Crisi d'Impresa e Insolvenza
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 14609 - pubb. 01/07/2010
Azione di responsabilità contro il curatore revocato e sospensione della prescrizione nei confronti del fallito
Cassazione civile, sez. III, 04 Ottobre 1996, n. 8716. Est. Finocchiaro.
Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Organi preposti al fallimento - Curatore - Obblighi - Responsabilità - Revoca del curatore - Azione di responsabilità - Prescrizione decennale - Sospensione della prescrizione nei confronti del fallito - Esclusione
L'azione di responsabilità contro il curatore revocato, che ai sensi dell'art. 38 della legge fallimentare durante il fallimento è proponibile dal nuovo curatore autorizzato dal giudice delegato, è soggetta a prescrizione decennale con decorrenza dalla data della revoca e il termine prescrizionale decorre anche nei confronti del fallito (legittimato in ogni caso a proporla dopo la chiusura del fallimento, purché l'azione non sia prescritta), giacché la prescrizione non rimane sospesa nei suoi confronti durante la procedura fallimentare, in mancanza di una tassativa previsione legislativa, per la inapplicabilità al caso di specie della disposizione contenuta nell'art. 2941 n. 6 cod. civ. (cominciando a decorrere la prescrizione solo dopo la sostituzione del curatore revocato e il rendimento del conto), nonché per la natura relativa della incapacità processuale del fallito, a lui opponibile solo nell'interesse dalla massa dei creditori, con la conseguenza che in assenza di qualsiasi iniziativa degli organi fallimentari egli può agire per responsabilità contro il curatore revocato anche durante il fallimento, a tutela di diritti patrimoniali dei quali quegli organi si siano disinteressati. (massima ufficiale)
Massimario Ragionato
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Marcello TADDEUCCI Presidente
" Enzo MERIGGIOLA Consigliere
" Vittorio DUVA "
" Ugo FAVARA "
" Mario FINOCCHIARO Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
PULICANÒ GIOVANNI, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G. GOZZI N. 125,
presso lo studio dell'Avvocato VITO LENTINI, rappresentato e difeso anche
disgiuntamente dagli Avvocati GIUSEPPE BENVENGA e CONO DOMIANELLO quest'ultimo
con studio in 98122 MESSINA VIA LENZI N. 5, giusta delega in atti;
Ricorrente
contro
BARBARO SERAFINO, difensore di se stesso, elettivamente domiciliato in ROMA VIA
G. CORVISIERI N. 46, presso lo studio dell'Avvocato DOMENICO CAVALIERE,
rappresentato e difeso anche dall'Avvocato PLACIDO LA TORRE, giusta delega in
atti;
Controricorrente
avverso la sentenza n. 238-93 della Corte d'Appello di MESSINA, emessa il
1-7-93 e depositata il 23-7-93 (R.G. 55-93);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20-12-95 dal
Consigliere Relatore Dott. Mario FINOCCHIARO;
udito l'Avvocato Dott. Cono DOMIANELLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo
GAMBARDELLA che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
Con sentenza 15 novembre 1983 del tribunale di Messina PULICANÒ Giovanni era
ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 368 c.p. (calunnia), per avere
incolpato l'avv. BARBARO Serafino, nella sua qualità di curatore di fallimento
di esso PULICANÒ di essersi appropriato di un frigorifero. Con la stessa
sentenza il PULICANÒ era condannato, per tale delitto, alla pena di anni tre di
reclusione nonché al risarcimento dei danni in favore del BARBARO, costituitosi
parte civile, da liquidare in separata sede, ed al rimborso delle spese
giudiziali.
