Diritto della Famiglia e dei Minori
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22781 - pubb. 29/11/2019
Azione di disconoscimento di paternità proposta dal figlio
Cassazione civile, sez. I, 21 Febbraio 2019, n. 26285. Pres. Genovese. Est. Caiazzo.
Azione di disconoscimento di paternità - Regime di imprescrittibilità dell'azione proposta dal figlio prevista dall'art. 244 c.c. novellato - Applicabilità ai giudizi pendenti
L'imprescrittibilità dell'azione di disconoscimento di paternità proposta dal figlio, introdotta dall'art. 244, quinto comma, c.c. come riformulato dall'art. 18 del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, si applica, in quanto non esclusa dalle disposizioni transitorie di cui all'art. 104, commi 7 e 9, del medesimo d.lgs., anche ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della nuova normativa. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio - Presidente -
Dott. MELONI Marina - Consigliere -
Dott. DI MARZIO Mauro - Consigliere -
Dott. TRICOMI Laura - Consigliere -
Dott. CAIAZZO Rosario - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22071/2015 proposto da:
B.D.A.; M.D., elettivamente domiciliate in Roma, Via * presso lo studio dell'avvocato S. M. che le rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrenti -
contro
B.E.G., elettivamente domiciliato in Roma, *, presso lo studio dell'avvocato A. S., rappresentato e difeso dall'avvocato B. A. A., giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 3416/2015 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 03/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/11/2018 dal cons. Dott. CAIAZZO ROSARIO.
Svolgimento del processo
CHE:
B.D.A. e M.D. hanno proposto appello avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Latina il 27.1.14 che accolse la domanda proposta nei loro confronti da B.F. - al cui decesso in corso di causa era subentrato il figlio B.E. previa riassunzione - e accertato che B.D.A. non era figlia naturale di B.F., dichiarò la falsità del riconoscimento effettuato dinanzi al notaio il 4.4.95.
Le appellanti hanno lamentato l'erronea applicazione dell'art. 263 c.c., sull'impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, norma volta a tutelare gli interessi del minore conferendo certezza ai rapporti familiari ed a garantire stabilità al soggetto riconosciuto, deducendo altresì, la mancata allegazione di fatti nuovi, sopravvenuti, atteso che l'attore era consapevole che alla data del riconoscimento non era il padre naturale.
Si costituì B.E. - quale figlio del convenuto deceduto -resistendo all'appello.
Con sentenza del 3.6.15, la Corte d'appello di Roma ha respinto l'impugnazione osservando che: la legge non prescriveva la necessità della sopravvenienza di elementi nuovi e rilevanti ai fini di giustificare l'impugnazione per difetto di veridicità effettuata dallo stesso autore del riconoscimento consapevole della falsità della dichiarazione, essendo da escludere, in tal caso, la revoca del riconoscimento - vietata dalla legge - poichè tale autore non si limitava a compiere un atto contrario, ma era tenuto, proprio attraverso l'impugnazione ex art. 263 c.p.c., alla giudiziale dimostrazione della veridicità del riconoscimento; la domanda non era soggetta al termine di decadenza annuale di cui alla novella introdotta dalla L. n. 219 del 2012 sulla base della norma transitoria di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013, art. 104 poichè anteriore all'entrata in vigore della legge di riforma; non ricorrevano i presupposti per ritenere incostituzionale l'art. 263 c.c., come affermato dalle due pronunce in materia emesse dalla Corte Cost.; non sussisteva un concreto interesse della minore alla propria identità e alla tutela della paternità in discussione, per aver lei sempre saputo della falsità del suo riconoscimento, come emerso dall'istruttoria svolta in primo grado.
B.D.A. e M.D. hanno proposto ricorso per cassazione affidato ad unico motivo, depositando documenti a norma dell'art. 372 c.p.c. Resiste B.E. con controricorso.
Motivi della decisione
CHE:
Con l'unico motivo di ricorso è denunziata la violazione dell'art. 263 c.c., avendo la Corte d'appello affermato la sussistenza dei presupposti per l'accoglimento dell'azione d'impugnativa del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, pur proposta da soggetto consapevole del falso riconoscimento.
Al riguardo, le ricorrenti lamentano che: sebbene la ratio dell'azione in esame sia quella di conformare alla realtà oggettiva quella giuridica attraverso l'accertamento della divergenza tra la genitorialità biologica e quella dichiarata con l'atto di riconoscimento, nel caso concreto, tuttavia, ammettere l'impugnativa da parte dell'autore sarebbe equivalso a legittimare la stessa impugnazione anche per motivi pretestuosi e non degni di tutela, a distanza di molti anni; a differenza della situazione del figlio legittimo, l'art. 263 c.c. contemplava un'azione imprescrittibile - con efficacia fino alla citata riforma - con ingiustificata disparità di trattamento.
Il ricorso è infondato.
