Trust
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 28/11/2015 Scarica PDF
Riflessioni sull'ordinanza del Tribunale di Monza 12 ottobre 2015 e sulla sentenza del Tribunale di Monza del 13 maggio 2015: ma l'Italia è un paese non trust?
Annapaola Tonelli, Avvocato in BolognaLe ordinanze
in commento, che offrirebbero numerosi spunti di riflessione su aspetti anche
processuali derivanti dalla iterazione fra i trust e codice di rito, saranno
oggetto di alcune note strettamente attinenti ai principi fondanti il diritto
dei trust, ponendoli a confronto con la Convenzione sulla legge applicabile ai
trust ed al loro riconoscimento[1] e le norme interne vigenti.
La prima domanda che viene spontaneo porsi è se si vuole riconoscere valenza
alla legge n. 364 del 16 ottobre 1989, che come è noto ha ratificato e resa
esecutiva tale Convenzione o se si vuole, destituirla di fondamento.
Posto che così non può avvenire, non essendo questa la strada che il nostro
sistema giuridico ha delineato per privare di efficacia le leggi, occorre
allora riportare la questione "trust interni" sui giusti binari che
le competono.
Le riflessioni che seguono si attestano su due temi centrali dei provvedimenti
in commento ossia, un primo tema, di portata minore, avente ad oggetto la
validità del trust autodichiarato e quindi se esso abbia la sua legittima fonte
nella Convenzione ed un secondo tema di portata più generale che riguarda
l'ammissibilità del trust interno[2].
§. 1 Sul trust autodichiarato
Il proliferare di trust illeciti (molto spesso autodichiarati) posti in essere
esclusivamente per frodare i creditori, se ha per un verso esacerbato gli animi
dei nostri tribunali, che emettono a raffica provvedimenti di censura, ha per
altro verso indotto taluni a "buttare via il bambino insieme all'acqua
sporca", per usare un detto che al meglio rende il senso di quello che ci
si accinge a precisare.
A parere di chi scrive, questo fatto è molto grave.
Negli ultimi tempi si sta assistendo ad una vera e propria forzatura del
sistema giuridico posta in essere nei confronti del trust interno che risulti
in palese frode dei creditori, il quale, invece di essere naturalmente revocato
ai sensi dell'art. 2901 cc, seguendo il percorso che la legge ha tracciato per
tali fattispecie, diviene oggetto delle sanzioni più disparate e fantasiose, a
volte però prive di adeguato sostegno da parte delle leggi vigenti.
Il negozio in frode ai creditori è soggetto, ove ne ricorrano i presupposti,
alla revocatoria di cui all'art. 2901 cc o, per taluni casi, alla nuova norma
contenuta nell'art. 2929 bis cc.
Essendo la sanzione della nullità rigorosamente tipica, non esiste una norma
che commini la nullità per il negozio in frode ai creditori e con questo punto
fermo del nostro sistema giuridico, siamo tutti chiamati a fare i conti.
Dopo una prima serie di decisioni di tribunali di merito[3] che incorrevano in
questo errore, nel comprensibile desiderio - pratico - di togliersi di torno
fastidiosi trust che tentavano di spiegare i loro effetti segregativi in ambito
concorsuale o pre-concorsuale, è finalmente intervenuta la Corte di Cassazione
facendo grande chiarezza[4].
Evidentemente non è bastata.
Sono sopravvenute infatti alcune decisioni di merito[5] e ordinanze tributarie
della Corte di Cassazione[6] che hanno mirato a destituire di valenza il trust
autodichiarato sulla base di considerazioni in diritto infondate e
contraddittorie.
Non è infatti giuridicamente sostenibile la non ammissibilità del trust
autodichiarato a meno che non si voglia unilateralmente privare di validità la
legge n. 3641989.
Si deve invece fare, caso per caso, quel percorso di esame e valutazione dello
specifico programma negoziale enunciato nell'atto istitutivo che tanto bene
indicò, sin dal 2005, il Tribunale di Trieste[7], poi ripreso dalla citata
sentenza del giudice di legittimità[8].
Recentemente il Tribunale di Milano, in tema di autodichiarato, ha precisato
come la mera coincidenza soggettiva tra disponente e trustee non determini in
alcun modo l'inefficacia del trust, dovendosi invece valutare, ai fini della
compatibilità del trust con i principi inderogabili del diritto italiano, solo
se il disponente abbia agito al fine di dare luogo a situazioni contrastanti
con l'ordinamento, nel cui ambito il negozio è destinato ad operare[9].
Se per un verso questa è senza dubbio la corretta - ed unica - impostazione,
l'errore comune a quanti sostengono l'invalidità di questa fattispecie, fra i
quali i provvedimenti in commento, discende da una incomprensione di fondo
della Convenzione.
Il primo errore in diritto dei trust[10] è ritenere che l'ult. co dell'art. 2
della Convenzione, che come noto recita: "il fatto che il costituente
conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in
qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l'esistenza di
un trust" postuli una necessaria dissociazione tra la figura del
disponente e quella del trustee, ritenendo che il primo possa, in limine,
riservarsi alcune prerogative come risulterebbe dalla lettera del citato comma.
All'evidenza, nella norma proprio non si legge questo divieto e sul punto poco
altro, per ora, è da dirsi.
Il secondo errore[11] è invero davvero cavilloso e parte da un'ardita
interpretazione dell'art. 5 che, per contro, ha una lettera molto chiara:
"la Convenzione non si applica qualora la legge specificata al capitolo II
non preveda l'istituto del trust o la categoria del trust in questione".
Punto focale dell'art. 5 è il richiamo espresso al Capitolo II che enuncia il
diritto per il disponente di scegliere la legge regolatrice del proprio trust,
segnatamente all'art. 6.
Il significato da attribuirsi pertanto a tale art. 5 è manifesto: se il
disponente ha scelto quale legge regolatrice del proprio trust una legge che
non conosce l'istituto (ossia ha indicato la legge dello stato X che tuttavia
non ha legiferato in materia di trust) la Convenzione non si applica.
