Tributario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 27/05/2006 Scarica PDF
Gli interessi anatocistici, se richiesti fin dalla domanda di primo grado, maturano anche nel corso del processo tributario
Bruno Inzitari, Professore1. La
applicazione dei principi delle Sezioni Unite 3118/2006 sulla legittimazione
della agenzia delle entrate e la notifica del ricorso da parte del contribuente
La sentenza fa seguito alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 3118 del 2006 che
ha finalmente risolto, con una interpretazione certamente più attenta alle
esigenze di certezza del contribuente nei non sempre facili rapporti con
l'amministrazione finanziaria, la questione della legittimazione delle AGENZIE
FISCALI in relazione ai giudizi di nuova instaurazione e a quelli già pendenti,
ma in relazione ai quali siano state, in qualche modo, coinvolte le Agenzie.
A tal fine, le Sezioni Unite hanno precisato, per i casi in cui il giudizio di
appello sia stato instaurato successivamente al 1° gennaio 2001 e vi abbia
preso parte la sola Agenzia delle Entrate, con accettazione del contraddittorio
da parte del contribuente e la conseguente, anche implicita, estromissione del
MINISTERO (dante causa), la notifica può essere eseguita nei confronti
dell'AGENZIA CENTRALE della medesima Agenzia che abbia partecipato al giudizio
di merito. In tal modo, gli errori (e le conseguenti inammissibilità dei
relativi ricorsi) purtroppo assai spesso commessi dai contribuenti purtroppo
non adeguatamente assistiti, saranno accuratamente evitati.
Tale nuovo assetto dei giudizi tributari già pendenti, fa seguito ad una prima
importante pronuncia, delle stesse Sezioni Unite, la Sentenza n. 6774
del 2003, che ha qualificato il fenomeno successorio realizzatosi con
l'istituzione delle Agenzie delle Entrate, una successione a titolo
particolare.
Le Agenzie fiscali (Agenzia delle Entrate, delle Dogane, del Territorio o del
Demanio) istituite con D. Lgs. 30 luglio 1999 n. 300 sono divenute operative
dal 1° gennaio 2001, secondo quanto previsto dall'art. 1 D.M. 28 dicembre 2000.
A tali Agenzie sono state affidate le funzioni già esercitate dal Ministero
delle Finanze attraverso i propri dipartimenti e uffici periferici.
Al Ministero delle Finanze, ovvero al Ministero dell'Economia e delle Finanze
nel quale il primo è confluito, sono rimaste le funzioni di carattere statale
elencate nell'art. 56 D. Lgs. n. 300/1999.
Il fenomeno del trasferimento delle funzioni si è accompagnato però al
riconoscimento in capo alle Agenzie della personalità giuridica di diritto
pubblico (art. 61), del patrocinio facoltativo dell'Avvocatura dello Stato e
del potere di rappresentanza dell'ente in capo ai rispettivi direttori.
Di qui i dubbi riguardo alla legittimazione processuale e riguardo alla
capacità di ricevere la notifica di sentenza o di impugnazione per le ipotesi
in cui il passaggio di funzioni si sia realizzato durante la pendenza di un
giudizio.
Con la qualificazione del fenomeno quale successione a titolo particolare, la
sentenza n. 6774 del 2003 ha reso quindi possibile l'applicazione dell'art. 111
c.p.c.
Tale principio costituisce il presupposto logico-giuridico dell'estromissione
della parte dante causa (il Ministero delle Finanze) rispetto al possibile
subingresso dell'Agenzia.
Residuava tuttavia il dubbio riguardo alla capacità di ricevere la notifica
della sentenza, che rispetto alle Agenzie Fiscali può affermarsi anche in capo
ai direttori degli uffici, laddove invece per il Ministero delle Finanze era
obbligatoria la notifica presso l'Avvocatura. La sentenza, in armonia con
l'arresto delle Sezioni Unite, già citato, ha risolto anche questo problema.
