Trust
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/12/2019 Scarica PDF
A trent'anni dalla legge n. 364 del 16 ottobre 1989 di ratifica della Convenzione sulla legge applicabile al trust ed al loro riconoscimento: il punto sul trust interno
Annapaola Tonelli, Avvocato in BolognaSommario: 1. L’ammissibilità, il riconoscimento e la non riconoscibilità.; 1.1 L’ammissibilità.; 1.2 Il riconoscimento e la non riconoscibilità.; 2. Quando il trust non serve a nulla.; 2.1 La revocatoria: un’arma spuntata.; 2.2 Requiem del trust liquidatorio per evitare il fallimento.; 2.3 I pericoli e danni del trust sbagliato.; 3. Il trust: i trust.; 3.1 Per la famiglia: la nuova famiglia, la disabilità, i beni storici, le collezioni, il trust testamentario.; 3.2 Trust e passaggio generazionale.; 3.3 Trust, impresa e procedure concorsuali.; 3.4 Trust, enti pubblici e terzo settore.; 4. Serve una legge italiana sul trust?.
Il 16 ottobre 1989, con legge n. 364, lo Stato italiano ratificò integralmente la Convenzione sulla legge applicabile ai trusts ed al loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985.
Passati i primi trent’anni, è opportuna una riflessione su quanto accaduto in questo periodo, non tanto per rivangare il lungo percorso che ha portato al riconoscimento del trust interno quanto, piuttosto, per raccontarne, nel bene e nel male, gli impieghi ad oggi e cosa se ne potrà fare in futuro.
Il cammino intrapreso ha certamente toccato tutti gli ambiti della realtà economica e sociale del nostro paese, in ciascuno dei quali il trust è passato, lasciando tracce importanti.
Il fine di questa riflessione, che non ha la pretesa di trattare tutte le decisioni giurisprudenziali che in tre decenni si sono susseguite, è provare a fare il punto su alcune questioni fondamentali che attengono all’istituto in esame: (1) le caratteristiche che deve avere il trust interno per essere riconoscibile da parte dell’ordinamento giuridico italiano (2) quando non serve assolutamente a nulla ed anzi può risultare pericoloso (3) in che ambito e per quali fini potrà in futuro essere utilizzato (4) se serva, o meno, una legge nazionale.
1. L’ammissibilità, il riconoscimento e la non riconoscibilità.
1.1 L’ammissibilità
La dottrina alla quale va il merito di aver esposto le argomentazioni giuridiche che ci hanno consentito di far conseguire a questo strumento giuridico una piena legittimazione, nel solco delle quali noi ci siamo addentrati nelle aule dei tribunali, ha recentemente definito il trust come un caso di flusso giuridico[1] rispetto al quale vi è stata una metabolizzazione da parte dei professionisti e giudici italiani, a volte corretta, altre meno.
E’ certo che un dato su tutti caratterizza il trust: la sua utilità, immediatamente percepita e rappresentata da un strumento giuridico in grado di dare risposte a bisogni concreti che rimanevano insoddisfatti.
Gli specifici casi sui quali si è inizialmente espressa la Corte di Cassazione hanno riguardato giudizi penali dove la Corte veniva chiamata a decidere (purtroppo) su impieghi fraudolenti dello strumento. Ciò nonostante, sin con le prime decisioni, il giudice di legittimità dimostrava di apprezzare la stabilità che la giurisprudenza di merito aveva conseguito in ordine alla legittimità del trust interno e, non mettendola mai in discussione, decideva solo sulla fattispecie specifica[2].
Non può dunque non convenirsi con la dottrina, laddove scrive: “credo sia ragionevole ritenere che la Corte di Cassazione abbia avvertito, dal punto di vista ordinamentale, il valore della stabilità e, dal punto divista giuridico, l’arricchimento che l’ingresso del trust avrebbe (anzi aveva già) comportato” .
Per queste ragioni, sull’ammissibilità del trust rispetto all’ordinamento giuridico italiano, poco vorremmo aggiungere a quanto è stato sinora detto.
L’acceso dibattito che ha caratterizzato l’istituto, sin dalla seconda metà degli anni ’90 e che è proseguito senza sosta, è stato solo dottrinale mentre nessuna eco ha avuto nelle aule di giustizia.
Basti dire che dal 1999 ad oggi si trovano centinaia di sentenze, decreti ed ordinanze che hanno trattato questo tema negli ambiti più svariati e decine di sentenze di Cassazione, in nessuna delle quali è stata messa in discussione la legittimità del trust rispetto al nostro ordinamento giuridico. Per contro, in 30 anni, sono solo 4 le decisioni, esclusivamente di merito, che hanno negato il diritto cittadinanza del trust interno[3].
Da ultimo, una recente sentenza della Corte di Cassazione[4] si è spinta persino oltre, affermando come non si debba più cercare la meritevolezza nel trust, ritenendola implicitamente conferita ed apprezzata dal legislatore con la legge n. 364\89. A detta del giudice di legittimità, se il legislatore non avesse ritenuto lo strumento – in quanto tale – non meritevole, non avrebbe ratificato la Convenzione.
Questa decisione ci consente certamente di festeggiare i primi 30 anni di esperienza.
Su questo passaggio c’è però una riflessione che vorremmo fare, pur nella consapevolezza che potrà essere non da tutti condivisa.
Quando si iniziò a tracciare il percorso da intraprendere per far conseguire al trust interno il riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico italiano, si faceva sempre riferimento alla sua residualità, intesa quale soluzione giuridica che permetteva di conseguire un obiettivo lecito, non previsto da nostro diritto interno[5]. L’esempio di scuola divenne il fondo patrimoniale, ammesso per i coniugi, precluso alla famiglia di fatto che tuttavia aveva medesima dignità.
Il trust venne così inteso quale soluzione meritevole di tutela laddove risultasse lecito e residuale[6].
La prima incrinatura a questo diffuso sentire provenne da un tribunale di merito[7] al quale seguì la sentenza della Corte di Cassazione n. 10104 del 9 maggio 2014[8] dove il giudice di legittimità chiaramente precisò come non sussisteva questo limite per il trust lecito che accedesse alle procedure concordatarie e di soluzione della crisi, in considerazione del sistema rinnovato dalle riforme degli ultimi anni, in tema di gestione concordata delle stesse crisi di impresa.
A nostro parere la decisione di legittimità n. 9637\18 sopra citata, ribadendo la legittimità del trust per l’ordinamento giuridico italiano, conferma certamente il venir meno del requisito della residualità, ma non può estendersi sino al punto di ritenere tipizzato lo strumento perché ciò sarebbe impossibile, come del resto ha recentemente ribadito il Tribunale di Trieste[9].
La questione infatti va intesa diversamente.
E’ certo che la sentenza di Cass. n. 9637\18 taciti le residue voci che ancora dovessero ritenere lo strumento non compatibile con l’ordinamento giuridico italiano per le più svariate ragioni, fra le quali, la violazione dell’art. 2740, comma 2, cc. Questa argomentazione risulta oggi destituita di fondamento in ragione delle citate sentenze di legittimità e delle precedenti che hanno indotto la dottrina a qualificare il trust come un flusso giuridico[10], divenuto chiaro esempio di diritto vivente.
E’ parimenti dato acquisito che la legge n. 364\89, ratificando la Convenzione, abbia apprezzato e quindi ammesso il solo effetto che la stessa richiede venga in essere quando si è in presenza di un trust, ossia la venuta ad esistenza di un patrimonio separato, rispetto al patrimonio personale del trustee[11], risultando per gli effetti rispettata la riserva di legge di cui al secondo comma dell’art. 2740 cc.
Ciò non di meno, da questo insieme di norme non ne esce “il trust”, ossia un negozio giuridico completo e tipizzabile, ma il diritto di istituire trust, ciascuno dei quali avrà la sua causa e specifiche caratteristiche.
Dire “trust”, in altri termini, è come dire “contratto” ossia si apre il campo ad infinite soluzioni atipiche che andranno valutate una per una ai sensi dell’art. 1322 cc.[12]
La lente di ingrandimento si sposta pertanto dallo strumento, certamente lecito e non più discutibile, al programma negoziale enunciato in ciascun atto che dovrà esaminarsi secondo i criteri di meritevolezza indicati dal nostro ordinamento per i negozi atipici.
Piace però ricordare, al compimento di questi primi 30 anni di vita del trust interno, come la sentenza di Cassazione n. 9637\18 chiuda il cerchio con la prima decisione italiana che decretò la piena validità dello strumento. Ci riferiamo alla sentenza del tribunale bolognese del 2003[13], riscontrando, nelle parole del giudice di legittimità citato, le stesse argomentazioni che rese il giudice bolognese quando l’ammissibilità del trust interno era questione ancora tutta da conseguire ed anzi, sembrava messa in discussione da una decisione del giudice tavolare del Tribunale di Belluno[14]. Decisione, quest’ultima, rimasta nei 30 anni successivi del tutto isolata.
1.2 Il riconoscimento e la non riconoscibilità.
Si tratta di aspetti da esaminare congiuntamente e che comportano il necessario coinvolgimento di altre fattispecie spesso trattate dai giudici nazionali: la nullità, la legittimità del trust autodichiarato, lo sham trust.
