Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6388 - pubb. 01/08/2010
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Cassazione civile, sez. I, 08 Luglio 2004, n. 12553. Est. Ragonesi.
Società - Di persone fisiche - Società in nome collettivo - Scioglimento - In genere - Società di fatto - Scioglimento per il venir meno della pluralità dei soci - Qualità di socio del superstite - Persistenza sino all'estinzione della società - Conseguenze - Assoggettabilità a fallimento.
Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Società e consorzi - Società con soci a responsabilità illimitata - Fallimento della società e dei soci - Società di fatto - Scioglimento per il venir meno della pluralità dei soci - Qualità di socio del superstite - Persistenza sino all'estinzione della società - Conseguenze - Assoggettabilità a fallimento.
Lo scioglimento non comporta anche l'estinzione della società, che è determinata, invece, soltanto dalla effettiva liquidazione dei rapporti giuridici pendenti, che alla società facevano capo, e dalla definizione di tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi per ragioni di dare e avere; ne consegue che, verificatosi lo scioglimento di una società di fatto per il venir meno, a causa della morte di uno dei due soci, della pluralità (non ricostituita) degli stessi, il socio superstite conserva tale qualità (senza che rilevi in contrario la circostanza che gli sia inibito il recesso) ed è, pertanto, assoggettabile a fallimento unitamente alla società. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. CAPPUCCIO Giammarco - Consigliere -
Dott. BERRUTI Giuseppe Maria - Consigliere -
Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere -
Dott. RAGONESI Vittorio - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
VENTURA MARIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANGELO BROFFERIO 3, presso l'avvocato ANTONIO CARDARELLI, che la rappresentano e difendono unitamente agli avvocati LUDOVICO PAZZAGLIA, giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
CURATELA DEL FALLIMENTO CASA DI CURA VILLA MARIA GRAZIA IN LIQUIDAZIONE E MARIA VENTURA, in persona del Curatore Avvocato Alfonso Ilaria, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 82, presso l'avvocato MARCELLO PASANISI, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrente -
contro
FELICI ALESSANDRO, FELICI ANTONIO, STIFANI ITALIA, AUGELETTI VILMA ROSARIA, FORTE ANNA, NIRO GIOVANNI, SPANO GIUSEPPINA, TODARO ADDOLORATA, GRAZIOSI LANDO, KASME RADIOLOGICA SRL;
- intimati -
e sul 2^ ricorso n.^ 24163/01 proposto da:
FELICI ALESSANDRO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA SALARIA 332, presso l'avvocato GIUSEPPE DE MAJO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GABRIELE DE MAJO, giusta procura per nomina depositata in udienza;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
VENTURA MARIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANGELO BROFFERIO 3, presso l'Avvocato TIZIANA e ANTONIO CARDARELLI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUDOVICO PAZZAGLIA, giusta procura in calce al controricorso al ricorso incidentale;
- controricorrente al ricorso incidentale -
contro
FALLIMENTO CASA CURA VILLA MARIA GRAZIA & DI VENTURA MARIA, FELICI ALESSANDRO, PELICI ANTONIO, TOTARO ADDOLORATA, STIFANI ITALIA, AUGELLETTI VILMA ROSARIA, FORTE ANNA, NIRO GIOVANNI, SPANO GIUSEPPINA, GRAZIOSI LANDO, KASME RADIOLOGICA SRL;
- intimati -
avverso la sentenza n. 2082/99 della Corte d'Appello di ROMA, depositata il 28/06/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/02/2004 dal Consigliere Dott. Vittorio RAGONESI;
udito per il c/ric. è ric. incid. l'Avvocato FELICI che deposita atto di nomina firmato dal Felici e chiede un rinvio, per poter affrontare la difesa, stante la recente rinuncia al mandato dell'Avvocato Cocco;
L'Avvocato Pazzaglia si oppone al rinvio;
L'Avvocato Pasanisi e il PG si rimettono alle decisioni della Corte;
la Corte respinge l'istanza ed ordina procedersi oltre;
udito per il ricorrente gli Avvocati PAZZAGLIA e CORDA, con delega, che hanno chiesto l'accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale;
udito per la resistente CASA DI CURA VILLA M. Grazia l'Avvocato PASANISI che ha chiesto il rigetto del ricorso della Ventura, L'Avvocato DE MAJO chiede il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento di quello incidentale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAFIERO Dario che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'inammissibilità del ricorso incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n 56608/95 del 30-3-95 il Tribunale di Roma dichiarava il fallimento della s.d.f. "Casa di Cura Villa Maria Ir Grazia" e di "Maria Ventura in proprio".
