CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 09/08/2016 Scarica PDF
Questioni controverse nel concordato preventivo con continuità aziendale: il conferimento e l'affitto d'azienda, il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati, l'uscita dalla procedura
Marco Arato, Professore ordinario di Diritto commerciale nell'Università di GenovaSommario: I. Premessa. II. Conferimento e affitto d’azienda; 1. Conferimento d’azienda e concordato preventivo con continuità aziendale; 2. Affitto d’azienda stipulato prima del deposito della domanda di concordato. III. Il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati. IV. L’uscita dalla procedura con cessazione del controllo del tribunale
I. Premessa
L’introduzione avvenuta nel giugno del 2012 del nuovo art. 186 bis l.f. dedicato al concordato con continuità aziendale non ha rappresentato una novità assoluta in tema di concordato in quanto già nella riforma del concordato preventivo del 2005 l’amplissimo contenuto della proposta di concordato disciplinata dall’art. 160 l.f. consentiva “la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione di beni …”, il che aveva all’epoca fatto parlare del nuovo concordato di ristrutturazione per contrapporlo alla “cessio bonorum” e al concordato con assuntore ([1]).
La riforma del 2012 ha però avuto il merito di meglio delineare il contenuto del concordato di ristrutturazione (ora definito concordato con continuità) individuandone opportunamente due categorie: il concordato con continuità diretta (ove è la stessa impresa che, una volta ristrutturato il proprio indebitamento, prosegue la propria attività) e il concordato con continuità indiretta (ove la prosecuzione dell’attività avviene a seguito della cessione a terzi dell’azienda o il suo conferimento in una nuova società che, normalmente, viene ceduta a terzi)([2]).
Per la verità, fino all’introduzione del nuovo art. 186 bis l.f., il concordato con cessione d’azienda veniva fatto rientrare nella categoria del concordato liquidatorio, e la liquidazione avveniva in forma aggregata. Dopo il 2012 la riconduzione del concordato con cessione d’azienda nella categoria del concordato con continuità aziendale (indiretta) non ha però avuto una valenza solo nominalistica; il concordato con continuità ha assunto una sua autonoma disciplina diversa dal concordato liquidatorio, autonomia accresciuta dal nuovo art. 160 u.c. l.f. (introdotto nell’estate 2015 con la l. 6.8.2015 n. 132) che prevede una soglia minima di pagamento del 20% a favore dei creditori chirografari nel solo concordato liquidatorio. Senza considerare che il recente disegno di legge governativo di delega al Governo per la riforma organica della legge fallimentare, all’art. 6.1.(a) prevede la totale eliminazione del concordato liquidatorio (con ciò discostandosi dal medesimo articolo della bozza di disegno di legge delega approvata dalla Commissione Rordorf che invece manteneva il concordato liquidatorio, ma lo subordinava “al solo caso di apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori”). Insomma, la disciplina del concordato liquidatorio appare oggi lungi dall’essere sedimentata e, probabilmente, in sede di discussione parlamentare del disegno di legge di riforma potrà (auspicabilmente) subire ulteriori aggiustamenti.
Se l’introduzione del concordato con continuità va accolta sicuramente con favore, non può tacersi l’esistenza di una serie di problemi interpretativi che la nuova figura di concordato ha provocato sia sotto il profilo della prevalenza di disciplina (si pensi al concordato cd. “misto” nel quale si ha una prosecuzione parziale dell’attività con liquidazione degli assets ritenuti non più strategici) sia sotto altri profili (utilità che la proposta di concordato deve assicurare a ciascun creditore, contenuto dell’attestazione, proposte di concordato concorrenti con contenuti del tutto diversi rispetto alla proposta del debitore, relazione del Commissario Giudiziale, disciplina dei contratti pendenti, mantenimento dei contratti con pubbliche amministrazioni).
In questa sede si vuole però limitare l’esame a tre questioni particolarmente controverse nel concordato preventivo con continuità:
(a) il conferimento di azienda e l’affitto d’azienda stipulato prima del deposito della domanda di concordato;
(b) il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati;
(c) l’uscita dalla procedura, sotto il profilo della cessazione del controllo giudiziale.
II. Conferimento e affitto d’azienda
1. Conferimento d’azienda e concordato preventivo con continuità aziendale
Come è noto, il piano di concordato con continuità aziendale si fonda sulla prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore (anche se temporalmente) ovvero da parte di terzi cessionari o conferitari. L’art. 186-bis, 1° co., l. fall. individua come fattispecie di “concordato con continuità aziendale” quelle fondate su un piano concordatario che preveda:
a) la prosecuzione dell’attività di impresa da parte dell’imprenditore concordatario (c.d. “continuità diretta”);
b) la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il suo conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione (c.d. “continuità indiretta”).
Ove il piano preveda la c.d. “continuità diretta” non si pongono particolari problematiche: l’imprenditore proseguirà l’attività e i creditori concorsuali verranno soddisfatti con le risorse generate dalla continuità mediante la destinazione di una parte dei flussi di cassa ai creditori.
Maggiori problematiche di tipo attuativo si pongono nell’ipotesi in cui il piano preveda la c.d. “continuità indiretta” mediante cessione dell’azienda in esercizio. In tal caso la soddisfazione dei creditori avviene mediante l’impiego delle risorse rivenienti dal trasferimento, e cioè mediante la destinazione ai creditori del corrispettivo pagato dal cessionario. Le modalità di pagamento del corrispettivo (soprattutto se dilazionato), nonché l’eventualità in cui siano prestate garanzie, incide in modo significativo sul rapporto che lega la soddisfazione dei creditori del cedente alla prosecuzione (e redditività) dell’attività di impresa del cessionario. Può infatti essere previsto che il cessionario paghi il prezzo della cessione in via dilazionata mediante l’impiego delle risorse di cassa generate dalla prosecuzione dell’attività di impresa. In questa evenienza, la soddisfazione dei creditori concorsuali è legata a doppio filo al buon andamento dell’attività di impresa del cessionario e, in particolare, alla capacità di quest’ultimo di adempiere alle obbligazioni assunte verso il cedente. Diversamente, ove il pagamento del prezzo da parte del cessionario avvenga all’atto della cessione o sia comunque garantito, la soddisfazione dei creditori concorsuali del cedente è completamente svincolata alle sorti dell’attività d’impresa in capo al cessionario, senza che ciò possa comunque escludere che si tratti di un concordato con continuità aziendale “indiretta” ([3]).
Ancor più articolata è la soddisfazione dei creditori nell’ipotesi di conferimento dell’azienda in esercizio in capo ad una o più società, anche di nuova costituzione. Il debitore conferisce l’azienda priva di debiti (salvo quelli che si intendano trasferire nel rispetto della par condicio) ad una società (nella maggior parte dei casi una newco):il soddisfacimento dei creditori può dunque avvenire, in tutto in parte, (i) mediante la liquidazione della partecipazione detenuta dall’imprenditore nella conferitaria del ramo di azienda, e cioè nella distribuzione ai creditori del corrispettivo pagato dall’acquirente della partecipazione, (ii) mediante l’impiego degli utili generati dalla conferitaria sotto forma di dividendi ovvero di riparto in sede di liquidazione della conferitaria stessa, (iii) mediante soddisfazione diretta da parte della conferitaria (che si ponga come assuntore)([4]) ovvero (iv) mediante assegnazione ai creditori della conferente di quote della conferitaria ovvero di azioni o strumenti partecipativi dalla stessa emessi([5]).
