PenaleImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 06/03/2013 Scarica PDF

Riflessi penali tributari conseguenti all'operazione di scissione societaria e possibile esperimento dell'azione revocatoria fallimentare

Andrea Crenca, Dottore commercialista e Revisore legale in Roma


L'importante sentenza n. 19595 del 18 maggio 2011 (Udienza del 09 febbraio 2011) della Corte di Cassazione penale, Sez. III, offre spunti interessanti con riferimento alla disciplina della scissione collegata con riflessi dai carattere penale tributario.
La fattispecie affrontata (così come esposta nella decisione citata) concerne il caso di alcune società debitrici del fisco che si sono private del proprio patrimonio mediante cessioni d'azienda e scissioni societarie, al fine di rendersi inidonee a soddisfare le pretese erariali. Concentrando l'attenzione, ai nostri fini, sulle scissioni (caratterizzate dal fatto fraudolento dell'attribuzione alle beneficiarie degli unici beni, molto probabilmente immobiliari, ad avere reale valore), queste sarebbero avvenute, secondo la Corte, senza "corrispettivo".

Giacché dalla lettura della Sentenza (che riassume sommariamente la vicenda) non si evincono i dettagli delle operazioni, si può presumere che la Cassazione abbia usato tale termine per sottolineare il fatto che le beneficiarie non hanno visto accrescersi il loro capitale sociale nella misura che sarebbe stata dovuta, tenuto conto dei beni ricevuti.

Da questo punto di vista è importante il tentativo ermeneutico numerico, riferito alla decisione in esame, esperito da F. e L. Dezzani (1) i quali, per l'appunto, illustrano alcuni passaggi contabili nei quali non compare alcun disavanzo da concambio o da annullamento, giacché la scissione avviene in piena corrispondenza ai soli valori di partenza, senza alcuna influenza del rapporto di cambio. Il caso particolare illustrato, sulla base delle citate ricostruzioni effettuate, consiste, quindi, nell'aver costituito
società beneficiarie assegnando a esse immobili dal va lore di mercato assai superiore al loro valore di libro ma mantenendo i debiti tributari nella società scissa, priva però, ormai, di reali attività atte a farvi fronte.
Queste operazioni, come sopra accennato, sembra che non abbiano portato all'emersione di disavanzi in capo alle beneficiarie, che invece sarebbero stati normali visto che, di solito, gli immobili hanno un valore effettivo ben superiore a quello di
bilancio e che il disavanzo dovrebbe dare espressione numerica proprio a queste differenze.
A mio parere, è pensabile che la Cassazione abbia utilizzato il termine "corrispettivo" come sinonimo di "costo"; si può impiegare infatti quest'ultimo termine solamente in caso di disavanzi da annullamento o, con qualche cautela in più, nell'eventualità di disavanzi da concambio.
Circa la prima ipotesi, l'avvenimento lumeggiato dalla Cassazione si sarebbe potuto verificare solo se all'annullamento della partecipazione fosse conseguita una rivalutazione dei beni sottostanti; tuttavia, dalla lettura della sentenza non sembra che
vi siano state beneficiarie già anteriormente costituite, proprietarie di quote e azioni della scissa e per giunta con soci diversi da quelli interessati.
Se invece si fossero evidenziati disavanzi da concambio (situazione che sarebbe stata più aderente alla natura dell'operazione), il "costo" sarebbe consistito nel "pagamento", sostenuto dai soci antecedenti e rappresentato dalla diluizione della loro quota nel capitale sociale, per l'acquisizione dei nuovi beni immobili. Atteso, però, che è dubbio che vi fossero altri soci preesistenti "danneggiati" dall'aumento di capitale, la Corte ha voluto, presumibilmente, fare intendere che le scissioni hanno avuto luogo senza che si sia verificato un (sufficiente) aumento di capitale nelle beneficiarie.

Parlavo prima di circospezione con riferimento all'utilizzo del termine "costo" perché, comunque, l'eventuale utilizzo del disavanzo da concambio per la rivalutazione di beni deve corrispondere a un effettivo maggior valore delle componenti trasferite
(come nel caso esaminato, in cui sarebbe stato agevole identificare univocamente le poste del disavanzo, costituite soltanto dagli immobili), condizione che però non sempre si verifica in altre circostanze, laddove il disavanzo si presenti (in tutto o in parte) come una mera voce di riequilibrio contabile.

A mio parere, nella sentenza, più precisamente, si sarebbe potuto aggiungere che si erano verificate non eque ripartizioni delle attività e delle passività fra le scisse e le beneficiarie, con conseguente inesatta attribuzione delle quote di partecipazione ai soci delle prime.

