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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 22/01/2018 Scarica PDF
I criteri di determinazione del compenso del Commissario giudiziale nel Concordato preventivo delle società "pubbliche"
Sido Bonfatti, ProfessoreCorte di Cassazione, I sez. Civile, Ordinanza del 19/01/2018, n° 1448. Est. Aldo Cennicola
Concordato preventivo – Società a partecipazione totalitaria pubblica (in house) – Compenso del Commissario giudiziale – Assoggettamento alla disciplina limitativa del trattamento economico del personale pubblico e delle società partecipate – Esclusione – Assoggettamento esclusivo alla disciplina fallimentare – Affermazione.
Nel concordato preventivo delle società pubbliche (in house) la liquidazione del compenso del commissario giudiziale è disciplinata esclusivamente dall’art. 165 della legge fallimentare, secondo le norme stabilite con decreto del Ministro della Giustizia (D. M. 28 luglio 1992, n° 570).
Lo stesso Tribunale, pertanto, non ha piena discrezionalità in ordine al “quantum” della liquidazione, essendo vincolato ai criteri di calcolo predeterminati nel decreto ministeriale. A maggior ragione è dunque da escludersi una discrezionalità dell’ente (a partecipazione pubblica) nel ridurre unilateralmente una spesa che non può ritenersi né riferibile a funzioni istituzionalmente proprie, né assunta volontariamente dall’ente stesso o dalla sua partecipata in violazione degli obblighi di contenimento della spesa pubblica, essendo posta a carico dello stesso all’esito di un procedimento giudiziale. La fattispecie esaminata, pertanto, è da ritenere estranea all’ambito di operatività dei vincoli di finanza pubblica.
Concordato preventivo – Liquidazione di acconti sul compenso richiesto dal Commissario giudiziale – Ricorribilità del provvedimento per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. – Esclusione.
I decreti con i quali il tribunale fallimentare concede o rifiuta gli acconti sul compenso richiesti dal curatore (ovvero del Commissario giudiziale) sono espressione di un potere discrezionale ed intervengono in una fase processuale anteriore alla presentazione ed approvazione del conto, non assumendo, di conseguenza, efficacia di cosa giudicata, sicché essi non possono pregiudicare, dopo la presentazione del rendiconto, la futura e definitiva decisione sul compenso dovuto, cui corrisponde un diritto soggettivo del curatore, e non sono, quindi, ricorribili per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.
(massime a cura di Sido Bonfatti – Riproduzione riservata).
Cassazione civile, sez. I, 19 gennaio 2018. Pres. Didone. Rel. Cennicola.
omissis
Rilevato che:
con decreto del 22.3.2016 il Tribunale di Modena liquidava in favore del commissario giudiziale del concordato preventivo della ……s.r.l. a titolo di acconto sul compenso finale l’importo di € 400 mila, oltre spese generali nella misura del 5%, a titolo di rimborso spese non imponibili l’importo di € 4.848,03 e a titolo di rimborso spese imponibili l’importo di €2.241,96, oltre accessori di legge;
osservava il Tribunale che nella determinazione del compenso spettante al commissario, occorreva fare riferimento all’art. 39 legge fall. e al d.m. n.30 del 2012 e segnatamente all’art. 5 di tale decreto, non trovando applicazione nel caso di specie la disciplina pubblicistica limitativa dei compensi a carico delle finanze pubbliche, apparendo palese che tali norme trovino applicazione esclusivamente in relazione i rapporti di lavoro subordinati o autonomi con amministrazioni pubbliche o equiparate, situazione diversa e in alcun modo equiparabile alla nomina del commissario compiuta dal tribunale, non istitutiva di alcun rapporto di impiego con il soggetto pubblico (trattandosi nel caso di specie di una società partecipata dalla pubblica amministrazione);
avverso tale decreto … s.r.l. propone ricorso per cassazione affidato ad un solo motivo; l’avv. ……, in proprio e nella qualità di commissario giudiziale, resiste mediante controricorso; il P.G. in data 10.7.2017 ha depositato la propria requisitoria, concludendo per la fissazione della trattazione del ricorso in pubblica udienza. Le parti hanno depositato memorie.
