Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6251 - pubb. 01/08/2010
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Cassazione civile, sez. II, 23 Gennaio 2007, n. 1406. Est. Colarusso.
Comunione dei diritti reali - Condominio negli edifici - Amministratore - Nomina e revoca - Conferimento a persona giuridica - Ammissibilità - Fondamento.
L'incarico di amministratore del condominio può essere conferito, oltre che a una persona fisica, anche a una persona giuridica - nella specie, una società di capitali - tenuto conto che la persona giuridica non soffre di limitazioni di capacità, se non nei casi tassativamente previsti dalla legge, e che essa è in grado di offrire, quanto all'adempimento della relativa obbligazione ed all'imputazione della conseguente responsabilità, un grado di affidabilità pari a quello della persona fisica. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ELEFANTE Antonino - Presidente -
Dott. DE JULIO Rosario - Consigliere -
Dott. COLARUSSO Vincenzo - rel. Consigliere -
Dott. MALZONE Ennio - Consigliere -
Dott. GOLDONI Umberto - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PISCITELLI DOMENICO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA PAOLO FIORDESPINI 9, presso lo studio dell'avvocato ROSSELLA CORDONE, difeso dall'avvocato DE VIVO Ugo, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
COND CENTRO COMMERCIO L. AFFARI VACCA ISERNIA in persona dell'Amministratore e legale rappresentante Dr. D'ALESSIO OLMPIO, STUDIO OSD DI D'ALESSIO OLIMPIO SAS, in persona del legale rappresentante pro tempore Dr. D'ALESSIO OLIMPIO, elettivamente domiciliati in ROMA PZZA SAN GIOVANNI DI DIO 32, presso lo studio dell'avvocato FILOMENA CERRONI, difesi dall'avvocato CAPPELLO Stefano, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 59/02 della Corte d'Appello di CAMPOBASSO, depositata il 29/04/02;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 30/11/06 dal Consigliere Dott. Vincenzo COLARUSSO;
udito l'Avvocato MILANO Fabio, con delega depositata in udienza dell'Avvocato CAPPELLO Stefano, difensore dei resistenti che ha chiesto per entrambi il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. UCCELLA Fulvio, che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 10.1.1995 l'Avv. Domenico Piscitelli, premesso di essere proprietario di alcuni immobili facenti parte dello stabile lotto 2 del comprensorio "Centro Commercio e Affari" di Isernia, impugnò, innanzi a quel Tribunale la Delib. condominiale 21 dicembre 1994, con la quale, l'assemblea generale, deliberando a maggioranza, aveva nominato amministratore il Dr. Olimpio D'Alessio, dello Studio O.S.D. s.a.s.. L'attore dedusse che tale deliberazione e le altre prese nella stessa seduta erano nulle o annullabili perché l'assemblea non era stata convocata dall'Amministratore; che la validità dell'assemblea non era stata verificata con riferimento ai soli proprietari interessati; che alla stessa avevano partecipato, con plurime deleghe, condomini in conflitto di interesse; che erano stati approvati rendiconti accompagnati da una relazione lacunosa che non consentiva di valutare se l'operato dell'amministratore fosse stato conforme ai criteri di buona amministrazione; che molte voci di spesa erano state da esso esponente puntualmente contestate; che l'offerta del D'Alessio era stata preferita ad altra più vantaggiosa ed a quella dello stesso esponente che si era offerto di svolgere gratuitamente l'incarico di amministratore; che l'amministrazione del condominio non poteva essere affidata ad una società; che il D'Alessio non teneva contabilità separata e precludeva ai condomini il controllo delle gestione finanziaria.
Il Condominio e la S.a.s. Studio O.S.D. di Olimpio D'Alessio si costituirono in giudizio contestando gli assunti avversari e, la seconda, deducendo anche di non essere passivamente legittima. Il Tribunale dichiarò il difetto di legittimazione della società e, per il resto, rigettò la domanda.