L’art. 186-bis, 7° co., l. fall. - il quale sanziona con la revoca dell’ammissione al concordato (salva modifica della proposta) la cessazione dell’attività d’impresa nel corso del concordato - pone alcuni problemi nell’ipotesi di concordato con “continuità indiretta” ove il piano preveda la cessione o il conferimento dell’azienda in esercizio prima dell’omologazione.
Parte della dottrina ha negato l’ammissibilità della cessione dell’azienda anteriormente all’omologazione, sul rilievo che ciò (i) comporterebbe una illegittima anticipazione della fase di liquidazione([6]) ovvero (ii) renderebbe efficace la proposta ancor prima che questa sia stata omologata dal Tribunale([7]).
La tesi non è però condivisa dalla dottrina maggioritaria, la quale, al contrario, ha rilevato che:
a) ove la cessione dell’azienda sia essenziale al superamento dello stato di crisi e, dunque, all’adempimento della proposta concordataria, il profilo temporale dell’operazione è destinato a perdere rilievo.
E infatti “realizzare la vendita dell’azienda nel corso del procedimento e non attendere la fase successiva all’omologazione potrebbe anche rendere più agevole l’operazione, oltre che evitare il rischio dell’esercizio d’impresa, essendo necessario che il debitore mantenga prudentemente la vitalità dell’azienda, sopportandone gli oneri”([8]);
b) nessuna norma di legge limita il potere degli organi della procedura di autorizzare, ai sensi dell’art. 167, 2° co., l. fall., la cessione o il conferimento dell’azienda anteriormente all’omologa([9]);
c) l’art. 186-bis, 3° co., l. fall., nel prevedere che “il giudice delegato, all’atto della cessione o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni” sarebbe una disposizione sostanzialmente inutile ove la cessione o il conferimento potessero avvenire solo dopo l’omologa, atteso che - in tal caso - la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni avverrebbe in forza dell’art. 108, 2° co., l. fall. in quanto richiamato dall’art. 182 l. fall. In altre parole, l’art. 186-bis, 3° co., l. fall. consente la cancellazione di iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli indipendentemente dall’avvenuto integrale pagamento del prezzo di cessione dell’azienda (“integrale pagamento” che, del resto, è incompatibile con il conferimento d’azienda - che pure prevede le cancellazioni delle iscrizioni e trascrizioni - ove nessun prezzo viene pagato, ma vengono emesse azioni a favore del conferente) e senza bisogno di attendere l’omologazione del concordato e la produzione degli effetti di cui all’art. 108, 2° co., l. fall.([10]).
La legittimità della cessione e del conferimento dell’azienda in esercizio anteriormente all’omologa fa sì che - ove tale operazione sia autorizzata ed eseguita - non potrebbe invocarsi il disposto dell’art. 186, 7° co., l. fall., non vertendosi in un’ipotesi di cessazione dell’esercizio dell’impresa che giustifica la revoca dell’ammissione alla procedura concordataria.
Ulteriore problematica che si pone con riferimento alla c.d. “continuità indiretta” che si realizzi anteriormente all’omologa è data dall’applicabilità dell’art. 2560, 2° co., l. fall., il quale stabilisce la responsabilità dell’acquirente o della società conferitaria per i debiti inerenti l’esercizio dell’azienda ceduta o conferita risultanti dalle scritture contabili obbligatorie. Ciò in quanto l’art. 105, 4° co., l. fall., che esclude l’operatività dell’art. 2560, 2° co., l. fall. è richiamato dall’art. 182 l. fall., sicché - a voler seguire il dato positivo - la responsabilità per i debiti del cedente o conferente l’azienda sarebbe esclusa solo nell’ipotesi in cui l’operazione fosse perfezionata dopo l’omologa, in esecuzione del concordato. Si ritiene tuttavia condivisibile la tesi secondo cui l’esenzione dalla responsabilità ex art. 2560, 2° co., l. fall. debba operare anche a favore del soggetto che si sia reso acquirente o conferitario dell’azienda prima dell’omologa. Diversamente opinando si giungerebbe infatti a risultati aberranti: in primo luogo, la cessione o il conferimento sarebbero in radice preclusi ogni qualvolta l’ammontare del debito trasferito superi il valore dell’azienda in esercizio e, in secondo luogo, quand’anche il valore dell’azienda fosse superiore al debito, si verrebbero a creare irragionevoli disparità dei creditori([11]).
Difatti, mentre alcuni di essi vedrebbero sacrificate le proprie pretese in quanto soggetti agli effetti remissori del concordato, altri verrebbero integralmente soddisfatti dal cessionario o dalla società conferitaria a spese dei primi, posto che l’ammontare di tali debiti verrebbe decurtato in sede di determinazione del prezzo della cessione o del valore del conferimento.
Fermo quanto sopra, preme rilevare come la fattispecie della continuità aziendale, sia essa “diretta” o “indiretta”, possa non coinvolgere l’attività di impresa nella sua totalità, per essere limitata - ad esempio - ad uno o più rami d’azienda, con liquidazione dei restanti assets non funzionali alla prosecuzione dell’attività produttiva; facoltà, questa, espressamente prevista dall’art. 186-bis, 1° co., l. fall.
2. Affitto d’azienda stipulato prima del deposito della domanda di concordato
Una problematica controversa attiene all’estensione della nozione di concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis l. fall. alla situazione in cui il debitore affitti ad un terzo l’azienda al fine poi di cederla successivamente all’omologa del concordato preventivo.
Parte della dottrina e della giurisprudenza ha infatti risolto la questione in modo negativo sulla base del tenore letterale dell’art. 186-bis, 1° co., l. fall. (che non contempla espressamente l’affitto di azienda)([12]), ovvero sulla base della considerazione che nel caso di affitto di azienda il rischio di impresa graverebbe solo sull’affittuario, sicché “non avrebbe senso imporre l’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa, delle risorse necessarie e delle relative modalità di copertura (art. 186-bis, co. 2, lett. a), nonché l’attestazione che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori (art. 186-bis co 2 lett.b)”([13]).
Altra parte della dottrina ha cercato di distinguere fra la situazione in cui l’affitto di azienda sia stipulato successivamente al deposito della domanda di concordato preventivo e costituisca parte integrante del piano concordatario (nel qual caso non dovrebbe esserci alcun dubbio sulla sussistenza della fattispecie del concordato con continuità aziendale) e la situazione in cui l’affitto di azienda sia stato stipulato antecedentemente al deposito della domanda di concordato preventivo (nel quale caso si potrebbero porre maggiori problemi)([14]).