Confermata tale pronuncia in grado di appello e rigettata da questa Corte
Suprema, con sentenza 3 ottobre 1986, il ricorso proposto dal PULICANÒ, con
atto 13 ottobre 1986 BARBARO Serafino conveniva in giudizio, innanzi al
tribunale di Messina, sia PULICANÒ Giovanni, sia l'avv. PACE Rosario, nella
qualità di curatore della società di fatto tra PULICANÒ Giovanni e CAPORE
Giuseppe e dei due soci personalmente, per ottenere il risarcimento dei danni
patiti a causa della condotta delittuosa del PULICANÒ che indicava nella somma,
di lire 100 milioni nonché nell'ulteriore somma di lire 2.187.500 liquidata in
sua favore a titolo di spese del giudizio penale, oltre interessi e
rivalutazione monetaria. Successivamente, con ricorso 13 maggio 1987, il
BARBARO, richiamato il contenuto della precedente citazione e premesso che il
PULICANÒ, con altra sentenza dello stesso tribunale di Messina, era stato
condannato alla pena di quattro anni di reclusione per il reato di calunnia
aggravata ed al risarcimento dei danni in suo favore e che, ancora, la curatela
del fallimento convenuto aveva la disponibilità della somma di lire 280
milioni, destinata ad estinguere le passività del fallimento, ammontanti a
complessive 80 milioni di lire - chiedeva il sequestro conservativo di tale
somma sino alla concorrenza di lire 100 milioni.
Costituitisi in giudizio sia il PULICANÒ che la curatela del fallimento
PULICANÒ - CAPORE si opponevano all'accoglimento della domanda attrice.
Il PULICANÒ, in particolare eccepiva, da un lato, l'inammissibilità della domanda relativa alle somme liquidate in sede penale a
titolo di spese di giudizio, essendo l'attore per le stesse già munito di
titolo esecutivo, dall'altro, l'estinzione, per compensazione, del credito
risarcitorio azionato dall'attore, atteso il maggior credito vantato da esso
PULICANÒ e nei confronti del BARBARO, sia per il frigorifero (di cui alla
sentenza penale di condanna) e per altri beni mobili non restituiti dal BARBARO
al momento in cui lo stesso era cessato dall'incarico di curatore, sia per i
gravissimi danni causatigli dallo stesso BARBARO vuoi per non avere riassunto
due giudizi civili già pendenti alla data della dichiarazione di fallimento,
vuoi per non essersi opposto all'istanza di ammissione nel passivo del
fallimento di certo ing. MONDELLO, che si era insinuato per un credito
inesistente.
La curatela fallimentare, per suo conto, faceva presente che a norma dell'art.
421. fall. gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento erano
inefficaci nei confronti dei creditori ed essa curatela, pertanto, non era
tenuta a rispondere dei danni causati dal PULICANÒ con il suo comportamento
calunnioso. Disposto - dall'istruttore - il richiesto sequestro conservativo
sino alla somma di lire 50.000.000, il tribunale con sentenza 15 gennaio 1993,
dichiarata inammissibile la domanda proposta dall'attore nei confronti della
curatela, rigettata la domanda riconvenzionale spiegata dal PULICANÒ e
convalidato il sequestro conservativo, condannava il PULICANÒ al pagamento, in
favore dell'attore, della somma di lire 32.187.000 (di cui lire 30 milioni a
titolo di danni e lire 2.187.000 a titolo di spese del giudizio penale), con
rivalutazione secondo gli indici ISTAT ed interessi legali dalla data dell'accertamento
giudiziale del danno al soddisfo, nonché al pagamento delle spese processuali.
Gravata tale pronuncia in via principale dal PULICANÒ e in via incidentale dal
BARBARO, la Corte di appello di Messina, con sentenza 23 luglio 1993 da un lato
elevava a lire 80.000.000 il risarcimento del danno dovuto dal PULICANÒ, oltre
gli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza al soddisfo,
dall'altro dichiarava inammissibile la domanda del BARBARO di condanna del
PULICANÒ al pagamento delle spese liquidate nei giudizi penali, confermando nel
Pesto la sentenza dei primi giudici e ponendo le spese del giudizio a carico
del PULICANÒ.
Osservava la Corte che con sentenza penale, passata in cosa giudicata, il
PULICANÒ, ritenuto responsabile di calunnia ai danni del BARBARO, era stato
condannato, oltre che alle pene di legge, al risarcimento dei danni in favore
del BARBARO da liquidare in separata sede e in questa, pertanto, l'obbligato
non poteva invocare fatti estintivi, modificativi o impeditivi del credito
riconosciuto a favore del BARBARO verificatisi anteriormente alia pronuncia
sull'an debeatur.