Con citazione del 28/4/95 Maria Ventura si opponeva alla detta sentenza, deducendo: che fin dalla morte del padre (13/7/71) aveva gestito la Clinica Grazia" in società di fatto con la sorella Grazia Maria; che, dal 29/10/71 in poi, la s.d.f era stata amministrata dal Dott. Alessandro Felici, marito della sorella, in virtù di una procura congiunta rilasciatagli dalle due sorelle; che, dopo la morte (17/2/86) della sorella Grazia Maria, ella, quale socia superstite, aveva comunicato ai di lei eredi che intendeva subentrare nella gestione della Clinica come imprenditrice individuale, dichiarandosi pronta a liquidare la loro quota, ma che Alessandro Felici si era opposto e, pur non avendo più alcuna procura, aveva continuato la gestione, qualificandosi ancora amministratore e sostenendo comunque che gli "eredi" (della socia defunta) avevano diritto almeno al 50% della Clinica, o quali soci, in quanto "eredi", ovvero quali soci di una nuova società di fatto costituitasi tra essi e Maria Ventura;
che ella aveva perciò presentato un ricorso al Pretore, chiedendo l'allontanamento degli "eredi" dalla Clinica, ma che questi ultimi, con autonomo ricorso, avevano chiesto al Pretore che il Felici fosse confermato amministratore della Clinica e che comunque fosse nominato un amministratore giudiziario; che il Pretore, riuniti due ricorsi, con ordinanza 2313187, aveva nominato amministratore della s.d.f. il rag. G. Lupo; che ella aveva riassunto il giudizio innanzi al Tribunale di Roma, chiedendo il riconoscimento del suo diritto a subentrare nella gestione a titolo individuale nonché la determinazione della quota spettante agli eredi; che questi ultimi si erano opposti alle sue richieste ottenendo anzi nel corso del giudizio la sostituzione dell'amministratore giudiziario; che, con la sentenza non definitiva n. 12335/90, il Tribunale aveva respinte sia le sue domande che quelle degli eredi senza pronunziarsi sulla determinazione della quota di questi ultimi ed aveva dichiarato lo scioglimento della s.d.f. nominando un liquidatore; che, nelle more, la Clinica, che, era stata gestita dal 17/2/86 al 21/4/87 soltanto dagli "eredi" e, successivamente, dall'amministratore giudiziario, aveva cessato l'attività; che peraltro, nel corso del giudizio, le due parti, avevano concordata la ripartizione dell'azienda, dividendosi i locali, le attrezzature e il personale - salvo alcune parti e servizi in comune - per riprendere la gestione autonomamente;
che la Corte di Appello, da essa adita in sede di gravame, aveva confermato la sentenza del Tribunale; che la Corte di Cassazione, con sentenza 4169/95, aveva riconosciuto il suo diritto a subentrare quale imprenditrice individuale nella gestione della Clinica, attraverso la utilizzazione dei beni già societari, ritenendo che gli "eredi" erano solo titolari di un credito verso di essa, quale soda superstite. Sulla base di tale premessa, Maria Ventura rilevava che le motivazioni della sentenza dichiarativa del suo fallimento non apparivano fondate, e che esse erano comunque inconciliabili con le affermazioni contenute nella sentenza della Corte Suprema; mentre la cessazione di attività della Clinica, la sua ripartizione in due separate entità e il diritto riconosciutole, quale socia superstite, alla gestione a titolo individuale dopo lo scioglimento della s.d.f., comportavano un riesame della situazione e l'accoglimento delle domande da lei formulate di revoca del fallimento di essa Maria Ventura, ovvero in via subordinata, di estensione del fallimento nei confronti di Alessandro, Antonio e Dario Felici, o quali eredi di Grazia Maria Ventura o perché si erano comportati come soci, gestendo dapprima singolarmente e poi nell'ambito della società di fatto preesistente, ovvero proseguita o ricostituita, la Casa di Cura Villa Maria Grazia.