Nessuna conseguenza, tuttavia, tale pronuncia ha determinato in riferimento al
tradizionale indirizzo interpretativo riguardante il regime del ricorso per
Cassazione svolto per i procedimenti in cui non sia entrata o non entri in
gioco, in nessuno dei modi indicati nella massima della sentenza n. 4936,
l'Agenzia fiscale.
Resta a tale proposito fermo quanto ha già stabilito la giurisprudenza della
sezione tributaria (si veda, per tutte la Sentenza n. 7150 del 2002) secondo
cui, il ricorso per cassazione del contribuente avverso la decisione emessa in
grado d'appello dalla Commissione tributaria regionale è inammissibile se
proposto e notificato all'ufficio finanziario periferico che ha proceduto
all'accertamento dovendo, invece, essere proposto a pena di inammissibilità nei
confronti del Ministero delle Finanze ed allo stesso notificato presso
l'Avvocatura generale dello stato. Né possono riconnettersi effetti sananti
alla costituzione in giudizio dell'Amministrazione delle finanze perché, nel
caso, il vizio dell'impugnazione deriva dall'errata individuazione della parte
(Ufficio anziché Ministero), priva di soggettività esterna per quanto attiene
al giudizio di cassazione, e non riguarda la sola notificazione.
2. Ammissibilità della domanda degli interessi anatocistici nel processo
tributario nei limiti e secondo le regole sostanziali e processuali di diritto
comune
La sentenza in commento affronta poi il tema degli interessi anatocistici e
della loro esigibilità in relazione all'ammissibilità dell'anatocismo anche in
materia tributaria, con riguardo ai rimborsi di imposta, richiesti dal
contribuente nel procedimento contenzioso di impugnazione dell'atto di diniego
o del silenzio rifiuto dell'amministrazione rispetto alla domanda di rimborso
del contribuente stesso.
Si tratta, in particolare, della fattispecie in cui, secondo quanto stabilito
dall'art. 1283 c.c., è consentito considerare quale capitale gli interessi già
scaduti alla data della domanda giudiziale e domandare che su di essi vengano
ad essere prodotti ulteriori interessi nel corso del processo.
Come è noto il codice civile stabilisce, con norma imperativa, il divieto del
patto anatocistico, vale a dire, il divieto del patto con cui preventivamente
le parti si obbligano a corrispondere gli interessi sugli interessi che ancora
si devono produrre. Lo stesso articolo fa salve due ipotesi, che sono in realtà
ben diverse dal (vietato) patto anatocistico preventivo, quella della
convenzione successiva alla scadenza e quella della produzione degli interessi
anatocistici dalla data della domanda giudiziale. Infatti l'art. 1283 c.c.
riconosce la produzione degli interessi sugli interessi solamente dal giorno
della domanda giudiziale oppure perché pattuiti da una convenzione successiva
alla loro scadenza, e sempre che siano dovuti da almeno sei mesi.
Il creditore pecuniario, indipendentemente da un patto, ma piuttosto con
l'introduzione a tal fine di una domanda giudiziale, può quindi chiedere la
condanna del debitore a pagare gli interessi anatocistici che matureranno
appunto dalla data della domanda giudiziale sugli interessi che sono già
scaduti alla data della domanda, in guisa che su tali interessi prodotti
vengano a decorrere ulteriori interessi.
Tale principio, riconosce la Cassazione con la sentenza in epigrafe, trova
applicazione anche in materia tributaria e specificamente in materia di
rimborsi di imposta, ove il contribuente può conseguire la condanna
dell'amministrazione finanziaria al pagamento degli interessi anatocistici.
La Cassazione aveva già riconosciuto questo principio1, affermando che la
presenza della pubblica amministrazione in qualità di creditore o debitore, non
altera la struttura del rapporto obbligatorio, in quanto le correlative
posizioni di debito e di credito, anche se si tratta di una fattispecie
regolata dal diritto pubblico, sono comunque assoggettate alla disciplina di
diritto comune contenuta nel codice civile, al pari di quelle che intercorrono
tra soggetti privati.