Considerando che:
il ricorso è inammissibile perché come condivisibilmente statuito da questa Corte, sebbene rispetto alla posizione del curatore ma con considerazioni evidentemente destinate a valere per il commissario giudiziale, “i decreti con i quali il tribunale fallimentare concede o rifiuta gli acconti sul compenso richiesti dal curatore sono espressione di un potere discrezionale ed intervengono in una fase processuale anteriore alla presentazione ed approvazione del conto, non assumendo, di conseguenza, efficacia di cosa giudicata, sicché essi non possono pregiudicare, dopo la presentazione del rendiconto, la futura e definitiva decisione sul compenso dovuto, cui corrisponde un diritto soggettivo del curatore, e non sono, quindi ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost” (Cass. N. 24044 del 2015 ed in relazione al commissario nell’ambito della procedura di amministrazione controllata Cass. 7298 del 2015);
sulla questione di diritto posta attraverso il ricorso (e riguardo alla quale il ricorrente ha domandato di enunciare nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi), è sufficiente ricordare che la Sezione Autonomie della Corte dei Conti, con decisione n.33 depositata il 7 dicembre 2016, ha condivisibilmente e correttamente ritenuto che <<dalla peculiare natura giuridica del Commissario giudiziale deriva la particolarità delle regole di determinazione del compenso per lo svolgimento delle proprie funzioni. Tale compenso, per quanto detto sopra, rientra nel novero delle “spese di giustizia” e la sua liquidazione è disciplinata specificatamente dall’art. 165 della legge fallimentare, il quale rinvia all’art. 39 della medesima legge fallimentare e, quindi, al D.M. 28 luglio 1992, n. 570 (negli stessi termini: Cass. Civ. I, n. 8221/2011). Il citato art. 39 (comma 1) stabilisce infatti che “Il compenso e le spese dovuti al curatore” (e quindi, in forza del richiamo operato dall’art. 165, anche al commissario giudiziale) “anche se il fallimento si chiude con concordato, sono liquidati ad istanza del curatore con decreto del tribunale non soggetto a reclamo, su relazione del giudice delegato, secondo le norme stabilite con decreto del Ministro della giustizia”.
Lo stesso Tribunale, pertanto, non ha piena discrezionalità in ordine al “quantum” della liquidazione, essendo vincolato ai criteri di calcolo predeterminati nel decreto ministeriale. A maggior ragione è dunque da escludersi una discrezionalità dell’ente nel ridurre unilateralmente una spesa che non può ritenersi né affidabile né riferibile a funzioni istituzionalmente proprie, né assunta volontariamente dall’ente stesso o dalla sua partecipata in violazione degli obblighi di contenimento della spesa pubblica, essendo posta a carico dello stesso all’esito di un procedimento giudiziale.
La fattispecie esaminata, pertanto, è da ritenere estranea all’ambito di operatività dei vincoli di finanza pubblica, con i conseguenti riflessi sotto il profilo della stessa ammissibilità del quesito proposto>>.
Il ricorso va in definitiva dichiarato inammissibile; le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
p.q.m.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e pone le spese del giudizio di legittimità a carico del ricorrente, liquidate in €9.200, di cui € 200 per esborsi, oltre accessori come per legge.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quarter, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 14 settembre 2017.
L’ordinanza n° 1448 del 19 gennaio 2018 della Suprema Corte affronta il tema dell’assoggettabilità o meno del compenso spettante al Commissario giudiziale di una procedura di Concordato preventivo di una società a partecipazione totalitaria pubblica (in house) alla disciplina limitativa del trattamento economico del personale pubblico e delle società pubbliche. La Suprema Corte risolve il quesito in senso negativo, e la conclusione deve essere considerata meritevole di condivisione.
Il provvedimento impugnato aveva statuito che sebbene la procedura non fosse ancora giunta a termine con la completa esecuzione della proposta concordataria, essendo intervenuta l'omologa, sussistevano giustificati motivi per il riconoscimento di un acconto al Commissario, che aveva svolto la parte preponderante della propria attività (fermi i doveri di vigilanza sull'esecuzione del piano). Il Tribunale, nell’occasione, aveva precisato di avere ritenuto di dover fare esclusivamente riferimento, nella determinazione dei compensi spettanti al Commissario giudiziale, all'art. 39 l. fall. e al D.M. n. 30/2012 e, segnatamente, all'art. 5 di tale decreto, non trovando applicazione nel caso di specie la disciplina pubblicistica limitativa dei compensi a carico delle finanze pubbliche, in quanto ritenuto palese che tali norme si applichino esclusivamente in relazione a rapporti di lavoro subordinati o autonomi con amministrazioni pubbliche o equiparate: situazione del tutto diversa e in nessun modo paragonabile – secondo il Tribunale - alla nomina del Commissario giudiziale di una impresa ammessa al Concordato preventivo, che non istituisce alcun rapporto di impiego con il soggetto pubblico.
