CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 31/12/2015 Scarica PDF
Il sistema concorsuale italiano ieri, oggi, domani (brevi note di fine anno)
Paola Vella, Giudice nella Corte di CassazioneI.) Premessa
Mentre l’anno duemilaquindici si sta per chiudere, un’attesa prospettiva si schiude all’orizzonte giuridico del nuovo anno: con la consegna al Ministro della Giustizia, da parte del Presidente della Commissione da lui stesso istituita[1], di uno “schema di legge delega” per la riforma organica delle varie procedure concorsuali oggi contemplate dal nostro ordinamento giuridico, si profila finalmente la possibilità che, superata l’esecrabile tecnica di riforma alluvionale “per inserti”, il nostro legislatore acceda al più ambizioso disegno di emanare un unico testo normativo che, sostituendosi al caleidoscopico conglomerato della vigente legge fallimentare e delle numerose altre leggi in materia di crisi d’impresa, costituisca una disciplina coerente ed unitaria del fenomeno dell’insolvenza.
In effetti, per la prima volta nel nostro Paese si sta ragionando “a tutto tondo” sull’insolvenza, quale fenomeno sistemico ed evento non più (ineluttabilmente) patologico, ma in certo qual modo fisiologico allo svolgimento di un’attività lato sensu economica, cui essa è costantemente adesa sotto forma di rischio, a genesi tanto soggettiva (condotte negligenti o colpevoli del debitore) quanto oggettiva (eventuali congiunture esterne, del tutto indipendenti dalla sua volontà, in questo periodo storico drammaticamente reali).
E ciò a prescindere dalla natura e dalle dimensioni del fenomeno, che nella sua fondamentale essenza caratterizza tanto la difficoltà quanto l’impossibilità di adempiere le obbligazioni assunte - facendo fronte ai debiti maturati - sia che si tratti di consumatore, professionista, artigiano o piccolo imprenditore, sia che si tratti di imprese medio-grandi, individuali o collettive, in qualsiasi forma organizzate (societaria, associativa, cooperativa), sia che si tratti di grandi imprese o gruppi di imprese, anche “strategiche”, nazionali o multinazionali: fermo restando il suo nucleo concettuale, infatti, a variare sono più che altro le conseguenze implicate e le soluzioni richieste.
Può ben dirsi che sia stata la profonda e prolungata crisi economica degli ultimi tempi a rendere ineludibile un mutamento di approccio al fenomeno dell’insolvenza, come emblematicamentre recita lo stesso titolo della Raccomandazione n. 2014/135/UE, “Su un nuovo approccio al Fallimento delle imprese e all'Insolvenza”, appunto.
Per un verso, infatti, la generalizzazione del rischio di default - a partire dal singolo e fino agli stessi Stati sovrani - ha agevolato l’adozione di un concetto unitario, e di strumenti di valutazione omogenei, di quelle che sono apparse variegate espressioni di una medesima epifania; per altro verso, l’insidiosa diffusione delle varie forme di sovraindebitamento ha reso palese la necessità di traghettare le strategie di superamento della crisi dalla logica (radicale e liquidatoria) della “espulsione” all’orbita (assai più complessa ed esigente) della “conservazione”, quest’ultima collocata all’interno del mercato sia sul versante del consumo - indirettamente anche tramite la prosecuzione dell’attività professionale - sia sul versante della produzione, attraverso la continuazione dell’esercizio dell’attività di impresa, o meglio dell’impresa tout court, quale substrato aziendale oggettivo da salvaguardare, anche a costo di renderla “orfana”, se adottata da un terzo imprenditore.
In questa latitudine, sembra potersi ormai preconizzare - sempre che il legislatore interpreti con lungimiranza il nuovo scenario, mantenendo fede agli obbiettivi preposti ai lavori della Commissione - una epocale saldatura tra le varie “placche tettoniche” dell’universo concorsuale, dai suoi istituti più tradizionali (fallimento, concordato, liquidazione coatta amministrativa, amministrazioni straordinarie) a quelli più moderni (piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione dei debiti, procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, convenzioni di moratoria), sinora ispirati da logiche alquanto distanti, e talora addirittura divergenti tra loro.