Per molto tempo c’è stata una certa confusione sul punto e la giurisprudenza, alcune volte, pur trovandosi di fronte a trust non riconoscibili, in luogo di tale sanzione, è ricorsa alla sanzione tipica della nullità, incorrendo in errore.
La sentenza di legittimità n. 10105\14[15] ha fatto chiarezza nel passaggio in cui precisava come la nullità di un trust (ed aggiungiamo, qualsiasi ulteriore sanzione tipica quale ad esempio, l’inefficacia ex art. 2901, l’annullamento, l’accoglimento della domanda di riduzione per violazione della legittima di legge ed altre) presuppone il previo riconoscimento dello specifico trust, poi sanzionato con la norma che ne elimina gli effetti, per la parte che risulti incidere negativamente su norme imperative interne. In tal modo, chiarì la Cassazione, si dà attuazione al disposto di cui all’art. 15 della Convenzione che fa salve le norme imperative o di applicazione necessaria degli Stati di riferimento, rispetto agli effetti prodotti da un trust.
La non riconoscibilità, invece, sempre seguendo il ragionamento del giudice di legittimità richiamato, si pone su di un piano del tutto diverso che opera preliminarmente.
Infatti il trust che venga ritenuto non riconoscibile da parte del giudice italiano non è nullo (e nemmeno potrebbe esserlo, essendo la nullità una sanzione tipizzata) ma è giuridicamente inesistente con gli effetti che simile censura produce: tam quan non esset.
A tale conclusione pervenne dunque la giurisprudenza di legittimità con la sentenza n. 10105\14, seguendo il percorso che da tempo la dottrina indicava, per censurare molteplici negozi illeciti che del trust non avevano nulla, se non il nome.
Il contesto sociale ed economico dell’impresa in crisi, nel tentativo grossolano di salvare il salvabile, in aperto contrasto con i diritti dei creditori più disparati (erario, istituti di credito, lavoratori, previdenza, fornitori e sotto un unico cappello, i creditori concorsuali) è stato il terreno di elezione del trust illecito o piuttosto, come ci viene spontaneo dire, del non-trust.
Le sezioni fallimentari di molteplici tribunali italiani[16] sono state inondate da atti di non-trust che avevano solo questo fine e giustamente hanno reagito[17].
L’enunciazione delle finalità di questi non-trust dimostrava una fantasia per certi versi inquietante, laddove si leggeva, ad esempio, che lo scopo del trust era soddisfare i creditori sociali in regime di par condicio, come se a ciò potesse determinarsi ad nutum il debitore, fuori dal processo fallimentare, senza aver raggiunto alcun un accordo con il ceto creditorio.
Quanti, fra questi non-trust, finirono sotto la lente di ingrandimento delle sezioni fallimentari furono immediatamente censurati con le più svariate misure e soluzioni (nullità, acquisizione dei beni in trust all’attivo della procedura, sequestri civili e penali, revocatoria ed altro) comprensibili nella pratica, ma non sempre corrette in diritto e, soprattutto, di scarsa efficacia.
La sentenza della Corte di Cassazione n. 10105\14 ha indicato la via corretta: non sono trust riconoscibili per l’ordinamento giuridico italiano.
Ancora, sempre sul fronte della riconoscibilità o non riconoscibilità, un pilastro portante è stato posto dal Tribunale di Bologna con la sentenza 9 gennaio 2014[18], confermata in appello[19], e sulla medesima scia si sono posti anche il Tribunale di Reggio Emilia[20] e Trieste[21], quest’ultimo anche in una recente decisione[22].
Volendo riassumere il contenuto di questi precedenti, ne esce un ragionamento articolato che ha una premessa di natura sostanziale: non importa o comunque non è dirimente ciò che con il trust si può fare nei paesi di Common Law o del modello internazionale, importa solo quello che può farsi in Italia in applicazione ed in forza della Convenzione.
Applicando la Convenzione, ne deriva la necessità di far soggiacere il trust interno, non solo alle sue norme, ma anche a quelle relative alla legge regolatrice prescelta che avoca a sé i principi generali posti a base del diritto dei trust[23].
Ciò significa, ed ecco un primo passaggio importante, che all’interno e nei limiti tratteggiati dalla Convenzione, si dovranno inserire le norme della legge regolatrice e il diritto dei trust che non potranno però mai prevalere sul dato convenzionale.
Dalla mancata comprensione di questo passaggio è successo di tutto in questi 30 anni.
Partendo dall’assunto che l’art. 9A della Jersey Trusts Law permetta al disponente di riservarsi infiniti poteri di controllo sul trust e sul trustee, i disponenti italiani hanno istituito trust in cui potevano liberamente e ad nutum: revocare il trustee, nominarne il successore, fare lo stesso con il guardiano, cambiare integralmente l’atto istitutivo, modificare i beneficiari, dettare regole di comportamento al trustee del tutto incoerenti con le finalità enunciate.
Questi disponenti avevano però dimenticato l’ultimo comma dell’art. 2 della Convenzione che permette al disponente di riservarsi solo “talune prerogative” e non certamente “ogni potere”.
Il diritto dei trust, che certamente si conforma prima di tutto al trust inglese, ci consegna, diversamente da quanto fanno molte leggi del modello internazionale (fra le quali appunto Jersey) un’autentica obbligazione fiduciaria che si pone alla base dei trust espressamente istituiti[24].
La fonte risale al famoso precedente inglese delle cd. tre certezze[25], fra le quali rileva la certainity of intention[26] che richiede, non solo l’effettiva volontà del disponente di dar vita ad un trust quanto, piuttosto, la certezza di voler conferire al trustee un’autentica obbligazione fiduciaria[27].
In questo senso dovrebbe interpretarsi l’art.2, ultimo comma della Convenzione e certamente in questo senso l’hanno interpretato i tribunali italiani[28].
Si può allora pensare, come si legge nella recente sentenza del Tribunale di Trieste[29] che i redattori della Convenzione abbiano fatto propri i principi delle 3 certezze di cui al precedente inglese?
Probabilmente sì ma dal lato pratico questo è il risultato che si produce dando una corretta lettura al combinato disposto di cui agli artt. 2, ultimo comma e 3 della Convezione.
A cascata ne derivano importanti implicazioni, ossia la fragilità di tutti quei trust dove il disponente, ad esempio attraverso la conservazione del potere ad nutum di revocare il guardiano, al quale conferisce a sua volta il potere di revocare il trustee, possa ritenersi aver conservato un controllo effettivo sull’intero trust.
La preliminare ed ineludibile conformità del trust interno ai requisiti minimi della Convenzione ha poi altre ricadute pratiche, rammentate puntualmente dalla giurisprudenza citata.
L’esistenza di beni al momento dell’istituzione del trust è ulteriore requisito che si legge nell’art.2 della Convenzione. Si delinea così la seconda delle tre certezze richieste: la certainity of subject matter, ossia l’esistenza del fondo in trust.
Sul punto si è parimenti verificato di tutto in questi anni e cercheremo di dar conto di alcuni degli esempi più interessanti.
Un primo caso, frequentemente accaduto, ha riguardato atti istitutivi vuoti (come nella vicenda oggetto della sentenza del Tribunale di Bologna 9 gennaio 2014) riempiti da atti di dotazione immediatamente successivi.
Questi atti di dotazione potevano dividersi in due categorie: (1) quelli che semplicemente recavano scritto formule del tipo: Tizio, trasferisce in proprietà del trustee del Trust Alfa, istituito il… a mezzo atto pubblico\ scrittura privata rep… racc… il seguente bene…; (2) quelli che, premettendo l’esistenza del Trust e riportandone tutti i requisiti minimi, poi enunciavano il trasferimento.
Questi ultimi, come nel caso esaminato dal citato giudice bolognese, sono stati i soli ritenuti validi, proprio perché, presentando tutti i requisiti del trust, divenivano l’effettivo atto istitutivo, mentre l’atto che pretendeva di essere tale, non veniva riconosciuto in quanto privo di beni.
La norma che ha permesso al giudice di preservare la volontà del disponente di istituire un trust, nonostante l’errore commesso sull’atto istitutivo, è stata giustamente ravvisata nell’art. 15, comma 2, della Convenzione che esprime quel favor trust, purtroppo da molti dimenticato.
La soluzione si è dunque trovata all’interno delle norme della Convenzione e non sui precetti della legge regolatrice e del diritto dei trust che in simili casi, avrebbe potuto chiamare in gioco una diversa tipologia di trust, ad esempio il constructive trust, non ammesso per il trust interno.
Ecco un ulteriore esempio che comprova l’indipendenza della Convenzione rispetto ai principi dei paesi di Common Law e del modello internazionale.
Altro caso interessante riguarda il rapporto fra i beni posti in trust e l’art. 4 della Convenzione il quale rimanda, per quanto attiene al trust interno, alla legge italiana, per individuare la disciplina da applicare al passaggio di proprietà dei beni, al trustee[30].
Per comprendere nella sua interezza questo rapporto, occorre rifarsi all’art. 2 della Convenzione, nella parte di cui chiede che i “beni siano posti sotto il controllo del trustee”, all’art. 11 che impone quale unico effetto, la segregazione dei beni in trust, dal patrimonio personale del trustee e, infine, all’art. 3 che precisa come la Convenzione si applichi solo ai trust “costituiti volontariamente”.
