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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 15/04/2025 Scarica PDF

Le Sezioni Unite della Cassazione sul caso Diciotti: princìpi giuridici e polemiche politiche

Massimo Niro, Magistrato a.r.


Sommario: 1. La pronuncia delle Sezioni Unite e le polemiche politiche “fuori misura”; 2. Analisi delle ragioni di diritto della decisione; 3. Un ennesimo episodio dell’insostenibile contrasto tra Governo e Magistratura.

 

 

1. La pronuncia delle Sezioni Unite e le polemiche politiche “fuori misura”

È stata pubblicata il 6 marzo 2025 l’ordinanza delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione relativa al caso Diciotti, ossia al trattenimento di un consistente numero di migranti (177) a bordo della nave della Guardia Costiera Italiana “U. Diciotti” per la durata di dieci giorni (dal 16 agosto 2018 al 25 agosto 2018), di cui i primi quattro giorni a causa del mancato consenso all’attracco della nave nei porti italiani e i successivi sei giorni, una volta permesso l’attracco della nave nel porto di Catania, a causa del mancato consenso allo sbarco sulla terra ferma. Con tale pronuncia la Cassazione ha ravvisato la sussistenza dei presupposti della responsabilità extra-contrattuale (ex art. 2043 c.c.) del Governo per l’illegittima restrizione della libertà personale dei migranti, avvenuta senza nessun provvedimento giudiziario o amministrativo che la giustificasse.

Pur essendo prevedibile l’impatto politico della decisione della Suprema Corte, data la rilevanza politico-istituzionale della vicenda e il coinvolgimento diretto del Governo dell’epoca (presieduto da Giuseppe Conte, con Matteo Salvini Ministro dell’Interno), pare di poter dire che le reazioni politiche alla decisione giudiziaria hanno superato ogni previsione, nel senso che hanno oltrepassato qualsiasi misura e qualsiasi senso di ragionevolezza.

Infatti, non è stato soltanto il Sen. Salvini (Vice-presidente del Consiglio e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nell’attuale Governo) ad attaccare frontalmente la decisione delle Sezioni Unite Civili, che ha definito “vergognosa”; anche l’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sia pure con linguaggio meno irruente, ha criticato in maniera radicale e piuttosto sommaria la decisione in questione, lamentando che per effetto della stessa “il governo dovrà risarcire con i soldi dei cittadini italiani onesti che pagano le tasse persone che hanno tentato di entrare in Italia illegalmente” [1].

Che le reazioni politiche, da parte del Governo, siano andate oltre la soglia consentita, è confermato anche dal fatto che è dovuta intervenire, a difesa del Collegio giudicante, la Prima Presidente della Corte di Cassazione, la quale ha ricordato in modo ineccepibile che, se è sempre possibile criticare le decisioni di tutti i giudici, “sono invece inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto”.

Peraltro, una pronuncia articolata ed elaborata come quella di cui si tratta può ben essere criticata anche in modo aspro, ma sulla base di argomenti seri e ponderati, non con slogan e dichiarazioni ispirate alla propaganda politica.

  

2. Analisi delle ragioni di diritto della decisione

Una lettura anche non approfondita di questa decisione evidenzia - ad un lettore dotato di cognizioni giuridiche - che si tratta di una decisione fondata ed incentrata su argomenti di diritto, come si confà all’organo giudiziario che nel nostro sistema giuridico è chiamato ad assicurare la “uniforme interpretazione” delle norme giuridiche.

I “fatti di causa” sono riassunti dalla Corte in modo conciso e molto chiaro: i migranti di nazionalità eritrea chiedevano al Tribunale di Roma la condanna del Governo italiano al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti in occasione dell’illegittima restrizione della libertà personale avvenuta a bordo della nave U. Diciotti dal 16 al 25 agosto 2018, dapprima per il mancato consenso all’attracco della nave nei porti italiani e poi, una volta permesso l’attracco nel porto di Catania, per il mancato consenso allo sbarco sulla terra ferma. Il Ministero dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel costituirsi in giudizio, eccepivano in via preliminare il difetto assoluto di giurisdizione, trattandosi di “atto politico” ad essa sottratto, e nel merito contestavano la fondatezza della domanda.