Per contro il Tribunale di Monza 12 ottobre 2015, dimenticando il richiamo
espressamente fatto dall'art. 5 alla legge di cui al Capitolo II, ritiene che
esso rinvii alla Convenzione, ed in particolare all'art. 2, sicchè, così
conclude, non prevedendo l'art. 2 l'autodichiarato, l'art.5 ne conferma
l'invalidità.
Nuovamente l'evidenza della lettera dell'art. 5 non menziona affatto l'art. 2,
ma cita espressamente la legge specificata al capitolo II, senza contare che
l'art. 2, per le ragioni già espresse, non contiene affatto un divieto di
coincidenza fra disponente e trustee.
Il terzo errore di diritto[12] si ricava per induzione.
L'art. 2, che certo è uno dei punti centrali della Convenzione" richiede
fra i requisiti minimi che i trust devono avere, per poter assolvere al
giudizio di conformità richiesto, che "i beni siano posti sotto il
controllo del trustee".
Tuttavia la prassi italiana ci consegna, correttamente, due tipi di trust,
rispetto ai quali, per quanto attiene ai trust interni, tertium non datur: i
trust nei quali c'è stato il trasferimento dei beni in piena ed esclusiva
proprietà di un trustee, che è persona terza rispetto al disponente, ovvero
l'autodichiarato.
Se volessimo allora proseguire nel solco del ragionamento dei provvedimenti
commentati, dovremmo far notare loro che come non c'è l'autodichiarato
nell'art. 2, nemmeno c'è il trust traslativo.
Per gli effetti, richiedendo l'art. 2 il "controllo" sui beni da
parte del trustee, e non certo il "trasferimento dei beni al
trustee", anche i trust traslativi dei beni al trustee terzo, sarebbero
parimenti inammissibili per il combinato disposto degli artt. 2 e 5 della
Convenzione.
Dunque, finora, avremmo tutti scherzato.
Evidentemente non è così.
Tre sono le strutture normative con le quali il trust interno deve fare i conti
per poter essere riconosciuto.
La prima: assolvere ai requisiti minimi di cui agli artt. 2 e 3 della
Convenzione.
Il che vuol dire che il trust deve avere almeno questi requisiti e non, invece,
come hanno ritenuto i provvedimenti in commento, che il trust deve avere solo
questi requisiti.
Questo proprio non è scritto.
Un principio di diritto internazionale privato si pone alla base di questa
affermazione: la Convenzione non è di diritto sostanziale uniforme ma enuncia
solo alcuni requisiti minimi che i trust devono presentare per superare il
primo esame al quale sono soggetti[13].
Questi requisiti sono: che vi sia il trustee, che vi siano dei beni, che vi sia
uno scopo o dei beneficiari, che i beni siano "posti sotto il controllo
dei trustee" (art.2) e, infine, che si producano gli effetti della
separazione dei beni in trust dal patrimonio personale del trustee (art.11)
A questi requisiti, la Convenzione ne aggiunge un altro, il più importante: la
volontà di istituire il trust da parte del disponente che quindi esplica in tal
modo la sua piena autonomia negoziale (art. 3)
In altri termini, la Convenzione ammette solo i cosiddetti "trust
volontariamente istituiti" (o expressed trust per il diritto dei
trust").
L'art. 3 è stato purtroppo completamente dimenticato dai provvedimenti in
commento.
Laddove ricorrano questi requisiti minimi, recita l'art. 11, il trust deve
essere riconosciuto (ossia è valido per la Convenzione) se risulta produrre un
solo effetto, per meglio dire, l'unico effetto che la Convenzione richiede: la
separazione dei beni in trust dal patrimonio personale del trustee.
E con questo è conclusa l'analisi sommaria della prima struttura normativa di
riferimento
La seconda struttura normativa con la quale il trust deve fare i conti, ha la
sua fonte negli artt. 6 e 8 della Convenzione: il disponente ha il diritto di
scegliere liberamente la legge regolatrice del proprio trust (ex art.6) e
questa legge "regola la validità del trust" (ex art.8).
L'art. 8, al pari dell'art. 3, è stato completamente dimenticato dai
provvedimenti in commento.
Il fatto che i trust interni, volontariamente istituiti, possano essere solo di
due tipi: trust con trasferimento dei beni in proprietà di un trustee terzo o
l'autodichiarato, è principio fondante qualsiasi legge che abbia disciplinato
il trust, fra le quali, e su tutte, la legge inglese.
E dunque la scelta fra una di queste due fattispecie, è rimessa liberamente
disponente in forza dell'art. 8, in combinato disposto con gli artt. 3 e 6.
Recita la più autorevole dottrina inglese in materia di trust: ""The
constitution of trust: a trust is completely constitued by the settlor either: declaring that certain property vested in him is to be held henceforth by him on certain trust or effectively
trasferring certain property to truestees and declaring the trust upon which
the trustees are to hold such property" [14] rifacendosi ad un precedente
addirittura del 1874[15].
La Convenzione dunque rinvia, proprio perché non è una convenzione di diritto
sostanziale uniforme, alla disciplina prevista per il trust dalla legge
regolatrice prescelta dal disponente, facendo in tal modo entrare in gioco la
seconda struttura normativa.
Non si può allora prendere della legge applicabile quello che piace e togliere
quello che non piace, ma si deve rammentare che se questi sono i tipi di trust
volontariamente istituiti ammessi dalla legge regolatrice prescelta, compresa
quella inglese, questi, per gli effetti, sono i trust che il cittadino italiano
ha il diritto di fare.
L'unica arma che avrebbe il giudice del foro è contenuta nell'art. 13 della
Convenzione (sul quale si tratterrà nel prosieguo) che gli darebbe la stura per
affermare che l'autodichiarato non è mai riconoscibile da parte del nostro
ordinamento perché viola - in quanto tale - una norma di ordine pubblico
interno.
Tuttavia questa argomentazione appare di difficile condivisione, non
individuando la norma alla quale potrebbe far riferimento, ancor più
rammentando la struttura giuridica del fondo patrimoniale (pacificamente una
sorte di trust autodichiarato) o del vincolo di destinazione ex art. 2645 ter.