L'appello proposto da Piscitelli è stato rigettato dalla Corte di Appello di Campobasso con sentenza del 29.4.2002, nella quale la Corte molisana ha osservato:
1) essere corretta a pronuncia di difetto di legittimazione passiva della s.a.s. Studio O.S.D. in quanto dalla delibera risultava senza equivoci che amministratore del condominio era stato nominato il D'Alessio Olimpio e non la società, a nulla rilevando che lo stesso per svolgere il suo incarico avesse impiegato la struttura amministrativa di questa;
2) che alla liquidazione delle spese di lite a favore della predetta società correttamente era stata aggiunta l'IVA, in quanto la detraibilità dell'imposta versata dalla società al suo difensore non costituiva una ragione di esonero;
3) che la prova per testi richiesta dall'attore non era ammissibile in quanto, da un lato, la pretesa di non approvazione del consuntivo veniva fatta discendere dalla mancanza di una relazione adeguata e, dell'altro, la prova sulla questione delle spese era irrilevante, posto che la mancanza o l'insufficienza dei servizi erano meri sintomi di cattiva gestione e la prova articolata mirava a far acquisire elementi rivelatori della negligenza dell'amministratore;
4) che la nomina dell'amministratore non poteva essere annullata in quanto i votanti D'Alessio Domenico e Antonelli Silvano, sebbene soci della società, non si trovavano in conflitto di interessi rispetto all'oggetto della delibera di nomina del D'Alessio Olimpio, essendo la loro cointeressenza circoscritta agli affari societari;
5) che il Tribunale aveva ritenuto inapplicabile la tabella A, di proprietà generale, e, nell'effettuare la prova di resistenza in ordine alla validità della delibera di approvazione delle spese per i servizi dei singoli lotti, aveva effettuato la prova di resistenza sulla base di una operazione di verifica condotta secondi i criteri suggeriti dallo stesso appellante, il quale, nell'atto di appello, non aveva contrapposto l'esito divergente di una diversa verifica;
6) che il Condominio in questione era strutturato con un solo organo deliberante costituito dall'Assemblea generale;
7) che, sebbene il Giudice di primo grado non avesse motivato in ordine all'approvazione dei rendiconti, questi, secondo la Corte di Appello, meritavano approvazione, essendo supportati da una contabilità sufficientemente intelligibile dai condomini;
8) che tutte le spese contestate, ad eccezione del rimborso forfetario della somma di L. 400.000, all'amministratore, erano supportate da documentazione adeguata ed erano state ripartite secondo regolamento.
La Corte con la stessa sentenza ha rigettato l'appello incidentale del condominio che si doleva della compensazione delle spese, ritenendola adeguatamente giustificata.
Avverso detta sentenza Piscitelli Domenico ha proposto ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi. Il Condominio e la S.a.s. Studio O.S.D. resistono con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo si denunzia violazione degli artt. 1129, 1136, e 1362 c.c., dell'art. 32 del regolamento condominiale nonché motivazione apparente. Per quanto concerne la nomina ad amministratore del Dr. Olimpio D'Alessio come persona fisica, si deduce la errata interpretazione della delibera condominiale, essendosi la Corte di Appello fermata al solo dato letterale senza tener conto che gli scritti contabili deponevano per la nomina fatta alla società.
Il motivo non è fondato.
1.a. In materia di interpretazione delle delibere prese dalle assemblee di condominio il Giudice deve osservare gli stessi canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 cod. civ. e segg., per la interpretazione degli atti negoziali, avendo questi validità generale, così che la parte la quale censuri il significato attribuito dal Giudice di merito ad una delibera, per il principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, deve precisare quali norme ermeneutiche siano state in concreto violate e specificare in qual modo e con quali considerazioni quel Giudice di merito se ne sia discostato. Ove, poi, la censura, a prescindere dal rispetto dei canoni ermeneutici, riguardi anche il vizio di motivazione, nel quale il Giudice sarebbe incorso, essa deve investire l'obiettiva deficienza o la contraddizione del ragionamento su cui si fonda l'interpretazione accolta, poiché il sindacato di legittimità può riguardare unicamente la coerenza formale della motivazione, ovvero la coerenza logica dei vari passaggi che ne costituiscono la struttura argomentativa. In definitiva non è ammissibile che le due censure si risolvano in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal Giudice mediante la mera contrapposizione ad esso di una differente interpretazione. D'altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, l'interpretazione data dal Giudice di merito non deve essere l'unica possibile, o la migliore in astratto, ma una tra quelle possibili e plausibili, sicché, quando di un atto negoziale (o equiparato) sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte che aveva sostenuto la versione poi disattesa dal Giudice di merito - dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (Cass. civ. 02/05/2006, n. 10131), laddove l'opzione esegetica prescelta dal Giudice di merito sia sorretta da idonea e logica motivazione.