Il Tribunale di Roma con ordinanza del 9 luglio 2019 dichiarava l’assoluta carenza di giurisdizione, ritenendo che i comportamenti censurati avessero natura di atti politici.

Proposto appello dai ricorrenti, la Corte d’Appello di Roma con sentenza n.1803/2024 del 13 marzo 2024, pur ritenendo sussistere la giurisdizione ordinaria per essersi trattato non di un atto politico, ma di un atto amministrativo pienamente sindacabile, respingeva tuttavia nel merito la domanda degli appellanti, in difetto della colpa della Pubblica Amministrazione, non allegata dai ricorrenti e comunque da escludere, e in ogni caso in mancanza di allegazione e prova del danno-conseguenza.

Avverso quest’ultima sentenza proponeva ricorso per cassazione uno degli appellanti, affidandosi ad un unico motivo; la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’Interno depositavano contro-ricorso, proponendo con lo stesso atto ricorso incidentale “eventualmente condizionato” sulla base di due motivi.

Il ricorso veniva trasmesso alle Sezioni Unite in relazione alla censura proposta in punto di giurisdizione con il primo motivo di ricorso incidentale “eventualmente condizionato”.

Si dà notizia, infine, che il Procuratore Generale depositava memoria concludendo per il rigetto del ricorso principale, con conseguente assorbimento della questione di giurisdizione  (cfr. “Fatti di causa”, pagg. 2-3 dell’ordinanza in oggetto).

Dopo questa breve premessa in fatto, le Sezioni Unite espongono con dovizia di argomenti le “ragioni della decisione”, che occupano molte pagine del provvedimento (dalla fine di pag. 3 a pag. 37) e soprattutto analizzano in modo ampio e coerente le varie questioni giuridiche sottese al c.d. caso Diciotti.

La prima questione esaminata è quella sollevata con il primo motivo del ricorso incidentale dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Ministero dell’Interno, ovvero la questione preliminare del difetto assoluto di giurisdizione: infatti - spiegano le Sezioni Unite - con tale questione “quel che si contesta è l’esistenza stessa, in capo cioè a qualsiasi ordine di giudici, del potere di conoscere, a fini di giustizia, della controversia” e appare evidente che “una siffatta questione, riguardando in definitiva la stessa ‘giustiziabilità’ dell’interesse la cui lesione è posta a fondamento della domanda, è indissolubilmente legata alla questione di merito posta dal ricorso principale e, in certo senso, ne fa parte”, dato che “Non si potrebbe invero riconoscere, in ipotesi, la fondatezza della pretesa risarcitoria senza prima riconoscere la suscettibilità di quella pretesa ad ottenere tutela giurisdizionale” (paragrafo 4 delle “Ragioni della decisione”, pag. 9).

Orbene, la Suprema Corte ritiene che la questione preliminare del difetto assoluto di giurisdizione sia infondata, in quanto deve “escludersi che nei comportamenti indicati a fondamento della pretesa risarcitoria possano ravvisarsi i tratti tipologici dell’atto politico per così dire ‘puro’, come tale sottratto al sindacato giurisdizionale” (par. 5, pag. 9).

A sostegno di tale conclusione il Collegio richiama precedenti delle stesse Sezioni Unite e del Consiglio di Stato, secondo i quali l’atto politico deve provenire da un organo preposto all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica e, sotto il profilo oggettivo, deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, e costituisce una nozione che “è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità” (pag.10).

Dunque, è indubbio che l’esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi (come affermato da Sez. Un. n.11588/2019): secondo l’ordinanza che si commenta “La giustiziabilità dell’atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere”, per cui “Se…esiste una norma che disciplina il potere, che ne stabilisce limiti o regole di esercizio, per quella parte l’atto è suscettibile di sindacato” (pag.12).

Questo approccio, del resto, è coerente anche con gli approdi della giurisprudenza costituzionale, posto che “Con la sentenza n.81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto” (ibidem).

Pertanto, tra i vincoli giuridici che circoscrivono l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, c’è in primo piano il rispetto e la salvaguardia dei diritti inviolabili della persona: ne discende che “L’azione del Governo, ancorchè motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati” (pag.13).