Un dubbio che fino a poco tempo fa saliva spontaneo in alcuni, era: ma allora “controllo” del trustee sui beni in trust o “proprietà” dei beni in trust in capo al trustee? Posto che, se si devono rispettare i requisiti minimi della Convenzione, fra essi certamente non è previsto il trasferimento con effetti reali dei beni, dal disponente, al trustee.
In coda a questo dubbio, ne sorse persino uno più delicato, avente ad oggetto il trust autodichiarato rispetto al quale, una prima parte della giurisprudenza[31], non avendo compreso l’intera impalcatura normativa della Convenzione, addirittura non lo riteneva legittimo perché non previsto fra le sue norme.
Finalmente si crede sia stata conseguita chiarezza sul punto[32], seguendo un ragionamento i cui tratti salienti proviamo ad esporre.
Fin dai suoi scritti più datati, la dottrina italiana più autorevole chiarì come la Convenzione non appartenesse alla categoria delle convenzioni internazionali di diritto materiale uniforme, ossia non conteneva una definizione esaustiva e completa del trust[33].
Non era nemmeno, sempre rifacendoci alla citata dottrina, una pura convenzione di diritto internazionale privato, che si limita ad individuare quale legge applicare ad un rapporto che presenta elementi di estraneità, in base a criteri di collegamento, rimettendo la qualificazione del rapporto all’ordinamento che proprio in applicazione dei citati criteri, risulta individuato.
La dottrina insegnava invece come la Convenzione fosse di tipo “amorfo”, argomentando in base al comma 1 dell’art. 2 che recita: “ai fini della presente Convenzione, per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona – il costituente – con atto fra vivi e mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico” dal quale si traeva una mera elencazione di alcuni requisiti mentre per contro brillava l’assenza degli elementi portanti del trust, fra i quali, segnatamente, l’obbligazione fiduciaria[34].
Analogamente anche il successivo comma 2 dell’art.2, che detta alcuni requisiti minimi (la presenza del trustee e dei beneficiari, la necessità di beni separati dal patrimonio personale del trustee, e gli obblighi del trustee) non colmava queste lacune.
La chiave di lettura di questo anagramma è risultata più articolata di quanto si potesse pensare.
La natura amorfa della Convenzione significa in pratica che il trust dovrà necessariamente – e prima di tutto - conformarsi ad essa per essere valido e dunque presentare requisiti minimi di cui all’art.2 che dovranno poi risultare in sintonia con le norme della legge regolatrice prescelta ai sensi dell’art. 6.
Per gli effetti, presa in esame una qualsiasi legge regolatrice, e su tutte la legge inglese, ma anche quella di Jersey, tanto utilizzata per i trust interni, oltre alla ricorrenza dei requisiti minimi della Convenzione se ne aggiungono di ulteriori fra quali, e forse il più importante, il fatto che il trustee (anche del trust autodichiarato) abbia acquisito dal disponente[35], e solo dal disponente, un diritto proprietario sui beni in trust, nel momento in cui il trust viene ad esistenza.
Esclusivamente in questo modo verrà ad esistenza, da una parte il legal title del trustee sui beni in trust e dall’altro l’equitable interest dei beneficiari (conosciuto anche come beneficial interest).
Per il diritto dei trust, il legal title del trustee sui beni in trust è una condizione imprescindibile[36] atteso che solo esso consente di far venire ad esistenza il contrapposto diritto in equity del beneficiario.
Non si tratta pertanto di un effetto richiesto ai meri fini di rendere il trust opponibile ai terzi, ma di un vero e proprio requisito posto alla base dell’esistenza stessa del trust[37]; ad substantiam, quindi.
Ciò non di meno, dovendoci sempre muovere entro i limiti della Convenzione, occorre considerare anche gli artt. 3 e 4.
L’art. 3, che limita l’applicazione della Convenzione ai soli trust “costituiti volontariamente”, non significa solo, come è stato inizialmente ritenuto, che l’unico trust possibile sia quello che ha la sua fonte di un atto di libera autonomia negoziale del disponente. Significa invece riconoscere all’autonomia negoziale del disponente di poter scegliere, nell’ambito della categoria alla quale appartengono i “trust espressamente istituiti” (expressed trust) tutte le fattispecie per essa previste che sono segnatamente date dal trust traslativo di beni al trustee e dal trust autodichiarato.
Se quindi è vero che porre dei beni semplicemente “sotto il controllo dei trust” (come recita il primo comma dell’art.2) è soluzione non ammessa da nessuna legge regolatrice, è per contro altrettanto vero che nell’ambito dei trust espressamente istituiti, tutte le leggi regolatrici ammettono anche il trust autodichiarato.
In conclusione, ritenere che la Convenzione non ammetta il trust autodichiarato è non solo un grave errore in diritto ma anche una manifesta contraddizione perché, se così fosse, sarebbe altrettanto vero che la Convenzione non ammette nemmeno il trust traslativo, limitandosi a pretendere che i beni siano posti sotto il controllo del trustee”, con l’effetto che nessuno dei trust istituiti in Italia, e regolati da leggi legittimamente scelte dai disponenti, sarebbe riconoscibile.
Estrema rilevanza assume poi l’art. 4 che rinvia alla legge italiana per quanto attiene ai modi e alle forme con le quali si possano trasferire dei beni in proprietà al trustee.
Entra così in campo, non solo la validità della forma del trasferimento ma anche e, soprattutto, la sua opponibilità ai terzi, quest’ultima determinante – si noti – per la stessa applicazione della Convenzione, ai sensi dell’art.11.
Eccoci giunti ad una delle norme più importanti in punto alla riconoscibilità del trust interno.
L’art. 11 chiaramente esplicita l’obbligo di riconoscere come trust, quel trust che sia conforme alla legge regolatrice prescelta aggiungendo poi che “tale riconoscimento implica quanto meno che i beni in trust sono separati dal patrimonio personale del trustee”.
In queste poche parole, insieme al rinvio fatto dall’art.4, alla legge italiana, sono racchiusi i punti nodali della questione:
1) la separazione patrimoniale è l’unico effetto richiesto dalla Convenzione ma è un effetto obbligatorio;
2) ai fini della validità dei trasferimenti di beni al trustee di un trust interno, si applica la legge italiana.
Il punto 1) è quello che ha permesso di tacitare quanti vedevano nei trust interni una violazione dell’art. 2740, comma 2, cc[38].
Il punto 2) richiede un’analisi più ampia
Posto che l’art.11 afferma chiaramente come non ci possa essere trust, se non c’è segregazione del patrimonio, si pone il problema della sua concreta attuazione all’interno del nostro diritto positivo su di un piano, occorre segnalarlo, non solo strettamente limitato alla mera opponibilità ai terzi dell’esistenza di un patrimonio separato, quanto strettamente necessario ai fini della stessa riconoscibilità del trust, perché senza segregazione, non c’è trust per la Convenzione.
Occorre senza dubbio richiamare una prassi professionale attenta che, consapevole di questa imprescindibile necessità, cominciò a tracciare linee guida che si sono poi dimostrate efficaci e valide in questi anni:
1) per i beni trascrivibili nei pubblici registri, si è data menzione nella nota di trascrizione[39], e nel registro delle Imprese, dell’acquisita proprietà del bene in capo ad un soggetto “in qualità di trustee del trust Alfa”;
2) per le azioni societarie, si è riportato nel libro soci l’acquisita proprietà delle azioni in capo ad un soggetto “in qualità di trustee del trust Alfa”;
3) per i rapporti bancari e di gestione, le intestazioni dei relativi contratti sono state eseguite parimenti in capo al “trustee del trust Alfa”;
4) per i beni mobili, il trasferimento con la loro precisa individuazione, è stato formalizzato per iscritto, con atto avente data certa.
La medesima prassi è stata adottata anche per il trust autodichiarato e un caso recentemente accaduto può rivelarsi interessante[40].
Il disponente di un trust autodichiarato istituiva un trust, precisando che il fondo era costituito “da tutti i suoi valori mobiliari depositati negli istituti di credito”, nominava beneficiario il suo unico figlio, disabile grave, Caio nell’ufficio di guardiano ed infine indicava il trustee successore, in caso di sua morte, nel sig. Mevio.
Deceduto immediatamente dopo l’istituzione del trust, non riusciva a cambiare l’intestazione sui suoi contratti bancari che dunque, all’apertura della successione, risultarono intestati a lui personalmente.
Incurante di questo aspetto, Mevio, sul presupposto di essere divenuto il trustee, si recava presso la banca dove erano depositati i conti del de cuius pretendendo che gli fossero consegnati e, a fronte del legittimo rifiuto della banca, la citava in giudizio in via cautelare, perdendo in entrambi i gradi di giudizio[41].