Veniamo ora al quarto errore di diritto[16] per il quale, francamente, è
necessaria una ricostruzione sistematica, seppur breve, del diritto dei trust.
Semplificando massimamente il ragionamento seguito dal Tribunale, parrebbe che
siano privi di valenza gli autodichiarati in quanto, coincidendo il disponente
con il trustee, questi avrebbe per forza (a priori, dunque) mantenuto ogni
potere diretto sul trust e sui beni che ne compongono il fondo.
A sostegno, viene detto, che sarebbe violata la massima di diritto
consuetudinario normanna "Donner et retenir ne vaut" ossia, non vale
far finta di dare quando poi di fatto si trattiene.
Tale massima sarebbe stata invocata dalla Convenzione nella disposizione di cui
all'ult. co dell'art. 2 che, ripetiamo, recita: "il fatto che il
costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni
diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con
l'esistenza di un trust".
Partiamo dalla legge inglese, che indubbiamente è portatrice dei principi
fondanti il diritto dei trust, la quale, pur non conoscendo questa norma, ha
però individuato 3 condizioni per i trust volontariamente istituiti, le
cosiddette "tre certezze", in presenza delle quali è indubbia
l'esistenza del trust[17]: fra queste, rileva la Certainty of intention intesa
quale volontà di istituire il trust[18].
Da questa condizione, è discesa la censura verso quel disponente che,
apparentemente manifestando la volontà di istituire il trust, di fatto non
abbia proprio voluto farlo, continuando ad esercitare un potere di controllo
diretto sul trust o sui beni in trust.
Ecco uno dei fatti, alla ricorrenza del quale, il trust può dirsi sham per la
legge inglese.
L'errore però sta nel ritenere che questo avvenga sempre - ed a prescindere -
quando il disponente coincida con il trustee perché così proprio non è.
Non lo è nemmeno per la legge inglese, certamente la più importante, che,
infatti, ammette pacificamente il trust autodichiarato in forza di un
precedente che risale persino al 1874[19].
La questione è nuovamente completamente diversa.
Di base vi è una mancata comprensione della differenza fra "i poteri
fiduciari del trustee" che sono sempre e solo rivolti nei confronti dei
beneficiari e per attuare la scopo del trust[20] e i poteri diretti del
disponente, che sono invece rivolti al soddisfacimento di personali interessi
egoistici[21].
E' quindi necessario verificare caso per caso, se questo disponente rustee ha
attuato lo scopo del trust o se invece ha usato il trust a fini solo propri,
come ben insegna la legge inglese[22].
Nel primo caso quel trust sarà perfettamente lecito, nel secondo caso potrà
essere sham, se tale è per la legge regolatrice, oppure laddove quella
specifica legge regolatrice non conosca questo divieto, quel trust potrà
comunque essere ritenuto simulato, o non riconoscibile, per la legge del foro.
Che dunque le due figure (disponente e trustee) coincidano, proprio non prova
nulla, per nessuna legge regolatrice e tantomeno per quella inglese.
Questo ultimo passaggio merita un breve approfondimento perché, anche su questo
fronte, si avverte una certa confusione nell'usare termini, quali ad esempio
"sham", conferendogli un significato diverso da quello
dell'ordinamento di provenienza.
E' sbagliato affermare che sempre, quando il disponente si sia riservato molti
poteri, il trust risulterà "sham".
Abbiamo sopra spiegato perché potrebbe esserlo per la legge inglese, ossia
quando ricorra la prova effettiva del controllo diretto del disponente sul
trust, a prescindere da chi ne sia il trustee.
Potrà dunque risultare sham per la legge inglese un trust con un trustee
diverso dal disponente, sul quale tuttavia questi risulterà aver mantenuto un
controllo diretto mentre, per contro, non sarà affatto sham un trust
autodichiarato nel quale il disponente rustee risulti portare a compimento in
modo conforme le obbligazioni fiduciarie che, con l'assunzione dell'ufficio di
trustee, ha assunto.
Se invece si tratta di leggi del modello internazionale, come ad esempio quella
di Jersey, la novella del 2006 ha introdotto - purtroppo - l'art. 9A che oggi
permette la ritenzione di molteplici poteri da parte del disponente.
Ne deriva che questo trust, mai sarebbe ritenuto sham per una corte di Jersey
ma, difficilmente supererà il giudizio di validità del giudice italiano, come
hanno ben precisato il Tribunale di Bologna, Trieste e Reggio Emilia[23],
argomentando dall'ult. co dell'art. 2.
Ciò non toglie che ben possa il disponente scegliere quale legge regolatrice
del proprio trust la legge di Jersey, tuttavia evitando di riservarsi tutte
quelle prerogative di controllo diretto che, discrezionalmente, l'art. 9A gli
consentirebbe di mantenere.
Con ciò si è conclusa l'analisi della seconda struttura normativa al quale il
trust interno è soggetto, ossia quella della legge regolatrice, e si apre il
varco per l'analisi della terza strettura normativa data dalla legge dello
Stato nel quale il trust è destinato a spiegare i suoi effetti; nel nostro caso
la legge italiana, di cui al prossimo paragrafo.
All'inizio di questo paragrafo abbiamo fatto cenno alla forzatura giuridica
alla quale oggi si assiste a carico del trust interno che, giunti a questo
punto della nostra riflessione, risulta manifesta.
Se le ragioni strettamente di diritto sopra esposte dimostrano come sia
pacificamente ammesso dalla Convenzione il trust autodichiarato, e quello
traslativo, per contro il nostro giudice, mentre per il fondo patrimoniale che
persegua fini divergenti con la ratio della norma, applica l'art. 2901 cc,
dichiarando l'inefficacia dell'atto di disposizione patrimoniale nei soli
confronti dell'attore-creditore, per i trust autodichiarati (del tutto
assimilabili ai fondo patrimoniali) si affanna a cercare gli elementi di
censura più disparati, spesso però non supportati da norme di riferimento.