Tuttavia, per quanto sia la stessa Unione Europea a spingere nella nuova direzione, le potenzialità insite nella proposta elaborata dalla Commissione Rordorf potranno essere debitamente colte e sviluppate solo mettendo a fuoco i tratti differenziali del (più recente) sistema passato e di quello attuale, per coglierne la necessaria discontinuità rispetto alla immaginata riforma futura. Ed è questo il modesto scopo delle poche righe che seguono, le quali non ambiscono ad alcuna completezza, se non altro per mancanza del tempo che l’approfondimento di una così vasta tematica richiederebbe.
II.) Ieri (1942-2005): la stagione del “Rigore”
L’originario impianto della legge fallimentare - il r.d. 16 marzo 1942, n. 267 - risale a quasi tre quarti di secolo orsono[2], ma è ancora in gran parte applicata, a testimonianza di una straordinaria solidità (invero tipica di molte codificazioni dell’epoca), capace di reggere, quantomeno nelle sue grandi linee, alle intemperie di pluridecennali evoluzioni dell’ordinamento giuridico e, soprattutto, del mercato.
In un contesto economico tendenzialmente in ripresa, e con un sistema di valori eticamente scolpito, l’insolvenza non poteva che essere percepita come fallimento in senso morale, prima ancora che imprenditoriale.
Questo spiega la forte stigmatizzazione sociale di allora, talmente radicale da intaccare persino i diritti politici del debitore, ed efficacemente ipostatizzata nel “pubblico registro dei falliti”, da cui il debitore poteva affrancarsi solo attraverso il procedimento di riabilitazione, capace però di far cessare - peraltro al ricorrere di stringenti condizioni, ovvero di una prolungata dimostrazione di “buona condotta” - solo le incapacità personali del fallimento, senza incidere in alcun modo sui debiti residui, che continuavano in ogni caso a rallentare (se non a precludere) ogni futura iniziativa imprenditoriale.
Di lì anche l’obbiettivo di espungere quanto prima l’imprenditore insolvente dal mercato, per evitarne ogni possibile contaminazione, senza nemmeno attendere l’iniziativa dei creditori, né quella, pure di matrice pubblicistica, del pubblico ministero, restando il tribunale fallimentare libero di rilevare autonomamente ed officiosamente la sussistenza di quel pericoloso ed esecrabile stato di insolvenza.
Lo strumentario era poi pressoché esclusivamente liquidatorio e punitivo, sorretto dal principio di spossessamento (totale o parziale) del debitore.
Gli effetti esdebitatori restavano invece relegati alla sola ipotesi concordataria, soggetta ad un rigoroso vaglio giudiziale di meritevolezza e condizionata all’assunzione di uno specifico, oneroso, e “seriamente” garantito, impegno satisfattorio: il pagamento di almeno il quaranta percento dei crediti chirografari, entro sei mesi dalla data di omologazione del concordato, salva una dilazione maggiore purché con interessi parimenti garantiti.
In fase di accesso, l’impegno del debitore era sottratto alla valutazione discrezionale dei creditori, essendo rimesso all’esame ammissivo del tribunale fallimentare, chiamato poi, in seconda battuta, a verificarne anche il regolare adempimento, senza che l’originario requisito di accesso del quaranta percento mantenesse la sua efficacia vincolante nella valutazione delle fattispecie di inadempimento rilevanti ai fini della risoluzione del concordato.
D’altro canto, la presenza “invasiva” dell’organo giudiziale nella stessa fase di gestione delle procedure incarnava la cifra marcatamente eteronoma del sistema concorsuale, pensato in funzione protettiva degli stessi creditori, evidentemente ritenuti incapaci di tutelare autonomamente i propri interessi, nonostante la presenza di un loro organo esponenziale (il comitato dei creditori) invero non rappresentativo, perchè di nomina non già elettiva bensì (anch’essa) giudiziale.