A latere, radicava un procedimento ex art. 702 bis cpc per la revoca di Caio dall’ufficio di guardiano e il giudice adito ordinava l’integrazione del contraddittorio nei confronti del beneficiario del trust che, nel frattempo, era stato sottoposto dal Giudice Tutelare all’amministrazione di sostegno. Costituitosi l’amministratore di sostegno, veniva accolta la sua domanda di carenza di legittimazione attiva di Mevio, in qualità di presunto trustee, perché il trust non poteva essere riconosciuto dall’ordinamento giuridico in quanto privo di beni e dunque incapace di produrre l’effetto segregativo richiesto dall’art. 11 della Convenzione. Nella motivazione resa, è di estremo rilievo sottolineare il passaggio in cui il tribunale precisa chiaramente come la sussistenza di beni al momento dell’istituzione del trust sia una condizione richiesta ab sustantiam, per l’esistenza stessa del negozio giuridico, così come l’immediato prodursi dei conseguenti effetti segregativi.
Questo caso si dimostra interessante anche per un diverso aspetto, fornendo lo spunto per rappresentare come sarebbe stata trattata la vicenda a Jersey (la cui legge regolava il trust in esame) e come avrebbe potuto risolversi anche in Italia, optando per un percorso diverso dai fatti narrati.
Se il fatto fosse accaduto a Jersey (ma anche a Londra) la banca depositaria dei conti correnti del de cuius sarebbe stata nominata dal giudice constructive trustee dei conti correnti, obbligandola pertanto a non disporne in favore di nessuno e a consegnarli all’effettivo trustee, il sig. Mevio. In altri termini, con un ordine giudiziale, sarebbe venuta ad esistenza un’obbligazione fiduciaria che andava a riconoscere adeguata tutela alla “situazione affidante”[42] posta in essere dal disponente il quale, solo a causa della sua morte, non era riuscito a completare[43].
Il constructive trust non è tuttavia ammesso nel nostro Paese perché l’art. 20 della Convenzione, che lo avrebbe consentito, non è stato oggetto di ratifica da parte del nostro legislatore.
Ciò non di meno, proprio rammentando il favor trust di cui all’art. 15, comma 2 della Convenzione[44], la situazione in cui si è trovato il sig. Mevio avrebbe trovato comunque una probabile tutela.
Questi infatti, avrebbe dovuto rapportarsi con il giudice tutelare e, rappresentandogli l’oggettiva impossibilità del padre di riuscire a dotare il trust di beni, perché improvvisamente deceduto, avrebbe dovuto richiedere il suo parere all’istituzione del trust, per il tramite dell’amministratore di sostegno, avente ad oggetto i beni caduti in successione e di spettanza del figlio, erede universale. Qualora il Giudice tutelare avesse dato parere positivo, l’autorizzazione sarebbe dovuta provenire dal tribunale collegiale, adito ai sensi dell’art. 747 cpc, seguendo peraltro una prassi che ha già avuto piena conferma giurisprudenziale[45].
Come si vede dunque, con le opportune modifiche, la soluzione che sarebbe stata adottata a Jersey avrebbe portato al medesimo risultato che si sarebbe potuto conseguire in Italia.
Infine, una riflessione sulle pronunce giurisprudenziali che hanno dichiarato lo sham trust.
Si è in presenza di uno sham trust quando il disponente non ha conferito de facto alcuna obbligazione fiduciaria al trustee e conserva invece un controllo cogente sul fondo, come se fosse ancora suo. Quello che in pratica viene ad esistenza è solo indurre nei terzi l’apparenza di un trust.
Ciò che tuttavia sfugge è che lo sham trust è altro dal trust simulato e la giurisprudenza italiana, ritenendo sovente che gli istituti siano similari, ha sbrigativamente censurato gli atti che riteneva sham, con la nullità.
Occorre chiarire che rimanendo nell’ambito della Convenzione, potrà dichiararsi uno sham trust quando, in applicazione degli artt. 6 e 8 della stessa, il trust risulti violare un precetto di cui alla legge regolatrice prescelta che espressamente prevede tale sanzione, ad esempio quando il trust, retto della legge inglese, sia privo della certainity of intention[46]. Tale sanzione però, non ricorrerebbe per il trust retto da Jersey perché l’art. 9A consente invece al disponente di riservarsi infinite prerogative. Infatti, nei precedenti italiani qui citati, tutti afferenti a trust retti dalla legge di Jersey, la carenza di certainity of intention che ne ha determinato la non riconoscibilità, non è stata ricondotta allo sham trust, per violazione di norme di cui alla legge regolatrice, ma per violazione dell’art. 2 della Convenzione.
Cogliere questa differenza è un passaggio sostanziale per non formulare domande di nullità o di sham trust che risultino poi infondate in diritto.
Per contro, potrà dichiararsi la nullità quando un trust violi una norma interna per quale viene comminata questa censura quale sanzione tipica del nostro ordinamento che sarà resa ai sensi del combinato disposto dell’art. 15, comma 1 della Convenzione, unitamente alla norma interna violata: ad esempio un trust che si sostanzi in un puro patto commissorio.
La simulazione invece è questione del tutto diversa che molto spesso non è necessario invocare considerato che il trust che risulti simulato per l’ordinamento interno è certamente sanzionabile, molto prima di ricorrere alla simulazione, con altre norme del tutto diverse.
Un esempio di questo ragionamento si trae da una recente decisione[47] nella quale è stato dichiarato sham, e quindi nullo, un trust autodichiarato dove vi era coincidenza in capo alla stessa persona dei ruoli di disponente-trustee e beneficiario. Infatti, proprio in ragione di quanto sin qui detto, questo trust era evidentemente non riconoscibile ai sensi dell’ultimo comma dell’art.2, senza bisogno di accomunare, erroneamente, lo sham ad ipotesi di simulazione e dunque di nullità.
2. Quando il trust non serve a nulla.
E’ stato talmente acuto l’allarme che una sciagurata serie di non- trust ha suscitato nelle aule dei tribunali, da aver costretto i giudici a scomodare istituti giuridici praticamente dimenticati, fino a vederne spuntare di nuovi.
Non si possono che condividere le ragioni pratiche e di giustizia che hanno sotteso a queste decisioni mentre non si comprende come si possa continuare, nonostante tutto ciò, a persistere con l’ostinato impiego dello strumento quando, con ogni evidenza, è stata ampiamente dimostrata la sua inutilità, laddove non pericolosità.
2.1 La revocatoria: un’arma spuntata.
Basta scorrere una qualsiasi banca dati per rendersi conto di quante siano le decisioni che hanno ad oggetto domande di revocatoria, per la gran parte accolte.
Fra quelle rigettate, alcune sono significative perché dimostrano, in contro tendenza a quanto dai più fatto, come il trust possa rivelarsi utile quando non è stato posto in essere a soli fini di frode ai creditori.
Ad esempio, una domanda di revocatoria è stata respinta perché il disponente, dimostrando di aver scoperto il debito solo successivamente all’istituzione del trust, ha fatto venir meno il requisito della scientia damni[48], in altra la domanda è stata rigettata dal giudice di legittimità per cessione dei beni a titolo oneroso da parte del trustee, ad un terzo di buona fede, in un ulteriore caso è stata dichiarata la carenza dell’eventus damni per sproporzione fra il credito e il valore dell’immobile in trust[49] e infine per capienza del residuo patrimonio del disponente[50].
Parimenti è stato altresì raggiunto unanime accordo sull’atto da assoggettarsi a revocatoria che è sempre l’atto di dotazione patrimoniale e mai l’atto istitutivo del trust a meno che quest’ultimo non contenga anche l’atto di dotazione dovendosi, in tale caso, procedere contro lo stesso[51].
Una recente sentenza di legittimità[52] si è spinta oltre, ritenendo che sia utilmente formulata la domanda di inefficacia ex art. 2901 cc rivolta solo verso l'atto istitutivo di trust e non anche nei confronti del relativo atto di conferimento poiché il secondo troverebbe la sua causa solo nel primo; la motivazione però non pare condivisibile. Difatti i giudici di merito[53] hanno continuato a rigettare le domande promosse solo contro l’atto istitutivo di trust, ritenendolo negozio neutro e privo di contenuto dispositivo di carattere patrimoniale e come tale incapace di incidere sulla garanzia patrimoniale alla quale è tenuto il debitore.
L’unico nodo che rimane da sciogliere nell’ambito dell’azione revocatoria è se sussista o meno il litisconsorzio dei beneficiari. In tema, si riscontrano molteplici orientamenti della giurisprudenza.
Un primo filone ritiene i beneficiari, litisconsorti necessari, solo se titolari di diritti attuali[54], o di una posizione beneficiaria definitiva (ossia quando sono irrevocabili)[55] oppure se hanno un diritto sul reddito[56] o se, a prescindere dai loro diritti, il trust abbia natura onerosa[57] o quando, infine, siano titolari di un diritto di credito[58].
Per contro i beneficiari sono stati ritenuti carenti di legittimazione passiva perché non erano stati parte dell’atto istitutivo[59] o non risultavano titolari di una posizione vested[60], pur rimanendo legittimati ad intervento adesivo dipendente[61].
Vi è, all’evidenza, una certa discontinuità e anche la dottrina si è interrogata sul punto argomentando in particolare su alcune decisioni di legittimità[62].
La risposta alla domanda se sussista o meno un litisconsorzio necessario dei beneficiari nella domanda revocatoria non può, a nostro parere, essere resa in modo unitario e valido per ogni caso di trust che risulti soggetto all’azione pauliana.