La sentenza in commento pertanto ribadisce che l'applicazione dell'art. 1283
c.c. non trova un ostacolo nella disciplina del contenzioso tributario di cui
all'art. 38-bis del D.P.R. n. 633/72, in quanto anche le norme che regolano il
rimborso delle imposte versate in eccesso nulla prevedono al riguardo. Pertanto
si deve dedurre che in materia tributaria non sussiste alcuna norma speciale di
deroga o di esclusione della produzione anatocistica degli interessi sugli
interessi già prodotti (almeno da sei mesi) alla data della domanda giudiziale
e per tutta la durata del giudizio promosso per ottenere la restituzione delle
somme pagate in eccesso.
Non è di ostacolo la disciplina dell'obbligazione tributaria, la quale non si
discosta, sotto questo profilo, dalla disciplina di diritto comune, ma non è
neanche di ostacolo la disciplina del processo tributario, che non contiene
limitazioni specifiche al riguardo.
In realtà, probabilmente anche a causa di una scarsa applicazione di questa
fattispecie nella pratica, ritorna in questo caso la questione, che molto
spesso si è accompagnata alla valutazione della ammissibilità della domanda
anatocistica nel giudizio, della esatta collocazione del momento in cui tale
domanda deve essere formulata, come pure del tenore della sua formulazione.
La giurisprudenza infatti ha sempre affermato che la domanda volta al
riconoscimento e alla liquidazione degli interessi anatocistici, deve essere
espressamente formulata con la domanda giudiziale, non può ritenersi
implicitamente svolta con la domanda relativa agli interessi né può essere
introdotta per la prima volta in appello. Di qui il conseguente rigetto della
domanda formulata dopo la instaurazione del giudizio di primo grado e per la
prima volta in appello.
Tale principio viene ripreso ed ulteriormente sviluppato dalla sentenza in
commento con riguardo al processo tributario. Questo giudizio (come nel caso
che ha dato luogo alla controversia tributaria), è caratterizzato da un
meccanismo di tipo impugnatorio di un atto o di un silenzio rifiuto con cui la
amministrazione tributaria ha negato il rimborso di somme incassate dallo Stato
e per i più diversi motivi non dovute. Il giudizio tributario è pertanto
rivolto a verificare la legittimità o meno dell'atto impugnato e quindi a valutare
la fondatezza delle contestazioni mosse dal contribuente nel ricorso
introduttivo in primo grado.
È in quella sede pertanto che il rapporto processuale si instaura sulla base
delle domande formulate dalle parti. Nel caso preso in esame dalla Suprema
Corte, la richiesta di rimborso era volta al rimborso della somma (...)
corrispondente alla differenza tra l'importo delle trattenute subite e quello
delle imposte dovute su tale somma, ai sensi dell'art. 44 d. P.R. n. 602 del
1973.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, confermata dalla sentenza in
commento, la mancata formulazione pertanto della domanda relativa agli
interessi anatocistici nell'atto introduttivo, rende inammissibile le
successive richieste comunque avanzate in tal senso.
Né può pervenirsi all'ammissione di tale domanda anatocistica successivamente
proposta argomentando dalla previsione dell'art. 345 c.p.c., che prevede una
deroga al divieto di domande nuove in appello, in relazione alla possibilità di
formulare appunto in appello domande volte al riconoscimento di interessi,
frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata.
Tale possibilità è infatti limitata a quelle pretese che si riferiscano a
domande che la sentenza di primo grado non abbia potuto decidere, in quanto
relative a diritti (risarcitori o accessori, quali interessi o frutti),
maturati successivamente alla sentenza di primo grado, che nello stesso tempo
siano però strettamente connesse e dipendenti dalla domanda fatta valere in
tale giudizio.
