Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6320 - pubb. 01/08/2010
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Cassazione civile, sez. II, 20 Marzo 2001, n. 3980. Est. Del Core.
Società - Di persone fisiche - Società semplice - Rapporti tra soci - Partecipazione ai guadagni e alle perdite - In genere - Socio d'opera - Liquidazione della quota al socio uscente - Criterio di ripartizione di cui all'art. 2263, secondo comma, cod. civ. - Applicabilità.
Il criterio di ripartizione dei guadagni e delle perdite, stabilito dal comma secondo dell'art. 2263 cod. civ. per il socio che ha conferito la propria opera, vale anche all'atto dello scioglimento della società limitatamente al socio predetto per la determinazione della quota da liquidare a questo o ai suoi eredi. Pertanto, se nel contratto sociale sia riconosciuta, ai soci che conferiscono soltanto il loro lavoro, parità di diritti nella ripartizione dei guadagni e delle perdite, siffatto criterio deve seguirsi anche all'atto dello scioglimento del rapporto sociale nella liquidazione della quota al socio uscente. Se, viceversa, manchi una tale determinazione convenzionale, il valore della quota già spettante al socio conferente la propria opera è, ai fini della sua liquidazione, fissato dal giudice secondo equità, assumendo a base la situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VINCENZO CALFAPIETRA - Presidente -
Dott. ANTONINO ELEFANTE - Consigliere -
Dott. OLINDO SCHETTINO - Consigliere -
Dott. ETTORE BUCCIANTE - Consigliere -
Dott. SERGIO DEL CORE - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
EGIDI CECILIA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA MONTE ZEBIO 43, presso lo studio dell'avvocato PERAZZOLI M. V., difesa dall'avvocato TEMPESTA BIAGIO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
PEDRINI MARIA GLORIA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA OSLAVIA 7, presso lo studio dell'avvocato INNAMORATI LORETTA, che la difende, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 766/98 della Corte d Appello di ROMA, depositata il 12/03/98;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/12/00 dal Consigliere Dott. Sergio DEL CORE;
udito l'Avvocato BIAGIO TEMPESTA, difensore del ricorrente che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito l'Avvocato LORETTA INNAMORATI, difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Marco PIVETTI che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 14 luglio 1990, Maria Gloria Pedrini convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma Cecilia Egidi per sentirla condannare all'adempimento dell'onere, consistente nella prestazione periodica di una somma di denaro, impostole col legato, avente a oggetto la titolarità di uno studio professionale, disposto in suo favore nel testamento olografo di Romano Coltellacci con il quale essa istante, coniuge superstite, era stata istituita erede universale.
Nel resistere alla pretesa, la convenuta eccepì la nullità del legato, per indeterminatezza del relativo oggetto, contestando conseguentemente l'efficacia dell'onere. In via riconvenzionale, chiese declaratoria di risoluzione della disposizione testamentaria e la condanna della Pedrini, anche ai sensi dell'art. 671 c.c., alla restituzione di quanto erogatole, con interessi e rivalutazione monetaria.
L'adito tribunale accolse la domanda e la Corte d'appello di Roma, con sentenza del 12 marzo 1998, confermava la decisione - impugnata dalla soccombente - sulla base di argomentazioni che possono così sunteggiarsi. Pur se non equiparabile a un complesso aziendale, uno studio professionale già avviato è suscettibile di valutazione economica, rappresentando se non altro una facilitazione per il nuovo titolare. Come rilevabile dalla lettura del testamento olografo, oggetto del legato era "la titolarità sia dello studio che della Società di Servizi" individuabile nella Società di Servizi società in accomandita semplice di Coltellacci Romano e Cecilia Egidi nella quale il de cuius figurava quale socio d'opera. Dall'art. 2263 c.c., applicabile anche alle società in accomandita semplice in forza dei richiami contenuti negli artt. 2293 e 2315, si ricava che il socio d'opera è titolare di una quota di partecipazione, per la determinazione del cui valore, in assenza di criteri normativi, occorre fare riferimento alla volontà delle parti. Nella specie, in mancanza di diversa indicazione del contratto sociale, era lecito desumere che le parti avevano voluto attribuire a detta quota un valore pari a quella degli altri soci. Avendo il C.T.U. valutato la consistenza economica dell'indicata società, in riferimento all'epoca dell'apertura della successione, in lire 235.000.000, per cui la quota di partecipazione spettante al Coltellacci era pari, all'atto del suo decesso, a lire 78.333.330 (235.000.000 : 3), poteva affermarsi che, anche a prescindere dalla titolarità dello studio, al legato disposto a favore della Egidi fosse attribuibile un preciso valore economico: ne conseguiva l'infondatezza dell'eccezione di nullità della disposizione testamentaria. E poiché l'indicata consistenza del legato è senz'altro superiore al valore dell'onere imposto in vantaggio della Pedrini, facilmente quantificabile in lire 72.000.000 (2.000.000 x 12 x 3), doveva essere disattesa anche l'eccezione mossa ai sensi dell'art. 671 c.c..