Concludendo sul punto, “va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale”: si è in presenza, infatti, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, e le motivazioni politiche alla base della condotta non possono rendere politico un atto che è - e resta - ontologicamente amministrativo (pagg.13-14).

Questa conclusione della Corte, che esclude la natura di atto politico del trattenimento dei migranti protratto per dieci giorni e, quindi, esclude il difetto assoluto di giurisdizione eccepito dai ricorrenti incidentali, pare solidamente argomentata sulla base di precedenti univoci e del tutto condivisibili [2].

Ciò detto, la Suprema Corte passa ad esaminare il merito del ricorso principale e ne rileva la fondatezza, sulla base di argomentazioni parimenti complete e persuasive. In primo luogo, si censura la valutazione negativa compiuta dalla Corte di merito in ordine all’allegazione e alla prova dei profili di colpa dell’Amministrazione, osservando che “il ragionamento della Corte di merito appare privo di efficacia argomentativa idonea a contrastare i fondamenti fattuali e giuridici della pretesa risarcitoria, e per certi versi anche contraddittorio” (pag.17).

Infatti, una volta individuato il quadro normativo internazionale all’interno del quale va collocata la vicenda in esame, si scopre che l’obbligo del soccorso in mare rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali e deve considerarsi “prevalente” su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare; in particolare la c.d. Convenzione SAR (Search And Rescue), ratificata dall’Italia con legge 147/1989, prevede espressamente che lo Stato responsabile del soccorso debba organizzare lo sbarco “nel più breve tempo ragionevolmente possibile”; in capo agli Stati residua un margine di “discrezionalità tecnica” solo ai fini dell’individuazione del punto di sbarco più opportuno ed eventuali ritardi nella designazione dello stesso potrebbero essere giustificati solo alla luce della necessità di individuarne uno adeguato alle esigenze del caso.

Se è così si rivela destituita di fondamento - secondo le Sezioni Unite - la premessa da cui muove la Corte d’Appello di Roma, riguardo l’ “assenza di regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo”: giacché nel caso di specie risulta pacifico che “i migranti sono stati soccorsi e accolti da una unità della Guardia Costiera ed a bordo di essa si trovavano quando ha avuto inizio e si è protratta la condotta di cui si assume il carattere lesivo e civilmente illecito”, per cui deve ritenersi che “indipendentemente dalle contestazioni in merito allo Stato competente secondo la ripartizione in zone SAR, le operazioni di soccorso erano state di fatto assunte sotto la responsabilità di una autorità SAR italiana, la quale era tenuta in base alle norme convenzionali a portarle a termine, organizzando lo sbarco, ‘nel più breve tempo ragionevolmente possibile’” (par.10, pag. 21). Di qui la conclusione della Corte di Cassazione: “Non può dubitarsi allora che la mancata tempestiva indicazione del POS (Place of Safety), unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale” (ibidem).

Nell’iter motivazionale della decisione in esame assumono, peraltro, rilevanza primaria i “profili legati alla violazione della libertà personale dei migranti”, in quanto atti a “segnare più propriamente la prospettiva nella quale occorre valutare la fattispecie in relazione alla dedotta responsabilità civilistica” (par. 11, pag. 22). In questa prospettiva si devono richiamare l’art. 13 Cost., che tutela la libertà personale quale diritto inviolabile della persona, presidiato dalla riserva di giurisdizione e dalla riserva assoluta di legge, l’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948, l’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, l’art. 9 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966, e infine l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che sancisce il diritto “alla libertà e alla sicurezza” di “ogni individuo”. Infatti, “Sulla base di tale quadro normativo, teso a garantire l’inviolabilità della persona, occorre valutare se il trattenimento dei migranti a bordo della nave Diciotti integri, oppure no, un’arbitraria violazione della libertà personale” (pag.23).