Affermava, ancora, la Corte, da un lato, che, vertendosi in tema di
responsabilità da atto illecito, la liquidazione del danno doveva essere fatta
al momento dell'evento dannoso che nella specie coincideva con la data
dell'esposto calunnioso del 24 aprile 1972 (atteso che la calunnia è un reato
istantaneo, che si consuma al momento in cui la notitia criminis viene per la
prima volta portata a conoscenza dell'autorità giudiziaria), dall'altro, di
dover far uso, nel procedere alla valutazione equitativa del danno non
patrimoniale in questione, del potere discrezionale di liquidare il relativo
ammontare in una cifra comprensiva della svalutazione monetaria e degli
interessi legali con riferimento all'attualità, sufficiente a ripristinare
globalmente la situazione patrimoniale del danneggiato, cifra che liquidava in
lire 80 milioni (oltre interessi legali a decorrere dalla data di pubblicazione
della sentenza sino al soddisfo).
Quanto alla pretese risarcitorie nei confronti del BARBARO vantate dal PULICANÒ
e da questo ultimo opposte in compensazione al credito di controparte la Corte
rilevava - in limine - che le stesse erano prescritte.
Il PULICANÒ, infatti, aveva invocato le stesse solo nel presente giudizio
(instaurato con citazione dell'ottobre 1986, mentre, trattandosi di
"danni" patiti dal PULICANÒ a causa della condotta del BARBARO, quale
curatore del fallimento PULICANÒ - CAPORE, il danneggiato poteva far valere i
propri diritti sin dal momento in cui il BARBARO era cessato dall'ufficio di
curatore, cioè nell'anno 1970.
Anche a prescindere da quanto sopra - ha, ancora, osservato la Corte del merito
- le pretese azionate erano, comunque, nel merito totalmente infondate (quanto
al frigorifero, l'appropriazione da parte del BARBARO era stata esclusa da
sentenza, penale, passata in cosa giudicata, quanto agli altri beni, era emerso
che gli stessi erano rimasti invenduti per mancanza di offerte; quanto ai due giudizi,
civili, non riassunti, sia la corte di appello aveva ritenuto corretta la
condotta del curatore BARBARO, sia il nuovo giudice delegato (succeduto a
quello precedentemente nominato, oggetto di ripetute denunce da parte del
PULICANÒ) con decreto 13 agosto 1971 aveva rilevato che opportunamente non si
era proceduto alla riassunzione di quei giudizi; quanto alla mancata
opposizione avverso il credito MORDELLO, la Corte di Appello aveva rilevato che
sullo stesso il tribunale si era pronunciato in sede contenziosa, cor, una
motivata sentenza, la cui impugnazione appariva sconsigliabile).
Per la cassazione della riassunta sentenza ha proposto ricorso PULICANÒ
Giovanni, affidata a 6 motivi.
Resiste, con controricorso BARBARO Serafino.
DIRITTO
1. Parte ricorrente, esposta l'intitolazione di 6 motivi di ricorso
("violazione dell'art. 2909 c.c., in relazione ai nn. 3 e 5 c.p.c.";
"violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli
2043, 1223, 1226, 2056 e 1227 c.c., in relazione ai nn. 3 e 5 dell'art. 360
c.p.c."; "violazione, falsa applicazione degli articoli 35 c.p.c.,
2935 c.c. e 38 legge fallimentare, in relazione ai nn. 3 e 5 dell'art. 360
c.p.c."; "violazione e falsa applicazione dell'art. 671 e ss. c.p.c.
in relazione ai nn. 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c."; "violazione e falsa
applicazione dell'art. 91 c.p.c., in relazione ai nn. 3 e 5 dell'art. 360
c.p.c."; "violazione e falsa applicazione dell'art. 91 e 112 c.p.c.,
in relazione ai nn. 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c.") afferma che le proposte
"censure si fondano sulle seguenti considerazioni di diritto",
quindi, premesso che "tutti i motivi sono fondati", compie una lunga
e complessa esposizione delle ragioni del proprio dissenso, rispetto alla decisione
dei giudice del merito (peraltro non sempre in termini perfettamente
intellegibili) che solo con estrema difficoltà può essere collegata alla
intitolazione riportata.
