Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6431 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 19 Settembre 2006, n. 20255. Est. Gilardi.


Società - Di persone fisiche - Società semplice - Scioglimento - Esclusione - Ad opera degli altri soci - Procedimento - Ricorso all'autorità giudiziaria - Presupposti - Società composta da due soli soci - Applicabilità alle società composte da più di due soci - Esclusione - Delibera a maggioranza - Necessità - Esistenza di due gruppi d'interesse omogenei e contrapposti - Irrilevanza - Impossibilità di raggiungere la maggioranza - Rimedi - Recesso per giusta causa - Ammissibilità.



In tema di società di persone, il ricorso all'autorità giudiziaria per ottenere una pronuncia di esclusione del socio è ammissibile, a norma dell'art. 2287, terzo comma, cod. civ., nel solo caso in cui la società sia composta soltanto da due soci, mentre in ogni altro caso trova applicazione l'art. 2287, primo comma, cod. civ., ai sensi del quale l'esclusione del socio può essere deliberata a maggioranza, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che all'interno della compagine sociale siano eventualmente configurabili due gruppi di interesse omogenei e tra loro contrapposti, e che l'esclusione possa in tal caso rivelarsi impossibile, in virtù del conflitto d'interessi che impedisce di computare nella maggioranza il socio da escludere: la posizione del socio che non possa avvalersi né del procedimento di cui primo comma, né del ricorso all'autorità giudiziaria, ai sensi del terzo comma, non resta infatti priva di tutela, essendo sempre possibile il recesso per giusta causa, ai sensi dell'art. 2285, secondo comma, cod. civ., il quale rappresenta una forma di tutela reputata adeguata dal legislatore, senza che possa al riguardo prospettarsi alcun dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. BERRUTI Giuseppe Maria - Consigliere -
Dott. SALVAGO Salvatore - Consigliere -
Dott. RORDORF Renato - Consigliere -
Dott. GILARDI Gianfranco - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Pietro MELIS, elettivamente domiciliato in Roma, via Portunese n. 104 presso la signora Atonia De Angelis, rappresentato e difeso dall'Avv. Guido CHESSA MIGLIOR in forza di procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
Vittoria CORBIA, Matteo MELIS e Paolo MELIS;
- intimati -
avverso la sentenza n. 3427/2004 della Corte d'appello di Cagliari, depositata il 16 settembre 2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20 giugno 2006 dal Dott. GILARDI Gianfranco;
udito per il ricorrente l'Avv. Guido CHESSA MIGLIOR;
udito il Sostituto Procuratore Generale dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto pubblico del 28 aprile 19913 (N.d.r.: testo originale non comprensibile) i soci della Cine Corallo dei fratelli Angius & C. s.n.c. effettuarono un trasferimento di quote ed una modifica dei patti sociali a seguito dei quali, tra l'altro, la società assunse la denominazione di Cine Corallo dei fratelli Melis & s.n.c. ed il numero dei soci fu limitato a tre.
Con atto di citazione notificato il 26 maggio 1995 Melis Gianluca conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Cagliari l'amministratore Melis Pietro chiedendo la sua revoca dall'incarico per inadempimento agli obblighi sociali e la nomina di un amministratore giudiziario.
Disposto il rinnovo della citazione nulla, si costituiva in giudizio Melis Pietro - nei cui confronti era stato emesso nel frattempo un provvedimento d'urgenza di revoca dall'incarico - eccependo l'esistenza nel contratto di una clausola arbitrale e, nel merito, deducendo l'infondatezza delle domanda avversaria. Con sentenza del 7 ottobre 1997 il Tribunale di Cagliari, ritenuta la propria competenza, disponeva la revoca dell'amministratore; ma la Corte d'appello di Cagliari, dopo aver disposto nel corso del giudizio d'impugnazione l'integrazione del contraddittorio nei confronti della società, con sentenza del 14 dicembre 2000 annullava la decisione per violazione del contraddittorio e rimetteva la causa al primo giudice.