§. 2 Sul trust interno
La terza struttura normativa con la quale il trust interno deve risultare
compatibile è quella rappresentata dalla legge italiana.
Molteplici le norme della Convenzione che rimandano alla legge del foro ma ai
fini che qui interessano, rilevano gli artt. 15 e 13.
L'art. 15 ha certo un fine apprezzabile del quale però, abbiamo già avuto
occasione di dire[24], ne avremmo potuto anche fare a meno posto che non c'era
bisogno di una norma di diritto internazionale privato, per evitare che il
trust interno risultasse lesivo delle nostre norme di diritto positivo in tema
di protezione dei creditori, diritti dei minori, successione legittima, effetti
personali e patrimoniali del matrimonio.
In ogni caso infatti, tali trust avrebbero trovato pronta censura nei nostri
tribunali che avrebbero applicato la sanzione di riferimento: revocatoria,
nullità, annullamento, azione di riduzione e così via.
L'art. 13 è invece il cuore del problema, trattato maggiormente dal Tribunale
di Monza 12 ottobre 2015, avendo invece sommariamente affrontato la questione,
il precedente del 13 maggio 2015.
Desideriamo preliminarmente mettere sul tavolo una questione, per
sbrigativamente risolverla, in quanto già trattata da ogni punto di vista
giuridico e sostanziale.
Le ragioni giuridiche che hanno determinato il riconoscimento del trust interno
sono compiutamente riportate in centinaia di decisione di merito che si possono
trovare in qualsiasi archivio[25].
A ciò devono però aggiungersi le - realmente - dimenticate[26] decisioni della
Corte di Cassazione[27], molteplici in ambito penale, che indirettamente,
dettando regole sui casi specifici, hanno implicitamente riconosciuto il trust
interno.
Fra queste, alcune meritano espressa menzione.
La già citata sentenza civile n. 10105 del 9 maggio 2015 ove si legge che il
trust: "può essere piegato al raggiungimento dei più vari scopi
pratici", occorre "esaminare, al fine di valutarne la liceità, le
circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta
dell'operazione", tenendo conto che non è necessario, per il
riconoscimento nel nostro ordinamento, che tale istituto "assicuri un quid
pluris rispetto a quelli già a disposizione dell'autonomia privata nel diritto
interno"
A riguardo occorre precisare che questa sentenza, e solo questa, è stata
menzionata dal Tribunale di Monza 12 ottobre 2015 dalla quale però il Tribunale
ha ritenuto di doversi discostare in quanto il caso portato al suo esame non
aveva ad oggetto l'insolvenza del convenuto.
Il ragionamento lascia francamente interdetti.
La sentenza penale del 3 dicembre 2014 n. 50672[28] che afferma: "il trust
riconosciuto e veicolato nel nostro ordinamento dalla giurisprudenza, mutua
profili sostanziali dallo schema anglosassone" secondo uno schema di
separazione patrimoniale perfetta, intesa come "incomunicabilità
bidirezionale" tra il patrimonio separato e il patrimonio del soggetto che
ne è titolare; "il riconoscimento di una intestazione meramente formale
dei diritti al trustee stempera i dubbi sulla configurabilità di un trust
interno a causa delle caratteristiche dei nostri diritti reali".
Ancora la sentenza penale del 16 aprile 2015, n. 15804 che definisce il trust
un "lecito istituto giuridico", includendo fra i meccanismi di
segregazione ammessi: "sia la costituzione del trust che del fondo
patrimoniale che l'ordinamento, indubbiamente, consente in quanto rispondono ad
interessi ritenuti meritevoli di tutela
La sentenza civile del 19 novembre 2012 n. 20254 che, significativamente
afferma che: "l'istituzione di un trust non configura abuso del diritto,
quando il vantaggio fiscale non costituisce la ragione determinante
dell'operazione".
La ulteriore sentenza civile n°24813/2008 che, nel dichiarare non
contrastanti con il divieto dei patti successori talune disposizioni
testamentarie, ha sentito il bisogno di sottolineare che la progressiva
erosione di detto divieto, sul piano sia dottrinale che normativo, è stata attuata anche dal "recepimento nella normativa nazionale
dell'istituto di common law del trust".
Infine la sentenza civile del 22 novembre 2011 n. 28363[29] che ha dichiarato
la carenza di soggettività giuridica del trust interno e per gli effetti ha
confermato la condanna pronunciata del giudice di appello, nei confronti del
trustee, a risarcire il danno che lo stesso trustee aveva causato ad un terzo,
circolando con un' autovettura facente parte dei beni in trust.
Dispiace allora che tali sentenze siano state dimenticate dai Tribunali in
commento[30].
Ancora più farraginosa e contraddittoria è la lettura che il Tribunale di Monza
13 maggio 2015 pare dare l'art 13 della Convenzione che classifica quale norma
di "preventiva chiusura" mentre quello del 13 ottobre 2015 ritiene
che lo Stato italiano, pur ratificando la Convenzione, non abbia comunque
esercitato il "potere discrezionale conferitogli da questo articolo, e
quindi non abbia inteso vincolarsi al riconoscimento di trusts a carattere
meramente interno"
Del tutto diversa la lettura che ha dato a questa norma la giurisprudenza di
merito e legittimità intercorsa dal 2000 ad oggi[31] che ha invece evidenziato
come si tratti di una norma di mera chiusura, intesa quale estremo rimedio[32]
al quale ricorrere quando, in presenza di un trust "ripugnante" per
il foro, non si ravvisino fra gli strumenti giuridici che l'ordinamento interno
fornisce (proprio quelli di cui all'art. 15 sopra esposto) una norma di diritto
positivo in grado di renderlo inerme[33].
Esaurito questo tema, veniamo ai due finali che maggiormente ci premono.
La mole di giurisprudenza di merito, unita a quelle di legittimità, che hanno
decreto il riconoscimento del trust interno, non è peregrino pensare abbiano
acquisito oggi un ruolo di vero e proprio diritto vivente.
