributaria Regionale di Bologna sez. XI
rigetta l’appello;
condanna l’appellante a rifondere all’Ufficio le spese di lite del grado, che liquida in € 3.000 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie.
Bologna, 18/10/2019.