Il Tribunale con la sentenza n. 905 7/96 rigettava la opposizione. Il primo Giudice rilevava che gli eredi della defunta socia non potevano essere qualificati come soci, ma soltanto come creditori nei confronti della socia superstite, con un diritto alla liquidazione della quota già spettante alla socia defunta; la stessa sentenza della Cassazione, poi, non modificava il costante orientamento di questa nel ritenere che dopo lo scioglimento della società occorreva la liquidazione onde giungere alla estinzione della società; in ordine alla domanda subordinata di estensione del fallimento al Felici, richiamava la motivazione di rigetto della sentenza dichiarativa di fallimento.
La Ventura proponeva appello.
Si costituivano il fallimento della sdf Casa di cura Villa Maria Grazia e della socia Ventura Maria, Graziosi Lando e la srl Kasme Radiologica che chiedevano il rigetto dell'appello; si costituivano altresì Felici Alessandro, in proprio e quale esercente la partia potestà sul figlio minore Dario, e Felici Antonio, nonché Stifani Italia, Augeletti Vilma Rosalia, Forte Anna, Niro Giovanni, Spano Giuseppina, Todaro Addolorata, che proponevano anche appello incidentale.
La Corte d'appello di Roma rigettava gli appelli incidentali e, in parziale accoglimento dell'appello principale della Ventura, rimetteva gli atti al tribunale di Roma per l'estensione del fallimento nei confronti di Felici Alessandro in quanto socio della società di fatto in liquidazione "Casa di cura villa Maria Grazia". Avverso tale sentenza ricorre per Cassazione la Ventura sulla base di due motivi illustrati con successiva memoria.
Resistono con controricorso il fallimento della Casa di cura Villa Maria grazia e Felici Alessandro.
Quest'ultimo ha altresì proposto ricorso incidentale affidato a cinque motivi cui resiste con controricorso la Ventura. All'udienza di discussione è stata rigettata una richiesta di rinvi avanzata dal difensore del Felici.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente, prendendo le mosse dalle sentenze della Corte di Cassazione n. 4169/95 e della Corte di Appello di Roma (in sede di rinvio) n. 3086798, ha assunto che non poteva essere dichiarato il fallimento della s.d.f. Casa di cura Villa Maria Grazia in liquidazione e di essa Maria Ventura, disposto in data 30/03/1995, in quanto la società di fatto si era già sciolta sin dal 17/02/1986 (per la mancata ricostituzione della pluralità dei soci entro i sei mesi successivi alla morte di Grazia Maria Ventura) e la socia superstite, per tale ragione, non aveva potuto esercitare la facoltà di recesso.
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente ha eccepito la violazione dei principi sul giudicato riferito alle due sentenze:
della Corte di Cassazione n. 4169/95 e della Corte di Appello di Roma n. 3086/98; nonché la omessa o insufficiente motivazione circa la rilevata insolvenza della società di fatto, riferibile ad obbligazioni successive allo scioglimento della società commesse in via esclusiva dal Felici.
Quest'ultimo con il primo motivo di ricorso incidentale deduce che con l'atto di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento la Ventura non poteva chiedere l'estensione dello stesso nei confronti di esso controricorrente essendo sfornita a tale proposito di legittimazione. Con il secondo motivo deduce che il rigetto della istanza di fallimento proposto nei confronti di esso ricorrente incidentate doveva avvenire con decreto ai sensi dell'art. 22. L.f e non già con sentenza e che comunque tale provvedimento doveva essere impugnato entro 15 giorni avanti la Corte d'appello e non già opposto avanti al tribunale ai sensi dell'art. 18 l.f. Con tale motivo deduce altresì che l'impugnazione sarebbe avvenuta in ogni caso fuori termine e che la Corte d'appello successivamente investita dell'impugnazione avverso la sentenza del tribunale doveva decidere in Camera di consiglio e non già con il rito ordinario e doveva dichiarare inammissibile l'appello in quanto proposto in violazione del principio di tassatività delle impugnazioni.
Con il terzo motivo deduce che la Corte d'appello ha posto a base della propria decisione delle prove illegittimamente versate in atti. Con il quarto motivo assume la contraddittorietà di molti punti della decisione impugnata.