Tale fatto non significa necessariamente che le scissioni contestate non fossero formalmente immuni da vizi, in quanto, attualmente, a norma dell'articolo 2506-ter, commi 3 e 4, c.c., la relazione dell'organo amministrativo, la relazione degli esperti e la situazione patrimoniale possono essere omesse sia per rinuncia unanime dei soci (e dei possessori di strumenti finanziari che attribuiscono diritto di voto), sia allorché l'operazione venga attuata (con modalità proporzionale) tramite la costituzione di una o più società.
La mancanza dei documenti elencati, pur ostacolando gravemente ogni giudizio sul concambio effettuato, sarebbe, quindi, potuta essere ineccepibile sul piano strettamente procedurale.
Un altro punto della sentenza che non mi sembra adeguatamente approfondito è quello che riguarda la garanzia dei creditori, che sarebbe stata lesa dalle operazioni così come sopra succintamente delineate.
Infatti, in linea teorica, la loro salvaguardia rimane immutata, posto che l'articolo 2506-quater, comma 3, c.c., stabilisce la responsabilità solidale delle società partecipanti alla scissione in caso di inadempimento del debito gravante su una di esse.
L'affermazione del Tribunale del riesame, confermata dalla Cassazione, secondo cui il limite di rivalsa del valore effettivo del patrimonio assegnato alle beneficiarie e di quello eventualmente rimasto nella scissa avrebbe reso (totalmente o parzialmente) non efficace la procedura di riscossione merita, infatti, una riflessione; pertanto, vale la pena di ricapitolare brevemente la disciplina vigente in materia. A norma dell'articolo 2506-ter, comma 2, c.c., la relazione dell'organo amministrativo deve indicare il valore effettivo del patrimonio assegnato alle beneficiarie e di quello eventualmente rimasto nella scissa (come sopra ricordato, però, la relazione degli amministratori può essere omessa nel procedimento semplificato). In secondo luogo, è fondamentale rilevare che la mancata o erronea indicazione di detto importo non fa venir meno la garanzia dei creditori, potendo essi comunque fare riferimento al reale valore dei beni assegnati e non a quello indicato dagli amministratori.
Da ciò si può trarre un doppio ordine di considerazioni: da una parte sarà esperibile l'opposizione prevista dall'articolo 2503 cc, richiamato dall'articolo 2506-ter cc, dall'altra, i creditori saranno comunque "sempre legittimati a contestare ed a richiedere in sede giudiziale l'esatta determinazione del valore effettivo e rimasto, allorquando facciano valere un proprio credito verso la società scissa o le società beneficiarie" (2). Dunque, non è esaustivo sostenere che la garanzia ex articolo 2506 quater sarebbe solo parziale perché "operante nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto", perché, comunque, i creditori (in questa fattispecie, l'Agenzia delle Entrate) avrebbero potuto richiedere alla società beneficiaria l'intero importo del credito facendo riferimento al reale valore dei beni e non a quello esposto nei documenti di scissione.
Dunque, dal punto di vista tecnico-giuridico, la garanzia permaneva; nondimeno, è indubitabile che sarebbe stato molto più difficile, costoso e rischioso "inseguire" i beni presso altre società.
E' a mio avviso incontrovertibile che l'operazione così concepita (vista in connessione con gli altri atti posti in essere) mirasse a sottrarre beni all'obbligazione tributaria, rendendo molto più arduo il recupero di quanto dovuto. Di conseguenza, si appalesa corretta l'applicazione dell'articolo 11 del Decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, secondo il quale è punito penalmente, al superamento di determinate soglie quantitative, chi "aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva." Sul punto, vale la pena di sottolineare che la norma può essere invocata anche se non vi sia ancora in essere alcuna procedura esecutiva o addirittura se non vi sia neanche stato l'inizio del controllo da parte dell'Agenzia delle Entrate. Questo perché, secondo la giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Cassazione (Sez. 3 penale: Sentenze 15 giugno 2011, n. 23986; 9 aprile 2008, n. 14720; 17071 del 4.4.2006. Sez. 5, n. 7916 del 10.1.2007), sono due le caratteristiche essenziali della fattispecie. La prima riguarda l'aspetto materiale e consiste nella messa in opera di un atto fraudolento idoneo a vanificare l'esito dell'esecuzione tributaria coattiva che, però, non deve necessariamente essere in atto in quel momento e può anche configurarsi come un'evenienza futura che la condotta mira a ostacolare. La seconda concerne il profilo psicologico e consiste nel c.d. "dolo specifico" e cioè nello scopo di sottrarsi al pagamento del debito tributario. Ciò è confermato dal fatto che la tipologia del reato è diversa da quella del previgente articolo 97, comma 6, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, (sostituito poi dall'articolo 15 della L. 30 dicembre 1991, n. 413 e poi abrogato dall'art. 25 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 con decorrenza dal 15 aprile 2000) che, invece, richiedeva il compimento, dopo la verifica fiscale, di atti fraudolenti sui propri o su altrui beni che rendessero inefficace, totalmente o parzialmente, l'esecuzione. In definitiva, il mutamento intervenuto rispetto alla normativa antecedente "ha eliminato il presupposto dell'inizio di verifiche fiscali o della notifica di atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, ma soprattutto ai fini del perfezionamento del reato, è sufficiente la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la futura procedura di riscossione, e non anche l'effettiva verificazione dell'evento."(3)
Interessante è poi porsi il seguente interrogativo: in presenza dei necessari requisiti temporali previsti dall'articolo 67 della LF, sarebbe stato possibile esperire l'azione revocatoria fallimentare relativamente alla scissione? Ritengo che, in linea generale, sia possibile fare ricorso a questo strumento anche nei confronti di questa operazione straordinaria, ma solo quando non sia possibile esperire il rimedio "ad hoc" previsto dalla normativa in materia, ovvero l'opposizione dei creditori sopra indicata, per mezzo della quale essi, entro sessanta giorni dall'ultimo deposito del relativo progetto, possono contestare l'operazione. Si tratta di un mezzo di non facile utilizzo, perché le società partecipanti hanno sì l'obbligo di pubblicare le relative delibere e il progetto di scissione, ma non di informare in altro modo i loro creditori. In proposito, è importante segnalare che l'articolo 1 del D.Lgs. 22 giugno 2012, n. 123 (con decorrenza dal 18 agosto 2012) ha modificato il terzo comma dell'art. 2501 ter c.c. (richiamato per la scissione dall'articolo 2506 bis, ultimo comma, c.c.) disponendo che il relativo progetto (in luogo di essere depositato presso il Registro delle Imprese) può essere pubblicato nel sito internet della società (come già consentito, mutatis mutandis, alle compagini quotate) purché ciò sia fatto con caratteristiche tali da assicurare la tota le protezione del sito medesimo, la veridicità dei documenti e la certezza del giorno del sua comparsa sul web.
A mio parere la disciplina delle opposizioni dovrebbe essere sensibilmente migliorata, non essendo ragionevole che gli interessati effettuino continuamente, per ogni fornitore, visite sul sito internet o visure presso il Registro delle Imprese. Peraltro, non è stato mai neanche stato stabilito con quali modalità dovrebbe essere posta in essere l'opposizione. Nel silenzio della legge, potrebbe anche essere ritenuta sufficiente una lettera raccomandata o una e.mail certificata, visto che nel nostro ordinamento vige, in materia di formalità, un principio generale di libertà se non vi sono, come nel caso in esame, norme particolari che impongono (a pena di nullità) l'adozione di una forma specifica.
Quanto finora detto non significa che, sulla base delle disposizioni vigenti, l'opposizione non debba ritenersi come il rimedio "tipico" previsto in tali casi. E' evidente che non può essere permesso l'esperimento dell'azione revocatoria fallimentare per eliminare le difficoltà poste al controllo e all'azione dei creditori, visto che già esiste il citato rimedio dell'opposizione.