Orbene, alla luce della nozione di concordato con continuità aziendale, la questione in esame dovrà essere valutata caso per caso, avendo cura di verificare i termini e le condizioni dell’operazione di ristrutturazione oggetto del piano di concordato, sicché una risposta aprioristica (che distingua meramente sul fatto se l’affitto è stato stipulato prima o dopo del concordato) non pare soddisfacente. In particolare, ogni qualvolta la prosecuzione dell’attività di impresa da parte dell’affittuario (a prescindere dal momento della stipulazione del contratto di affitto) sia rilevante ai fini del piano, e cioè influenzi la soddisfazione dei creditori concorsuali, il concordato preventivo dovrà essere qualificato come un concordato con continuità aziendale e sarà quindi soggetto alle disposizioni di cui all’art. 186-bis l. fall.([15]).
La pratica ha anche evidenziato una serie di casi di affitto di azienda (anche precedenti al deposito della domanda di concordato) nei quali l’acquisto o non era certo oppure conteneva previsioni particolari. Si pensi ad esempio al caso in cui l’obbligo di acquisto dell’azienda da parte dell’affittuario sia subordinato ad alcune condizioni di cui non sia certo il verificarsi (oltre la consueta condizione della omologa del concordato preventivo), sicché vi può essere il rischio che l’azienda torni nella disponibilità del concedente, con nuove obbligazioni prededucibili, idonee a gravare sull’attivo (ad esempio, nel caso in cui, in presenza di un contratto che non contenga particolari clausole di salvaguardia per il concedente, con la retrocessione dell’azienda il debitore si trovi a dover soddisfare i lavoratori dipendenti nel frattempo assunti dall’affittuario); ovvero al caso in cui il canone di affitto - che verrà a costituire una parte dell’attivo concordatario - sia parametrato all’andamento dell’impresa (e quindi all’andamento della gestione dell’affittuaria)([16]); ovvero ancoraal caso in cui l’affittuario abbia assunto l’impegno di comprare l’azienda subordinatamente all’omologa, ma il prezzo debba essere pagato in più soluzioni e senza alcuna garanzia. Tanto che, in tale caso, la dottrina non esita a rilevare che il piano concordatario dovrà tenere conto anche della “sostenibilità del piano aziendale in capo alla società cessionaria, in quanto essa rileva, in via mediata, ai fini del soddisfacimento dei creditori pregressi”([17]).
In tutti questi casi ci si trova di fronte ad un concordato con continuità aziendale, ma di volta in volta occorre adattare l’applicazione delle norme alle concrete fattispecie di fatto.
A conforto della tesi qui sostenuta si vedano le recenti linee guida della sezione fallimentare del Tribunale di Roma([18]) secondo le quali “ritiene l’ufficio di prediligere l’argomento secondo il quale, dal momento che l’affitto costituisce null’altro che lo strumento per mantenere l’azienda in vita, la continuità sussiste anche nel caso in cui la proposta di concordato provenga da una società che abbia concesso in affitto a terzi la propria azienda, ravvisandosi in entrambi i casi l’elemento qualificante della presenza di un’azienda in esercizio”.
Il testo del d.d.l. di riforma della legge fallimentare non prende esplicitamente posizione sul punto, anche se il principio enunciato all’art. 2 lett. (l) (“riformulare le disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi”) potrebbe consentire al legislatore delegato di intervenire.
III. Il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati
1. Il problema sorge dall’interpretazione dell’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l. fall. in forza del quale “il piano può prevedere, fermo quanto disposto dall’art. 160 seconda comma, una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto di voto”.
Occorre anzitutto chiedersi se la norma imponga un limite alla dilazionabilità dei crediti prelatizi, sì da consentire un degrado temporale dei medesimi non oltre il termine di un anno dall’omologa e nella sola ipotesi di concordato con continuità aziendale, ovvero se essa lasci impregiudicata - anche nel concordato liquidatorio - la possibilità di prevedere dilazioni maggiori. In altre parole, vi è da stabilire se dal limite temporale di cui al primo periodo dell’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l. fall. debba farsi discendere l’inammissibilità di una dilazione ultrannuale dei creditori prelatizi ovvero la loro semplice esclusione dal diritto di voto ogni qualvolta sia prevista una dilazione inferiore ad un anno dall’omologazione, restando così impregiudicata l’ammissibilità di dilazioni maggiori.
2. Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, la portata precettiva della norma impedirebbe al debitore di prevedere una moratoria ultrannuale del pagamento dei creditori prelatizi. In particolare, si è sostenuto che (i) l’interpretazione estensiva avrebbe l’effetto di introdurre una deroga al principio del pagamento integrale dei creditori prelatizi non espressamente prevista dalla legge ed a prescindere dal consenso di detti creditori([19]), e che (ii) “par[rebbe] davvero troppo pensare che [il legislatore] abbia voluto attribuire al debitore concordatario la facoltà di proporre ai creditori prelatizi una dilazione ultra annuale scrivendo nella norma che il piano può prevedere una moratoria fino ad un anno dalla omologazione, per poi negare in questo caso, il diritto di voto”([20]).
Secondo una diversa interpretazione, l’art. 186-bis, 2° comma, l.fall. avrebbe una portata precettiva ai soli fini del riconoscimento del diritto di voto (rectius, della sua esclusione) in capo ai creditori prelatizi per i quali la proposta preveda un pagamento con moratoria infrannuale, senza dunque imporre alcuna soglia temporale massima alla dilazione.
Questa tesi è stata fatta propria dalla Suprema Corte, la quale non ha tuttavia esplicitato le ragioni - pur sottese al proprio decisum - per le quali il contenuto precettivo l’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l.fall. non osterebbe alla previsione di una dilazione superiore ad un anno dall’omologa (Cass., 26.9.2014, n. 20388, in Fallimento, 2015, 273, con nota di Pirisi; Cass., 9.5.2014, n. 10112, in www.ilcaso.it;Cass. 2.9.2015, n. 17461, in www.ilcaso.it; Cass., 23.2.2016, n. 3482, in DeJure).
3. A mio avviso, la tesi più liberale è meritevole di essere condivisa per diversi ordini di ragioni di ordine testuale e sistematico:
(a) sotto il profilo sistematico appare irragionevole ritenere che un’impresa che ha debiti ipotecari o pignoratizi a medio/lungo termine, allorché sia insolvente o in crisi e quindi presenti una domanda di concordato preventivo, debba obbligatoriamente pagare tali crediti entro il termine di un anno, con una sorta di accelerazione rispetto alle scadenze contrattuali;
(b) sotto il profilo testuale, l’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l. fall. - nell’escludere del diritto di voto nell’ipotesi di moratoria infrannuale - implica, a contrariis, il riconoscimento del diritto di voto nell’ipotesi di moratoria ultrannuale, implicitamente sancendo l’ammissibilità di quest’ultima([21]);
(c) la locuzione “fermo quanto disposto dall’art. 160, secondo comma” contenuta nell’articolo in esame, “fa salva (…) l’applicabilità dell’art. 160, comma 2, l. fall. nella sua intera portata precettiva e, con essa, la facoltà del debitore concordatario di prevedere una “soddisfazione” dei prelazionari distinta, per modalità e tempi, dal “pagamento integrale”. In tal caso, unico limite è dato dalla necessità di assicurare ai predetti creditori - ove all’alterazione qualitativa del credito si accompagni anche una decurtazione quantitativa dello stesso - una soddisfazione in misura non inferiore a quella ritraibile dalla liquidazione fallimentare dei beni vincolati a garanzia del credito”([22]). Diversamente opinando, la norma in esame introdurrebbe un limite ulteriore alla soddisfazione non integrale dei creditori prelatizi rispetto a quello già imposto dall’art. 160, 2° comma, l. fall., il cui disposto sarebbe dunque tutt’altro che “fermo”;
(d) infine, tale tesi appare l’unica coerente con l’obiettivo perseguito dal legislatore del “Decreto Sviluppo” di incentivare il ricorso alla procedura di concordato preventivo con continuità aziendale in funzione della conservazione dell’impresa([23]), mediante la previsione di una forma di sostegno economico idonea a garantire all’imprenditore la disponibilità delle maggiori risorse finanziarie rivenienti dal mancato pagamento dei creditori prelatizi per il periodo di un anno dall’omologa senza perciò temere un loro voto negativo alla proposta concordataria([24]). Eventuali dilazioni maggiori sarebbero ammissibili ma su di esse il creditore deve esprimersi.