1.b. In sede di ricorso per Cassazione, inoltre, il ricorrente che intenda censurare la motivazione della sentenza impugnata sotto il profilo dell'erronea interpretazione di un documento deve - sempre in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso - riportarne il contenuto, anche mediante integrale trascrizione del documento stesso, al fine di consentire alla Corte, sulla base del testo, il vaglio degli eventuali vizi di interpretazione (logici o per violazione di legge).
1.e. Nella specie, non solo è stato violato il principio di autosufficienza del ricorso, con la mancata riproduzione dello scritto la cui interpretazione sia pretende errata, ma non sono state neppure precisate le regole ermeneutiche che sarebbero state violate dal Giudice di merito ne' le incoerenze logiche del percorso motivazionale seguito. Le citazioni dell'atto, poi, e dei documenti sono generiche e frammentarie e quand' anche - a tutto concedere - l'Olimpio avesse usato sottoscrivere gli atti come un appartenete allo studio O.S.D. s.a.s. ed avesse indicato la partita IVA o fosse "amministratore professionale di condomini", ciò non varrebbe ad inficiare la volontà dei condomini, chiaramente (come afferma la Corte di Appello) espressa nella delibera di nomina e rivolta alla persona fisica dell'Olimpo, come emerge anche dalla dizione riportata in ricorso. In ogni caso non viene denunziata specificamente la violazione dei canoni ermeneutici ne' si dice quale altro di essi, se rispettato, doveva condurre ad una interpretazione diversa da quella letterale, giustamente privilegiata dalla Corte di Appello come prima e fondamentale regola di interpretazione degli atti privati. 1.d. Per completezza di motivazione è opportuno rammentare che questa Corte, con una recente pronunzia (Cass. n. 22840 del 12- 14.10.1996), ha ritenuto legittima la nomina di una società di capitali ad amministratore di un condominio e le affermazioni di principio poste, in detta sentenza, a sostegno della decisione adottata possono ritenersi valide anche per le società di persone. 2. Nel secondo motivo si denunzia violazione degli artt. 90 e 91 c.p.c.; del D.P.R. n. 633 del 1972, nonché motivazione apparente, illogica e contraddittoria. Si assume che nella liquidazione delle spese processuali in favore della s.a.s. O.S.D. di D'Alessio Olimpio non poteva essere "ricompresa" l'IVA da questa versata al proprio difensore in quanto, trattandosi di società commerciale, questa veniva riscaricata" nelle sue denunzie fiscali per cui l'attribuzione dell'IVA avrebbe comportato una illecita locupletazione della parte vittoriosa.
Le censura non è fondata.
2.a. Il ricorrente insiste nella tesi prospettata in sede di appello e che la Corte di merito ha disatteso con motivazione adeguata e conformi a diritto.
La tesi della Corte di Appello, infatti, si uniforma alla giurisprudenza prevalente di questa Corte (Cass. 8686/91; Cass. 2387/1998; Cass. 2387 e 9730/2000; in senso difforme la sentenza n. 3843/95).
Il Collegio condivide la tesi maggioritaria ed intende ribadirla in base alle considerazioni che seguono.
2.a.1. L'IVA (sui diritti e gli onorari) deve essere posta a carico del soccombente anche quando la parte vittoriosa è un soggetto IVA che ha portato (o meglio: che può portare) in detrazione quella versata al suo difensore, sicché (secondo la tesi del ricorrente) non avrebbe (se ha effettuato la detrazione per compensazione) alcuna diminuzione patrimoniale (ha versato tot al suo avvocato a titolo di IVA ed ha detratto eguale importo dell'IVA che è tenuta a versare sulle operazioni attive).
2.a.2. E, tuttavia, la tesi del ricorrente è resistita, innanzitutto, dal rilievo che non è dato conoscere, nel processo, se detta parte ha effettivamente portato in detrazione l'IVA versata al suo avvocato o se ha effettuato la compensazione e, ciò, sulla premessa che lo stesso avvocato abbia fatturato la sua prestazione (si pensi al caso dell'ufficio legale di una banca, di cui l'avvocato è dipendente, o all'omessa fatturazione oppure all'omesso versamento da parte del difensore). Se tutto ciò non si conosce, allora un fatto solo è certo e, cioè, quello che la prestazione fatta alla parte vittoriosa dal suo avvocato è assoggettata, per legge, all'IVA ed il Giudice non può, quindi, omettere di attribuirne il relativo importo, fornendo alla parte vittoriosa - che è tenuta a versarla al suo difensore - il titolo (la sentenza) per poterla recuperare. Non può ignorarsi, tuttavia, che se l'IVA versata al proprio difensore dalla parte vittoriosa è stata (dal percipiente) a sua volta versata e, successivamente, è stata portata in detrazione dal cliente (parte vittoriosa) e se il cliente incassa nuovamente l'IVA (o meglio, per quanto di seguito si dirà, la somma pari all'importo dell'IVA) senza emettere una fattura, si daranno due ipotesi (in alternativa):
a) se la (ri)versa (come IVA attiva percepita) allora la prestazione (unica) del difensore della parte vittoriosa viene assoggetta due volte all'imposta;
b) se non la versa e la trattiene, pur portandola in detrazione dall'IVA dovuta sulle operazioni attive, allora si arricchisce indebitamente.