2. Quanto in particolare alla lamentata violazione dell'art. 2909 c.c., da una
parte il ricorrente si duole che la sentenza impugnata non abbia tenuto
presente che con sentenza 25 marzo 1988 la sezione penale della Corte di
Appello di Messina, passata in cosa giudicata, ha annullato la sentenza 31
marzo 1987 del tribunale di Messina che - a sua volta - aveva condannato esso
Pulicanò per calunnia in relazione ad altro! esposto presentato contro il
BARBARO il 15 novembre 1983, dall'altro denuncia che i giudici del merito
avrebbero violato la regola posta dall'art. 1227 c.c. e l'interpretazione
datane da questa Corte regolatrice, secondo cui "va respinta la pretesa
risarcitoria del creditore che lamenti il pregiudizio subito per
l'inadempimento del debitore, qualora si accerti che i danni si sarebbero
potuti evitare se egli avesse usato l'ordinaria diligenza" e nel caso di
specie "alla stregua di tale insegnamento nulla deve essere liquidato, a
titolo di risarcimento del danno al resistente, perché, se avesse consegnato il
frigorifero, come era suo preciso obbligo, o ne avesse pagato il valore, la
frase che si legge nell'esposto del 24 aprile 1972 e per il quale è stata
emessa sentenza di condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in
separata sede! la denuncia non sarebbe stata scritta, il resistente non avrebbe
avuto motivo di dolersene e la giustizia non sarebbe stata tediata inutilmente
da un contenzioso che certamente non giova ad alcuno".
3. L'assunto è infondato. In ogni sua parte.
3.1. Quanto al primo profilo della censura è pacifico - tra le parti - che il
PULICANÒ con molteplici esposti si è lamentato della condotta del BARBARO quale
curatore del suo fallimento, in particolare quanto alla "sorte" di un
suo frigorifero (iscritto, in inventario, per il valore di stima di lire
90.000, si afferma in ricorso).
È pacifico - altresì - che in ordine al contenuto di uno di questi esposti e,
in particolare, in ordine a quello in 24 aprile 1972 il tribunale di Messina,
prima e la corte di quella città, poi, hanno ritenuto la penale responsabilità
del PULICANÒ ai sensi dell'art. 368 codice penale, condannando, di conseguenza
il PULICANÒ oltre che alla pena detentiva, ritenuta di giustizia, al
risarcimento dei danni in favore della parte civile BARBARO, da liquidare in
separata sede.
Appunto a seguito di tale pronuncia, passata in cosa giudicata, il BARBARO ha
promosso il presente giudizio, volto alla liquidazione dei danni.
Pacifico quanto precede deve escludersi che i giudici del merito siano incorsi
in alcuna violazione dell'art. 2909 c.c. per non avere "valorizzato"
la sentenza 25 marzo 1988.
È palese, infatti, che non ha alcuna rilevanza, al fine del decidere, e della
quantificazione dei danni patiti dal BARBARO a causa della condotta illecita
del PULICANÒ, il diverso giudicato - costituito dalla sentenza 25 marzo 1988
della Corte di Appello di Messina - e con il quale è stata esclusa la penale
responsabilità del PULICANÒ in ordine a fatti esposto del 15 novembre 1983!
totalmente diversi, rispetto a quelli esposto del 24 novembre 1972!
per i quali la responsabilità penale dell'attuale ricorrente è stata accertata
con sentenza passata in cosa giudicata. 3.2. Deve escludersi,
contemporaneamente, che sia ravvisabile, nella specie, violazione degli
articoli 2909 e 1227 c.c. per non avere il giudice del merito tenuto presente
che ove il BARBARO si fosse comportato in modo conforme a diritto ... non vi
sarebbe stato motivo, per il PULICANÒ, di rendersi colpevole del delitto di
calunnia, ai danni del BARBARO.