Per la cassazione della sopra compendiata sentenza la Egidi ha proposto ricorso ancorandolo a tre motivi poi illustrati con memoria. Resiste la Pedrini con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente denunzia insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa il criterio di determinazione del valore del legato nonché violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2263 c.c.. Si evidenzia anzitutto che la espletata C.T.U. aveva considerato lo studio del Coltellacci privo del benché minimo valore. D'altra parte, per giustificare il valore del legato con riferimento alla titolarità della società di servizi, la corte territoriale aveva erroneamente applicato l'art. 2263 c.c.; la norma stabilisce, solo per i soci i quali hanno conferito il capitale, che le parti loro spettanti nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti o, se il valore di questi ultimi non è determinato dal contratto, uguali; al contrario, per il socio d'opera tale presunzione non è ammessa, in considerazione della particolare natura della prestazione d'opera, di per sè variabile, perché, tra l'altro, legata a fattori personali destinati a modificarsi nel tempo; e la partecipazione di detto socio a guadagni e perdite, ove non convenzionalmente fissata nel contratto sociale, deve essere determinata dal giudice, con un giudizio equitativo che sappia tener conto degli elementi che di volta in volta caratterizzano la fattispecie. La Corte di appello, non ha operato alcun giudizio di equità ritenendo di individuare il valore della partecipazione del socio d'opera attraverso l'indagine sulla comune (sebbene inespressa) volontà delle parti e, per di più, ignorando che un criterio di distribuzione degli utili era stato pattuito e riportato nei patti sociali dell'atto costitutivo e dello statuto della società. Errata essendo la stima del valore della partecipazione del socio d'opera Romano Coltellacci nella società di servizi, priva di sostegno logico risulta la decisione assunta, che in virtù dell'operata valutazione ha respinto sia la domanda di nullità del legato sia la domanda di riduzione dello stesso ex art. 671 c.c..
Con il secondo motivo, si denunzia violazione e/o falsa applicazione dell'art. 671 c.c.. Erroneamente la Corte di appello di Roma ha ritenuto valido il "legato della Società di Servizi S.a.s." identificandolo con la quota di liquidazione spettante al socio d'opera in conseguenza dello scioglimento parziale del rapporto sociale. Infatti l'espressione usata dal de cuius lascio a Cecilia lo studio e la titolarità della società di servizi", non può configurare un legato della titolarità della quota di partecipazione alla società, essendo il socio deceduto un socio d'opera. Nè il testatore può aver pensato di legare alla Egidi la società di servizi che non gli apparteneva, essendo la stessa partecipata al 50% dalla Pedrini ed al 50% dalla stessa ricorrente. Peraltro, nel corso dei due gradi di giudizio, mai le parti avevano preso in considerazione la possibilità che nel legato fosse ricompresa la società di servizi, poiché appariva evidente l'impossibilità che questa fosse oggetto di legato non essendo configurabile la cessione (e, quindi, il legato) - ne' per atto tra vivi, ne' mortis causa - della quota del socio d'opera; per vero, la posizione di quest'ultimo, all'interno della società, è indubbiamente ispirata all'intuitus personae, in quanto egli non apporta alla stessa capitale, ma la propria competenza specifica.
Tali primi due motivi, inerendo allo stesso tema di indagine, vanno trattati congiuntamente.
Va al riguardo premesso che la ricorrente opera una sovrapposizione tra i concetti di nullità del legato e di limite entro il quale il legatario è tenuto all'adempimento del modo ad esso apposto. Essa cioè indirizza lo stesso tipo di censure, riferibili alla parte della pronuncia che ha escluso sussistere gli estremi per la "riduzione" del legato ex art. 671 c.c., al fine di rimettere in discussione il capo con cui i secondi giudici hanno più propriamente rigettato il motivo di appello concernente la nullità per indeterminatezza del(l'oggetto del) legato. Ma sullo specifico punto della (dedotta) nullità del legato, la pronuncia impugnata in realtà si articola in due diverse rationes decidendi: da una parte, si sostiene che lo studio professionale è suscettibile di valutazione economica e costituisce un accrescimento patrimoniale - tenendo conto dell'obbiettivo vantaggio economico per il nuovo titolare di disporre e fruire dei beni funzionalmente e armonicamente organizzati in un complesso unitario (locali attrezzati, servizi efficienti, macchine elettrocontabili con programmi originali, personale addestrato), del numero delle pratiche affidate al precedente titolare (clientela) e della notorietà dello studio;
dall'altra, che il legato comprendeva anche la quota della società di servizi.