La soluzione proposta da alcune decisioni di legittimità[63], che negano il litisconsorzio sulla base dell’assenza di un diritto dei beneficiari, alla corretta amministrazione del trust, “a meno che in atto istitutivo non preveda diversamente” è un assunto fortemente contrario al diritto dei trust.
I principi fondanti il diritto dei trust insegnano con estrema chiarezza come solo i beneficiari abbiano diritto alla corretta amministrazione del trust, sia che il disponente glielo abbia riconosciuto nell’atto istitutivo, sia che l’abbia addirittura negato[64].
Il fatto che non possa esistere un trust che non abbia beneficiari identificabili, che consiste nella terza certezza, la certainty of objects, ha la sua ratio anche nel fatto che solo in tal modo si potrà assicurare il corretto adempimento del trustee, alle sue obbligazioni fiduciarie.
Da ciò deriva uno dei diritti fondanti il beneficial interest del beneficiario: il diritto di informazione.
La logica che sottende a questa condizione è di immediata percezione: solo qualora il beneficiario sappia dell’esistenza del trust istituito in suo favore, verrà messo in condizione di esercitare i suoi diritti o tutelare le sue legittime aspettative, compresa quella di convenire in giudizio il trustee che stia violando l’obbligazione fiduciaria di cui è gravato; diversamente no.
Pertanto, questa non può essere la scriminante del ragionamento che voglia determinare se esista o meno il litisconsorzio dei beneficiari.
Nemmeno può essere quella patrocinata da altre decisioni che lo negavano perché i beneficiari erano solo beneficiari del fondo al termine e non durante la vigenza del trust.
La posizione beneficiaria dei beneficiari finali del fondo, se è piena a irrevocabile, è forse la più importante posizione che si possa riconoscere loro, alla quale si accompagnano diritti, poteri di verifica e controllo presso il trustee non ascrivibili ad altre categorie di beneficiari.
Se dunque si dovesse pensare a quali siano dei beneficiari necessariamente litisconsorti, la risposta più semplice sarebbe certamente quella che riguardasse beneficiari finali aventi le menzionate caratteristiche.
La conclusione è pertanto del tutto diversa e va incentrata sulle concrete posizioni beneficiarie previste nell’atto istitutivo di riferimento, ritenendo che il litisconsorzio non sussista tutte le volte in cui tale posizione sia totalmente instabile, del tutto rimessa alla discrezionalità del trustee e che non si concretizzi in alcun diritto, ma solo in una mera aspettativa, di percezione di beni, durante il trust, o al termine dello stesso.
Veniamo ora ad un diverso aspetto che attiene sempre ai trust revocabili.
Non è peregrino pensare che molte volte i disponenti siano ricorsi al trust, come in precedenza si faceva per il fondo patrimoniale, con la piena consapevolezza di porre in essere un negozio in frode ai creditori.
Quand’è così, la decisione di adottare questo strumento ha la sua ratio in due precise motivazioni: (1) la consapevolezza che la revocatoria accolta diverrà efficace (e dunque utilizzabile dal creditore) solo con il passaggio in giudicato della sentenza che accolga la domanda (2) per arrivare al passaggio in giudicato della sentenza occorrono molti anni di giudizio.
Talvolta si è tentato, all’interno dell’azione revocatoria, anche la cd. revocatoria risarcitoria per ottenere una sentenza di condanna immediatamente esecutiva, ma i presupposti della domanda sono più complessi e non ci sono allo stato precedenti significativi.
Lo scellerato proliferare di atti in frode ai creditori ha indotto il legislatore, nel 2015, a inserire nel codice civile l’art. 2929 bis per calmierare gli effetti dei tempi di accoglimento delle domande di revocatorie e dare giusto sollievo ad intere classi di creditori, sostanzialmente costretti solo ad aspettare. Tuttavia, occorre avere un titolo esecutivo emesso entro l’anno di istituzione dell’atto lesivo della garanzia patrimoniale, per poter beneficiari di detta norma, sicché il numero di creditori che potrà avvalersene è ridotto.
Lo scenario in cui oggi si collocano domande revocatorie relative a trust interni può dividersi in 4 ambiti precisi:
1) la revocatoria del trust riconoscibile e concretamente portante un’obbligazione fiduciaria perseguita dal trustee, per la quale il creditore non potrà che attendere il passaggio in giudicato della sua domanda, qualora venisse accolta (potremmo qui dire la revocatoria del trust “incolpevole");
2) l’inutilità della revocatoria quando il creditore, essendo in possesso di un titolo esecutivo emesso nell’anno di istituzione dell’atto lesivo, potrà avvalersi dell’art. 2929 bis (certamente qui si tratta di “trust consapevolmente in frode ai creditori”);
3) l’inutilità della revocatoria quando il trust sia non riconoscibile (si tratti o meno di atto consapevolmente in frode ai creditori);
4) i possibili effetti dell’avvio dell’esecuzione forzata in pendenza di revocatoria.
Tratteremo solo i punti 3) e 4) perché sugli altri si è già detto.
I casi trattati dal Tribunale di Bologna 9 gennaio 2014 e Trieste 29 ottobre 2019 dimostrano come sia dispersivo ed inefficace chiedere la revocatoria di atti non riconoscibili; molto meglio procedere giudizialmente (magari con un semplice ricorso ex art. 702 bis cpc) all’accertamento della domanda di non riconoscibilità del trust, avendo l’accortezza di precisare che per gli effetti il trustee venga dichiarato non legittimato ad agire in giudizio o privo di una legittima titolarità sui beni in trust o infine condannato a restituire il fondo.
Si pensi ai trust del tutto privi dei requisiti minimi per la loro riconoscibilità, trust nei quali disponente, beneficiario e trustee sono la stessa persona, o quando il disponente può unilateralmente revocare trustee e guardiano.
Trust ancora senza l’enunciazione della legge regolatrice, con posizioni beneficiarie inesistenti, con trasferimenti di beni non individuati o individuabili, istituiti senza beni e poi riempiti con atti di pura dotazione patrimoniale che risultano del tutto privi di causa.
Si tratta di atti non riconoscibili, per i quali sussiste carenza di legittimazione da parte di chi pretenda di esserne il trustee[65].
Venendo poi al punto 4) un caso recentemente passato al vaglio del giudice dell’esecuzione del Tribunale di Bologna[66] ha aperto una strada persino più dirompente.
La vicenda è piuttosto semplice: due coniugi istituiscono un trust, nominandone la moglie, trustee, individuano quali beneficiari i loro figli e scelgono la legge inglese quale legge regolatrice. Si tratta dunque di un trust autodichiarato per quanto attiene alla moglie. Una banca creditrice della disponente-trustee, in forza di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, dà inizio sia all’azione forzata sui beni immobili in trust, sia all’ azione revocatoria ex art. 2901 cc, dalla quale esce vittoriosa in primo grado. La disponente-trustee propone opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 2 cpc, precisando di agire “in proprio”, e chiede la sospensione dell’esecuzione in corso in quanto la trascrizione del vincolo di destinazione sugli immobili è anteriore al pignoramento.
La banca procedente eccepisce la carenza di legittimazione della disponente-trustee perché ha promosso l’opposizione in proprio e non nella sua qualità di trustee. Nel frattempo, interviene nell’esecuzione altra banca che non è più nei termini per esercitare autonoma azione revocatoria. Il giudice dell’esecuzione, alla prima udienza di comparizione delle parti, concede termine per memorie, sia sull’ eccepita carenza di legittimazione ad agire della disponente sia, ex art. 101, comma 2 cpc, su una questione che ritiene di porre a fondamento della sua decisione riguardante l’atto istitutivo: la sua riconoscibilità per l’ordinamento giuridico italiano. In altri termini, procede di ufficio. L’atto istitutivo non prevede la nomina di un guardiano e pone in capo ai soli disponenti il potere di revocare il trustee e nominarne il successore. In considerazione del fatto che uno dei disponenti è anche il trustee, questi ha quindi, paradossalmente, il potere di revocarsi e nominare il suo successore. Nessun potere risulta conferito ai beneficiari. La centralità assoluta dei disponenti risulta anche da una clausola singolare dell’atto istitutivo che prevede, fra le cause di cessazione del trust, l’intervenuta separazione o divorzio dei disponenti. In altri termini, proprio nel momento storico in cui i figli potrebbero necessitare maggiore protezione, il trust cessa. Il giudice dell’esecuzione accoglie le eccezioni di non riconoscibilità del trust proposte dalla banca intervenuta nella memoria autorizzata, non solo per violazione dell’art. 2, ult. comma della Convenzione, avendo i disponenti concentrato su di loro ogni potere relativo al trust, ma anche per violazione dei precetti della legge regolatrice e dunque rigetta l’istanza di sospensione della procedura espropriativa in corso. Le parole spese nella motivazione sono piuttosto nette laddove, trattando dei disponenti, si legge: “l’immagine metaforica del soggetto che a seconda delle situazioni cambia il cappello”. La decisione poi sulla non riconoscibilità del trust è stata ritenuta dal giudice la “ragione più liquida”, rispetto alle altre sollevate, sicché ha rinviato al merito per la diversa questione della carenza di legittimazione della opponente.
Così facendo, il giudice dell’esecuzione ha reso la domanda revocatoria del tutto marginale rispetto agli effetti che la sua decisione ha prodotto.