III.) Oggi (2005-2015): la stagione dell’ “Autonomia”
Dopo oltre mezzo secolo di sostanziale fissità, quel sistema ha subito una sorta di “rivoluzione copernicana” con un primo intervento d’urgenza del 2005, portato poi a compimento con una riforma più sistematica del 2006, messa a punto nel 2007 ed entrata a pieno regime il primo gennaio del 2008.
Di lì, sono seguiti due lustri di continue - talvolta anche infrannuali - modifiche legislative che, presentatesi dapprima come meri “ritocchi”, hanno via via assunto ben altra connotazione, sino a culminare, nell’ultimo biennio, in una sorta di “controriforma”, che sulla scorta di impreviste derive dei nuovi input culturali (sulla falsariga del binomio: autonomia delle parti - terzietà del giudice), ha visto progressivamente riemergere alcuni tratti dell’originario impianto, determinando una riespansione dei poteri giudiziali che il legislatore della prima riforma aveva voluto fortemente comprimere entro i confini di un mero (o quantomeno prevalente) controllo di legalità.
In effetti, quella spinta riformatrice era nata dalle ceneri di un sistema rivelatosi nel tempo (è proprio il caso di dire) “fallimentare”, perchè non solo fortemente inefficiente nel suo risultato finale - in termini di tempi e costi delle procedure - ma anche foriero di un’inutile compressione della libertà economica personale, con effetti pericolosamente “depressivi” sull’intero sistema produttivo-imprenditoriale, ingessato da insolvenze e destabilizzanti ripercussioni a catena, peraltro esacerbate dall’avanzante crisi economica globale.
Si era pensato, allora, che rendendo debitore e creditori effettivi protagonisti ed artefici dei loro destini, restringendo il ruolo del giudice a semplice controllore della legittimità nonché risolutore dei conflitti in posizione di terzietà, e conferendo maggiore autonomia ai “gestori” delle procedure, queste avrebbero finalmente preso una piega diversa, riuscendo a pervenire, in tempi decisamente più brevi, alla migliore soddisfazione possibile dei creditori.
Così non è stato.
Il superamento dell’impronta eteronoma e l’allestimento di innovativi strumenti di risoluzione della crisi, destinati a prevenire l’insolvenza - come gli accordi di ristrutturazione dei debiti e il concordato “con riserva” - non hanno dato i frutti sperati: la maggiore libertà e responsabilità concessa al debitore è spesso degenerata in abusi, cui si è tentato di porre (efficacemente) rimedio con l’inasprimento dei controlli, diretti o indiretti, del giudice; a sua volta, la maggiore autonomia riconosciuta ai creditori ha trovato un ceto creditorio in realtà non ancora pronto e maturo per assolvere il nuovo ruolo, tanto che lo strumento più avanzato degli accordi di ristrutturazione è rimasto pressochè disapplicato; e persino il (positivo) affrancamento delle risorse giurisdizionali da impropri ruoli gestori non ha prodotto grandi risultati, sia per la tendenza inerziale dei professionisti a cercare anche nei dettagli l’avallo del giudice, sia per il menzionato revirement del legislatore, che ha inteso arginare le derive di cui si è detto ripristinando penetranti controlli ed autorizzazioni giudiziali, specie in sede concordataria.
Il sostegno alla ristrutturazione delle imprese è stato invece solo indiretto, concentrandosi per lo più sul riconoscimento della prededuzione come stimolo al finanziamento dell’impresa in crisi, senza però curarsi di quanto grave ne fosse lo stadio (spesso coincidente con una larvata insolvenza) e quindi rischiando di trasformare la misura della prededucibilità in un boomerang per il ceto creditorio, a causa della sua tendenza ad assorbire le già poche risorse di soggetti imprenditoriali affacciatisi troppo tardi sul proscenio della concorsualità.
Lo stesso legislatore ha mostrato di essersene ormai lucidamente accorto.