Ma l'ipotesi sub a) è priva di fondamento normativo (e rafforza la tesi del Collegio, che meglio sarà esplicitata in seguito) atteso che non si riesce a vedere quale sarebbe la base imponibile nel rapporto tra parte vittoriosa e parte soccombente ed in base a quale documento (fattura) la prima potrebbe riscuotete l'IVA dalla seconda se manca la base imponibile (prestazione di beni o servizi). Quindi, nel caso in cui la parte vittoriosa porti in detrazione l'IVA (versata in via di rivalsa al suo difensore) allora non vi sarebbe spesa e, ricevendo detta parte il pari importo dal soccombente, riarricchirebbe indebitamente.
2.b. Tutto questo, ad avviso del Collegio, non è materia del giudizio in cui si effettua la liquazione delle spese a vantaggio della parte vittoriosa che sia un soggetto IVA e che possa portare (o porti) in detrazione l'IVA versata al suo difensore. La questione non attiene -per quel che si dirà - direttamente al profilo fiscale e dovrà (o potrà) essere oggetto di accertamento in sede di esecuzione atteso che il giudice della cognizione che effettua la liquidazione delle spese non può dare per scontato: a) che l'IVA sia stata versata dalla parte vittoriosa al suo avvocato; b) che l'imposta sia stata da questi, a sua volta, versata; c) che la parte vittoriosa l'abbia portata in detrazione e che, quindi, non può riceverne una seconda volta l'importo.
2.c. La soluzione adottata dal Collegio trova giustificazione nella natura del rapporto tributario in materia di IVA.
Il compimento di una operazione imponibile (nella specie quella dell'avvocato in favore del cliente vittorioso in giudizio) da luogo ad un rapporto triadico: a) tra l'Amministrazione finanziaria ed il cedente-prestatore (avvocato), per quanto riguarda il pagamento dell'imposta; b) tra il cedente-prestatore ed il cessionario-fruitore (cliente), in ordine alla rivalsa, ed, eventualmente, e) tra il cessionario-fruitore e l'Amministrazione Finanziaria, per quanto riguarda la detrazione dell'imposta assolta in via di rivalsa. I tre rapporti restano tra loro assolutamente indipendenti ed il cessionario-fruitore è privo della qualità di parte nel rapporto tributario che sì instaura tra il cedente-prestatore il Fisco. Nè vale a far assumere al cessionario la qualità di parte nel rapporto in questione il fatto che, in sede di dichiarazione IVA, e, quindi, come soggetto passivo di imposta, egli possa portate (o abbia portato) in detrazione l'IVA assolta in via di rivalsa sulle prestazioni ricevute (e sugli acquisti fatti) atteso che la qualità di contribuente IVA non incide sull'autonomia del rapporto di rivalsa rispetto a quello di natura tributaria.
2.d. Il superiore assunto è coerente con la giurisprudenza consolidata della S.C. (Cass. SS.UU. n. 13299/92; Cass. SS.UU. n. 1147/200; Cass. Sez. 5^, n. 8783/2001 ; Cass. Sez. 5^ 6419/2003). Ed, invero, il rapporto tributario pubblicistico, sia per quanto riguarda la debenza sia per quanto riguarda la misura dell'imposta, si instaura esclusivamente tra il cedente-fornitore del bene o del servizio, unico soggetto passivo dell'imposta, e l'Amministrazione Finanziaria, essendo l'acquirente-committente mero debitore di rivalsa in un rapporto che, non investendo quello di carattere pubblicistico, non coinvolge l'Amministrazione finanziaria neppure laddove il cessionario contesti, il presupposto della rivalsa medesima assumendo, per esempio, che l'operazione sì a esclusa o esente dall'imposta. La rivalsa, invero, si effettua sulla base di un rapporto - di natura autonoma rispetto a quello di imposta - che assoggetta il committente-cessionario al diritto-dovere del cedente- prestatore, unico soggetto passivo di imposta, di rivalersi della somma dovuta, all'Erario addebitandola sul prezzo. Il cessionario- fruitore, quindi, pur sopportando l'onere economico della tassazione, non è debitore tributario sicché non può configurarsi un suo rapporto con l'Amministrazione Finanziaria e, conseguentemente, un suo diritto ad un ( eventuale) rimborso.