2.2 Requiem del trust liquidatorio per evitare il fallimento.
Per quanto attiene alla spinosa questione dei trust liquidatori istituiti da società già in conclamato stato di insolvenza, la decisione finale alla quale è pervenuta la giurisprudenza di legittimità, con la nota sentenza n.10105 del 9 maggio 2014, si è dimostrata persino innovativa, quasi come se questa censurabile categoria di trust avesse richiesto una sanzione talmente grave da costringere il giudice di legittimità ad una riflessione più ampia rispetto al negozio in frode ai creditori.
La finalità perseguita dalle società insolventi che ricorrevano al trust liquidatorio andava ben oltre la semplice frode ai creditori; l’intento era evitare il fallimento, sottraendo ai creditori concorsuali il poco attivo rimasto, impossessandosene.
Abbiamo sopra riassunto il ragionamento seguito dal giudice di legittimità della sentenza citata ai sensi del quale il negozio istitutivo di trust risulta non riconoscibile perché volto ad impedire l’applicazione di una norma di ordine pubblico, qual è la normativa concorsuale. Qui aggiungiamo la conseguente nullità, ex art. 1418, comma 2 cc., dei negozi dotativi di beni al trustee in quanto privi di causa lecita e la recente sentenza del Tribunale di Trieste[67] lo ha ribadito.
Si possono poi aggiungere alcune riflessioni.
La prima attiene alla sorte dei beni in trust in caso di sopravvenuto fallimento della società che abbia fatto ricorso ad un trust liquidatorio[68], atteso che alcuni giudici di merito hanno ritenuto che nel caso in cui disponente sia la società, i beni dovranno confluire nell’attivo fallimentare[69].
La questione è tuttavia priva di rilevanza sostanziale posto che Corte di Cassazione[70] ha precisato come la non riconoscibilità del trust liquidatorio istituito dalla società insolvente, anche qualora dovesse enunciare una clausola di salvaguardia in favore del sopravvenuto fallimento, rimane priva di effetti in ragione del mancato riconoscimento ab origine del negozio.
Da ultimo vorremmo citare la recente decisione del Tribunale di Trieste[71], che per altro abbiamo già più volte richiamato, che rappresenta un eccellente compendio di quanto sin qui detto, consentendo di trarre alcune considerazioni finali, non solo sui trust liquidatori in frode ai creditori ma anche in punto al delicato tema della riconoscibilità del trust interno.
Rileva, in punto agli articolati fatti della vicenda sottostante di cui si è occupato il giudice triestino, alcuni elementi di significativo rilievo per il diritto dei trust.
Una società sostanzialmente insolvente istituisce il solito trust liquidatorio, ne indica la Jersey Trusts Law quale legge regolatrice, ed enuncia una clausola dove prevede che, in caso di vacatio dell’ufficio di trustee, ne assuma temporaneamente l’ufficio, il guardiano “solo per l’ordinaria amministrazione”. Secondo poi la prassi in uso per questi trust, si legge nell’atto istitutivo che il fondo è costituito da “tutti i beni e diritti di cui all’allegato inventario”.
Successivamente il trustee muore e dunque il guardiano ne assume l’ufficio temporaneamente.
Un creditore cita in giudizio il guardiano, nella sua qualità di trustee in carica pro tempore, e questi si oppone, assumendo di non avere la legittimazione passiva, di essere nell’ufficio solo per l’ordinaria amministrazione che, come tale, non ricomprendente un fatto straordinario, di non aver mai accettato l’ufficio di trustee e, infine, che il fondo in trust non gli appartiene.
Il tribunale, avvalendosi del disposto di cui agli artt. 68 cpc e 14 della L. 218\95, nomina un esperto della legge di Jersey affinché dia risposta ad un complesso quesito così riassumibile: se sia prevista la figura del guardiano nella legge de qua, in quali poteri e doveri si concretizzi tali figura, se possa estendersi sino alla nomina del nuovo trustee ed infine se si possa ritenere, sempre e solo in base alla legge regolatrice, che questi, assumendo le vesti del trustee provvisorio, ne acquisisca anche i pieni poteri e diritti, e le conseguenti legittimazioni processuali, o possa invece limitarsi alla sola amministrazione ordinaria.
La conclusione raggiunta dall’esperto nominato, che si è articolata non solo sui precedenti della legge in questione ma in generale sui principi fondanti il diritto dei trust, che chiamano in causa anche i precedenti di altri ordinamenti e su tutti quelli inglesi, è che non potendo mai un trust rimanere – o essere – senza trustee, per gli effetti colui che risulta svolgere tale ufficio, ha necessariamente acquisito tutti i diritti e doveri.
Tuttavia, tale condizione è necessaria ma non sufficiente in quanto, se è certamente vero che non può esistere un trust, senza trustee, d’altro canto è altresì vero come non possa esistere un trustee che non abbia il legal title sui beni in trust, ossia che ne sia proprietario.
L’indagine circa l’effettivo, o meno, acquisito diritto di proprietà da parte del guardiano, quando ha assunto la veste di trustee, non compete però all’esperto, che dunque qui si è fermato, essendo rimessa alla legge italiana in forza dell’art. 4 della Convenzione.
In ragione di ciò, argomentando in base alla generica dizione contenuta nell’atto istitutivo in punto al fondo in trust, al quale si accompagnava la dichiarazione resa a fini fiscali di un patrimonio negativo di oltre 1 milione di euro, la cui incidenza probatoria in ambito civilistico il giudice ha giustamente valorizzato, il tribunale triestino ha dichiarato il trust non riconoscibile “non potendosi sapere quali beni in concreto fossero stati conferiti nel trust”.
Il giudice, però, non si affatto fermato a questa conclusione.
Pur riconoscendo infatti che il detto assunto fosse già di per se sufficiente, ha sentito il dovere di ulteriormente evidenziare come, ancor prima, l’ atto risultava non riconoscibile per una serie di preliminari ragioni date dalla manifesta insolvenza della società ed assenza di alcuna concreta attività liquidatoria, fino a ritenere “nemmeno commentabile”, in quanto palesemente illecito, il passaggio dell’atto istitutivo in cui si dichiarava che l’ intento era prevenire “eventuali azioni revocatorie concorsuali”.
Altro quindi non resta da dire, se non rappresentare come il trust liquidatorio in frode ai creditori concorsuali, e non, abbia dimostrato, per un verso la sua totale inutilità e, per l’altro, la pronta reazione da parte degli organi giudiziari[72].
2.3 I pericoli e danni del trust sbagliato.
A volte ci si imbatte in trust che sono parte di una complessa struttura di ingegneria giuridica i cui confini, riteniamo, non sono stati assolutamente spiegati a chi li ha istituiti.
Altre volte si è in presenza di atti, frutto di una evidente metabolizzazione errata o superficiale del trust. In tutti questi casi, il risultato è il medesimo: un grave danno per i soggetti coinvolti.
Trust nei quali disponenti, trustee e beneficiari sono la stessa persona[73], che violano le norme processuali che hanno ad oggetto la competenza funzionale inderogabile in materia di minori, incapaci e fallimento, dove ci sono clausole di rinuncia preventiva del guardiano ad agire in giudizio contro il trustee (che magari è lo stesso disponente) manifestatamente contrari ai principi posti alla base del diritto dei trust, fra i quali il diritto di informazione e di rendiconto.
Sono davvero pochi i trust che obbligano il trustee a rendicontare ai beneficiari, sostituendoli con il guardiano, come se bastasse questa precisione nell’atto istitutivo, per far venir meno uno dei precetti fondanti il diritto dei trust.
Da sempre la dottrina insegna che: “il diritto dei beneficiari di vedere il bene correttamente amministrati è un diritto che si colloca alla base della teoria dei trust sin dai primi precedenti storici e che può essere vantato da qualunque beneficiario”[74].
Ciò nonostante la stessa Corte di Cassazione, non cogliendo affatto la valenza e portata di questo precetto, come abbiamo già detto, decidendo in tema di litisconsorzio nell’azione revocatoria, ha ritenuto di trovare lo risposta argomentando sulla base del fatto che nell’atto istitutivo era assente “un diritto dei beneficiari alla corretta amministrazione del trust[75]”.
Il diritto di informazione dei beneficiari è uno fra i più importanti diritti riconosciuti dal diritto dei trust, con ciò intendendo il diritto dei beneficiari di essere a conoscenza del trust istituito, per consentir loro di poter tutelare concretamente le posizioni beneficiarie, e ciò risale ad una dottrina[76] e giurisprudenza inglese assolutamente consolidata[77] tanto da essere colta, sin dal 2007, dal Tribunale di Reggio Emilia[78].
Tutto ciò pare dimenticato, trascurato e probabilmente non si sono compresi gli effetti che ricadranno su questi trust quando, portati nelle nostre aule giudiziarie, risulteranno gestioni di patrimoni in trust portate avanti nell’assoluta ignoranza dei beneficiari che, spesso, nemmeno sanno dell’esistenza del trust.
Ma le ripercussioni non saranno solo in danno del disponente, ed in favore dei suoi creditori, ma anche dei trustee che dovranno rispondere di breach of trust e breach of duties nei confronti dei beneficiari, con ogni conseguenza in punto alla loro personale responsabilità patrimoniale.