In questo contesto, anche ad accedere concessivamente alla tesi della inesattezza in punto di fatto delle predette complementari considerazioni, l'ipotetica inadeguatezza della motivazione resa in proposito dai giudici capitolini non potrebbe comunque condurre alla cassazione della sentenza impugnata perché attiene a un ordine di considerazioni svolte ad abundantiam. Ciò è reso palese proprio dalle espressioni ("Ma è ancora più importante porre in risalto .... Alla luce di tanto bisogna conclusivamente affermare che, anche a prescindere dalla titolarità dello studio, al legato è attribuibile un preciso valore economico ...") utilizzate per aggiungere siffatti apprezzamenti, dai quali la motivazione della sentenza impugnata ben potrebbe prescindere senza che ne venga scalfita la fondamentale (e assorbente) quanto incensurabile ratio decidendi del carattere determinato del legato nella parte attributiva della titolarità dello studio, avente di per sè contenuto patrimoniale per l'indubbia utilità ricavabile da tale disposizione.
L'esame dei connessi motivi si restringe quindi alla doglianza relativa al rigetto della riconvenzionale, con cui l'odierna ricorrente aveva chiesto ridursi l'onere apposto al legato nei limiti del valore della cosa legata e la condanna della beneficiata alla restituzione dell'esubero. Confermando la sentenza di primo grado, la corte romana ha respinto il correlativo motivo di appello dando al legato il valore corrispondente a quello della partecipazione del de cuius nella "Società di Servizi", società in accomandita semplice, di Coltellacci Romano e Cecilia Egidi.
In proposito, si rivela però pregiudiziale il terzo e ultimo motivo. Con esso, denunziandosi violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., si lamenta che la corte di merito ha pronunciato extra e/o ultra petita, avendo fondato la sua decisione su una circostanza mai dedotta in giudizio, e cioè che il legato disposto dal testatore in favore della Egidi comprendesse, oltre allo studio professionale, anche la società in accomandita semplice di cui il testatore stesso era socio accomandatario d'opera e che era partecipata al 50% dalla odierna ricorrente e per il restante 50% dalla Pedrini, moglie del de cuius.
Il motivo è privo di fondamento.
Il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall'art. 112 c.p.c., implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Esso deve quindi ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell'azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell'ambito del petitum, rilevi d'ufficio un'eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall'attore, può essere sollevata soltanto dall'interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (cfr., solo per citare le più recenti, Cass. nn. 919/1999;
258/1999; 4461/1997; 8904/1996; 3670/1996; 4581/1993). Secondo un orientamento giurisprudenziale altrettanto consolidato, non incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice d'appello il quale, rimanendo nell'ambito del petitum e della causa petendi, confermi la decisione impugnata per ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti, non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice (cfr., e plurimis, Cass. nn. 2412/1974, 1444/ 1979, 2293/1980, 211/1981, 7849/1986, 9597/1998). In linea con i surriferiti principi, non può certamente ritenersi viziata da ultrapetizione o extrapetizione la sentenza impugnata le cui statuizioni riguardano la situazione giuridica (id est, la disposizione testamentaria costituente legato) e gli enunciati fattuali espressamente dedotti dalle parti, per tutto il corso del giudizio di primo grado, a sostegno delle opposte domande. Di vero, il giudice di seconde cure, sulla base dei fatti prospettatigli e lasciando inalterati causa petendi (legato modale) e petitum (condanna del legatario all'adempimento del modus), ha rilevato, mantenendosi nel rigido ambito dei suoi poteri officiosi, che l'oggetto del legato, stante l'inequivoco tenore della disposizione testamentaria, comprendeva la società di servizi costituita tra il de cuius e le odierne contendenti presso la stessa sede e con la medesima organizzazione dello studio professionale. Può quindi passarsi all'esame della doglianza relativa al valore dato dalla corte di merito alla disposizione testamentaria, al fine di respingere la riconvenzionale spiegata dall'odierna ricorrente a termini dell'art. 671 c.c..
La censura si rivela fondata.