Sempre nel 1997 Melis Gianluca e Melis Paolo, a seguito del ricordato provvedimento di urgenza di revoca dell'amministratore, chiedevano ed ottenevano dal Presidente del Tribunale di Cagliari la nomina di un liquidatore della società, che veniva in seguito revocata dallo stesso Presidente in quanto pronunciata senza il consenso di tutti i soci sulla messa in liquidazione della società.
Con atto di citazione notificato il 7 giugno 1999 Melis Gianluca e Melis Paolo convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Cagliari Melis Pietro chiedendo lo scioglimento della società per essere diventato impossibile il perseguimento dell'oggetto sociale a causa di insanabili dissidi tra i soci.
Questa causa veniva iscritta al n. 3335/99 del R.G".
Costituitosi il contraddittorio, il convenuto deduceva in va riconvenzionale l'inadempimento degli attori alle obbligazioni nascenti dal contratto sociale ed il loro comportamento ostruzionistico.
Con delibera del 27 settembre 1999 Melis Pietro pronunciava l'esclusione degli altri soci ai sensi dell'art. 2286 c.c. La delibera veniva impugnata da Melis Gianluca e Paolo innanzi al Tribunale di Cagliari con atto di citazione notificato il 22 ottobre 1999.
Questa seconda causa veniva iscritta al n. 9431/99 R.G. Costituitosi il contraddittorio, il convenuto chiedeva in via riconvenzionale l'esclusione degli attori dalla società e la condanna dei medesimi al risarcimento dei danni cagionati dall'affermato inadempimento.
Riunite le due cause, con sentenza del 10 ottobre 2002 il Tribunale di Cagliari dichiarava la nullità della delibera di esclusione dei soci di minoranza; respingeva la domanda di danni proposta da Melis Pietro e condannava quest'ultimo al risarcimento del danno a favore degli attori, con liquidazione da effettuarsi in separato giudizio; dichiarava sciolta la società. La decisione del Tribunale veniva confermata dalla Corte d'appello di Cagliari con sentenza depositata il 16 settembre 2004, contro la quale Melis Pietro ha proposto ricorso sulla base di due motivi. Le parti intimate non hanno svolto difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto violazione degli artt. 2286, 2287, 1218 cod. civ., e segg., art. 1453 cod. civ., e segg., art. 12 disp. att. cod. civ., art. 24 Cost., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in quanto l'affermazione secondo cui il terzo comma dell'art. 2287 cod. civ. non sarebbe applicabile, nè in via analogica, ne' in via di interpretazione estensiva alla fattispecie di società tripersonale, si porrebbe in contrasto con le richiamate norme del codice civile e con la Costituzione. In difetto di applicazione del terzo comma dell'art. 2287 cod. civ. alla presente fattispecie, la posizione del ricorrente sarebbe irrimediabilmente lesa dal comune e preordinato inadempimento degli altri due soci, e rimarrebbe senza tutela posto che, da un lato, il socio da escludere, per espressa disposizione di legge (art. 2287 cod. civ., comma 1), non può partecipare alla formazione della delibera e, dall'altro lato, anche il terzo socio, legato a quello da escludere dal vincolo della comune responsabilità e come tale in conflitto d'interessi rispetto all'oggetto dell'assumenda delibera, non può partecipare, proprio per questa ragione, alla formazione di essa. Stando, poi, alla lettera dell'art. 2287 cod. civ., comma 3, non sembrerebbe neppure applicabile il ricorso all'autorità giudiziaria, dalla norma riservato testualmente alle sole società bipersonali. Una simile interpretazione del sistema normativo produrrebbe l'effetto paradossale che, mentre l'art. 2286 c.c. ha inteso sanzionare i soci inadempienti con la previsione della loro esclusione dalla società, l'inadempimento dei soci di minoranza resterebbe invece privo di conseguenze; e proprio perché l'esclusione è la sanzione unica ed esclusiva apprestata dal legislatore per