2.e. Ed, allora, nel caso della prestazione professionale resa dall'avvocato in un giudizio, il rapporto tributario si instaura tra (a) l'Erario che assoggetta ad imposta la prestazione del difensore e (b) il soggetto percipiente (il difensore) , il quale, nei confronti dell'Erario, è obbligato al versamento dell'imposta. Il cliente (e) è tenuto a rivalere il difensore-prestatore dell'IVA che cade sulla prestazione. A questo punto, dunque, si arresta il rapporto triadico tra a) Erario; b) debitore dell'imposta verso l'Erario ( avvocato) e) debitore in via di rivalsa (cliente). Il quarto (eventuale) soggetto (nella specie : la parte soccombente) è estraneo a tale rapporto e sarà tenuto a versare l'IVA alla parte vittoriosa, ma il numerario non corrisponde ad una imposta sebbene ad un esborso (o spesa) sopportato dal vincitore, che l'ha versata in via di rivalsa al difensore e che, a sua volta, se ne rivale sulla parte soccombente in base ad un rapporto esulante da quello tributario.
2.f. Pur volendo considerare il soccombente alla stregua di un consumatore finale, resta sempre valida l'obiezione che, in caso di versamento dell'IVA da parte dell'avvocato che l'ha percepita dal cliente vittorioso in causa e di detrazione dell'IVA da parte di tale soggetto, questi si arricchirebbe ingiustamente.
Ma l'obbligazione del soccombente non trova - come si è detto - la sua radice nel rapporto tributario, poiché, se così fosse:
1) innanzitutto occorrerebbe individuare la base imponibile I.V.A. nel rapporto vincitore-soccombente (cessione di bene o prestazione di servizio dal vincitore al soccombente), base imponibile che, con ogni evidenza, non sussiste;
2) in secondo luogo l'IVA sarebbe dovuta in via di (successiva) rivalsa e quindi il soccombente sarebbe il secondo debitore di rivalsa (il primo essendo il vincitore), ipotesi che è del tutto estranea al meccanismo dell'imposta in questione, in cui il debitore di rivalsa si individua solo nel fruitore della prestazione (nel caso di specie professionale) oggetto dell'imposta;
3) se, infine, tra il vincitore ed il soccombente potesse immaginarsi un rapporto di (rivalsa dell')imposta, questa dovrebbe essere dovuta comunque, a prescindere dalla soccombenza, il che, evidentemente, non è.
2.g. Bisogna, allora, concludere che l'obbligazione del soccombente di rimborsare l'IVA al vincitore non trova la sua radice nel rapporto tributario ma la rinviene nell'art. 91 c.p.c., norma, questa, che lo obbliga al rimborso dei diritti, degli onorari e delle spese sopportate dal vincitore (tra le quali deve essere compresa l'IVA che questi è tenuto a versare, in via di rivalsa, al suo difensore), spese che, per essere liquidate, debbono essere documentate nella loro effettività o, come per l'IVA, nella loro doverosità (per legge).
2.h. I meccanismi e le conseguenze successive sono estranei al procedimento nel quale si effettua la liquidazione delle spese sopportate alla parte vittoriosa, che vengono poste a carico dell'altra parte in forza del ( diverso) principio della soccombenza, a sua volta basato su quello di causalità e di responsabilità nascenti dal processo.
2.i. Per evitare che la parte vittoriosa - se ha portato in detrazione l'I.V.A. (versata in via di rivalsa al suo difensore)- si arricchisca indebitamente ricevendone il pari importo a titolo di spese, il soccombente potrà pretendere dalla parte vittoriosa la dimostrazione che l'IVA versata in via di rivalsa non è stata portata in detrazione e, nel caso lo sia stata, rifiutare il versamento del pari importo. E ciò, come è stato affermato da questa Corte, potrà avvenire solo in sede di esecuzione (Cass. 8686/91; Cass. 2387/98).