Questo è l’interrogativo di fondo, sul piano giuridico, della vicenda che ci occupa e della decisione che si commenta: a questo interrogativo le Sezioni Unite rispondono affermativamente, in base agli argomenti e ai riferimenti che di seguito si espongono, sinteticamente. Al riguardo si attribuisce rilievo particolare all’art. 5 par. 1 lett. f) della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’uomo), che ammette eccezionalmente la privazione della libertà personale nella peculiare ipotesi in cui si tratti dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione. Ma questa ipotesi - secondo la Suprema Corte - non può ricorrere nel caso del trattenimento a bordo della nave costiera Diciotti di migranti non ancora compiutamente identificati, perché quest’ultimo caso non può essere inquadrato nel novero di procedimenti di espulsione o di estradizione, dato che i migranti non ancora identificati sono potenzialmente titolari del diritto di asilo ex art.10, 3° comma, Cost.; e perché detto trattenimento non può trovare copertura sovra-nazionale quale misura (assimilabile all’arresto o alla detenzione regolare) finalizzata a impedire l’ingresso illegale nel territorio. In questo senso si è già espressa chiaramente la Corte EDU con la sentenza Khlaifia and Others v. Italy, relativa ad un caso per alcuni aspetti analogo al caso in esame [3].

Così come nel caso deciso dalla Corte di Strasburgo, anche nel caso che ci occupa “l’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU, atteso che l’art.13 della Costituzione prescrive il cumulativo soddisfacimento di entrambe le riserve, di giurisdizione e di legge, affinchè possa dirsi integrata una legittima restrizione della libertà personale” (pag. 24).

Da ciò discende pure un potenziale contrasto con l’art. 5 par. 4 della CEDU, che sancisce il diritto della persona privata della libertà a presentare ricorso ad un tribunale per contestare la legittimità della misura restrittiva e ottenerne, in caso di illegittimità, l’immediata cessazione: infatti, “L’insussistenza di disposizioni mirate a tipizzare una peculiare ipotesi di trattenimento e la mancanza di un provvedimento individuale, motivato e notificato, escludono…la possibilità di assicurare, nell’immediato, un controllo giurisdizionale sui requisiti giustificativi della misura” (ibidem).

Dunque, risulta che il quadro giuridico della vicenda in esame è “di tale chiarezza e cogenza da rendere insostenibile l’assunto della insussistenza di elementi sufficienti per affermare la colpa delle amministrazioni resistenti” (par.12, pag. 24). In questa stessa direzione vanno altresì le considerazioni compiute dalla Corte costituzionale nella sentenza n.105 del 2001 (non del 2021, come indicato erroneamente, per un refuso, nell’ordinanza in oggetto), relativa all’ipotesi del trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e di assistenza ex art.13 del decreto legislativo 286/1998 [4].

Le Sezioni Unite esaminano pure i riflessi della delibera del Senato della Repubblica relativa al caso della nave Diciotti, con la quale il Senato ha negato l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell’Interno (Sen. Matteo Salvini) richiesta dal Tribunale dei Ministri di Catania per il reato di sequestro di persona pluriaggravato, osservando in modo persuasivo che “il rilievo riflesso che il diniego dell’autorizzazione può spiegare sul piano civilistico non può che declinarsi sul piano della valutazione della ingiustizia del danno (fondamento della responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ.) secondo un criterio di bilanciamento tra gli opposti interessi (quello dell’interesse pubblico sottostante alla condotta e quello individuale che ne risulta leso) ed è dunque comunque destinata ad annullarsi ove la lesione attinga, come nella specie, diritti della persona inviolabili e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso” (pagg. 31-32).

Infine, la Suprema Corte evidenzia che “Il ricorso principale merita accoglimento anche in relazione alla rilevata insussistenza di prova di un danno-conseguenza” (par.14, pag. 32): infatti, è noto che “tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti” e “Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato” (pag. 33). In questi casi ad un puntuale onere di allegazione da parte del danneggiato non corrisponde un onere probatorio parimenti ampio, proprio in quanto soccorre un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in virtù del quale il giudice può far riferimento alle “massime di esperienza” (come affermato da diverse pronunce della Cassazione, tra cui la richiamata sentenza n.25164/2020). Pertanto, anche l’affermazione della Corte di merito circa la mancanza di allegazione e prova del danno risulta infondata e va disattesa.