l'inadempimento al contratto sociale, sarebbe del tutto incoerente ed arbitrario sostenere che essa non possa trovare attuazione in un determinato caso, soltanto perché il legislatore per quello stesso caso non ha previsto in modo esplicito le modalità procedurali per comminarla. La mancata applicazione in via interpretativa dell'art. 2287 c.c. darebbe inevitabilmente luogo, inoltre, allo scioglimento della società, in contrasto con la volontà legislativa tesa chiaramente a favorirne la continuazione, tanto da prevedere appunto l'esclusione del socio inadempiente (e non lo scioglimento) anche nel caso di società con due soli soci. Nè avrebbe consistenza il rilievo, contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui il comune vincolo di responsabilità dei due soci non può costituire il fondamento del conflitto di interessi con la società di quello tra essi chiamato a comporre l'assemblea, dal momento che il conflitto si porrebbe unicamente con il socio promotore dell'ipotetica assemblea. Così argomentando, infatti, la Corte d'appello non ha considerato che, se in base all'art. 2287 c.c., comma 1, al socio da escludere è preclusa la partecipazione al voto, la "ratio" del divieto riposa chiaramente sul potenziale conflitto di interessi di tale socio con l'oggetto della delibera, essendo evidente che, ove il conflitto d'interessi del socio non fosse rapportato all'oggetto della delibera, il socio da escludere sarebbe sempre e solo in contrasto con il socio promotore dell'esclusione.
Con l'ulteriore assurdo - cui condurrebbe il ragionamento adottato dalla Corte d'appello - che nell'ipotesi di assemblea convocata per l'esclusione di due soci con riguardo ad un comune fatto di inadempimento, il conflitto d'interessi sussisterebbe, di volta in volta, solo per il singolo socio della cui esclusione si discuta in concreto nella trattazione dell'ordine del giorno, ma non per l'altro della cui esclusione si avrà a trattare nello stesso contesto assembleare, anche se in un momento successivo. Il secondo socio da escludere potrebbe quindi esprimere il proprio voto in relazione al comune fatto di inadempimento, con la farsesca conseguenza che, pur essendo la proposta di esclusione di ciascuno di essi riferita ad un medesimo inadempimento, il conflitto di interessi del socio, preclusivo come tale dell'esercizio del voto, si paleserebbe solo al momento in cui debba essere deliberata la sua specifica esclusione. Per l'ipotesi, comunque, che la norma dell'art. 2287 c.c., comma 3, fosse ritenuta insuscettibile di interpretazione estensiva o analogica, il ricorrente ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo in questione per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., comma 1.
Il motivo è infondato. L'art. 2287 cod. civ, comma 3, espressivo di una specifica disciplina legale delle società di persone e del modo in cui il legislatore ha inteso disciplinare i rapporti dei soci con la società e dei soci tra loro, è univoco nel senso che la pronuncia di esclusione da parte dell'autorità giudiziaria è possibile solo nel caso in cui la società sia composta da due soci; e la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di precisare che tale regola vale anche per il caso in cui all'interno della compagine sociale siano configurabili due gruppi di interessi omogenei e fra loro contrapposti. Invero la norma dell'art. 2287 cod. civ., comma 3, è giustificata dalla considerazione che, dovendo la maggioranza richiesta computarsi per capi e non per quote (sia pure con il correttivo di non considerare, nel calcolo del numero dei soci, quello da escludere), nella società composta da due soli soci tale maggioranza mai potrebbe essere raggiunta: con la conseguenza che l'esclusione unilateralmente decisa da uno dei due soci sarebbe illegittima, pur in assenza di opposizione del socio escluso ed in presenza delle ragioni giustificatrici .