Nel caso in esame, i creditori (in primis, l'Amministrazione finanziaria) avrebbero potuto monitorare la posizione della società debitrice e intervenire con tale strumento. In sostanza, l'Agenzia delle Entrate potrebbe essersi trovata di fronte a due possibili situazioni:

1) al momento della scissione, essa non sapeva nemmeno che la società fosse una sua debitrice, per esempio perché ancora non vi era stata alcuna liquidazione e/o rettifica delle dichiarazioni dei redditi presentati. In questo caso è evidente che nessuna opposizione era possibile per il semplice motivo che non vi era interesse (conosciuto) a farla.
2) oppure l'Agenzia delle Entrate già sapeva di essere creditrice della società e allora avrebbe potuto esperire il rimedio dell'opposizione adducendo l'ingiusta suddivisione dell'attivo e del passivo.

In definitiva, vi è già nell'ordinamento il sistema per contrastare l'operazione ove venga ritenuta scorretta.
Quand'è, allora, che sarebbe ammissibile la revocatoria fallimentare?
Aderendo all'opinione del Di Marcello (4), detta azione sarebbe esperibile quando la scissione, posta in essere senza valide ragioni economiche, presenti un'iniqua distribuzione di attivo e passivo fra le varie società non percepibile al momento dell'operazione. In questo caso, non vi sarebbe alcuna protezione prevista dalla disciplina "chiusa" della scissione.
Dalla lettura della sentenza n. 19595 sembra però che, nel caso specifico, fosse arguibile la disonesta e parziale suddivisione dell'attivo e del passivo. Pertanto, solo dal punto di vista penale, azionando il citato articolo 11 del D.Lgs. 74/2000, l'Agenzia delle Entrate è riuscita a colpire gli amministratori per sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.
Da quanto sin qui detto, emerge l'esigenza che la disciplina della scissione venga modificata in modo da consentire un'informazione migliore e più tempestiva nei confronti dei creditori e dei terzi che non sia solo limitata ai già previsti depositi   presso il Registro delle Imprese o nel proprio sito internet.



Scarica Articolo PDF