Alla luce di quanto sopra, si ritiene che la portata precettiva della norma in esame debba essere circoscritta al solo piano della legittimazione al voto dei prelazionari dilazionati, con piena salvezza del disposto dell’art. 160, 2° co., l. fall. e, quindi, dell’ammissibilità - anche nel concordato liquidatorio ([25]) - della previsione di dilazioni superiori all’anno dall’omologazione.
4. Come si è già detto, la tesi sopra illustrata ha ricevuto l’avallo di ben quattro decisioni della Suprema Corte, che hanno giustamente cancellato l’irragionevole e inaccettabile conseguenza derivante dall’applicazione della tesi opposta (i creditori privilegiati devono in ogni caso essere pagati entro l’anno dall’omologa) che comporterebbe un’acceleration di mutui a medio-lungo termine pendenti. Le opinioni anche giurisprudenziali di segno opposto (v. ad es. l’opinione del Trib. Roma ancora recentemente espressa) hanno riconosciuto comunque l’ammissibilità di un pagamento ultrannuale dei privilegiati solo se vi è il loro consenso da ottenersi attraverso la stipula di un patto paraconcordatario con tali creditori. Per questa ragione nei concordati con continuità vi è stata una diffusione di patti paraconcordatari per lo più con banche volti a mantenere i termini di pagamento ultrannuali previsti nel contratto di finanziamento se non (più frequentemente) a prolungarli proprio a causa della crisi del debitore. Ma la conseguenza ancora più aberrante di questa (errata) interpretazione dell’art. 186-bis l. fall. è che i creditori (per lo più finanziari) che avessero accettato una dilazione ultrannuale nel pagamento dei loro crediti attraverso la stipula di un patto paraconcordatario, non potrebbero votare in sede di approvazione del concordato da parte dei creditori perché sarebbero in conflitto di interessi. Si tratta evidentemente di una errata concezione del concetto di conflitto di interessi rispetto alla società che non può trovare applicazione alla presente fattispecie: i sottoscrittori di un accordo con il debitore non sono in conflitto di interessi con il debitore. Se si accedesse alla tesi che tutti i creditori in un concordato sarebbero in conflitto con il loro debitore, la conseguenza sarebbe che nessuno potrebbero votare. Né si dica che il raggiungimento di un accordo con il creditore circa le modalità di pagamento del credito pongano tale creditore in una posizione di conflitto di interessi rispetto alla società.
Pertanto, come correttamente affermato da alcuni giudici di merito (Trib. Siena e Trib. Pavia) anche i creditori che hanno sottoscritto un patto paraconcordatario sono legittimati al voto.
5. Si apre, a questo punto, il problema dell’importo per il quale vota il creditore privilegiato che in base alla proposta di concordato o in base ad un patto paraconcordatario viene pagato oltre l’anno dall’omologa del concordato previsto dall’art. 186-bis l. fall.
Sul punto sono state espresse le più disparate opinioni (il creditore vota per l’intero credito, oppure vota solo per il “danno” della dilazione che sarebbe rappresentato dagli interessi che matureranno fino al pagamento). La Suprema Corte, nelle quattro sentenze appena citate, ha affermato che il creditore privilegiato vota e aggiunge (in un obiter dictum) che vota per la perdita che subisce. Tuttavia, trattandosi di un accertamento di fatto, la Suprema Corte demanda la soluzione del problema al giudice di merito.
Recentemente il Tribunale di Modena (8.2.2016) è intervenuto sull’argomento con un interessante decreto che, partendo proprio dalle decisioni della Suprema Corte, ha approfondito la questione giungendo ad affermare che:
(a) la dilazione ultrannuale dei creditori privilegiati nel concordato con continuità aziendale è consentita solo laddove i tempi di pagamento non risultino più lunghi di quelli che sarebbero necessari nell’alternativa liquidatoria (e tale circostanza deve risultare dall’attestazione ex art. 161, 3° comma, l. fall.);
(b) in caso di dilazione ultrannuale non è l’entità delle perdite a determinare la misura del voto. D’altronde tutti i creditori chirografari e i privilegiati degradati a chirografo votano per il loro intero credito (sia per la parte che viene pagata sia per la parte che risulterà impagata a seguito della falcidia concordataria). Pertanto il creditore privilegiato pagato oltre l’anno vota per l’intero credito (con la precisazione, correttamente espressa da Trib. Siena 25.7.2014, che se il concordato non dovesse essere omologato, il voto espresso dal creditore privilegiato non gli farebbe perdere il rango di privilegiato).
Si tratta di affermazioni tutte condivisibili che non necessariamente devono essere lette in contrapposizione con le decisioni della Cassazione (le quali, per la verità, non precisano l’entità massima ammissibile dalla dilazione) ma che, a mio giudizio, ne costituiscono un’utile e corretta precisazione.
6. Per quel che può valere, l’art. 6.1.(h) del d.d.l. di delega al Governo per la riforma della legge fallimentare afferma correttamente che i decreti delegati dovranno “disciplinare il diritto di voto dei creditori con diritto di prelazione il cui pagamento sia dilazionato e dei creditori soddisfatti con utilità diverse dal denaro” con ciò riconoscendo la piena legittimità dell’interpretazione qui proposta.
IV. L’uscita dalla procedura con cessazione del controllo del tribunale
Nel concordato con continuità aziendale (soprattutto diretta) uno dei problemi che si presenta con molta frequenza è quello dell’individuazione del momento in cui il concordato può dirsi eseguito. Ed infatti, come noto, la procedura si chiude con il decreto di omologa (art. 181 l.f.), ad esito del quale la società ritorna in bonis (e, conseguentemente, va cancellata l’annotazione nel Registro delle Imprese “società in concordato preventivo” avvenuta al momento del deposito della domanda di concordato ex art. 161 c. 5 l.f. e la società non deve più indicare nella corrispondenza e nella propria denominazione sociale “in concordato preventivo”). Ciononostante, in tutti i decreti di omologa, ai sensi dell’art. 185 l.f., vengono previste le modalità di sorveglianza da parte dei commissari giudiziali in merito “all’adempimento del concordato”. E la prassi di molti tribunali, anche nel concordato con continuità, prevede che al termine del periodo di sorveglianza da parte del commissario giudiziale, venga emesso un c.d. “decreto di adempimento obblighi” analogo a quello previsto dall’art. 136 c. 3 l.f. per il concordato fallimentare, decreto che segna la fine di ogni controllo del tribunale sull’esecuzione del concordato.