(così, testualmente, Cass. 10 gennaio 1998, n. 153). È altrettanto certo, d'altra parte, che in virtù dell'art. 2287 cod. civ., comma 1, l'esclusione del socio inadempiente può essere deliberata dalla maggioranza dei soci; e l'espressione della norma (tralasciando ogni approfondimento sul concetto di deliberazione da essa menzionato, con riferimento a tipi di società la cui disciplina legale non prevede l'organo ed il metodo assembleare) non consente dubbi sul fatto che, nello schema normativo, è sufficiente l'esistenza di un numero di soci superiore a due per ritenere astrattamente applicabile il meccanismo previsto dell'art. 2287 cod. civ., comma 1. Nè può affermarsi che, nell'ipotesi in cui l'esclusione prevista dall'articolo in questione si dimostrasse impossibile a causa del conflitto d'interessi che impedisce di computare nella maggioranza il socio da escludere, la posizione del socio il quale non possa avvalersi ne' del procedimento di cui all'art. 2287 cod. civ, comma 1, ne' del ricorso all'autorità giudiziaria ai sensi del terzo comma, resterebbe prova di tutela, posto che in tal caso sarebbe sempre possibile il recesso per giusta causa ai sensi dell'art. 2285 cod. civ., comma 2, il recesso dovendo considerarsi una forma di tutela reputata adeguata dal legislatore - senza che al riguardo possa prospettarsi alcun dubbio di legittimità costituzionale sotto il profilo degli artt. 3 e 24 Cost. - nella disciplina legale tipica delle società di persone.
Non contrasta con tale conclusione il passo della sentenza n. 153/1998 di questa Corte laddove si osserva che nel caso in cui all'interno della compagine sociale siano configurabili due gruppi di interessi omogenei e fra loro contrapposti, "difetta la circostanza, sottesa alla previsione di cui al 3ø comma dell'art. 2287, che la causa dell'esclusione trovi divisa la compagine sociale in due parti". È infatti evidente che la Corte, anziché affermare "a contrariis" ed in via generale che nel caso di effettiva divisione in due della compagine sociale l'art. 2287 cod. civ., comma 3, si renda invece applicatole, ha inteso semplicemente rafforzare la conclusione cui in concreto era già pervenuta alla stregua dell'interpretazione letterale dell'art. 2287, terzo comma ripetutamente citato.
Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto violazione degli artt. 2286, 2287, 2272, 2308, 2257, 1218 cod. civ., e segg., art. 12 disp. att. cod. civ., art. 24 Cost.; nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell'art. 112 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in guanto la Corte d'appello, omettendo di pronunciare l'esclusione pur in presenza della situazione delineata dall'art. 2287 c.c., comma 3, (venutasi a creare, nelle more tra la pronuncia della sentenza del Tribunale e la proposizione dell'atto di appello, con la morte del socio Gianluca Melis), e motivando tale decisione con il carattere pregiudiziale della pronuncia di scioglimento della società Cine Corallo resa dal Tribunale ai sensi dell'art. 2272 c.c., n. 2, e confermata dalla stessa Corte d'appello, ha trascurato di considerare che il conflitto dei soci non può essere considerato insanabile, ai sensi della norma appena citata, allorché sia causato da gravi inadempimenti di uno dei soci, dal momento che in detta ipotesi i contrasti tra i soci possono essere eliminati estromettendo quello inadempiente a norma dell'art. 2286 c.c. Se il giudice d'appello, facendo corretta applicazione dell'art. 2272 c.c., n. 2, e art. 2287 c.c., avesse provveduto all'esame dei fatti di inadempimento attribuiti dal ricorrente ai soci di minoranza, si sarebbe avveduto della violazione da parte di questi ultimi degli obblighi scaturenti dal contratto sociale e, comunque, della imputabilità dell'eventuale paralisi della società al loro comportamento ostruzionistico.