E' noto come il diritto vivente (la cui importanza è riconosciuta dalla
C.E.D.U. e dalle nostre Supremi Corti di Cassazione e Costituzionale) sia un
processo giuridico il quale, partendo da situazioni concrete, rappresentative
di una realtà sociale in continua evoluzione e prive di regole espresse, trova
nell'apporto della giurisprudenza un'adeguata e precisa riposta.
Il diritto vivente viene quindi in essere grazie all'interpretazione dei
giudici, fornendo una regola iuris che, ripetuta in una molteplicità di
coerenti decisioni, consente di accertare il significato assunto dalla norma
nella sua coerente e continua evoluzione sociale[34].
Emblematica l'evoluzione degli "interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento
giuridico" di all'art.1322, 2° co che, venuti ed esistenza in una epoca
storica dove il legislatore tutelava solo quei negozi atipici conformi
all'interesse dello Stato totalitario, sono stati poi disattesa dall'avvento
della Costituzione repubblicana che ha ridotto la questione alla mera liceità
degli interessi perseguiti da siffatti negozi[35].
Altro esempio è costituito dal concetto di "causa" del negozio
giuridico, che la Cassazione non intende più come "astratta funzione
economico sociale", bensì come "concreta funzione individuale"
del negozio (la cd. "causa concreta") facendo in tal modo assurgere i
motivi personali ad una rilevanza nemmeno ipotizzabile sino a 20 anni fa.
Sopravvenute decisioni hanno mutato l'assetto giuridico dei nostri rapporti
sociali, quali quelle relative al leasing, al factoring, alla fideiussione
omnibus, alla responsabilità da contatto sociale, solo per rammentarne alcuni.
La C.E.D.U. valorizza sensibilmente questo fenomeno, al punto che
l'interpretazione giudiziale che si consolida in un diritto vivente preclude
addirittura una diversa interpretazione da parte del legislatore mediante una
legge d'interpretazione autentica con effetto retroattivo: ciò perché la
conoscibilità della regola di diritto implica la ragionevole prevedibilità
della sua applicazione.
La norma, dunque, non può mai restare cristallizzata, essendo invece soggetta
all'evoluzione strettamente dipendente dal contesto storico-sociale in cui è
inserita.
L'interesse che la norma tutela, e che esprime il valore che la collettività
riconosce ad un bene della vita, diviene "linfa vitale" del suo
continuo divenire[36].
La fonte del diritto vivente sono allora, come detto in più occasioni dalle
Corti Costituzionale e di Cassazione, i "corsi giurisprudenziali"
quando divengono tanto apprezzabili da divenire costanti, anche se di merito.
Ciò detto, appare evidente come il diritto vivente abbia ormai ampiamente
legittimato l'ammissibilità dei trust interni come tali, ferma l'esigenza di
analizzarne caso per caso la causa concreta, cioè il programma negoziale dagli
stessi perseguito[37].
Appaiono rientrare nel diritto vivente le oltre 15 sentenze della Suprema Corte
di Cassazione, sia civili, sia penali, sia tributarie (in materia di famiglia,
di impresa, di fallimento, di diritti reali o obbligatori, di azioni a tutela
del credito, di comportamento del trustee, di protezione di soggetti deboli e
così via) che in modo indiretto, ma assolutamente consapevole, hanno trattato
la materia confermando l'ammissibilità dei trusts interni ed invitando invece
ad analizzare con estrema cura la meritevolezza degli interessi sottesi a
ciascun programma negoziale.
Fra esse, rammentiamo ancora la già citata Cass n. 10105 del 2014 che afferma:
"quale strumento negoziale astratto, il trust può essere piegato, invero,
al raggiungimento dei più vari scopi pratici, occorre perciò esaminare, al fine
di valutarne la liceità, le circostante del caso di specie da cui desumere la
causa concreta dell'operazione".
Anche le recenti, e fortemente contestate in punto di diritto, ordinanze
tributarie della C. di Cassazione[38] nulla hanno eccepito su una presunta non
riconoscibilità del trust interno, pur trattandosi di questioni rilevabili
d'ufficio.
E' un fatto, d'altro canto, che ad oggi (cioè ad oltre venti anni dall'entrata
in vigore della Convenzione) le pronunzie (solo di merito) che negano
l'ammissibilità del trust interno si contano sulle dita di una mano.
Ma non è tutto.
La Convenzione data 1985 e il suo art. 13 recita: "Nessuno stato è tenuto
a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta
della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza
abituale del trustee, sono più strettamente connessi a stati che non prevedono
l'istituto del trust o la categoria del trust in questione".
Nel 1985 il nostro paese era certamente un paese che non conosceva il trust e
dunque, come viene comunemente detto, era un paese non trust.
Oggi si ritiene che ciò non possa più dirsi per ragioni oggettive.
L'art. 2645 ter cc[39] ha previsto effetti di separazione patrimoniale,
derogando all'art. 2740 cc, su beni vincolati ad una destinazione meritevole di
tutela.
Non può dirsi dunque che lo Stato italiano non conosca un fenomeno del tutto
simile al trust che abbia il fine di perseguire una causa lecita che,
vincolando beni al perseguimento di uno scopo, produca l'effetto di sottrarli
al principio della responsabilità patrimoniale universale.
Il legislatore tributario ha espressamente riconosciuto la soggettività passiva
del trust e ne ha disciplinato compitamente l'imposizione fiscale diretta ed
indiretta.
Gli artt. 44 e 73 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi hanno disciplinato
il trattamento fiscale in tema di imposte dirette dei trust interni mentre la
reintrodotta imposta sulle successione e donazioni (art.2, co 49, d.l. 310.2006
n. 262) ha determinato le aliquote indirette alla quali sono soggetti i
trasferimenti di beni dal disponente al trustee.
E sia chiaro che queste norme espressamente parlano del "trust".
Sarebbe davvero una macabra ironia della sorte pensare che il cittadino abbia
pagato le imposte conformemente a come hanno stabilito il legislatore e giudice
tributario di cassazione[40] su atti che - invece - qualche isolato tribunale
ritiene inesistenti.