Il problema che ci si pone nella pratica è quello di coordinare gli artt. 185 e 136 l.f. (quest’ultimo previsto per il concordato fallimentare, mentre l’art. 185 l.f. riguarda tutti i concordati preventivi, anche quelli liquidatori) con le particolari caratteristiche del concordato con continuità diretta nel quale i creditori vengono soddisfatti non con la vendita dell’azienda ma con i flussi di cassa derivanti dalla prosecuzione dell’attività.
In tali concordati, come si è visto nel precedente paragrafo III, accade frequentemente che la soddisfazione di alcuni creditori privilegiati (ad es. le banche ipotecarie) avvenga in termini lunghi, anche di dieci/quindici anni. E ciò non deve stupire né deve essere inteso come una difficoltà del debitore ad uscire dalla crisi: è infatti fisiologico che i termini di rimborso dei mutui ipotecari a medio-lungo termine in una situazione di difficoltà vengano prolungati e quindi, nell’esempio fatto, vengano portati da dieci a quindici anni.
Il che non significa che il piano di concordato duri quindici anni (non avrebbe alcun senso sotto il profilo aziendalistico); il piano di ripristino della normale operatività del debitore avrà l’usuale durata di 3-5 anni. Ma allora, il problema che ci si pone è: quanto deve durare la sorveglianza del commissario giudiziale all’adempimento del concordato con continuità diretta?
La risposta immediata, ma anche errata, potrebbe essere: fino al pagamento di tutti i creditori concorsuali (e cioè di tutti coloro che erano creditori al momento della presentazione della domanda d concordato). Come detto, si tratterebbe di una risposta errata, inefficiente e poco aderente alle peculiarità del concordato con continuità aziendale.
Appare preferibile ritenere che, nonostante lo iato temporale fra la durata del piano e i tempi di soddisfazione dei creditori concorsuali, il concordato preventivo si consideri "eseguito" - con conseguente cessazione di ogni controllo da parte del tribunale e degli organi della procedura - quando il debitore sarà nuovamente in una condizione di equilibrio finanziario, con conseguente eliminazione dello stato di crisi.
Al riguardo, pare dirimente quanto stabilito dai paragrafi 6.5.1 l e 6.5.72 dei “Principi di Attestazione dei Piani di risanamento” pubblicati in data 6 giugno 2014, i quali espressamente prevedono che:
(a) “l'arco temporale oggetto di considerazione deve pertanto attestarsi a data non anteriore al momento in cui, in base al Piano è previsto che siano soddisfatti i creditori, ovvero nel caso di continuità aziendale siano ripristinate le normali condizioni di finanziamento (e di fido) ovvero nel caso di prosecuzione dei contratti pubblici, siano rispettate condizioni che consentano un regolare adempimento degli stessi” (Paragrafo 6.5.11);
(b) “si ritiene che, in caso di continuità, l’orizzonte temporale di osservazione vada esteso - ove possa occorrere - oltre al momento di soddisfacimento dei creditori, sino a quello in cui può considerarsi ripristinato l’equilibrio finanziario dell’impresa” (Paragrafo 6.5.12).
Dal tenore letterale dei suddetti principi di attestazione, emerge - da un lato - l'assoluta fisiologicità di una discrasia temporale fra la durata del piano di concordato con continuità e i tempi di soddisfazione dei creditori e - dall’altro lato - che, in ogni caso, il piano di concordato con continuità, lungi dall'avere come riferimento le tempistiche dei creditori, deve considerarsi “concluso” nel momento in cui é ripristinato l'equilibrio finanziario del debitore, vale a dire quando lo stato di crisi è ormai eliminato. Se però al termine del periodo considerato nel piano di concordato l'impresa deve considerarsi a tutti gli effetti “risanata”, deve allora giocoforza ritenersi che tutti gli atti di adempimento della proposta concordataria compiuti successivamente al termine di piano (e, quindi, ad avvenuto risanamento dell'impresa) siano atti del tutto paragonabili a quelli che potrebbe compiere una società in bonis; ma, allora, è di tutta evidenza che, una volta raggiunto il risanamento dell'impresa, non vi sarà più alcuna necessità di un controllo del tribunale sull’attività dell'impresa stessa, così come non v'è bisogno di siffatto controllo nel caso di un'impresa in bonis. Da ciò deriva, tra l’altro, che i pagamenti eseguiti quando l’impresa è risanata sono normali pagamenti per i quali probabilmente non vi è l’esenzione da revocatoria.
Tale opinione è inoltre confermata anche dalle recenti “Linee guida per il finanziamento alle imprese in crisi” (predisposte dall’Università degli Studi di Firenze, Assonime e dal CNDCEC e reperibili sul sito internet www.cndcec.it), la cui raccomandazione n. 7 chiarisce che “il raggiungimento di condizioni di equilibrio non implica il rimborso di tutto il debito che può essere consolidato anche con date di rimborso successive, ma solo il ripristino della piena capacità di sostenere l’onere di quello che gravi a tale data. Il termine di 3/5 anni deve quindi essere riferito alle sole misure «straordinarie» … e agli effetti correttivi da queste prodotti, mentre non implica che in quel termine siano estinte tutte le passività esistenti al momento della stesura del piano, che possono anzi essere riscadenziate a termini più lunghi”.
Da quanto appena detto, emerge che, nel concordato con continuità diretta, la locuzione “sorveglianza nell’adempimento del concordato” utilizzata dall’art. 185 l.f. debba essere svincolata dal momento del pagamento/soddisfazione dei creditori e possa interpretarsi nel senso che la sorveglianza del commissario giudiziale debba cessare nel momento del riequilibrio delle normali condizioni di operatività dell’impresa secondo normali parametri finanziari/patrimoniali che prescindono dalla soddisfazione dei creditori.
D’altronde, l’art. 185 l.f. parla di “sorveglianza nell’adempimento”, non di “sorveglianza nel pagamento dei creditori”. Ad esempio, nel decreto di omologa ben si potrebbero modulare i poteri di sorveglianza del commissario attribuendogli la sorveglianza fino al momento del pagamento dei debiti concorsuali già scaduti alla data del deposito della domanda di concordato. Gli ulteriori debiti concorsuali non ancora scaduti alla data del deposito della domanda di concordato che ancora eventualmente residuassero (ad esempio mutui a medio-lungo termine), magari riferiti a creditori che hanno individualmente accettato la dilazione, rientrano nella fisiologia della vita delle imprese, rispetto ai quali non è necessario alcun controllo del tribunale.