Da un recente convegno tenutosi il 23 novembre di quest’anno presso la Camera, nell’Aula dei Gruppi parlamentari[3], è emersa la consapevolezza che il presupposto della riforma del 2005 si è rivelato illusorio, se non altro per l’amara constatazione che, a distanza di dieci anni dalla sua introduzione, le innumerevoli disposizioni di favor per la soluzione concordataria non sono state responsabilmente utilizzate dalle imprese debitrici per conservare il valore aziendale, possibilmente risanandosi, ma piuttosto per sottrarsi al fallimento ed alle correlate responsabilità civili e penali, procrastinando un esito ormai capace di essere solo di tipo liquidatorio, come testimoniano il marginale ricorso ai concordati in continuità (attestato intorno alla soglia del dieci percento) e l’inconsistenza della soddisfazione assicurata ai creditori chirografari (parimenti attestata sulla media del dieci percento).
Nè si è mancato di rilevare, in quella sede, l’effetto perverso di un “contagio epidemico dell’insolvenza occulta” sulle imprese concorrenti, pregiudicate dalla tendenza dell’imprenditore in crisi a “galleggiare” sul proprio (incombente) stato di insolvenza, grazie all’omesso pagamento dei debiti tributari e previdenziali, che paradossalmente gli consente di praticare - sia pure solo in una prospettiva di breve termine - prezzi inferiori a quelli applicati dai competitors che quegli stessi obblighi diligentemente assolvono.
Le ragioni di questo ennesimo “fallimento” risiedono nella estrema miopia di misure adottate solo “a valle”, ed in astratto, quasi che l’efficienza potesse recuperarsi semplicemente disegnando sulla carta strumenti innovativi o imponendo a priori tempi più stretti, senza analizzare, “a monte”, le cause di quella inefficienza, per apprestarvi i rimedi in concreto più appropriati.
Tuttavia, non mancano spunti ricognitivi diretti a cogliere l’essenza di quelle cause.
In particolare, una indagine empirica curata dall’Osservatorio sulle Crisi di Impresa[4] ha offerto un interessante focus economico-aziendalistico sulle imprese ammesse al concordato preventivo nel quadriennio 2009-2012, sulla base di n. 1131 questionari che hanno coinvolto 45 uffici giudiziari di 18 regioni italiane.
Ne è risultato, tra l’altro, un allarmante spaccato dell’incapacitàdelle imprese italiane a promuovere autonomamente processi di ristrutturazione precoce, per vari fattori che ne riducono la competitività, quali il sottodimensionamento (l’ottantacinque percento di esse avendo un fatturato inferiore ai dieci milioni di euro), un capitalismo di tipo “familiare” (in oltre il sessanta percento appartenendo il capitale di rischio ad un’unica famiglia), il personalismo e la scarsa turnazione nei ruoli imprenditoriali e manageriali, la debolezza degli assetti di corporate governance (l’organo amministrativo risultando indipendente solo nel ventiquattro percento dei casi e legato da vincoli familiari alla proprietà per l’ottantasette percento), lo scarso utilizzo di sistemi di controllo diversi dal collegio sindacale (restando sotto la soglia del dieci percento il ricorso a società di revisione, revisore contabile, internal auditing o comitato di controllo interno al c.d.a., e addirittura sotto la soglia dell’uno percento il ricorso all’organismo di vigilanza ex D.Lgs. n. 231/01), le carenza dei sistemi operativi, la mancanza di organi specialistici (responsabili di varie aree, quali quella amministrativa, del controllo di gestione, della tesoreria, dei finanziamenti, del risk management o della tassazione), la prevalenza degli strumenti di consuntivazione rispetto ai meccanismi di pianificazione e controllo (verifiche o reporting, piani strategici e budget), il raro affidamento in outsourcing delle attività amministrative (per lo più solo bilanci d’esercizio e dichiarativi fiscali).