Con il quinto motivo deduce la violazione di precedenti giudicati che avevano già escluso l'esistenza di qualsiasi società di fatto tra esso ricorrente incidentale e la s.d.f di Ventura Maria. Vanno preliminarmente dichiarati inammissibili il controricorso ed il ricorso incidentale proposti dal Felici.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che alla cause inerenti alla dichiarazione o alla revoca di fallimento non si applica la sospensione dei termini feriali prevista dalla legge 742/69 secondo quanto previsto dall'art. 3 di tale legge (Cass 2O55/OO;Cass 15072/00;Cass. 2398/98;Cass. 4627/97;Cass. 4302/97). Non è dubbio a tale proposito che tale disposizione si applica anche nei confronti della sentenza che, accogliendo il reclamo avverso la pronuncia di rigetto dell'istanza di fallimento. Rimetta gli atti al tribunale posto che anche in tal caso si verte in tema di dichiarazione o meno di fallimento.
Ciò posto, si osserva che, essendo stato notificato il ricorso principale il 6.7.01. il controricorso ed il ricorso incidentale, non operando alcuna sospensione dei termini, dovevano essere notificati entro 40 giorni da tale data e cioè entro il 17.8.01 mentre sono stati notificati il 28.9.01.
Osserva ulteriormente la Corte che il ricorso incidentale è inammissibile anche per un'altra ragione.
Deve infatti, ribadirsi che è inammissibile il ricorso per Cassazione proposto ai sensi dell'articolo 111, secondo comma Cost. avverso il provvedimento della Corte d'appello che, in sede di reclamo, conferma o annulla il decreto di rigetto dell'istanza per la dichiarazione di fallimento, trattandosi di provvedimento privo dei caratteri della decisorietà e della definitività.
Questa Corte ha chiarito che nel procedimento per la dichiarazione di fallimento non si attua un diritto soggettivo del creditore al fallimento del proprio debitore in stato di insolvenza, non configurabile sulla base del diritto sostanziale, ma si provvede alla mera gestione e tutela di interessi (quello dell'ordinamento all'organizzazione economica generale, quello dei creditori alla non dispersione del patrimonio e alla attuazione della "par condicio creditorum", quello del debitore al non aggravamento del dissesto). Il provvedimento che lo conclude, pertanto è privo di attitudine al giudicato, in quanto il decreto che accoglie il reclamo è destinato a confluire nella sentenza di fallimento avverso la quale è esperibile l'opposizione, mentre il provvedimento di rigetto non ha alcun effetto preclusivo ed è sempre possibile dichiarare il fallimento, d'ufficio, su istanza di diverso creditore o anche dello stesso in relazione a fatti sopravvenuti, preesistenti non conosciuti o anche già' dedotti ma rispetto ai quali si prospetti un errore di fatto. (Cass 11107/99; Cass. 15018/01; Cass. 11944/98; Cass 9437/94;
Cass. 9597/93; Cass. 9602/92; Cass. 6495/91). Venendo all'esame del ricorso principale, lo stesso si rivela infondato.
Quanto al primo motivo, la ricorrente sostiene che dopo la morte della di lei sorella nessuna attività era stata da lei svolta per conto della società per cui la gestione e l'amministrazione della clinica era stata effettuata esclusivamente da estranei alla società di fatto che con la morte della sorella si era ormai sciolta. In tal senso priva di motivazione su tale punto sarebbe la sentenza impugnata che avrebbe motivato solo in riferimento alla estinzione della società.
L'assunto è infondato anzitutto in punto di fatto.
La sentenza impugnata ha infatti svolto una accurata disamina in ordine alla continuazione dello svolgimento dell'attività da parte della società di fatto dopo la morte della socia Ventura ed ha accertato tale continuazione era avvenuta in quanto con scrittura privata del 7.10.89 il Felici unitamente ai suoi figli avevano trovato un accordo con la Ventura impegnandosi a gestire la Clinica in società di fatto fino alla decisone del tribunale di Roma con amministrazione condotta da entrambe le parti e che tale accordo risultava anche dai verbali delle assemblee del 15.12.89 e del 18.12.90. È ben vero che tale motivazione sia stata svolta essenzialmente al fine di riconoscere l'estensione del fallimento al Felici, ma la stessa, riguardando la sussistenza della società di fatto, coinvolge necessariamente anche la Ventura, tanto è vero che, proprio in riferimento alla esaminata motivazione, la Corte d'appello ha esaminato le ulteriori deduzioni della Ventura, secondo cui, anche a volere ritenere che una società di fatto fosse esistita tra le sorelle Ventura fino all'inizio del 1986, successivamente doveva ritenersi la sussistenza una seconda società di fatto tra i congiunti Felici nel periodo 1986-1989 per cui si sarebbero dovuti al limite dichiarare due fallimenti. A seguito di detto esame la Corte d'appello ha negato la fondatezza di tale tesi in quanto in contrasto con le evidenze probatorie. Dunque non si riscontra nella sentenza impugnata alcuna carenza di motivazione.