Con tale deduzione, infatti, parte ricorrente, lungi dall'invocare come le è
consentito, pur in presenza di una condanna generica al risarcimento dei danni,
contenuta nella sentenza penale!
l'inesistenza stessa di un danno, per la parte lesa, unito da rapporto
eziologico con il fatto illecito accertato in sede penale (cfr., ad esempio,
Cass. 8 novembre 1994 n. 9261) sollecita - contra legem (in particolare in
violazione del principio fondamentale di cui all'art. 2909 c.c., secondo cui
"l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad
ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa") - che il giudice
investito della liquidazione dei danni conseguenti ad una condotta accertata
essere illecita, affermi la liceità, in ultima analisi, di tale condotta,
perché giusta reazione, da parte del condannato in sede penale ad un illecito
comportamento di quella che oramai in modo irrevocabile è stato accertato
essere la parte lesa.
Parimenti inconferente - al fine del decidere - è il richiamo al secondo comma
dell'art. 1227 c.c secondo cui "il risarcimento non è dovuto per i danni
che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza"
atteso che la disposizione fa riferimento, chiaramente, all'ordinaria diligenza
cui è tenuto il danneggiato successivamente al fatto illecito posto in essere
dal danneggiante. In altri termini il PULICANÒ poteva opporre che, commessa da
parte sua la calunnia ai danni del BARBARO, tale fatto delittuoso aveva avuto
particolare risonanza, nell'ambito locale, così aggravando il pregiudizio del
BARBARO per fatto e colpa di questo
ultimo.
Poiché, all'opposto, il ricorrente non denuncia un comportamento non conforme
all'ordinaria diligenza della parte lesa successiva alla commissione
dell'illecito, da parte sua cioè una condotta successiva alla calunnia!, ma -
singolarmente - una condotta contra legem posta in essere dal calunniato
anteriormente ai fatti per cui si è proceduto in sede penale ai danni del
PULICANÒ condotta che avrebbe reso legittimo quel comportamento che, quindi,
non potrebbe essere valutato come illecito! è evidente che per tal via, lungi
dall'invocare la tutela di cui al citato art. 1227 c.c., il ricorrente
sollecita - come già accennato - la disapplicazione dell'art. 2909 c.c. ed una
nuova valutazione dei fatti che hanno condotto ad una sentenza, passata in cosa
giudicata ai danni del ricorrente stesso.
4. Quanto ai crediti invocati dal PULICANÒ nei confronti del BARBARO per
violazione, da parte di questo ultimo, dei suoi doveri di curatore del
fallimento PULICANÒ, ed opposti in compensazione (al credito per risarcimento
dei danni conseguenti alla calunnia posta in essere dal PULICANÒ) i giudici di
merito hanno rigettato la relativa pretesa sulla base di due - concorrenti -
ordini di ragioni. Da un lato hanno evidenziato che i crediti stessi erano
prescritti, essendo stati azionati ben oltre il decennio, dall'altro, che gli stessi
- comunque - erano inesistenti.
5. Nel censurare la prima di tali proposizioni il ricorrente oppone:
a) da un lato, che il termine prescrizionale in questione non decorre nei
confronti del soggetto che, a causa della sua incapacità, non può far valere il
relativo diritto (per cui - secondo quanto è dato comprendere dal contesto del
ricorso - la prescrizione del diritto del PULICANÒ, ad agire nei confronti del
curatore del proprio fallimento, ex art. 38 legge fallimentare, non
decorrerebbe che dalla data in cui il PULICANÒ sarebbe ritornato in bonis);
b) dall'altro che "il ricorrente ha invocato alto e forte la tutela dei
suoi diritti, affrontando numerosi processi che, tranne quello per il quale si
sta procedendo alla quantificazione del danno, si sono conclusi con
assoluzione" (e, quindi che la prescrizione sarebbe stata interrotta da
tali "invocazioni").
6. La censura è infondata, in ogni sua parte.
6.1. Quanto ai rilievo sub a) l'assunto del ricorrente è insostenibile almeno
sotto quattro, concorrenti, profili. In primis non può tacersi che le cause di
sospensione della prescrizione (come quelle di interruzione) sono solo quelle
tassativamente previste dalla norma positiva e questa non prevede affatto la
sospensione della prescrizione dei diritti di natura patrimoniale spettanti a
soggetto fallito, per tutto il tempo in cui è in corso la procedura.
Erroneamente, inoltre, è invocata la tutela di cui all'art. 2941, n. 6 c.c.