Per rispondere positivamente al primo dei quesiti postisi, se cioè il socio d'opera possa considerarsi secondo l'ordinamento positivo titolare di una quota di partecipazione societaria, la corte capitolina ha richiamato l'art. 2263 c.c., applicabile alle società in accomandita semplice in virtù del consecutivo rinvio operato dagli artt. 2315 e 2293 c.c., che, dettando i criteri per valutare l'entità della partecipazione del socio d'opera, ne confermerebbe la titolarità di una quota dell'organismo societario, più esplicitamente riconosciutogli dal codice civile del 1865. Nel rispondere al secondo dei quesiti postisi, e cioè quale valore possa essere attribuito alla quota di partecipazione del socio d'opera, la corte del merito, premesso che il codice nulla dispone in riferimento alla ipotesi della liquidazione della quota medesima, argomenta che, se le parti non hanno determinato espressamente il valore della quota spettante al socio d'opera, è segno che era loro intenzione considerarla paritaria alle altre quote. In tale ragionamento è evidente il vizio denunciato di violazione dell'art. 2263 c.c..
È invero sfuggita alla corte territoriale la portata precettiva e il concreto ambito applicativo di tale norma. Com'è noto, al comma secondo, l'art. 2263 c.c. prevede che la parte spettante al socio d'industria nei guadagni e nelle perdite, se non è determinata dal contratto sociale, è fissata dal giudice secondo equità. La disposizione non ha alcun nesso con quella di cui al primo comma disciplinante le singole quote di partecipazione dei soci di capitale le quali sono modulate dall'entità dei conferimenti e, solo se di questi non sia determinato il valore, si presumono eguali. La diversa valutazione del conferimento del socio d'industria si spiega con la peculiare natura della prestazione d'opera, che, in quanto basata sull'intuitus personae e legata a fattori personalistici suscettibili di modificarsi nel tempo, non si presta a una immediata e soprattutto immutevole quantificazione come il conferimento di capitale. Sicché la valutazione della misura della partecipazione mediante un criterio presuntivo interrelato alla misura del conferimento, ove le parti non vi abbiano convenzionalmente provveduto nel contratto sociale, appare in tal caso assai meno plausibile di quanto non lo sia rispetto ai conferimenti di capitale: di qui la necessità di provvedervi, ad opera del giudice, con un giudizio equitativo basato sulle peculiarità della fattispecie concreta.
Ora, il criterio di ripartizione dei guadagni e delle perdite così come regolato dal comma secondo dell'art. 2263 c.c. vale anche all'atto dello scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio d'opera, per la liquidazione della di lui quota di partecipazione, in assenza di specifiche disposizioni prevedenti i criteri di determinazione, ai cennati fini, del valore della quota societaria già di pertinenza di detto socio. In altri termini, il medesimo criterio equitativo dettato nell'art. 2263 c.c. per la determinazione, nel silenzio del contratto, della parte dei guadagni e delle perdite spettante al socio che ha conferito la propria opera deve valere - come peraltro non è controverso in dottrina - anche in funzione della liquidazione della quota del socio d'opera uscente. Nulla vieta cioè che ai soci che conferiscono soltanto il loro lavoro, sia pattiziamente riconosciuta parità di diritti nella ripartizione dei guadagni e delle perdite e quindi anche, all'atto dello scioglimento della società, nella liquidazione della quota al socio uscente. Ma se tale diversa volontà non vi fu, la parte spettante al socio conferente la propria opera è fissata dal giudice secondo equità in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento (art. 2289 c.c.). Al contrario la corte romana, riducendo erroneamente (e comunque senza addurre plausibili argomenti contrari) al rapporto sociale ancora in essere la sfera di applicazione oggettiva dell'art. 2263 c.c., è arrivata alla conclusione che, in mancanza di diversa indicazione del contratto sociale, il valore della quota spettante al socio d'opera dovesse presumersi uguale a quella degli altri soci. La sentenza va cassata e la causa rinviata per un nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello di Roma la quale si adeguerà al seguente principio: il criterio di ripartizione dei guadagni e delle perdite stabilito dal comma secondo dell'art. 2263 c.c. per i soci i quali conferiscono soltanto la propria opera, vale anche all'atto dello scioglimento della società è limitatamente al socio predetto per la determinazione della quota da liquidare a questi o ai suoi eredi. Pertanto, se nel contratto sociale ai soci che conferiscono soltanto il loro lavoro sia riconosciuta parità di diritti nella ripartizione dei guadagni e delle perdite, siffatto criterio deve seguirsi anche all'atto dello scioglimento del rapporto sociale nella liquidazione della quota al socio uscente. Se, viceversa, manchi una tale determinazione convenzionale, il valore della quota già spettante al socio conferente la propria opera è, ai fini della sua liquidazione, fissata dal giudice secondo equità, assumendo a base la situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento".
Allo stesso giudice del rinvio si ritiene opportuno rimettere la regolamentazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, rigetta il primo e il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d'appello di Roma. Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2000.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2001