In conclusione, la motivazione in diritto dell’ordinanza delle Sezioni Unite n.5992/2025 appare davvero completa, esauriente, corredata di puntuali richiami normativi e giurisprudenziali: la responsabilità aquiliana del Governo, ai sensi dell’art. 2043 c.c., per il trattenimento dei migranti a bordo della nave Diciotti protratto per dieci giorni, viene affermata sulla base di argomenti solidi e coerenti sul piano giuridico e su quello logico.

  

3. Un ennesimo episodio dell’insostenibile contrasto tra Governo e Magistratura

Ciò detto, è evidente a chi scrive che il provvedimento giudiziario in questione è correttamente motivato e contiene una convincente interpretazione, priva di qualsiasi forzatura, del quadro normativo vigente interno e internazionale, così da rappresentare una positiva esplicazione della funzione nomofilattica attribuita alla Corte di Cassazione.

Tuttavia, tale provvedimento è stato oggetto delle scomposte reazioni politiche richiamate nel primo paragrafo di questo articolo, che peraltro non hanno toccato minimamente gli argomenti giuridici posti a fondamento della decisione. Ciò può spiegarsi solo se si inquadra nell’ambito dello scontro in atto tra il Governo e la Magistratura, del quale si sono già registrati numerosi episodi. Uno scontro che appare sempre più insostenibile e pericoloso: insostenibile, perché Governo e Magistratura sono poteri dello Stato che dovrebbero convivere e coesistere in modo pacifico, nel rispetto delle reciproche attribuzioni e prerogative costituzionali, senza invasioni di campo o attacchi pretestuosi.

Pericoloso, perché l’equilibrio tra i poteri sapientemente delineato dalla nostra Costituzione repubblicana è uno degli elementi indefettibili di un sistema democratico, da difendere e preservare con assoluta priorità, tanto più in tempi difficili e inquieti come quelli attuali.

Attaccare in modo scomposto una pronuncia delle Sezioni Unite come questa, non per il suo contenuto e le sue argomentazioni giuridiche, ma per il semplice fatto che ha ritenuto illegittima la condotta del Governo nella vicenda della nave Diciotti, non aiuta certo a rasserenare il clima politico-istituzionale e rischia di appannare il principio cardine della separazione dei poteri.



[1] Per un esame critico di tali reazioni politiche cfr. G.C. Caselli e V. Barosio, Attaccchi preventivi alle toghe -La nuova prassi del Governo, La Stampa del 12 marzo 2025.

[2] Cfr., in tal senso, G.C. Caselli e V. Barosio, op. cit., i quali scrivono di “un’ordinanza esemplare per lucidità e completezza “.

[3] La sentenza richiamata è stata pronunciata dalla Corte EDU in data 15 dicembre 2016, a seguito del ricorso di tre cittadini tunisini intercettati in mare dalla Guardia Costiera italiana e portati nell’isola di Lampedusa, dove vennero sistemati nel Centro di Soccorso e Prima Accoglienza; a seguito di una rivolta scoppiata tra i migranti i ricorrenti furono ricondotti dalla Polizia all’aeroporto di Lampedusa e imbarcati per Palermo e, qui, trasferiti a bordo di due navi ormeggiate nel porto della città, dove rimasero per qualche giorno prima di essere rimpatriati con l’aereo in Tunisia. Con tale sentenza la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la violazione, da parte del Governo italiano, dell’art. 5 della CEDU, precisando in motivazione quanto segue: “Ne consegue che i ricorrenti non solo sono stati privati della libertà in assenza di base giuridica chiara ed accessibile, ma che non hanno anche potuto beneficiare delle garanzie fondamentali dell’habeas corpus, enunciate, ad esempio, nell’art.13 della Costituzione italiana. (…) Poiché nessun provvedimento, giudiziario o amministrativo, giustificava il loro trattenimento, i ricorrenti sono stati privati di queste importanti garanzie.” (paragrafo 105 della motivazione).

[4] Nella sentenza n.105 del 22 marzo-10 aprile 2001 la Corte costituzionale osserva che “ Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale”; ancora che “Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani” (par. 4 del “Considerato in diritto”).


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