3. Col terzo motivo si denunzia violazione degli artt. 1117, 1123, 1135, 1136, 1138 c.c., artt. 2, 3, 12 e 23 della relazione tecnica illustrativa del Regolamento Condominiale nonché motivazione apparente e, comunque, contraddittoria. Si sostiene che la Corte di Appello avrebbe errato nel negare l'esistenza di un comprensorio o supercondominio o condominio complessivo o condominio orizzontale, condominio parziale.
Il motivo non è fondato.
3.a. Innanzitutto la (asserita) violazione del regolamento di condominio non può essere denunziata come violazione di legge poiché, a prescindere dalla natura - controversa in dottrina - dei regolamenti di condominio, certamente la loro interpretazione ed applicazione da parte del giudice di merito non sono censurabili, nel giudizio di legittimità, alla stessa stregua della violazione delle norme di legge poiché, secondo la giurisprudenza consolidata, l'interpretazione e l'applicazione al caso concreto delle clausole di un regolamento di condominio da parte del giudice del merito sono insindacabili in sede di legittimità, quando non rivelino violazione dei canoni di ermeneutica, oppure vizi logici (Cass. Sez. 2^, 28 agosto 1990, n. 8899; Cass. Sez. 2^, 18 giugno 197 6 n. 2293; Cass. 11278/2005; Cass. 5393/1999; Cass. 9355/2000), con la ulteriore conseguenza che quando, con il ricorso per cassazione, sia denunziato un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo dell'omesso o errato esame di una disposizione del regolamento di condominio, è necessario che il ricorrente precisi specificamente, nel ricorso, non solo il contenuto del regolamento, almeno nelle parti salienti, ma che indichi, sia pure in maniera sintetica, le regole di ermeneutica che assume essere state violate per consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività del preteso errore. Nel caso di specie la interpretazione e l'applicazione della Corte d'Appello del regolamento di condominio resiste alle critiche di ricorrente essendo queste prive della doverosa enunciazione del testo del regolamento stesso nonché delle indicazione dei canoni di ermeneutica violati e dei vizi logici in cui sarebbe incorso il giudice di merito.
3.b. Anche le altre violazioni di legge sono denunziate in maniera non appropriata. Ed, invero, che, nel caso in cui, col ricorso per Cassazione sia dedotto tale vizio, con richiamo a specifiche disposizioni normative (come, nella specie, quelle indicate nella rubrica del motivo), il ricorrente è tenuto ad indicare le affermazioni della sentenza gravata che assume essere in contrasto con la norma asseritamente violata o con l'interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, indi è tenuto a prospettare la propria corretta interpretazione, al fine di consentire alla Corte di Cassazione di adempiere al compito istituzionale di verificare la fondatezza della censura, e fornire, infine, la dimostrazione logica che, se questa interpretazione fosse stata seguita dal giudice di merito, la decisone della causa sarebbe stata diversa da quella resa e sfavorevole al ricorrente.
3.c. Il motivo in esame non solo non contiene le specifiche indicazioni ed argomentazioni di cui ora si è detto ma reca citazioni parziali del regolamento (alla cui lettura rinvia) ed, inoltre, confonde ed affascia - senza operare un scelta precisa e coerente, basata su premesse normative chiare - ipotesi diverse e varie figure e specie di condomini, così che a questa Corte non resta che prendere della genericità del motivo al riguardo. 3.d. Per altro verso la censura sì fonda sulla enunciazione di elementi di fatto il cui esame è precluso in questa sede di legittimità.
3.e. Da quanto precede consegue l'ovvio rilievo che le conclusioni tratte dal ricorrente dal suo assunto (esistenza di un supercondominio, condominio "complessivo", comprensorio ecc.) - e su cui il motivo lungamente si trattiene - non hanno alcun pregio mancando la dimostrazione della premessa.
4. Col quarto motivo si denunzia violazione degli artt. 1117, 1123, 1139, 1135, 1136, 1138 c.c.; violazione delle norme della Relazione Tecnica illustrative del Regolamento condominiale nonché vizio di motivazione.
Il motivo - non del tutto perspicuo - è infondato.