Di qui il quadro conclusivo di «un’azienda decisamente situata in fase terminale, affaticata e routinaria, inerte anche perché cieca - in quanto priva di analisi interne e di indicatori quantitativi sull’andamento della gestione - davanti al deterioramento delle sue prestazioni. Prevale nettamente il personalismo autoreferenziale dell’imprenditore, peraltro alla guida di un’azienda matura, il quale riunisce sotto di sé ampie prerogative di proprietà, gestione e controllo, creando ideali confini di un “sistema chiuso e statico”: un modello d’impresa assolutamente inidoneo (…) privo non solo di strumenti di monitoraggio, ma anche di supporti di previsione e di pianificazione, anche a breve termine, che procede quindi in maniera inerziale»[5].
Ed ancora un report consuntivo di procedure concordatarie che, «soprattutto se orientate alla liquidazione atomistica degli attivi patrimoniali, portano alla distruzione di valore aziendale con l’abbattimento e in certi casi l’azzeramento del valore delle risorse immateriali», in quanto vissute dagli imprenditori del nostro Paese «come un male necessario, un’onta destinata a segnare profondamente l’esperienza imprenditoriale e i rapporti interpersonali con clienti, fornitori, concorrenti, istituti bancari e altri stakeholder». I dati sembrano insomma suggerire che gli imprenditori italiani «ritardano il più possibile la presentazione della domanda di concordato, uscendo allo scoperto probabilmente quando è troppo tardi per implementare un vero e proprio processo di risanamento»; di conseguenza, i loro timori che l’emersione della crisi possa innescare un’immediata perdita di fiducia degli stakeholder «producono un clima a forte rischio di comportamenti opportunistici che finisce con il peggiorare la crisi aziendale fino allo stato di insolvenza»[6].
IV.) Domani (2015-2016): la stagione del “Sostegno”
Una volta chiarite le cause, è più facile apprestare i rimedi.
Che non potranno, però, ripercorrere tracciati di sperimentata inconcludenza, come quelli delle stagioni precedenti.
Un faro, in tal senso, è stato già da tempo acceso dalle Istituzioni Europee.
Dalla lettura del Piano d’azione imprenditorialità 2020 [COM(2012) 9 gennaio 2013], richiamato nel IX Considerando della Raccomandazione n. 2014/135/UE, è emerso in primo luogo che prevale, in tutta Europa, la dimensione delle Piccole/Medie Imprese, e che l’imprenditorialità - possente volano della crescita economica e della creazione di posti di lavoro - è, ovunque, a rischio.
Di seguito i brani più significativi del documento:
«Le nuove imprese, in particolare le PMI, rappresentano la fonte più importante di nuova occupazione: esse creano ogni anno in Europa più di quattro milioni di nuovi posti di lavoro (...) In generale gli imprenditori potenziali in Europa si trovano in un contesto difficile: i sistemi d'istruzione non offrono le giuste basi per una carriera imprenditoriale, si registrano difficoltà d'accesso al credito e ai mercati, difficoltà nei trasferimenti di imprese, il timore di sanzioni punitive in caso di fallimento nonchè procedure amministrative onerose. L'analisi annuale della crescita 2013 ha ribadito di recente la necessità di migliorare il contesto imprenditoriale per accrescere la competitività delle economie dell'UE. Inoltre, le misure a sostegno delle PMI continuano a rimanere sbilanciate, poichè un numero sostanziale di Stati membri dell'UE continua a non tener conto delle caratteristiche delle piccole imprese, in particolare delle microimprese» (...)
«Le nuove imprese richiedono un'attenzione specifica. Vi sono sei ambiti chiave in cui occorre intervenire per rimuovere gli ostacoli che attualmente impediscono la creazione e la crescita di tali imprese: accesso ai finanziamenti; sostegno agli imprenditori nelle fasi cruciali del ciclo vitale dell'impresa e della sua crescita; sprigionare le nuove opportunità imprenditoriali nell'età digitale; trasferimenti di imprese; procedure fallimentari e seconda opportunità per gli imprenditori onesti; riduzione dell'onere normativo». (…)
«Circa il 50% delle nuove imprese fallisce nel corso dei primi cinque anni. Se vogliamo che gli imprenditori europei siano in grado di produrre la crescita che ci attendiamo da loro, dobbiamo consacrare maggiori risorse per aiutarli a sormontare questo periodo. Le imprese mancano spesso di un ecosistema appropriato favorevole alla crescita. Un soccorso essenziale può essere fornito da servizi di sostegno che conoscono i mercati su cui agiscono le nuove imprese e possono così accrescere significativamente il loro tasso di riuscita. Un sostegno efficace consiste in programmi olistici che integrano elementi essenziali come la formazione degli amministratori, il tutoraggio in tema di R&S (Ricerca e Sviluppo) e la costituzione di reti con i pari e con i fornitori e clienti potenziali».