Su questo aspetto non si ravvisano precedenti nazionali significativi quindi si tratta di una questione ancora tutta da affrontare[79].
Alcuni degli errori più macroscopici che la prassi ci ha consegnato in questi anni, attengono proprio ai precetti fondanti il diritto dei trust.
Il primo riguarda la posizione beneficiaria, non solo in punto al diritto di informazione e rendiconto, ma più in generale ai poteri e diritti che sono riconosciuti ai beneficiari di un trust.
Ad esempio, quale siano i confini della posizione beneficiaria spettante a chi sia il solo beneficiario di un trust, ossia quando si è in presenza di un cd. trust nudo (bare trust).
In alcuni casi, i curatori fallimentari hanno nominato unico beneficiario del trust, l’agenzia delle entrate, certamente non cogliendo le implicazioni che derivano dal conferire una simile stabile posizione beneficiaria, ancor più quando il bene in trust è rappresentato da partecipazioni produttive. A tacere di come possa coesistere una posizione beneficiaria finale vested all’interno di una procedura concorsuale, atteso che, solo per accennare ad una possibile problematica, nulla potrà essere modificato di detti trust, senza coinvolgere il beneficiario.
Si sono poi riscontrati nella prassi atti istitutivi nei quali il trustee è una società residente nel Delaware, appositamente costituita, della quale il disponente è il procuratore per l’Italia, con tutti i poteri, nonché il solo beneficiario, così pensando di mascherare il controllo ininterrotto che questi continua ad esercitare sui beni in trust e ponendo invece solide basi per declaratorie di inesistenza dell’atto non soggette a prescrizione.
Con il fine invece di risparmiare le imposte, ci sono casi di trust retti dalla legge inglese, con beneficiari persone fisiche e beneficiaria finale una onlus esistente, o da costituire, nominata anche destinataria di redditi nel corso del trust. Non si è però considerato che la legge inglese non ammette il charity trust con beneficiari, ma solo il trust di scopo, in ogni caso possibile solo a fronte di un vaglio di conformità ed approvazione rilasciato dalla Charity Commission di Londra, con la conseguenza che sono trust affetti da radicale nullità per la stessa legge regolatrice.
Vi sono ancora trust che eleggono la giurisdizione del paese di appartenenza della legge regolatrice, senza considerare le norme di diritto processuale civile inderogabili previste per molte fattispecie.
Ciò che accomuna tutti questi casi è la mancanza di consapevolezza circa gli effetti pratici che nel tempo queste situazioni potranno produrre atteso che, un trust non riconoscibile ab initio, sarà difficilmente ricevuto da un notaio scrupoloso ed attento al quale venisse, ad esempio, richiesto di rogitare l’atto di modifica del trust, la vendita di un bene ricompreso nel fondo o la cessazione anticipata, con contestuale distribuzione del fondo in trust ai beneficiari.
In un caso avente ad oggetto un trust di questo tipo, le conseguenze si sono rivelate persino più gravi di quanto si potesse inizialmente immaginare.
Si tratta di un trust, con trustee rappresentato da una società estera appositamente costituita, della quale la disponente era il solo amministratore, nonché unica beneficiaria finché in vita, alla quale poi sarebbero succeduti, quali sopravvenuti beneficiari, alcuni suoi famigliari.
Ovviamente, al momento dell’istituzione del trust, la disponente era piena di debiti.
Deceduta la disponente, i beneficiari, forti del fatto che tutto il patrimonio attivo della de cuius era stato dalla stessa messo in trust, non avevano accettato l’eredità in quanto composta solo da passivo. Avendo poi deciso di avvalersi della sander vs vautier[80], si sono rivolti ad un notaio affinché rogitasse l’atto di cessazione anticipata del trust per unanime volontà dei beneficiari, con contestuale distribuzione del fondo in loro favore e si sono sentiti opporre un netto rifiuto.
Il trust è stato ritenuto dal notaio inesistente dall’inizio e, come tale, non ricevibile e medesima eccezione è stata sollevata anche dalla pletora di notai successivamente consultati.
Solo oggi, dunque, i beneficiari hanno acquisito piena consapevolezza della paradossale situazione in cui si trovano: qualora un creditore dovesse promuovere domanda di non riconoscibilità del trust, i beni per gli effetti tornerebbero in capo al disponente e dunque ai suoi eredi, che tuttavia non sono i beneficiari, avendo rinunciato all’eredità mentre, per contro, sono bloccati nel trust senza sapere come uscirne.
Non possiamo da ultimo omettere l’annosa questione relativa alla soggettività del trust, della cui effettiva portata gli istituti di credito italiani paiono non volersi rendere conto, continuando ad intestare i contratti bancari al trust, e non al trustee.
La Cassazione, sin dal 2011[81], ha statuito con molto chiarezza come il trust sia privo di soggettività giuridica sicché il centro di imputazione di ogni obbligazione, diritto o dovere non può che essere il trustee, per altro facendo propri i principi fondanti il diritto dei trust. Sulla stessa scia si sono succedute ulteriori decisioni di legittimità[82] e di merito[83] che hanno trattato diversi aspetti quali, ad esempio, la non proseguibilità del processo esecutivo quando il pignoramento è stato notificato al trust o la nullità del precetto notificato al trust.
C’è però un nodo nevralgico che rimane scoperto, ad esempio nei contratti bancari, e ci riferiamo al contratto di conto corrente che risulti intestato al trust e non al trustee, sul quale un creditore del disponente intenda promuovere l’esecuzione forzata. Attesa infatti la mancanza di soggettività del trust, il debitore si potrà efficacemente difendere a fronte dell’eccezione di mancata venuta ad esistenza di un patrimonio segregato (e dunque carenza dell’effetto minimo di cui all’art. 11 della Convenzione) sollevata dal creditore? E la banca depositaria del conto sarà esente da responsabilità nei confronti dei beneficiari, qualora l’eccezione del creditore venisse accolta?
Abbiamo dubbi a riguardo.
Da ultimo non possiamo dimenticare le trust companies che fioriscono in tutta Italia e che nei loro messaggi promozionali, anche su quotidiani di rilevanza nazionale, cercano di attirare potenziali clienti, promettendo loro che il trust serve per difendersi dalle richieste delle agenzie delle entrate e dalla riscossione, dimenticandosi le norme penali che regolamentano questi ambiti.
Ebbene tutti questi sono non-trust e dopo 30 anni dalla legge di ratifica, il nostro ordinamento ha dimostrato di avere gli strumenti per privarli di ogni effetto, così presidiando valori che non sono solo nostri, ma anche dei sistemi giuridici dai quali provengono.
3. Il trust: i trust.
Come abbiamo detto sin dalle prime righe di questo scritto, il trust ha colmato un vuoto rappresentato dal bisogno di far venire ad esistenza un “patrimonio a destinazione univoca” per perseguire le più disparate ragioni.
Il patrimonio di destinazione rappresenta indubbiamente un sentire diffuso, al quale lo stesso legislatore dimostra di pensare più volte, senza avere però il coraggio di dare a questa esigenza, la dignità di un nome.
Basti leggere il Codice della Crisi d’Impresa per trovare spunti di riflessione, ad esempio in tema di “strumenti negoziali stragiudiziali”, per comprendere come potrà rivelarsi strategico in simili contesti la venuta ad esistenza di un patrimonio segregato e destinato a soddisfare specifiche fasi dell’accordo, con finalità di garanzia, solutoria o di gestione della liquidazione di cespiti in modi efficienti, sottratti a conflitti di interessi, senza sopportare lunghe tempistiche e in un contesto di assoluta trasparenza.
Del resto, gli esempi di impiego virtuosi dello strumento in ambito propriamente concorsuale l’hanno dimostrato.
Ma se per un verso è certamente vero che il patrimonio di destinazione rappresenta molte volte la soluzione vincente, dal lato pratico, il trust potrà esserne lo strumento di elezione, considerati i limiti che sottendono all’art. 2645 ter cc.[84] (circoscritto solo ai beni immobili o mobili registrati) ed ai negozi di affidamento fiduciari, in rapporto alla riserva di legge di cui all’art. 2740, comma 2, cc.
In altri termini, per tutti i beni che non fanno parte delle fattispecie ammesse dall’art. 2645 ter cc, la sola possibilità di costituire un patrimonio separato è il trust, grazie alla legge n. 364\89 a pena, diversamente, di violare la norma di ordine pubblico rappresentata dal principio della responsabilità universale del debitore.
E questo convitato di pietra grava pesantemente sui contratti di affidamento fiduciario.
Senza contare la staticità del vincolo di destinazione ex art. 2645 ter cc. del tutto diversa in termini di efficienza rispetto al trust[85].
In questi 30 anni il trust ha dunque avuto infatti una impensabile espansione in tutti gli ambiti sociali ed economici del nostro paese, che cercheremo brevemente di riassumere anche per replicare, in qualche modo, alle banche dati nelle quali, comprensibilmente, si trovano solo precedenti relativi ai non trust.