Opportunamente, pertanto, l’art. 6 c. 1 lett. (a) del d.d.l. governativo di riforma della legge fallimentare, prevede che il decreto delegato disponga “una più dettagliata disciplina della fase di esecuzione del piano”.
([1]) Mi permetto di rinviare al mio Il concordato preventivo con continuazione dell’attività d’impresa, in Crisi di imprese, casi e materiali, a cura di F. Bonelli, Milano, 2011, 137.
([2]) Anche su questo punto mi permetto di rinviare al mio Il concordato preventivo con continuità aziendale, in Il Fallimentarista, 2012.
([3]) Cfr. Pettirossi, Il concordato preventivo: della fattispecie con continuità aziendale, in Dir. fall., 2015, I, 216, secondo cui “si esclude invece che nelle vicende traslative dell’impresa la continuità rilevi soltanto laddove venga provato un nesso finanziariamente evidente tra flussi di cassa generati dalla futura prosecuzione dell’attività e adempimento delle obbligazioni pregresse, poiché il corrispettivo della cessione di azienda, nella misura in cui remunera l’avviamento, è sempre ponderato in funzione della capacità reddituale prospettica dell’impresa che si va a cedere”.
([4]) Cfr. Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in Società, banche e crisi d’impresa, diretto da Campobasso, Cariello, Di Cataldo, Guerrera, Sciarrone, Torino, 2014, 3214.
([5]) Cfr. Covino-Jeantet, Concordato: conversione forzosa dei crediti in equity, risoluzione e sorte dell’obbligazione pecuniaria originaria nel fallimento susseguente, in www.ilfallimentarista.it, 25.11.2014.
([6]) Di Majo, Art. 167 l. fall., in Codice commentato del fallimento, cit., 1983.
([7]) Paternò Raddusa, Effetti della presentazione del ricorso e dell’ammissione al concordato preventivo, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Ghia-Piccininni-Severini, 4, Torino, 2011, 389.
([8]) Così Lo Cascio, La vendita dell’azienda nel nuovo concordato preventivo, in Fallimento, 2012, 340. Nello stesso senso Gaeta, Effetti del concordato preventivo, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da Fauceglia-Panzani, 3, Torino, 2009 1652.V. anche Pettirossi, cit., 218.
([9]) Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, cit., 3228.
([10]) Sia consentito un rinvio ad Arato, Il concordato con continuità aziendale, in www.ilfallimentarista.it, 3.8.2012, 8, ove si afferma l’applicabilità della norma “anche al caso del concordato di ristrutturazione, e cioè quello in cui l’attività prosegue in capo alla stessa impresa senza trasferimento dell’azienda” atteso che, in caso contrario “il debitore esegu[irebbe] il concordato, ma non [potrebbe] cancellare l’iscrizione o la trascrizione pregiudizievole in assenza del consenso del creditore che, qualora in base alla proposta di concordato (e nei limiti ed alle condizioni di cui all’art. 160, comma 2, l. fall.) avesse ricevuto una “soddisfazione” parziale del proprio credito, potrebbe porre in essere pretestuose manovre di disturbo”.
([11]) Per una esauriente disamina della problematica si rinvia a Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, cit., 3229.
([12]) Cfr. Galletti, La strana vicenda del concordato in continuità e dell’affitto di azienda, in www.ilfallimentarista.it, 3.10.2012, secondo il quale “l’espressione “cessione di azienda in esercizio”, pur nella sua evidente atecnicità, è riferibile solo al trasferimento in proprietà dell’azienda a terzi”; Di Marzio, Affitto d’azienda e concordato in continuità, in www.ilfallimetnarista.it, 15.11.2013, secondo il quale “continuità aziendale e affitto di azienda si pongono in un rapporto di reciproca esclusione: dove viè continuità aziendale non può esservi affitto di azienda; dove vi è affitto di azienda non può esservi continuità aziendale”; Trib. Milano, 28.11.2013, www.ilfallimentarista.it, secondo cui “può parlarsi di concordato in continuità, destinato a fruire dei benefici previsti dagli artt. 182 quinquies e 186 bis leg.fall., solo nei casi previsti da detta ultima disposizione e non invece in caso di affitto d’azienda, tanto più se stipulato e già impegnativo tra le parti –perché pacificamente non soggetto a condizioni sospensive- in data antecedente al deposito della proposta”.
([13]) In questo senso si vedano Trib. Como, 29.4.2016,in www.ilcaso.it: “L’affitto di azienda anteriore o interinale alla fase endoconcordataria è incompatibile con il concordato preventivo con continuità aziendale in virtù di una interpretazione non solo testuale, ma anche teleologica e sistematica dell’art. 186-bis L.F. (Nel caso di specie, la proposta di concordato si incentrava essenzialmente sulla stipula di due contratti di affitto di rami di azienda finalizzati alla successiva cessione in favore dei rispettivi affittuari)”; Trib. Firenze, 1.1.2016, in www.ilcaso.it: “Il concordato con continuità aziendale implica una sopportazione del rischio di impresa da parte dei creditori concorsuali, la quale può giustificarsi e sussistere solo nell'ipotesi in cui l'impresa sia gestita dall'imprenditore e la gestione continui a presentare dei parametri di aleatorietà per i creditori concordatari. Deve, pertanto, essere esclusa l'applicazione della disciplina del concordato con continuità aziendale qualora il piano preveda l'affitto dell'azienda quale strumento di transito verso il successivo trasferimento a terzi della stessa”; Trib. Rimini, 1.10.2015,in www.ilcaso.it: “La stipula di un contratto di affitto d’azienda da parte della società concordataria anteriormente al deposito della domanda di concordato che preveda una scadenza ben precisa ed una clausola in forza della quale gli organi della procedura possono in ogni momento provocarne lo scioglimento, non snatura il carattere liquidatorio del concordato, essendo funzionale ad impedire la perdita dell’avviamento aziendale e a renderne, quindi, più agevole, la vendita”; Trib. Ravenna, 22.10.2014, in www.ilcaso.it: “Nell’ambito del concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186 bis L.F., la esplicita previsione del requisito della “cessione di azienda in esercizio” consente di escludere che il concordato con continuità possa essere attuato tramite la distinta ipotesi dell’affitto di azienda”; Trib. Busto Arsizio, 1.10.2014,in www.ilcaso.it: “Sono da escludere dal novero della continuità aziendale tutte le fattispecie concordatarie caratterizzate dalla presenza di un contratto di affitto d’azienda. In particolare, non rientrano nella nozione di concordato con continuità aziendale le ipotesi in cui tale contratto, sia pure corredato da un impegno irrevocabile di acquisto da parte dell’affittuario, sia stato stipulato prima del deposito della domanda ex art. 161 L.F. o comunque prima dell’omologazione, atteso che il piano così strutturato non potrà contemplare l’esercizio dell’impresa come elemento di acquisizione del fabbisogno per il soddisfacimento dei creditori e posto che la cessione dell’azienda avverrà quando questa non sarà più in esercizio da parte del debitore”; Trib. Milano, 28.11.2013, in www.ilfallimentarista.it: “Dal momento della stipulazione del contratto di affitto, sia prima che dopo l’apertura del procedimento, il rischio di impresa grava sull’affittuario e non sui creditori concorsuali e dunque non vi è ragione per riservare all’azienda condotta da un soggetto estraneo all’impresa in crisi le speciali “utilità” previste dagli artt.186 bis e 182 quinquies (delle quali, in verità, neppure si vede come potrebbe fruire);né, d’altra parte, può sussistere in tal senso un interesse meritevole di tutela, da parte del debitore, proprio in quanto egli è estraneo a tale attività.