La sentenza in esame fa necessariamente riferimento a tale proposito ai
principi interpretativi stabiliti dalle Sezione Unite2, che, anche di fronte a
qualche diversità di orientamento emerso negli orientamenti della Cassazione,
ha riconosciuto ammissibili tali richieste, solo se costituiscano la
continuazione di analoghe domande già dispiegate in primo grado.
È necessario dunque che il contribuente creditore abbia già indicato, afferma
la sentenza in commento, tutti gli elementi necessari per la liquidazione degli
interessi anatocistici, sin dall'atto introduttivo del giudizio tributario
avente oggetto il rimborso di imposta.
Non è questa una esigenza solamente processuale, ma anche sostanziale perché il
Fisco (aggiungiamo noi, al pari di qualsiasi debitore), deve poter essere messo
nella condizione di valutare le conseguenze patrimoniali della sua opposizione
al riconoscimento ed alla esecuzione del rimborso.
Questa esigenza che appare enunciata nella sentenza con riguardo
all'obbligazione tributaria ed in particolare al Fisco, è suscettibile di una
applicazione a qualsiasi rapporto obbligatorio, in quanto è espressione di una
esigenza generale proprio di qualsiasi rapporto obbligatorio di diritto comune.
Emerge, dunque, dalla sentenza in commento ed in modo esemplarmente chiaro, un
profilo che nelle (a dire il vero) non molte pronunce che il più delle volte
hanno sfiorato il tema dell'anatocismo non era stato adeguatamente messo in
luce. Il diritto a far valere un credito pecuniario è riconosciuto entro
specifici limiti solo allorquando il creditore proponga con domanda giudiziale
una espressa richiesta di riconoscimento, e quindi di liquidazione a suo
favore, non solo degli interessi che potranno prodursi sul capitale chiesto nel
corso del giudizio, ma anche degli interessi che possono prodursi sugli
interessi già maturati, appunto secondo quanto previsto dall'art. 1283 c.c.,
dalla data della domanda giudiziale.
In altre parole il debitore deve poter essere messo a conoscenza e valutare
specificamente il fatto che il creditore ha formulato una domanda volta a
considerare gli interessi che si sono già prodotti prima della e sino alla data
della domanda introduttiva del giudizio di primo grado quale capitale
produttivo di interessi. Questo proprio al fine di consentire al debitore
pecuniario di poter valutare il rischio, come pure l'onere, che potrà derivare
dalla sua opposizione, di dover pagare, oltre agli interessi che secondo la
consueta regola dell'art. 1282 c.c. si producono sul capitale dovuto, anche gli
interessi che, in virtù della introdotta domanda anatocistica, maturano sugli
interessi già prodotti.
Del resto il divieto del patto anatocistico ed i precisi presupposti dettati
per la maturazione, dopo la domanda giudiziale o nella convenzione successiva
al prodursi degli interessi, risponde all'esigenza non solo di controllare la
velocità ed il volume di incremento dell'obbligazione pecuniaria (che tra
l'altro, a seconda dei diversi meccanismi di calcolo, rischia di appesantirsi
con impennate di aggravamento di onerosità al di sopra di ogni previsione), ma
è diretta ad evitare che il debitore si trovi di fronte a nuove obbligazioni
pecuniarie o se si vuole ad un incremento anche significativo dell'originaria
obbligazione pecuniaria, del tutto inaspettata e della quale non ha potuto
valutare le dimensioni e il più delle volte i meccanismi di incremento rispetto
all'originale dimensione dell'obbligazione pecuniaria.
Muovendo da questi principi, la cui valenza prima che processuale, è di
carattere sostanziale, anche la proposizione della domanda anatocistica in
appello può essere consentita solo nei limiti di quanto disposto dal primo
comma dell'art. 345 c.c., vale a dire - secondo quanto affermato dalla sentenza
in commento e dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione nel
n. 1955/1996 -, purché la domanda anatocistica sia stata già formulata in primo
grado.