Con esso si criticano i rimborsi contestandosi - in conseguenza di quanto sostenuto nel motivo precedente sulla nature, del condominio - la legittimità della formazione dell'assemblea che li ha disposti e presupponendo Orarie assemblee di lotti. Avendo la Corte di Appello escluso, con motivazione corretta ed immune da vizi logici (come si è detto sub 3), la fondatezza delle premesse, ne consegue il rigetto anche del motivo in esame.
5. Col quinto motivo si lamenta violazione dell'art. 112 c.p.c., sul rilievo che la Corte di Appello avrebbe omesso di pronunziare:
a) sulla doglianza proposta "in ordine all'attribuzione, in consuntivo del lotto 2, ai condomini morosi della somma di L. 1.319.000 di esclusiva spettanza dei condomini morosi";
b) sulla doglianza relativa "alla illegittima approvazione, nel medesimo consuntivo del lotto 2, delle somma di L. 13.800.000 circa per la pulizia del garage (la delibera di autorizzazione ed il contratto di appalto prevedevano la somma di L. 10.000.000) per la pulizia del garage comune e gallerie PT/PI".
La censura, così come proposta, è inammissibile.
5.a. In linea generale deve premettersi il (motivo di) ricorso deve sempre rispettare il requisito della specificità anche allorché denunzia un vizio processuale ed, in particolare, la violazione dell'art. 112 c.p.c.. Nella specie, essendo stato denunziato il vizio di omessa pronunzia, occorreva specificare chiaramente quali erano le doglianza proposte in appello e sulla quali la Corte di Appello non si è(ra) pronunziata, al fine di mettere la Corte di Cassazione nelle condizioni di valutare l'ammissibilità delle stesse, l'interesse della parte a proporle, la rilevanza delle questioni proposte ed ogni altro aspetto di ammissibilità delle stesse. La denunzia (come nella specie) dell'error in procedendo, se pur rende la Corte di Cassazione Giudice anche del "fatto processuale", non esonera la parte ricorrente dall'onere di proporre un motivo specifico quanto alla doglianza in esso contenuta, che - se generica - non può ne' deve essere integrata dal Giudice di legittimità. 5.b. Il ricorrente che critica la sentenza per non avere preso in considerazione talune censure rivolte alla decisione di primo grado deve rispettare anche il principio di autosufficienza del ricorso enunciando in esso compiutamente quali siano queste censure, tralasciate dal Giudice di merito, sì da consentire alla Corte di Cassazione di apprezzarne preliminarmente la decisiva rilevanza, che, del resto, la parte è tenuta non solo allegare ma anche dimostrare con argomenti logici adeguati. Ed, invero, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte in tema di contenuto del ricorso per Cassazione, la finalità perseguita dalla norma di cui all'art. 366 c.p.c., n. 4, è quella di assicurare che il ricorso stesso presenti l'autonomia necessaria a consentire, senza il sussidio di altre fonti, l'immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere, consentendo, quindi, alla Corte di Cassazione un controllo sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (in tali sensi, ex plurimis, Cass. nn. 17 627/2003, 10324/2000, 8013/1998 , 1161/1995).
5.e. Alla luce dell'indicato principio, può dunque conclusivamente affermarsi che, allorquando con il ricorso per Cassazione si lamenti il mancato esame da parte del Giudice d'appello delle critiche rivolte alla sentenza di primo grado, è necessario che il ricorrente specifichi quali siano state queste critiche onde consentire al Giudice di legittimità di valutare la dedotta omissione. Nè il requisito della specificità, completezza e riferibilità dei motivi del ricorso alla decisione impugnata può dirsi rispettato quando il ricorso per Cassazione è basato sul richiamo ai motivi di appello, o alle deduzioni svolte nei precedenti gradi del giudizio. Per vero, l'onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per Cassazione dall'art. 366 c.p.c., n. 4, qualunque sia il tipo di errore per cui è proposto (in procedendo o in iudicando), non può essere assolto per relationem, con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto (cfr. Cass. nn. 14075/2002, 13258/2000, 252/1996, 5217/1967 e, da ult., Cass. 20454/2005).
6. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
7. Consegue la condanna del ricorrente alle spese liquidate come nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida, in favore del Condominio "Centro Commercio e Affari Vacca" di Isernia, in complessivi Euro 2600,00 di cui 2500,00 per onorario, e, in favore della s.a.s. Studio O.S.D., in complessivi Euro 1600,00 di cui Euro 1500,00 per onorario, oltre, per entrambe le parti, spese fisse, I.V.A., C.P.A. ed altri accessori di legge. Così deciso in Roma, il 30 novembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2007