«Gli imprenditori hanno sempre più bisogno di aiuto e consulenza per far fronte con gli investimenti strategici e lo sviluppo dei prodotti ai vincoli legati alla disponibilità di risorse e alle insicurezze sul lato dell'offerta. Inoltre l'adeguamento dei prodotti alle nuove norme e ai requisiti di efficienza energetica e riciclo richiesto dalle aziende clienti sottopone le piccole imprese a una pressione crescente».
Due, in ultima analisi, gli obbiettivi indicati: a) «offrire servizi di sostegno alle imprese in tema di ristrutturazione precoce, di consulenza per evitare i fallimenti e di sostegno alle P.M.I. per ristrutturarsi e rilanciarsi»; b) «ridurre nei limiti del possibile il tempo di riabilitazione e di estinzione del debito nel caso di un imprenditore onesto che ha fatto bancarotta, portandolo a un massimo di tre anni entro il 2013».
Fanno eco a queste indicazioni i suggerimenti rivolti agli Stati membri dell’Unione europea con la citata Raccomandazione n. 2014/135/UE, il cui obbiettivo primario è proprio «garantire alle imprese sane in difficoltà finanziaria, ovunque siano stabilite nell’Unione, l'accesso a un quadro nazionale in materia di insolvenza che permetta loro di ristrutturarsi in una fase precoce in modo da evitare l'insolvenza, massimizzandone pertanto il valore totale per creditori, dipendenti, proprietari e per l'economia in generale»; analogamente, l’ulteriore obbiettivo è «dare una seconda opportunità in tutta l’Unione agli imprenditori onesti che falliscono» (I Considerando).
La nuova stagione non può dunque che essere una stagione del “Sostegno”.
Per guidare (soprattutto) le piccole-medie imprese, superandone le acclarate inefficienze interne, verso una ristrutturazione precoce, secondo un piano «che sia tale da impedire l'insolvenza e garantire la redditività dell'impresa», come si legge sempre nella citata raccomandazione (XVI Considerando).
Esattamente lungo questa direttrice si è mossa la Commissione Rordorf, propugnando in primo luogo la tanto attesa introduzione di “Procedure d’allerta e di composizione assistita della crisi” e puntando, a tal fine, su un momento di incontro, consulenza e confronto tra i soggetti interessati, che sia, e come tale appaia, del tutto esterno alla giurisdizione, individuato (anche per evitare inutili superfetazioni di enti, che - per dirla con Guglielmo di Occam - non sunt multiplicanda sine necessitate) negli attuali Organismi di composizione della crisi previsti dalla Legge n. 3/2012, adeguatamente rivisti e valorizzati.
E’ parso infatti decisivo far tesoro della (disarmante) fotografia del panorama imprenditoriale esistente per allestire un percorso, rassicurante ma qualificato, che fosse al tempo stesso premiante e puntivo (quasi un novello Ianus bifrons), all’unico ed imprescindibile scopo di agire tempestivamente (cogliendo il Kairos della concorsualità), anche grazie a stimoli e controlli, interni ed esterni, rafforzati, seppure non tanto da risultare eccessivamente invasivi o svilenti dell’autonomia imprenditoriale; ferma restando, ovviamente, l’assunzione delle conseguenti responsabilità.