Nell'atto di appello era stato infatti ricordato che i soci di minoranza, come accertato dal Tribunale penale di Cagliari, avevano "estorto" al ricorrente la sottoscrizione di una scrittura privata avente ad oggetto l'assunzione dell'obbligo nei confronti degli stessi soci di minoranza di cedere a terzi, secondo determinate condizioni, la propria quota di partecipazione nella società Cinecorallo; si erano opposti all'azione svolta dal ricorrente, quale amministratore della società, al fine di recuperare la sala cinematografica attraverso la quale la società stessa conseguiva il proprio oggetto sociale, immobile che era stata venduto dal liquidatore la cui nomina era stata successivamente invalidata; avevano omesso di rispondere all'espresso invito del ricorrente di assumere essi stessi l'ufficio di amministratore o ad indicare un terzo per l'assunzione di tale carica dopo l'emissione del provvedimento ex art. 700 c.p.c. che aveva ingiustamente revocato esso ricorrente dalla carica di amministratore; avevano reiteratamente ed illegittimamente richiesto al Banco di Napoli la corresponsione di somme provenienti dalle operazioni di liquidazione. La motivazione della Corte d'appello, nel disattendere l'univoca concludenza nel senso di comprovare la volontà antisociale dei soci di minoranza, si fonderebbe peraltro su affermazioni apodittiche e su una ricostruzione della fattispecie concreta, connotata da molteplici vizi di logicità.
Il motivo è inammissibile poiché è evidente che il ricorrente, sotto il profilo della violazione di norme di legge, ha inteso in realtà sottoporre alla Corte un nuovo esame dei fatti e delle risultanze di causa, sollecitando valutazioni e giudizi riservati al giudice del merito. Contrariamente, infatti, a quanto affermato dal ricorrente, il giudice d'appello non ha ignorato il principio secondo cui alla norma dell'art. 2272 c.c., n. 2, non può essere ricondotto il conflitto causato da gravi inadempimenti di uno dei soci, conflitto da risolvere con lo strumento dell'esclusione del socio inadempiente (e non con lo scioglimento della società), ne' il principio secondo cui sulla domanda di scioglimento prevale quella di esclusione proposta nei confronti del socio inadempiente, ma ha ritenuto nell'ambito del potere di apprezzamento del merito della vicenda ad essa riservato - che i fatti indicati dal ricorrente costituissero sintomi evidenti dell'esistenza di una situazione di animosità tra i tre fratelli, tale da determinare un ostacolo insormontabile al conseguimento dell'oggetto sociale. La Corte d'appello, dunque, non è incorsa nel vizio di omissione di pronuncia quanto alla domanda di esclusione, ma ha ritenuto che tale domanda fosse preclusa dall'accertamento di una situazione di ormai impossibile conseguimento dell'oggetto sociale, determinata "dalle inconciliabili divergenze circa i criteri di gestione dell'impresa". Nè si ravvisa il vizio di motivazione denunciato dal ricorrente. Costituisce invero principio assolutamente fermo nella giurisprudenza di questa Corte che il motivo di ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi della sentenza impugnata a norma dell'art. 360 c.p.c., n. 5, deve essere articolato con la precisa indicazione della carenze o lacune argomentative in cui sia incorso il giudice di merito, ovvero con la specificazione di illogicità consistenti nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato estraneo al senso comune, od ancora nell'indicazione della mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte e quindi dell'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e dell'insanabile contrasto degli stessi. Con detto motivo non può essere fatto valere, invece, il contrasto della ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice del merito con il convincimento e con le tesi della parte, giacché, se si opinasse diversamente, il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato del giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice del merito, al quale, per le medesime considerazioni, neppure potrebbe imputarsi di aver omesso l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché ne' l'una ne' l'altra gli sono richieste, laddove soddisfa all'esigenza di adeguata motivazione il fatto che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo.
Consegue da quanto sopra che il ricorso deve essere rigettato. Non vi è luogo a pronunciare sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati. P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Così deciso in Roma, il 20 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2006