Autorevole dottrina[41] ha recentemente elencato gli ambiti operativi nei quali
la Pubblica Amministrazione ha fatto ricorso al trust, che qui sommariamente
riportiamo:
a) la Banca d'Italia ha prescritto ad un noto uomo politico di collocare
temporaneamente in un trust una parte del capitale sociale di un istituto di
credito, detenuto da una società di comunicazione e ne è seguito un trust
interno con trustee italiano[42];
b) il Ministero dei Beni Culturali ha autorizzato l'Amministrazione ad
acquistare, in via di prelazione artistica, il bene culturale oggetto di
conferimento in un trust a titolo oneroso, dopo aver precisato che il trust è
"caratterizzato dall'essere costituito da un cittadino italiano - disponente
- dall'avere come amministratore - trustee - e come eventuali beneficiari altri
cittadini italiani, ed infine dall'essere stato dotato, almeno in fase
iniziale, con beni che si trovano in Italia"[43];
c) il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha prescritto i requisiti
formali per l'immatricolazione e il trasferimento a nome del trustee della
proprietà di veicoli italiani posti in trust[44];
d) il Gestore Servizi Energetici, società per azioni interamente partecipata
dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, ha individuato nel trust interno
l'unico strumento idoneo a costituire un fondo impignorabile e ne ha redatto lo
schema di atto istitutivo[45];
e) l'Agenzia delle Entrate ha riconosciuto la possibilità per il trust che
persegua i medesimi fini delle Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale
di potersi iscrivere nell'anagrafe delle Onlus[46].
Tutto questo è doveroso conoscerlo[47] e dirlo posto che si tratta di
precedenti non conosciuti, o quantomeno certamente non menzionati, nei
provvedimenti in commento.
La questione è dunque così riassumibile: il trust interno, se assolve ai
requisiti minimi della Convenzione, viene da essa riconosciuto. Ciò comporta
gli effetti segregativi sul fondo in trust e l'applicazione della legge
applicabile prescelta per la disciplina interna dello specifico trust.
Tale complessivo rapporto deve essere conforme alla legge del foro, altrimenti
sarà specificatamente sanzionato dall'art. 15 della Convenzione in combinato
disposto con la norma del foro violato (ad esempio l'art. 2740 cc quando
ricorrono i presupposti dell'art. 2901) ovvero se comunque produce effetti
"ripugnanti[48]" per il foro, ma questo non dispone dello strumento
ad hoc, soccorre la norma di chiusura di cui all'art. 13 che consente al
giudice di non riconoscerlo[49].
§. 3 Conclusioni
E' allora evidente che il trust autodichiarato portato all'attenzione del
Tribunale di Monza 13 maggio 2015[50] pare caratterizzato da elementi
sufficienti a decretarne l'inefficacia ex art. 2901 cc ovvero la non
riconoscibilità ex artt 2, ult. co e 13 della Convenzione (come già fece il
Tribunale di Bologna[51]) senza che ciò c'entri in alcun modo con la
legittimità dell'istituto del trust autodichiarato o ancor più del trust.
Ci chiediamo infatti dove sia la non riconoscibilità dei pregevoli trust
autodichiarati che sezioni fallimentari hanno utilizzato, o autorizzato, per
garantire la buona riuscita del concordato preventivo, dell'accordo di
ristrutturazione o della liquidazione dell'attivo[52].
Ci chiediamo ancora dove sia la non riconoscibilità del trust autodichiarato
(ma anche traslativo) posto in essere dal genitore del disabile che desideri
preservare parte del suo patrimonio per il figlio sfortunato e che abbia
previsto l'intervento di un trustee terzo solo dopo la sua morte, essendo
convinto di poter provvedere personalmente ai bisogni del figlio, fintanto che
in vita.
E da ultimo pensiamo ai trust autodichiarati, conclusi all'interno di
separazioni o divorzi, nei quali uno dei genitori si è dichiarato trustee sulla
casa coniugale, per assicurare alla famiglia separata un'abitazione, a
prescindere dalle sue future vicende personali o patrimoniali[53].
Recentemente la Fondazione Golinelli di Bologna[54] ha istituito un trust nel
quale ha fatto confluire decine di milioni di euro per finanziare un progetto
per giovani meritevoli che durerà sino al 2065.
Il desiderio del fondatore è stato quello di non versare questa somma
direttamente nelle mani della Fondazione, ma invece rimetterla ad un collegio
di trustees assolutamenti terzi, composto da autorità cittadine che,
esattamente come avviene nei paesi anglosassoni[55], possa negli anni a venire
costantemente monitorarne il corretto impiego.
Ancora il Comune di Bologna ha impiegato il trust per finanziare un bene
pubblico destinato ai cittadini[56] e altri impieghi al momento sono in corso.
I sostenitori di tali progetti hanno aderito perché per mezzo del trust hanno
conseguito la certezza della destinazione della risorsa da loro messa a
disposizione al fine indicato, con la garanzia di avere sempre la
rendicontazione delle somme (che è pubblica) per contro sapendo che i loro
denari non sarebbero confluiti nelle generiche casse dell'ente pubblico.
Ci si chiede dove sia la non riconoscibilità di questi trust,
l'immeritevolezza, o quale sia il concreto peso dei temi dottrinali addotti da
chi non ne comprenda - o rifiuta di comprenderne - l'utilità.
Il problema è dunque sempre e solo uno: non è da criminalizzare il trust
autodichiarato o ancor più il trust, ma gli spregevoli impieghi che di esso ne
vengono fatti, dando invece a questo strumento il giusto ruolo che merita,
essendo il frutto della condivisione e scambio fra le culture giuridiche di
diversi paesi.
Da ultimo, l'Italia non può più dirsi un paese non trust ai fini dell'art. 13
della Convenzione.