La domanda anatocistica in appello è dunque ammissibile purché diretta ad
evitare al creditore di instaurare un ulteriore ed autonomo giudizio per far
valere gli interessi anatocistici maturati successivamente alla pronuncia di
primo grado (al pari degli interessi sul capitale o dei danni sofferti dopo la
sentenza stessa)
Ritengo opportuno soffermarmi sui possibili caratteri di questa fattispecie, in
considerazione della scarsa attenzione che sino ad ora tanto la dottrina che la
giurisprudenza hanno dedicato al riguardo.
Secondo quanto abbiamo detto, non è consentito dunque in appello chiedere
qualsiasi interesse anatocistico ma è piuttosto consentito chiedere che sulla
somma di interessi anatocistici già maturata nel corso del primo grado, venga
riconosciuta la produzione di identici interessi, anche nel corso del giudizio
di secondo grado.
Un esempio può forse riuscire utile. Il creditore quando introdusse il giudizio
di primo grado vantava un credito di 100 di capitale e di 15 di interessi, in
quanto gli interessi moratori o corrispettivi o compensativi a quella data,
vale a dire la data della domanda giudiziale, ammontavano a 15.
Nell'introdurre il giudizio di primo grado, il creditore può, proprio perché
previsto e consentito dall'art. 1283 c.c., domandare: a)che il debitore sia
condannato a pagare la somma di 100 di capitale oltre interessi maturati e che
si produrranno nel corso del giudizio dalla domanda al saldo; b) che sia
condannato a pagare anche gli interessi che si produrranno sempre nel corso del
giudizio su una ulteriore somma diversa dal citato capitale di 100 e
consistente piuttosto negli interessi già maturati alla data della domanda, e
questo perché proprio l'art. 1283 c.c. quando stabilisce che gli interessi
scaduti possono produrre interessi dalla data della domanda giudiziale,
consente al creditore di considerare capitale tali interessi già prodotti da
almeno due mesi.
Il creditore deve pertanto necessariamente formulare due domande diverse per
ottenere il riconoscimento e la condanna del debitore agli interessi
anatocistici Restando nel nostro esempio il creditore domanderà: a) 100 per
capitale oltre interessi moratori, questi ultimi a loro volta potranno essere
liquidati nella misura degli interessi legali oppure in misura superiore se
prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, ai
sensi del primo comma dell'art. 1224 c.c.; b) 15 per gli interessi moratori
prodottisi sino alla data della domanda giudiziale e questa ultima somma di 15,
consistente in interessi già maturati prima dell'introduzione del giudizio, in
virtù dell'art. 1283 c.c., produrrà sua volta interessi nel corso del giudizio
e dalla data della domanda giudiziale. Trattandosi di una somma di danaro che
dalla data della domanda giudiziale costituisce capitale, produrrà interessi
nella misura prevista dall'art. 1224 c.c. Questo vuol dire che sugli interessi
capitalizzati matureranno i soli interessi legali, e questo in quanto manca una
pattuizione in ordine alla misura convenzionale della produzione degli
interessi sugli interessi, non essendo possibile riferire a questa produzione
quella che si verifica sul capitale dovuto.
Questa disciplina deve poi essere necessariamente completata con quella
prevista con disposizione processuale, ma di rilevanza sostanziale, per il
giudizio d'appello, ove l'art. 345 c.p.c. nello stabilire che nel giudizio
d'appello non possono proporsi domande nuove e se proposte, debbono essere
dichiarate inammissibili d'ufficio, aggiunge, possono tuttavia
domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza
impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa.