Ciò naturalmente non vuol dire che non sia legittima una proposta di concordato che preveda l’affitto dell’azienda quale strumento di soddisfacimento dei creditori concorsuali, ma che, in questo caso, non sarà possibile – in relazione all’attività dell’affittuario - essere autorizzati al pagamento di creditori anteriori o invocare le previsioni dell’art.186 bis in tema di prosecuzione dei contratti, essendo questi “benefici” riservati solo al debitore o alla società cessionaria o conferitaria dell’azienda o di rami d’azienda che prosegua l’attività d’impresa”; Trib. Patti, 12.11.2013, in www.ilcaso.it: “Ove l’imprenditore abbia concesso in affitto la propria azienda in epoca precedente alla presentazione della proposta concordataria - avanzata ai sensi dell’art. 186 bis L.F. - e in quest’ultima si preveda la prosecuzione dell’attività per mezzo dell’affittuario della stessa azienda, senza che sia contestualmente previsto un obbligo di acquisto a suo carico entro un dato termine, non può trovare applicazione la speciale disciplina dettata dall’art. 186 bis L.F., non potendo qualificarsi la fattispecie come concordato con continuità aziendale”.
([14]) Cfr. Ambrosini, Il piano di concordato. Continuità aziendale e cessione dei beni, cit., 119, il quale riconoscendo la riconducibilità al concordato con continuità di tutti i casi di affitto, rileva che “ciò che conta è che l’azienda sia in esercizio (non importa se ad opera dell’imprenditore stesso o di un terzo) tanto al momento dell’ammissione al concordato, quanto all’atto del successivo trasferimento (…), apparendo in tal caso incontestabile che il rischio d’impresa continui a gravare, seppur indirettamente, sul soggetto in concordato e che l’andamento dell’attività incida, in ulta analisi, sulla fattibilità del piano” Nello stesso senso Trib. Bolzano, 27.2.2013, www.ilcaso.it. V. inoltre Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, cit., 3218, il quale afferma, diversamente, che “se l’affitto è (…) anteriore alla domanda, “in pendenza di concordato” la continuità non vi è mai stata, e dunque non possono applicarsi le norme che (…) facilitano il mantenimento del valore dell’azienda e (…) la sua monetizzazione in caso di trasferimento a terzi”.
([15]) Cfr. in questo senso Trib. Udine, 5.5.2016, in www.ilcaso.it: “rientra nell'ambito della continuità aziendale e comporta, pertanto, l'applicazione della disciplina di cui all'articolo 186-bis legge fall. anche il caso in cui l'azienda sia stata affittata prima della presentazione della domanda di concordato e ciò in quanto l'esplicita previsione normativa della continuità indiretta induce a ritenere che il legislatore abbia dato rilevanza alla continuità in senso oggettivo, la quale non può considerarsi esclusa dal fatto che l'azienda sia stata affittata ad altro imprenditore prima della domanda di concordato”. Nello stesso senso, Trib. Alessandria, 18.1.2016, in www.ilcaso.it: “Il segno distintivo del concordato con continuità aziendale va individuato nella oggettiva, e non soggettiva, continuazione del complesso produttivo, sia direttamente da parte dell'imprenditore, che indirettamente da parte di un terzo (affittuario, cessionario, conferitario), come del resto evidenziato dalla stessa formulazione della norma di cui all'art. 186-bis, comma 1, legge fall., la quale distingue tra prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore e la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento della stessa in esercizio in una o più società, così che la previsione dell’affitto come elemento del piano concordatario, ove sia finalizzato al successivo trasferimento dell'azienda, deve essere ricondotta nell'ambito dell'art. 186-bis legge fall. con conseguente applicazione della relativa specifica disciplina (…); in altri termini, il presupposto per la continuità è costituito da una “continuità aziendale” di tipo oggettivo più che soggettivo, in quanto ciò che in definitiva rileva è che l’azienda sia in esercizio, non importa se ad opera dello stesso imprenditore o di un terzo, tanto al momento dell’ammissione che all’atto del successivo trasferimento poiché non appare concretamente contestabile che il rischio di impresa continui comunque a gravare, seppure indirettamente, sul debitore in concordato e che l’andamento dell’attività incida quindi sulla fattibilità del piano”; Trib. Bolzano, 10.3.2015, in www.ilcaso.it: “La nozione di continuità aziendale, così come definita espressamente dall’art. 186 bis L.F., ricomprende sia la fattispecie della cd. continuità diretta dell'attività in capo all’imprenditore, sia quella della continuità indiretta attuata mediante cessione o conferimento a terzi dell’azienda in esercizio. Pertanto, l’affitto stipulato prima della presentazione della domanda di concordato, come quello da stipularsi in corso di procedura concordataria non è, ove vi sia la previsione di successiva cessione dell’azienda in esercizio, di ostacolo all’applicabilità della disciplina tipica del concordato in continuità, essendo l’affitto un mero strumento giuridico ed economico finalizzato proprio ad evitare una perdita di funzionalità ed efficienza dell’intero complesso aziendale in vista di un suo successivo passaggio a terzi. L’affitto d’azienda che persegua la finalità di mantenere in vita, di continuare, appunto, l’attività d’impresa, non è altro che uno “strumento ponte” per giungere alla cessione o al conferimento della stessa senza il rischio della perdita dei valori intrinseci - primo fra tutti l’avviamento - che un suo arresto, anche solo momentaneo, produrrebbe in modo irreversibile. L'affitto d’azienda rappresenta, quindi, uno strumento compatibile, essenziale e funzionale al raggiungimento degli obiettivi sottesi, da un lato della conservazione dell’impresa, e dall’altro al miglior soddisfacimento del ceto creditorio. Lo spartiacque fra il concordato liquidatorio e quello in continuità deve, pertanto, essere individuato nell'oggettiva, e non soggettiva, continuazione del complesso produttivo, sia direttamente da parte dell’imprenditore, che indirettamente da parte di un terzo (affittuario, cessionario, conferitario), con conseguente applicazione della specifica disciplina, in termini di benefici e oneri”; Trib. Avezzano, 22.10.2014, in www.ilcaso.it: “Ai sensi dell’art. 186-bis L.F., la proposta concordataria e il relativo piano possono dirsi in continuità quando la proponente preveda esplicitamente l’obbligo di acquisto dell’azienda in capo all’affittante”; Trib. Vercelli, 13.8.2014, in www.ilcaso.it:“L’affitto di azienda, anche se anteriore al deposito della domanda di concordato, in quanto funzionale al trasferimento dell’impresa con mantenimento in esercizio della stessa, rappresenta una modalità di esercizio dell’attività imprenditoriale non diversamente dall’alternativa (esplicitamente prevista dall’articolo 186 bis L.F.) della cessione dell’azienda in esercizio, sicché in presenza delle condizioni descritte nulla osta all’applicazione dell’articolo in questione anche in presenza di affitto di ramo di azienda”; Trib. Cassino, 31.7.2014, in www.ilcaso.it: “La stipula del contratto di affitto di azienda in data anteriore alla presentazione del ricorso per concordato preventivo non pone problemi di compatibilità con la continuità aziendale”; Trib. Cuneo, 29.10.2013,in www.ilcaso.it: “Nel concordato preventivo la previsione dell’affitto come elemento del piano concordatario, purché finalizzato al trasferimento dell’azienda e non destinato alla mera conservazione del valore dei beni aziendali al fine di una loro più fruttuosa liquidazione, deve ritenersi riconducibile all’ambito disciplinato dall’art. 186-bis l. fall.”; Trib. Mantova, 19.9.2013, in www.ilcaso.it: “Può rientrare nella previsione dell’art. 186 bis L.F. l’ipotesi in cui prima della presentazione della domanda di concordato la proponente abbia affittato l’azienda in esercizio, contemplando nel piano la prosecuzione dell’attività per mezzo della cessione dell’azienda”; Trib. Monza, 11.6.2013 (Pres Paluchowski), in www.ilcaso.it: “Il contratto di affitto è compatibile con lo strumento del concordato con continuità aziendale quando è propedeutico alla successiva cessione dell’azienda funzionante all’affittuario, cessione che deve essere già prevista come obbligatoria nella proposta di concordato, perché solo in tal caso si rientra nell’ipotesi della cessione d’azienda direttamente disciplinata dalla norma dell’articolo 186 bis L.F.” [N.B.: la pronuncia, sia pure espressiva di un principio di diritto ampio, riguarda un caso nel quale il contratto d’affitto d’azienda è stato stipulato dopo l’ammissione dell’imprenditore alla procedura concordataria].