La conclusione, come detto, merita di essere condivisa.
La parte ricorrente sosteneva che il limite massimo retributivo previsto in materia di compensi a carico delle finanze pubbliche si applicherebbe anche al compenso del Commissario giudiziale della procedura di concordato preventivo di una società pubblica (in house): una tale tesi non appare sostenibile.
Al riguardo è decisiva l’osservazione che il limite imposto dalle norme in questione (commi 471 e 473 dell'art. 1 della 1. n. 147/2013 e art. 13, co. 1, del d. l. n. 66/2014) si applica, testualmente, a “chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo”.
I presupposti per l’applicazione della norma sono, dunque, due:
- ricevere a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni;
- nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo.
Ma il Commissario giudiziale non instaura alcun rapporto di lavoro subordinato o autonomo con la Società in concordato, venendo piuttosto nominato dal Tribunale fallimentare: per cui il tetto retributivo de qno non è applicabile, perché non si concretizza la fattispecie evocata dalle norme invocate dalla ricorrente.
Quest’ultima aveva tentato di superare il dato testuale della legge - che fa specifico ed esclusivo riferimento ad "emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo” -, sostenendo che il limite retributivo sarebbe riferito a tutti i compensi, di qualsivoglia natura, "destinati a pesare sulle finanze pubbliche", a prescindere dalla genesi dell'incarico.
Tale tesi si rivela peraltro inconciliabile con il tenore letterale dell'art. 23 ter, co. 1, D.L. 201/2011[1], che pone espressamente il limite del "trattamento economico annuo onnicomprensivo" solo per "chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo”, presupponendo quindi una ben specifica tipologia di rapporto, alla quale l'incarico del Commissario giudiziale è del tutto estranea.
Nello stesso modo si esprime l'art. 1, co. 471, l. 27/12/2013, n. 147 (comma modificato dall’art. 13, co. 2, lett. a), D.L. 24/4/2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla L. 23/6/2014, n. 89), il quale (pure) parla espressamente e specificamente di “rapporti di lavoro subordinato o autonomo”.
L'ambito di operatività del "tetto" retributivo è, dunque, chiarissimo: deve trattarsi di emolumenti o retribuzioni corrisposti nell'ambito di "rapporti di lavoro dipendente o autonomo”.
La normativa in esame presuppone la costituzione consensuale di un rapporto di lavoro (nell'ambito del quale vengano corrisposte le retribuzioni o gli emolumenti) e, soprattutto, presuppone che, effettivamente, esista un rapporto (di lavoro) di tale natura.
Il Commissario giudiziale, invece, non instaura alcun rapporto di lavoro subordinato o autonomo con la impresa in concordato, ma viene nominato dal Tribunale per lo svolgimento di funzioni di pubblico ufficiale (art. 165 R.D. 16/3/1942, n. 267): precisamente esercita funzioni di controllo e di consulenza quale ausiliario del giudice[2], o meglio (come ha precisato Cass., Sez. I, Sent., 11/04/2011, n. 8221, richiamando Corte cost., 28/04/2006, n. 174[3]) quale “ausiliario della giustizia”.
Al riguardo la ricorrente, pur ammettendo che con il Commissario non viene istituito - da parte dell’impresa in concordato - alcun rapporto di impiego, aveva osservato che la qualità di “ausiliario della giustizia” si tradurrebbe "sul piano organizzativo ... in un rapporto di collaborazione autonoma con lo Stato-persona": ma non pare che tale congettura possa scalfire quanto già sottolineato sopra, vale a dire che il Commissario giudiziale non instaura alcun rapporto di lavoro subordinato o autonomo con l’impresa in concordato, con la conseguente inapplicabilità del "tetto" retributivo in discussione.