La ragione di questa deroga al divieto di nova in appello con riferimento agli
interessi (o frutti o danni), maturati dopo la sentenza di primo grado, si
giustifica sulla base dell'evidente ratio, di carattere equitativo e di
economia dei giudizi, come ha sottolineato anche la citata sentenza delle
Sezioni unite n.1955/1996, ratio che è diretta ad offrire al creditore la
possibilità di evitare l'onere delle proposizione di un nuovo giudizio, al solo
fine di far valere diritti che la sentenza di primo grado non ha potuto
prendere in esame, perché sorti successivamente ad essa, ma che risultano
espressione o discendenti dalla medesima situazione giuridica soggettiva, cioè,
ad es., sono conseguenti o derivanti dallo stesso credito. Inoltre se il
creditore per far valere tali diritti dovesse introdurre un nuovo giudizio,
verrebbe ad essere violato il principio generale, secondo cui la durata del
processo non deve andare a detrimento della parte vittoriosa. Gli interessi
maturati o i danni prodotti, quindi successivamente alla sentenza di primo
grado costituiscono nuovi interessi o nuovi danni (per riprendere le
espressioni dell'art. 345 c.p.c.), solo in senso cronologico, ma in realtà
dipendono causalmente dagli stessi diritti fatti valere nel giudizio di primo
grado.
Gli interessi anatocistici che decorrono, se richiesti nel corso del giudizio,
fanno naturalmente parte della categoria degli interessi maturati
successivamente alla sentenza di primo grado e possono essere quindi domandati
nell'appello sulla base degli stessi presupposti e limitazioni. Ne consegue
pertanto che, come rileva la sentenza in commento, la domanda degli interessi
anatocistici svolta in appello potrà essere ammissibile solo se essa era stata
correttamente proposta con il ricorso introduttivo e non sarà al contrario
ammissibile se verrà proposta per la prima volta in appello o se verrà avanzata
solo con la memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c., depositata in Cassazione
nei cinque giorni precedenti la discussione della causa.
Sulla base di questi principi ne deriva che il creditore, se ha già richiesto
in primo grado la liquidazione e la condanna del debitore, oltre che per il
capitale e per gli interessi su tale capitale, anche per gli interessi che
matureranno nel corso del giudizio sugli interessi maturati alla data della
domanda introduttiva e che costituiscono un nuovo capitale, lo stesso creditore
nel proporre la domanda del giudizio d'appello, se non ha ottenuto il pagamento
di questi ultimi, vale a dire della somma relativa agli interessi maturati
prima della domanda di primo grado e degli interessi su tale somma decorsi nel
corso del giudizio di primo grado, potrà formulare una espressa domanda di
condanna del debitore al pagamento non solo di tale complessiva somma
(comprendente appunto gli interessi anteriori alla domanda di primo grado e gli
interessi su tale somma maturati nel corso di questo giudizio), ma potrà
chiedere anche gli interessi che su questa ultima somma matureranno nel corso
del giudizio di appello, e cioè gli interessi anatocistici sui precedenti
interessi capitalizzati.
In altri termini la domanda di interessi anatocistici in grado d'appello
comporta che gli interessi convenzionali maturati nel corso del giudizio di
primo grado si aggiungeranno al capitale in domanda e saranno a loro volta
produttivi di interessi, sempre nella misura, naturalmente, degli interessi
legali, indipendentemente dal fatto che per quelli che continuano ad essere
applicati sul capitale siano esigibili interessi determinati in misura pari a
quella originariamente convenzionale, e naturalmente sempre che siano dovuti da
sei mesi.
In conclusione, anche per gli interessi anatocistici riconosciuti e comunque
richiesti in primo grado, la durata del processo non può andare a danno del
creditore e, se ritualmente richiesti, essi costituiscono una espressione di
quegli elementi accessori che si sono venuti aggiungendo nella pendenza del
processo e che (secondo quanto rilevato dalla citata sentenza delle Sezioni
Unite n. 1955/1996) rappresentano l'aggiornamento, la prosecuzione e
l'attualizzazione di richieste già formulate in precedenza.
Bruno Inzitari
Ordinario di Istituzioni di Diritto Privato Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Milano-Bicocca
1) Cass. I, 22 gennaio 1999, n. 552,
2) Cass. Sez. un., 11 marzo 1996, n. 1955,
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