La censura è sotto altro profilo inammissibile laddove tende a prospettare una diversa ricostruzione delle vicende processuali, e, in particolare, nei punti in cui la ricorrente afferma di essere rimasta estranea alle vicende della società, quanto meno dopo la morte della sorella, e che la predetta società era stata amministrata dal Felici, nonché che tutto ciò, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, era dimostrato dalle prove acquisite in atti.
Tale doglianza tende, infatti, a prospettare una interpretazione degli elementi probatori acquisiti in giudizio difforme da quella accertata dai giudici di seconde cure, con ciò dando luogo ad una censura che investe il merito della decisione che, come tale, non è proponibile in questa sede di legittimità in questa sede di legittimità.
Con il primo motivo di ricorso si censura altresì la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che sussistesse comunque una società di fatto perché essa ricorrente non aveva spiegato quando sarebbe avvenuto il suo recesso dalla medesima ne' in quale momento si sarebbe affiancata ad essa una seconda società di fatto. Sostiene la ricorrente che, dato per appurato che la morte dell'altra socia aveva comportato lo scioglimento della società di fatto, essa, essendo rimasta unica soda, non poteva recedere dalla società per cui la richiesta di fallimento non poteva essere accolta ne' nei confronti della società ne' nei di lei confronti. Tale censura è infondata.
Questa Cotte ha in ripetute occasioni affermato che alla cancellazione della società dal registro delle imprese, e comunque al suo scioglimento, non consegue anche la sua estinzione che è determinata, invece, soltanto dalla effettiva liquidazione dei rapporti giuridici pendenti che alla stessa facevano capo, e dalla definizione di tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi per ragioni di dare ed avere.(Cass. 7972/00; Cass 6078/01; Cass. 8853/98;Cass 2869/98;Cass 6597/98). A tale principio si è correttamente attenuta la Corte d'appello che ha rilevato che, non producendo lo scioglimento della società l'estinzione della stessa, per cui chi era socio continuava a rivestire tale carica in mancanza di espresso recesso, salva l'eventuale concorrente responsabilità per atti illegittimi dei liquidatori o di altri amministratori di fatto, la Ventura aveva continuato a rivestire tale carica in assenza di dimostrazione di un proprio recesso.
Sulla base di questa premesse si osserva che la censura posta dalla ricorrente costituisce una mera petizione di principio che, oltre ad essere sprovvista di ogni argomentazione a sostegno, appare priva di rilevanza ai fini del decidere.
Ciò che importa infatti - come correttamente osservato dalla a Corte d'appello - è che la Ventura sia comunque rimasta soda della società a nulla rilevando che la stessa potesse o meno recedere dopo lo scioglimento della società, essendo quest'ultima una circostanza ininfluente. Per quanto concerne il secondo motivo del ricorso principale, lo stesso contiene una doglianza, in parte collegata al primo motivo, proposta sotto il profilo della violazione del giudicato derivante dalla sentenza di questa Corte n. 4169/95 e della Corte d'appello 3086/98, secondo cui essendosi sciolta la società di fatto, non poteva essere dichiarato il fallimento di quest'ultima e di essa soda superstite, non essendo rilavante che non fossero stati definiti tutti i rapporti pendenti essendo questi confluiti nell'impresa individuale e dovendosi ritenere automaticamente venuta meno la società di fatto in mancata ricostituzione della pluralità dei soci. Tale assunto è erroneo.
Si è già precisato in occasione dell'esame del primo motivo di ricorso principale che lo scioglimento della società e la sua estinzione sono due ipotesi tra loro diverse poiché lo scioglimento non comporta l'estinzione finche non vengono liquidati tutti i rapporti pendenti. Ebbene, l'art. 2274 n. 4 c.c. prescrive che venuta meno la pluralità dei soci la società si scioglie se detta pluralità non venga ricostituita entro sei mesi. Dunque, nel caso di specie, anche a voler ritenere che la pluralità dei soci non si sia ricostituita in via di fatto entro sei mesi dalla morte di Ventura Maria Graziacelo ha comportato solo lo scioglimento della società e non già la sua estinzione.