[1] Ci riferiamo alla Convenzione sulla legge applicabile ai trust ed al loro
riconoscimento adottata a L'Aja il 1 luglio 1985 e ratificata e rese esecutiva
della Stato italiano con l. n. 364 del 16 ottobre 1989, entrata in vigore il 1
gennaio 1992,
[2] Con "trust interno" si intende la tipologia di trust i cui
elementi costitutivi tutti (cittadinanza e residenza del disponente e dei
beneficiari, luogo ove si trovano i beni in trust, luogo ove la finalità o lo
scopo del trust devono essere attuati) rimandano al territorio dello Stato
italiano, ad eccezione della legge applicabile al trust specifico che, in
ragione della mancanza di legge italiana sul trust, non può che essere una
legge straniera. Così M.LUPOI in Trusts, Milano, 2001, 546 e ss
[3] Tribunale di Milano 22 ottobre 2009, in www.ilcaso.it e in
T&AF, 2010, 77 e ss; 30 giugno 2009 in www.ilcaso.it e in
T&AF, 2010, 80 e ss; 29 ottobre 2010 www.ilcaso.it e in
T&AF, 2011, 146 e ss; C di Appello di Milano 29 ottobre 2009 in www.ilcaso.it
e in T&AF, 2010, 274 e ss ; Trib. Alessandria, 24 novembre 2009 www.ilcaso.it
e in T&AF, 2010, 171 e ss. Trib. Bolzano 8 aprile 2013 in www.il-trust-in
-italia.it
[4] Cass. 9 maggio 2014 n. 10105 in www.ilcaso.it con nota di
A.TONELLI, Certezze ed incertezze del diritto
[5] Trib. Bergamo 4 novembre 2015 www.ilcaso.it e in www.il-trust-in-italia.it
[6] Cass. ordinanze 25 febbraio 2015 n. 3886; 24 febbraio 2015 nn. 3735 e 3737,
tutte in www.ilcaso.it e in www.il-trust-in-italia.it
[7] Trib Trieste 23 settembre 2005 in www.ilcaso.it e in
T&AF, 2006, 83
[8] Cass n. 1010514 cit.
[9] Trib. Milano 10 giugno 2014 in www.ilcaso.it e in www.il-trust-in-italia.it
[10] Nel quale incorre il Tribunale di Monza 12 ottobre 2013
[11] Ancora del Tribunale di Monza 12 ottobre 2013
[12]Nel quale incorrono entrambi i provvedimenti in commento
[13] In dottrina sono state scritte pagine e pagine su questo tema, fra i tanti
rammentiamo A.GAMBARO (che rappresentò l'Italia in sede di redazione della
Convenzione) Segregazione e unità del patrimonio, in T &AF - 2000, 155 ss.;
ID., Un argomento a due gobbe in tema di trascrizioni del trustee in base alla
XV Convenzione dell'Aja, Riv. Dir. Civ. 2002, II, 919 ss.; Id., Notarella in
tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV
Convenzione dell'Aja, Riv. Dir. Civ. 2002, 263; C.MASI, La Convenzione dell'Aja
in materia di Trust, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a
cura di G.Vettori, Padova 1999, 784 ss.
[14] D, HAYTON P.MATTHEWS C. MITCHELL, Law of Trusts and trustees, Law of
Trusts and trustees, London, 2010, 8th ed., 206
[15] Strong v Bird (1874) LR 18 Eq 315
[16] Nel quale incorre il Tribunale 13 maggio 2015
[17] Le cd. "tre certezze" hanno fonte in un leading case del 1840
Knight v. Knight (1840) e Beav 148, 49, ER 58 e sono: Certainty of intention,
Certainty of subject matter , Certainty of objects, ossia: la certezza delle
volontà di istituire il trust, la certezza dell'esistenza del fondo in trust,
la certezza dei beneficiari
[18] In dottrina inglese vedi: D.HAYTON, C.MITCHELL, HAYTON & MARSHALL, The
law of trust and equitable remedies, XII ed London 2005, 129 e 190. In dottrina
italiana M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e dei negozi di
affidamento fiduciario, Padova, 2008, 25, in giurisprudenza ne ha parlato il
Trib. Reggio Emilia 14 marzo 2011 in www.ilcaso.it e in
T&AF, 2011, 630
[19] v. nota 15
[20] Sul punto si rinvia a D, HAYTON P.MATTHEWS C. MITCHELL, Law of Trusts and
trustees, London, 2010, 8th ed., General principles applicable to powers of
trustee, pag. 897 e ss e The trustee's duties, pag.647 e ss
[21] M. LUPOI, Trust, 2001
[22] v. nota 17
[23] Trib. Bologna 9 gennaio 2014 in www.ilcaso.it e in
T&AF, 2014, 293; Trib. Trieste 22 gennaio 2014 in www.ilcaso.it
e in T&AF, 2014, 215; Trib. Reggio Emilia 14 marzo 2011 cit.
[24] A. Tonelli, nota a Corte di Cassazione 8 maggio 2014 n. 10105 e Tribunale
di Belluno 18 febbraio 2014 in www.ilcaso.it
[25] v. in www.il-trust-in -italia.it per la raccolta
completa rammentando come il leading case in materia è quello del Trib. Bologna
1 ottobre 2003 in T&AF, 2004, 63 al quale si unì fra i primi il Trib.
Trieste - Giudice Tavolare 23.9.2005, T&AF 2006, 83, che ritennero che le
norme della Convenzione avessero natura non solo internazionalprivatistica, ma
anche sostanziale, s?' che la legge di ratifica n°364 del 1989 abbia finito per
introdurre nel nostro ordinamento (a prescindere dall'esistenza di un conflitto
di leggi proprie di ordinamenti differenti) l'istituto del trust. In tale
ottica, pertanto, il fenomeno della separazione patrimoniale propria dei beni
in trust trova ora fondamento in norme di legge extra codicem e risulta così
privo di base l'argomento secondo il quale il trust violerebbe la riserva di
legge in tema di patrimoni separati prevista dall'art. 2740 secondo comma c.c.