In questo nuovo scenario, cadono naturalmente il senso e la stessa utilità delle antiche “colpevolizzazioni”, volendosi piuttosto stimolare una diversa cultura dell’impresa ed un diverso approccio olistico alla cura della sua crisi, nell’interesse e a beneficio dell’intera collettività socio-economica; sino a prefigurare il pieno concorso anche di terzi imprenditori a far emergere la crisi e a fornire credibili ipotesi di soluzione, purché idonee a preservare il valore aziendale di una impresa in sé, quando essa è ancora sana, sia pure sull’orlo del precipizio.
Di conseguenza, l’obbiettivo ultimo non è né punire l’imprenditore incapace (o peggio ancora disonesto), anche a costo di sacrificare gli interessi dei creditori, né inseguire la chimera del loro migliore soddisfacimento, confidando esclusivamente su una autonomia e discrezionalità cui il ceto creditorio si è mostrato ancora impreparato, ma puntare su un meccanismo virtuoso capace finalmente di stanare l’imprenditore italiano dal limbo in cui spesso si auto-relega, per sfuggire ottusamente all’onta, o alle responsabilità, ovvero (dopo le più recenti riforme di questa estate) alla stessa concorrenza delle proposte di terzi, per aggrapparsi ostinatamente al simulacro di una creatura aziendale ormai in fin di vita, pur di non farsi sopravanzare nelle decisioni che la riguardano.
L’ottica deve quindi essere solo (e semplicemente) la ricerca della soluzione più appropriata, da selezionarsi all’interno della tassonomia degli strumenti allestiti dall’ordinamento per fronteggiare la crisi o gestire l’insolvenza, in quella gradualità che al momento oscilla tra gli antipodi dei piani attestati di risanamento e del “fallimento”, quest’ultimo destinato a scomparire dal lessico della concorsualità, per far posto - nell’ambito di una medesima strategia - ad un più anodino lemma, quale è certamente la “liquidazione”.
In questa ricerca, i vari protagonisti della crisi di impresa possono giocare su tavoli diversi, ma pur sempre dallo stesso lato, quello della salvaguardia dell’impresa o, in ultima analisi, della sua più efficiente liquidazione, sulla base di un approccio unitario al fenomeno.
Per questo, dopo la prima stagione in cui la regolazione della crisi poteva avvenire solo “con il Giudice”, ed una seconda stagione protesa alla ricerca di soluzioni “senza il Giudice”, si deve aprire una nuova stagione in cui le parti, esperito ogni utile tentativo per uscire dalla crisi attraverso un percorso qualificato di negoziazione assistita, si determinino, in caso negativo, ad individuare la soluzione più appropriata “insieme al Giudice”.
Ed è proprio nel bilanciamento tra queste varie (e talore contrapposte) esigenze che hanno preso corpo, arricchite dall’osmosi tra le variegate estrazioni professionali dei suoi componenti, le proposte concrete e dettagliate della Commissione Rordorf, delle quali ci si augura possa farsi l’uso più proficuo, con la necessaria tempestività.
[1] La nota “Commissione per elaborare proposte di interventi di riforma, ricognizione e riordino della disciplina delle procedure concorsuali”, istituita con D.M. 28 gennaio 2015 e presieduta dall’attuale Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, Renato Rordorf.
[2] Fa davvero effetto pensare che si era, all’epoca, nel pieno del secondo conflitto mondiale.
[3] Convegno dal titolo “Investire in Italia. Legalità e certezza delle regole come volano per la competitività”, cui hanno partecipato anche alcune delegazioni diplomatiche ed il rappresentante della Direzione generale Giustizia e consumatori della Commissione europea, Ondrej Vondràcek. In particolare, nella sessione mattutina il tema dibattuto è stato “Il nuovo diritto concorsuale e il sostegno alle imprese. Riflessi sulle PMI”, mentre la sessione pomeridiana si è occupata del “Diritto penale dell’economia: affidabilità, trasparenza, competitività”.
[4] “Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione - La soluzione negoziata della crisi d’impresa: dalla domanda al piano all’attuazione operativa. I progetti aziendali e le scelte processuali”, Ipsoa, 2013.
[5] Paolo Bastia, op.cit., capitolo I.
[6] Angelo Paletta, op.cit., capitolo X.
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