Posta questa premessa, occorre chiarire la portata del giudicato formatosi per effetto della sentenza di questa Corte n. 4169/95. Detta sentenza ha ritenuto che la liquidazione della quota degli eredi del socio defunto e lo scioglimento della società fossero conseguenze di due eventi distinti ed aveva cassato la sentenza della Corte di appello di Roma "nella parte in cui - sull'erronea affermazione che la liquidazione della società conseguiva al mancato pagamento, nel termine di cui all'ult. co. dell'art. 2S89 (rectius 22S9) cod. civ., della quota spettante agli eredi - ha prima escluso che la società in questione, stante tale inadempimento, potesse tramutarsi in impresa individuale, senza passare per una fase di formale liquidazione, ed ha, poi, d'ufficio, dato impulso alla procedura di liquidazione della società sciolta".
Tale principio, come ritenuto anche dalla successiva sentenza di questa Corte n. 2006/01, si articola evidentemente in tre distinte enunciazioni: la liquidazione della società non consegue al mancato pagamento della quota spettante agli eredi; la società può tramutarsi in impresa individuale, senza passare per una formale liquidazione della società; il mancato pagamento della quota agli eredi non giustifica la liquidazione d'ufficio della società. Per la parte che qui interessa, occorre sottolineare che la sentenza in esame non ha affermato ne' il principio secondo cui lo scioglimento della società di fatto per venire meno della pluralità dei soci comporta anche l'estinzione della stessa ne' quello che lo scioglimento in questione comporta il tramutamento della società in impresa individuale.
Ha invece affermato che è possibile che la società di fatto, dopo il suo scioglimento, venga liquidata direttamente dal socio superstite senza bisogno di una liquidazione formale e che detto socio possa poi continuare l'impresa a titolo individuale. Tale principio lascia chiaramente intendere che la prosecuzione dell'impresa a titolo individuale in tanto può avvenire in quanto il socio superstite abbia preventivamente compiuto la liquidazione della società e determinando così l'estinzione di quest'ultima. Finché la società resta in vita, infatti, non è possibile ipotizzare la coesistenza di due soggetti svolgenti la stessa attività d'impresa: la disciolta società di fatto in fase liquidatoria e l'impresa individuale del socio superstite. In conclusione deve ritenersi, alla luce dell'evidenziato principio, che la continuazione a titolo individuale dell'impresa può avvenire nella sola ipotesi in cui il socio superstite abbia già proceduto alla liquidazione informale della società provvedendo a chiudere tutti i rapporti pendenti.
Nel caso di specie non risulta, da quanto esposto nella sentenza impugnata, che ciò sia avvenuto e comunque, trattandosi di un accertamento in punto di fatto, non può essere oggetto di scrutinio da parte di questa Corte.
Il secondo motivo di ricorso contiene un ulteriore assunto secondo cui, essendo essa Ventura divenuta imprenditrice individuale senza trovarsi in stato d'insolvenza per passività anteriori allo scioglimento della società il fallimento non poteva essere dichiarato nei suoi confronti in quanto lo stato d'insolvenza sarebbe riferibile esclusivamente ad obbligazioni contratte dal Felici personalmente o a mezzo di amministratori giudiziali e liquidatori e che sul punto non vi sarebbe stata motivazione da parte della sentenza impugnata.
Tale assunto è infondato perché in primo luogo non risulta dimostrato, come dianzi detto, che la Ventura sia effettivamente divenuta imprenditrice individuale.
Inoltre, la sentenza impugnata ha precisato che sulla sussistenza dello stato d'insolvenza della società di fatto si era ormai formato il giudicato non essendo lo stesso oggetto di impugnazione. Tale statuizione non risulta impugnata dalla ricorrente, la quale quindi non può riproporre in questo ulteriore grado di giudizio questioni attinenti lo stato d'insolvenza neppure sotto il profilo del periodo in cui lo stesso è venuto a determinarsi.
In conclusione il ricorso principale va respinto.
Sussistono giusti motivi per compensare tra tutte le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile quello incidentale e compensa tra le parti tutte le spese di giudizio. Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2004.
Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2004