È opportuno ribadire, a tale proposito, che la determinazione dei compensi del Commissario giudiziale (secondo Cass., Sez. I, Sent., 11/04/2011, n. 8221) “costituisce oggetto di un complesso normativo avente caratteri di autonomia e specialità”. In particolare, a proposito dei criteri per la determinazione dei compensi del commissario giudiziale, l’art. 165, co. 2, l. fall. prescrive che: “si applicano al commissario giudiziale gli articoli 36, 37, 38 e 39.” L’art. 39 l. fall. (compenso del curatore), richiamato dall’art. 165, prescrive che: “Il compenso e le spese dovuti al curatore, anche se il fallimento si chiude con concordato, sono liquidati ad istanza del curatore con decreto del tribunale non soggetto a reclamo, su relazione del giudice delegato, secondo le norme stabilite con decreto del Ministro della Giustizia.”.
Quanto a tali norme, si veda il citato decreto del Ministero della giustizia del 25/1/2012, n. 30[4], che contiene la disciplina speciale della materia, alla quale, del tutto correttamente, ha fatto riferimento il provvedimento giudiziale impugnato.
Si può osservare, infine, ad abundantiam:
- che devono ritenersi escluse, altresì, dal campo di applicazione del "tetto" retributivo, le attività i cui compensi o tariffe siano determinati dalla legge o da regolamento;
- che, ai sensi dell'art. 4, co. 3, D.P.R. 5/10/2010, n. 195[5]: "3. Le attività soggette a tariffa professionale, le attività di natura professionale non continuativa, i contratti d'opera di natura non continuativa ed i compensi determinati ai sensi dell'articolo 2389, terzo comma, codice civile, degli amministratori delle società non quotate a totale o prevalente partecipazione pubblica e le loro controllate investiti di particolari cariche, non sono assoggettati al rispetto del limite di cui al presente regolamento."
*
L’infondatezza dell’impugnazione proposta dalla società in concordato trova, peraltro, conferma nella recente riforma delle società a partecipazione pubblica (d.lgs. 175/2016, come modificato dal decreto correttivo D.lgs. 100/2017), nel quale (art. 14) è stato ribadito il principio, già affermato dalla Suprema Corte, secondo cui "le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi di cui al D. Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e al D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 febbraio 2004, n. 39": senza prevedere alcuna deroga o disposizione particolare con riguardo alla disciplina fallimentare e concordataria con riguardo alle società partecipate.
In particolare non viene disposto alcunché con riferimento alla figura del Commissario giudiziale né con riferimento alla sua natura, né sul ruolo.
È evidente che laddove il legislatore avesse ritenuto che il Commissario giudiziale di una società a partecipazione pubblica rivesta un ruolo diverso da quello delle società di diritto privato - o abbia una natura diversa -, sarebbe intervenuto sull’argomento.
Più precisamente il legislatore avrebbe potuto semplicemente prevedere che, in deroga alla disciplina ordinaria, il Commissario giudiziale di una società a partecipazione pubblica sia da considerarsi alla stregua di un dipendente pubblico e, come tale, soggetto alla disciplina in tema di emolumenti a carico delle finanze pubbliche: ciò di cui, peraltro, come detto, non vi è traccia di sorta.
[1] Come modificato dall'art. 1, co. 2, D.L. 24/3/2012, n. 29; successivamente, tale modifica non è stata confermata dalla legge di conversione, L. 18/5/2012, n. 62.
[2] Si veda Cass. Sez. I, sent. n. 4800 del 13-05-1998 e, in dottrina, M. Vitiello, in AA. VV., Codice commentato del fallimento, 1ª ed., diretto da G. Lo Cascio, Milano 2008, 1575.
[3] Dove si parla anche di “non assimilabilità della posizione del curatore a quella del lavoratore”.
[4] “Regolamento concernente l'adeguamento dei compensi spettanti ai curatori fallimentari e la determinazione dei compensi nelle procedure di concordato preventivo”, in G.U. 26/3/2012, n. 72,
[5] Regolamento recante determinazione dei limiti massimi del trattamento economico onnicomprensivo a carico della finanza pubblica per i rapporti di lavoro dipendente o autonomo.
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