([16]) Tale posizione è condivisa da Trib. Terni 2.4.2013, cit., il quale ha rilevato che “solo laddove il canone non sia pattuito in misura fissa, ma parametrato sull’andamento dell’attività dell’affittuario, l’alea della gestione ricade indirettamente sul ceto creditorio, perciò dischiudendo la necessità che il piano e l’attestazione del professionista si conformino alle prescrizione dell’art. 186-bis l. fall.”.
([17]) Così Quattrocchio-Ranalli, Concordato in continuità e ruolo dell’attestatore: poteri divinatori o applicazioni di principi di best practice, in www.ilfallimentarista.it, 3.8.2012, 7.
([18]) Linee guida della Sezione fallimentare del Tribunale di Roma in ordine a talune questioni controverse della procedura di concordato preventivo del maggio 2016, in www.ilcaso.it.
([19]) Cfr. Di Marzio, Il pagamento concordatario dei creditori garantiti può essere dilazionato solo per consenso o nei casi previsti dalla legge, in www.ilfallimentarista.it, 22.7.2014.
([20]) Così Bozza, Una lettura controcorrente dell’art. 186-bis, comma secondo, lett. c) della Legge Fallimentare, in www.ilcaso.it, 18.6.2014, 27 ss. La tesi restrittiva è stata affermata, in dottrina, da Cataldo, Prosecuzione dell’impresa mediante affitto d’azienda nel concordato preventivo e offerta di pagamento dilazionato ai creditori privilegiati, in Fallimento, 2014, 468; Lamanna, La pretesa indistinta ammissibilità nel concordato preventivo del pagamento dilazionato dei crediti muniti di prelazione, in www.ilfallimentarista.it, 4.6.2014; Zanichelli, La dilazione del pagamento dei creditori privilegiati: quando le ragioni dell’economia fanno premio su quelle del diritto, in www.ilfallimentarista.it, 26.1.2015, 5 ss.. In giurisprudenza si vedano Trib. Monza, 26.9.2014, www.ilcaso.it; Trib. Marsala, 5.2.2014, www.ilcaso.it; Trib. Padova, 4.12.2013, www.ilcaso.it; Trib. Padova, 30.5.2013, in Fallimento, 2014, 445.
([21]) Cfr. Casa, Controversie teoriche e discussioni pratiche sull’art. 186 bis l. fall., in Fallimento, 2013, 1389, secondo cui “se la moratoria supera il limite di un anno riprende vigore la regola generale” della attribuzione del diritto di voto; Lo Cascio, Crisi delle imprese, attualità normative e tramonto della tutela concorsuale, in Fallimento, 2013, 13; Canepa, Il Concordato con continuità aziendale, in Italia oggi, 15.11.2012, 56. In giurisprudenza v. Trib. Bolzano, 27.2.2013, www.ilcaso.it e Trib. Terni, 12.2.2013, www.ilcaso.it.
([22]) Così Pirisi, La dilazione e la legittimazione al voto dei creditori assistiti da cause legittime di prelazione nel concordato preventivo, in Fallimento, 2015, 280. Cfr. Trib. Ravenna, 19.8.2014, www.ilfallimentarista.it, secondo cui “una interpretazione sistematica dell’art. 186 bis co. 2 lett. c) unitamente all’art. 160 l.f. deve perciò portare a ritenere che il Legislatore non abbia inteso vietare la dilazione temporale dei creditori oltre l’anno (…) ma abbia piuttosto introdotto una facoltà ulteriore rispetto a quella più generale prevista dal citato art. 160 (il cui secondo comma viene appunto mantenuto ‘fermo’)”
([23]) Cfr. Terranova, Il concordato “con continuità aziendale e i costi dell’intermediazione giuridica, in Dir. fall., 2013, I, 5.
([24]) V. Così Vella, Autorizzazioni, finanziamenti e prededuzioni nel nuovo concordato preventivo, in Fallimento, 2013, 661 ss.; Id, L’accrescimento dei controlli giudiziali di merito e degli strumenti protettivi nel nuovo concordato preventivo (dopo la legge n. 134/12), in www.ilcaso.it, 31.10.2012, 38.
([25]) Cfr. D’Orazio, L’ammissibilità della domanda di concordato preventivo con proposta di dilazione di pagamento ai creditori prelazionari, in Fallimento, 2014, 457,secondo cui “pare possibile anche estendere, per analogia, il contenuto dell’art. 186-bis, lett. c), anche ai concordati preventivi senza continuità aziendale, consentendo l’esercizio del diritto di voto ai prelazionari non pagati immediatamente dopo l’omologa”. Nel senso dell’inestensibilità dell’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l. fall. al concordato liquidatorio si vedanoPirisi, cit., 279, secondo cui “non vi è alcuna necessità di estenderne il contenuto anche al concordato liquidatorio, posto che (…) in tal caso troverà applicazione la regola generale della dilazionabilità ultrannuale dei crediti prelatizi e, conseguentemente, l’attribuzione del diritto di voto” e Casa, cit., 1389, secondo cui “per converso, in ogni altro ambito, compreso quello dei concordati liquidatori, dovrebbe allora trovare applicazione la regola generale, quella della moratoria anche oltre l’anno per il pagamento dei creditori muniti di privilegio”.
Scarica Articolo PDF