(secondo cui la prescrizione non corre "tra le persone i cui beni sono
sottoposti per legge o per provvedimento del giudice alla amministrazione
altrui e quella da cui l'amministrazione è esercitata"), atteso che tale
causa di sospensione, della prescrizione opera solo "finche non sia stato
reso ad approvato definitivamente il conto" e nella specie i giudici del
merito - come osservato sopra - hanno fatto decorrere la prescrizione dei
crediti in questione solo dall'epoca in cui il BARBARO è stato sostituito nelle
funzioni di curatore del fallimento PULICANÒ da altro professionista (cui ha
reso il conto delle funzioni svolte). In terzo luogo, l'assunto da cui muove la
difesa del ricorrente prescinde totalmente dal considerare che la perdita della
capacità processuale del fallito, a seguito della dichiarazione di fallimento,
non è assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale soltanto - e
per essa al curatore - è concesso eccepirla, con la conseguenza che, se il
curatore rimane inerte ed il fallito agisce per proprio conto, la controparte
non è legittimata a proporre l'eccezione, ne' il giudice può rilevare d'ufficio
il difetto di capacità (Cass. 12 novembre 1993 n. 11191).
In virtù del principio sancito dall'art. 43 l. fall. - in particolare - il
fallito, pur conservando la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel
fallimento, non può personalmente assumere la veste di parte processuale
davanti al giudice, essendo demandata la legittimazione in ordine ai rapporti
stessi, esclusivamente al curatore, mentre al rigore di detto principio è
ammessa deroga quando il fallito agisce per la tutela di diritti strettamente
personali, o anche patrimoniali, ma rispetto ai quali esista assoluto
disinteresse degli organi fallimentari, la cui funzione tende alla difesa dei
"beni" costituenti de iure la massa patrimoniale attiva del
fallimento (Cass. 7 dicembre 1990 n. 11727).
In altri termini il fallito conserva la capacità processuale, oltre che nei
rapporti non acquisiti alla massa, ai sensi dell'art. 46 l. fall., anche
rispetto a quelli di diritto patrimoniale che, pur essendo suscettibili di
essere compresi nel fallimento, di fatto non vi rientrano a causa del
disinteresse degli organi fallimentari, dimostrato con l'omettere di agire o di
resistere in giudizio (Cass. 3 luglio 1992 n. 8157, nonché Cass. 23 luglio 1994
n. 6873, ove il rilievo che la dichiarazione di fallimento non priva in modo
assoluto il fallito della capacità processuale, ma lo pone in uno stato di
incapacità relativa che gli consente di agire sul piano sostanziale e
processuale senza autorizzazione o sostituzione del curatore, per far valere
diritti strettamente personali ovvero anche diritti patrimoniali dei quali si
disinteressino gli organi del fallimento). È palese, alla luce dei pacifici
principi di diritto sopra riportati e tenuto presente, altresì, che nessuna
iniziativa processuale era stata adottata dal nuovo curatore contro il
precedente per la tutela dei diritti in discussione, che lo stato di fallito
del PULICANÒ non era ostativo alla proposizione, da parte sua, di una azione
giudiziaria, nei confronti del BARBARO. In quarto ed ultimo luogo, infine, la
tesi del ricorrente contrasta con quella che è la formulazione letterale
dell'art. 38 l. fall..
Questa ultima disposizione espressamente prevede che l'azione di responsabilità
contro il curatore revocato "è proposta dal nuovo curatore previa
autorizzazione del giudice delegato": correttamente, pertanto, i giudici
del merito hanno affermato e che tale azione è soggetta a prescrizione
decennale decorrente dalla data in cui il curatore è stato revocato e che qualora
intervenga la chiusura del fallimento la stessa può essere promossa dal
soggetto già fallito, purché, peraltro, non prescritta.
6.2. A norma dell'art. 2943 c.c. Ia prescrizione "è interrotta dalla
notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio" (comma 1), o
"dalla domanda proposta nel corso di un giudizio" (comma 3) o,
infine, "da ogni altro atto che valga a costituire in mora il
debitore".