Preliminarmente, va osservato che è inammissibile l'eccezione di nullità dei giudizi di primo e secondo grado per l'asserita invalidità della procura alle liti sottoscritta da B.F. sollevata dalle ricorrenti nella memoria depositata a norma dell'art. 372 c.p.c., in ragione dell'invocata incapacità naturale dello stesso B.. Invero, tale eccezione implicherebbe accertamenti di fatto inerenti al contenuto di documenti mai depositati nel corso dei giudizi di merito, in contrasto con il consolidato orientamento secondo cui nel giudizio innanzi alla Corte di cassazione, secondo quanto disposto dall'art. 372 c.p.c., non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, salvo che non riguardino l'ammissibilità del ricorso e del controricorso ovvero, eventuali nullità inficianti direttamente la sentenza impugnata (Cass., n. 7515/11; ord. n. 28999/18).
La Corte d'appello ha correttamente applicato l'art. 263 c.c., evidenziando le differenze tra l'impugnazione del riconoscimento con l'azione di disconoscimento della filiazione legittima e con l'azione di revoca del riconoscimento del figlio naturale (in conformità del consolidato orientamento di questa Corte: Cass., n. 30122/17; n. 2269/93).
Invero, va osservato che l'impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, ai sensi dell'art. 263 c.c., è ammessa in ogni caso in cui il riconoscimento sia obiettivamente non veridico, a nulla rilevando eventuali stati soggettivi di buona o mala fede dell'autore del riconoscimento, e quindi anche nel caso in cui il riconoscimento stesso sia stato effettuato con la consapevolezza dell'altrui paternità. La relativa azione è imprescrittibile, in considerazione della peculiare natura delle azioni di stato, le quali incidono in materia dominata da interessi pubblici e perciò sottratta alla disponibilità dei privati, senza che ciò violi l'art. 3 Cost., in relazione alle ipotesi previste dagli artt. 244, 265, 266 e 261 c.c. (Cass., n. 5886/91).
In particolare, la doglianza relativa all'abuso dell'impugnazione in questione, se compiuta dallo stesso autore del falso riconoscimento, non è fondata. Invero, secondo un precedente orientamento, ai fini dell'accoglimento dell'azione in esame l'art. 263 c.c. richiedeva la dimostrazione della assoluta impossibilità che il soggetto che aveva inizialmente compiuto il riconoscimento fosse, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio (tra le tante, v. Cass., n. 17095/13).
Tale orientamento è stato di recente rimeditato da questa Corte la quale ha affermato che tale dimostrazione non è, in realtà, dettata dalla legge e che non siano più attuali le ragioni che le avevano dato origine, sostanzialmente fondate sul disvalore di un concepimento al di fuori del matrimonio e, dunque, sulla ritenuta natura confessoria del riconoscimento della susseguente nascita. Alla luce dell'evoluzione dell'interpretazione del diritto positivo, per le mutate concezioni sociali, la Corte di cassazione ha, pertanto, ritenuto che in tema di azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, stante la nuova disciplina introdotta dalle riforme del 2012 e 2013 in materia di filiazione, la prova della "assoluta impossibilità di concepimento" non è diversa rispetto a quella che è necessario fornire per le altre azioni di stato, richiedendo il diritto vigente che sia il favor veritatis ad orientare le valutazioni da compiere in tutti i casi di accertamento o disconoscimento della filiazione (Cass., n. 30122/17; n. 18140/18).
Ora, nel caso concreto, la questione della prova del disconoscimento della paternità, da parte del soggetto autore del riconoscimento, pur secondo i criteri evidenziati dalle recenti pronunce di questa Corte, non è stata oggetto del motivo del ricorso e non è dunque oggetto dell'impugnazione (come peraltro già in appello).
Parimenti destituita di fondamento è, poi, la critica relativa alla mancata applicazione del termine di decadenza per l'azione di cui all'art. 263 c.c. introdotto dal D.Lgs. n. 154 del 2013, art. 104, comma 10, pur mancando la previsione di retroattività della nuova norma.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l'imprescrittibilità dell'azione di disconoscimento di paternità proposta dal figlio, introdotta dall'art. 244 c.c., comma 5, come riformulato dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 18 si applica, in quanto non esclusa dalle disposizioni transitorie di cui all'art. 104, commi 7 e 9 medesimo D.Lgs., anche ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della nuova normativa (Cass., n. 14557/14).
Al riguardo, la Corte d'appello ha correttamente applicato tale principio, rilevando che i termini per proporre l'azione d'impugnazione, previsti dall'art. 263 c.c. e dall'art. 267 c.c., dai commi 2, 3 e 4 decorrevano dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 154 del 2013, mentre l'azione in questione era stata proposta anteriormente.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di Euro 2200,00 di cui 200,00 per esborsi oltre alla maggiorazione del 15% per il rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2019