D'altro canto - si aggiunge - ipotizzare che il trust si ponga in contrasto con
principi del nostro ordinamento finirebbe per svuotare di significato la legge
di ratifica della Convenzione come è stato detto dal Trib. Pisa 22.1.2001,
T&AF 2002, 241 e Trib. Brescia 12.10.2004, T&AF 2005, 83.
[26] L'elencazione delle decisioni della Corte di Cassazione di cui alla nota
che segue, è tratta da un articolo di M.LUPOI, Il dovere professionale di
conoscere la giurisprudenza, che sebbene in corso di pubblicazione, è stato qui
cortesemente messo a disposizione
[27] Cass. 18 dicembre 2004 n.48708, in www.il-trust-in-italia.it; Cass. 13 giugno 2008
in T&AF, 2008, 522; Cass. 30 marzo 2011 n.13276 in T&AF 2011, 408;
Cass. Sez. V penale 30 marzo 2011 in www.il-trust-in-italia.it;
Cass. 22 dicembre 2011 n. 28363, in T&AF 2013, 280; Cass, Sez. Un. 15 marzo
2012 n. 4132 in tema di giurisdizione del giudice italiano, in T&AF, 2013,
522; Cass. 28 giugno 2012, in T&AF, 2013, 45; Cass.19 novembre 2012 n.
20254: in T&AF, 2013, 279; Cass. Pen. 5 giugno 2013, in T&AF, 2013,
621; Cass. 16 settembre 2013 n. 37848 in tema di trattamento tributario della
posizione beneficiaria, in T&AF, 2014, 174; Cass. 8 ottobre 2013 n. 41670,
in T&AF, 2005, 60; Cass. pen., sez. VI, 27.5.2014, n. 21621, in T&AF,
2014, 411; Cass. pen., sez. III, 15.4.2015, n. 15449; Cass. pen., sez. III,
14.1.2015, n. 1341, in T&AF, 2015, 265
[28] in T&AF, 2015, 269
[29] in T&AF, 2013, 280 con nota di A TONELLI
[30] Come ha parimenti fatto il Tribunale di Belluno 18 febbraio 2014, con nota
di A TONELLI cit.
[31] Sul punto si rinvia alla raccolta completa della giurisprudenza in www.il-trust-in-italia.it.
[32] Il primo tribunale ad esprimersi in questo senso fu il Trib. Bologna 1
ottobre 2003 in T&AF, 2004, 63
[33] Si pensi ad esempio al caso del Trust che voglia sottrarre al controllo
del Giudice Tutelare il patrimonio di proprietà del minore
[34] Va ascritto a Cass. n°1007 del 1967 il merito di aver trattato per prima
questo tema; Cass.n°3675 del 1981, dal canto suo parlò di "diritto
vivente" con riferimento al danno biologico, da distinguersi dal
patrimoniale.
[35] Cass. n. 1061/1991; Cass. n. 7832/1998; Cass. n. 2288/2004
[36] Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011
[37] Cass. 1010514 cit.
[38] nn. 3735, 3886, 5322 del 2015 in www.ilcaso.it e in www.il-trust-in-italia.it
[39] L'art. 2645 ter è stato inserito nel codice civile ad opera dell'art. 39
novies, d.l. 30 novembre 2005 n. 273, conv. in l. 23 febbraio 2006 n. 51
[40] Ci riferiamo alle citate ordinanze della Cassazione nn. 3735, 3886, 532215
[41] M LUPOI, Il dovere professionale di conoscere la giurisprudenza, cit. in
nota 26
[42] Ci riferiamo a Silvio Berlusconi che ha temporaneamente collocato una
parte del capitale sociale di Mediolanum detenuto da Fininvest in un trust
interno, vd. Il Sole 24 Ore, 9.1.2015 e 10.1.2015
[43] Circolare Prot. n. 3438, 18.2.2009
[44] Circolare Prot. n. 15513, 10.7.2014
[45] T&AF, 2013, 339; v. anche T&AF, 2014, 163 e 236
[46] Agenzia delle Entrare, Circolare n. 38E dell'1 agosto 2011
[47] M LUPOI, Il dovere professionale di conoscere la giurisprudenza, cit. in
nota 26
[48] Il termine venne usato per la prima volta dal Tribunale di Bologna nella
sentenza 1 ottobre 2003 cit.
[49] Ancora così Trib. Bologna 1 ottobre 2003 cit.
[50] Non si conosce il fatto relativo al provvedimento di cui al Tribunale di
Monza 12 ottobre 2015
[51] Trib. Bologna 9 gennaio 2014 cit.
[52] Tribunale Torino 8 ottobre 2015 in www.ilcaso.it e in
wwwil-trust-in-italia.it; Trib. Pescara 20 marzo 2015, Trib. Ravenna 22 maggio
2014; Trib. Bologna 18 dicembre 2014; Trib. Milano 28 marzo 2014; TRib. Reggio
Emilia 27 gennaio 2014; Trib. Sondrio 12 ottobre 2013; Trib. Ravenna 4 aprile
2013; Trib Pescara 11 ottobre 2011; Trib Bologna 2 marzo 2010; Trib. Salluzzo 9
novembre 2006; Trib Firenze 26 ottobre 2006; Trib. Mondovi 16 dicembre 2005;
Trib. Parma 3 marzo 2005, tutte in wwwilcaso.it e in www.il-trust-in
-italia.it;
[53] Giudice Tutelare del Trib. Genova 31 dicembre 2012; Giudice Tutelare del
Tribunale di Civitavecchia 5 dicembre 2013, Giudice Tutelare del Tribunale di
Genova del 30 gennaio 2014; Trib. Milano 7 giugno 2006; Trib. Pordenone 20
dicembre 2005
[54] Ci riferiamo al Trust Opus 2065, istituito nel settembre 2015 con notizia
riportata dalla stampa e televisione nazionale
[55] Sul punto si rinvia a A TONELLI, Un trust per l'università italiana, in
Rivista di diritto e economia, 2009, 1, 126
[56] Ci riferiamo al Trust Ad Hoc istituito da una cittadina in favore del
Comune e del quale è trustee un dirigente comunale.
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