Pacifico quanto precede e pacifici quelli che sono i limiti istituzionali del
giudizio di legittimità, è evidente che il ricorrente non poteva limitarsi ad
affermare - genericamente - di avere "invocato alto e forte la tutela dei
suoi diritti, affrontando numerosi processi ...", ma, avendo escluso i
giudici di merito l'esistenza di atti interruttivi della prescrizione,
incombeva al PULICANÒ indicare, puntualmente, quale "atto
interruttivo" da lui prospettato in sede di merito (cfr. Cass. 26 agosto
1993 n. 9014; Cass. 31 maggio 1982 n. 3335; Cass. 21 novembre 1981 n. 6197) era stato
ignorato (o non considerato idoneo) da parte della sentenza gravata.
7. Accertata, come si è sopra accertata, la fondatezza di una delle autonome
rationes decidendi invocate dai giudici di merito nel rigettare le pretese
risarcitorie del PULICANÒ nei confronti del BARBARO in particolare quella
secondo cui le pretese stesse erano prescritte! rimangono assorbite tutte le
altre doglianze mosse dal ricorrente contro le restanti argomentazioni svolte
dai giudici di merito, al fine di dimostrare l'inesistenza di qualsiasi credito
del ri corrente nei confronti del BARBARO!.
Anche nell'eventualità, infatti, le ricordate censure dovessero risultare
fondate non per questo potrebbe mai accogliersi il ricorso (essendo sufficiente
a sorreggere la sentenza gravata la ratio decidendi sopra esaminata risultata
esente da vizi di sorta). 8. Da ultimo il ricorrente assume che "erronea è
la compensazione delle spese del giudizio vertito tra il resistente e l'avv.
Rosario Pace n.q. nella qualità di curatore del fallimento del PULICANÒ! e
l'omessa pronuncia di attribuzione e l'omessa attribuzione di tali spese al
ricorrente, che aveva formulate le accolte medesime domande della curatela alla
quale è subentrato".
9. Al pari delle precedenti la censura è totalmente infondata. Come
assolutamente pacifico in dottrina come presso la più che consolidata
giurisprudenza di questa Corte regolatrice, le valutazioni del giudice del
merito sull'attribuzione dell'onere delle spese si sottraggono, per la loro
ampia discrezionalità, al sindacato della S.C., a cui compete esclusivamente di
verificare in concreto il rispetto del principio del divieto di condanna alle
spese per la parte totalmente vittoriosa (Tra le tantissime, Cass. 11 giugno
1992 n. 7220; nonché Cass., sez. un., 15 novembre 1994 n. 9597).
Rientra, pertanto, nei poteri discrezionali del giudice del merito, la
valutazione dell'opportunità della compensazione, totale o parziale, sia
nell'ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di sussistenza di altri
giusti motivi (Cass. 9 luglio 1993 n. 7535). L'incensurabilità, in sede di
legittimità, della pronuncia del giudice del merito circa la compensazione
delle spese processuali peraltro - trova un limite nel caso in cui, a
giustificazione della di sposta compensazione, siano addotti motivi illogici o
erronei (Cass. 4 agosto 1994 n. 7235; Cass. 4 gennaio 1995 n. 79; Cass. 14
marzo 1995 n. 2949, nonché Cass. 7 luglio 1992 n. 8242). Atteso che nella
specie il ricorrente pur dolendosi che la sentenza gravata abbia confermato la
statuizione di primo grado, che aveva disposto la compensazione delle spese del
giudizio tra la curatela ed il BARBARO lungi dall'affermare e dimostrare! che a
sostegno di tale provvedimento sono state invocati argomenti illogici o
erronei, si limita sollecitare una nuova "valutazione", da parte di
questa Corte, di quei "giusti motivi" indicati nella sentenza di
primo e in quella di secondo grado, nuova valutazione che esula da quelle che
sono le attribuzioni del giudice di legittimità, anche il descritto motivo deve
rigettarsi.
10. Risultato totalmente infondato il proposto ricorso deve ri gettarsi, con
condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate come
in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte,
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alle spese del grado in favore di
BARBARO Serafino, liquidate in Lit. 3.137.600, di cui Lit. 3.000.000 per
onorari.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della III sezione civile della
Corte di cassazione il giorno 20 dicembre 1995. DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 4
OTTOBRE 1996