3.1 Per la famiglia: la nuova famiglia, la disabilità, i beni storici, le collezioni, il trust testamentario.
Quando alla fine degli anni ’90 cominciammo a parlare di trust a convegni o incontri di studi, ci facevamo forti di due punti sostanziali strettamente correlati: il fondo patrimoniale, inteso quale strumento di protezione patrimoniale riservato esclusivamente ai coniugi e la palese illegittimità di precludere questa soluzione alle molteplici famiglie di fatto che la società civile ci consegnava, come comunione affettiva e solidale fra le persone, in continua espansione.
Grazie a questo ragionamento ha avuto ingresso il trust interno o comunque è stato un esempio da tutti invocato.
Oggi la “famiglia” è certamente un nucleo affettivo del tutto diverso da come era pensabile solo pochi decenni fa ed ha espanso i suoi confini in ambiti a tutti noti, fino a dire che è “famiglia” anche quella composta da una sola persona che faccia riferimento solo a sé stessa per il suo mantenimento, cura ed assistenza.
Tralasciando il tipico esempio del trust per la famiglia di fatto da tutti conosciuto, si deve piuttosto pensare allo strumento come soluzione per gestire ad amministrare le risorse famigliari in ragione delle molteplici esigenze che si possono prospettare.
Partendo dalla “nuova famiglia” è intuitivo come si possa con il trust gestire rapporti personali che possono coinvolgere figli di primo o secondo letto in ragione di separazioni, sostenere ed incoraggiare i meritevoli o soccorrere i figli più deboli.
Sono molteplici gli esempi di trust istituiti all’interno di verbali di separazione[86], aventi ad oggetto ad esempio le sorti della casa coniugale, sino a posizioni beneficiarie trasferite ad un coniuge, dall’altro, con valenza di liquidazione divorzile una tantum[87].
Quando cominciammo a studiare il trust soprattutto per la famiglia in via di separazione, pensammo che una soluzione strategica ed intelligente fosse quella di rendere il trustee obbligato di regresso nel caso in cui il debitore principale non avesse adempiuto all’obbligazione al mantenimento posta a suo carico dal giudice; col che, evidentemente, per paralizzare eccezioni di sottrazione dei beni da parte di un coniuge, in danno dell’altro e dei figli.
Interessante fu la decisione del Tribunale di Reggio Emilia che nel 2007 non omologò la separazione che proponeva un vincolo di destinazione sulla casa coniugale ex art. 2645 ter cc, non ritenendolo adeguatamente tutelante per i figli minori, lasciando intendere come sarebbe stata diversa la soluzione qualora si fosse fatto ricorso al trust[88].
Pensando poi a nuovi istituti in via di ingresso nel nostro ordinamento, nuovamente la soluzione del trust potrà rivelarsi competitiva, ad esempio in tema di patti prematrimoniali, ora oggetto di un disegno di legge[89], la cui entrata in vigore stiamo tutti attendendo. Si rifletta infatti sul trust come strumento destinato a rimanere statico, nella vigenza della comunione affettiva della coppia, per poi divenire dinamico e operativo, sottraendo ai coniugi l’esecuzione degli accordi che, se erano quelli che avevano voluto quando sussisteva solidarietà e affettività, poi vorrebbero in ogni modo ostacolare con l’inizio della crisi, in danno di tutte le persone coinvolte.
Senza contare, da ultimo, l’estraneità dei beni oggetto del patto, alle vicende personali ed economiche che negli anni a venire dovessero coinvolgere i coniugi.
La legge n. 112/2016, c.d. Legge sul “Dopo di Noi”, all’art. 6 riconosce benefici fiscali all’istituzione e trasferimento in trust di beni posti a vantaggio di persone con disabilità grave di cui all’art. 3, co. 3, l. n. 104/1992 e alcuni uffici tutelari ne hanno già fatto applicazione diretta[90].
Si è così aperta la strada all’utilizzo del trust come strumento di pianificazione delle risorse interamente destinate al disabile grave, dando un preciso sostegno alle numerose famiglie italiane che da sempre vivono con estrema angoscia il futuro del loro famigliare quando loro non ci saranno più.
Dal punto di vista pratico, questa legge ha avuto un grande impatto in ambito professionale e di studio, probabilmente perché è stata la prima legge italiana a menzionare al suo interno la parola “trust”. Tuttavia, per gli studiosi della materia, che ne hanno giustamente ravvisato solo contorni tributari e non sostanziali, la legge poco ha apportato di concretamente nuovo rispetto a quanto già si poteva fare prima della sua entrata in vigore.
Innumerevoli sono infatti i casi di trust istituiti nell’ambito delle tutele giudiziarie per minori o incapaci e i primi casi datano dal 2002[91].
Venendo poi ad un diverso contesto, forse uno degli ambiti che più di altri fa sovvenire il trust famigliare che si trova molto spesso nella letteratura inglese, pensiamo a scrittrici quali Jane Austen o le Sorelle Bronte, si rammenta il trust istituito per garantire la continuità, in capo alle generazioni future, di palazzi e complessi monumentali appartenenti da secoli al medesimo casato.
Ci sono molteplici casi italiani a riguardo, fra essi si rammenta il trust istituito dai Principi Doria Pamphilj per la conservazione e gestione del patrimonio storico artistico che appartiene alla famiglia da secoli e che ricomprende non solo i palazzi storici di Roma e Genova ma anche una collezione di opere d’arte. I trustees italiani sono impegnati in costanti interventi di restauro e manutenzione dei beni, nella gestione dei musei che vi sono ricompresi e nella divulgazione del complessivo patrimonio, facendolo conoscere alle generazioni future.
Sul fronte specifico delle collezioni di beni mobili di molteplice natura (da collezioni di quadri, a collezioni di opere rappresentative della mano, di bambole d’epoca, di trenini in miniatura) il trust ha rappresentato uno strumento efficace per assicurare l’unitarietà della collezione nel tempo e la sua potenziale produttività quando al trustee venisse conferito anche il potere di farne oggetto di prestiti a musei o di mostre particolari.
Nulla di nuovo sul punto, così funziona nel mondo anglosassone dove alcune delle collezioni più note, sono trust[92].
Tuttavia, ciò non deve far assolutamente pensare che lo strumento possa servire solo per la gestione di importanti patrimoni.
Qualsiasi bene può essere destinato in un trust con una semplicità che sfugge[93] ai più.
Tutto quanto sin qui detto, può avere la sua fonte in un trust testamentario inteso come disposizione mortis causa che dà vita ad un trust nel quale il trustee è nominato l’erede o legatario fiduciario.
Trattasi di un atto molto complesso, che presuppone una articolata attività di coordinamento con le normative successorie del codice civile e che richiede molta attenzione nella stesura delle clausole che riguardano l’accettazione del nominato trustee e l’individuazione dei successori qualora il primo non possa o voglia accettare.
Il trust testamentario potrà dunque per un verso non privare il disponente della libera disponibilità dei suoi beni finché in vita e, per contro, assicurare la piena attuazione dei suoi progetti, alla sua morte.
3.2 Trust e passaggio generazionale.
Quando ci si approssima a questo ambito, si incontrano vere e proprie operazioni di ingegneria societaria finalizzate a gestire il difficile problema del passaggio generazionale.
Statuti con clausole di gradimento, diritti di prelazione ed opzioni con le più raffinate previsioni, anche di natura successoria, clausole sofisticate che disciplinano ipotesi di vendita delle partecipazioni collegate a svariati effetti sulla compagine societaria.
A volte si trovano anche veri e propri patti fra i componenti della famiglia che, ovviamente, nulla hanno a che fare con l’istituto di cui agli artt.768 bis e cc.[94]
In questi accordi si leggono nobili intenti, dichiarazioni programmatiche, visioni future e spesso illuminate sul futuro dell’azienda, su chi dovrà condurla e quali caratteristiche personali e culturali dovrà possedere, per terminare con la sottoscrizione da parte dei componenti attuali della famiglia e l’obbligo, che i medesimi si assumono, di far firmare anche i loro discendenti, quando diverranno maggiorenni.
Nulla quaestio, sono soluzione legittime e corrette ma presentano alcuni punti nevralgici:
1) la successione necessaria ex lege, un convitato di pietra, solido ed insormontabile;
2) le alleanze strategiche della minoranza societaria;
3) l’incoercibilità dei patti conclusi dai componenti della famiglia;
4) l’impossibilità di obbligare i discendenti a firmare ciò che non condividono.
Il corretto inquadramento del problema deve invece partire da un assunto preciso: il problema del passaggio generazionale si presenta alla morte dell’imprenditore\fondatore ed è tanto più grande quanto più vasta sarà la parcellizzazione della partecipazione societaria fra gli eredi.
In tutti i casi in cui tale parcellizzazione sconfina nella lite, il risultato pratico è sempre una forte penalizzazione della capacità produttiva dell’azienda sino alla sua disintegrazione, quando non è stato possibile assicurarle una governance capace o procedere alla vendita nel momento di massimo valore.
Gli albori dell’utilizzo del trust come strumento di efficace gestione delle decisioni imprenditoriali e societarie risale al 2001 quando un gruppo di professionisti bolognesi intuì che il patto parasociale avrebbe potuto conseguire l’efficacia reale che non gli è data dal codice civile[95], nel caso in cui i soci di minoranza avessero in blocco trasferito la loro partecipazione ad un trustee, affinché votasse in assemblea, secondo i termini del loro patto interno[96].
Avevano certamente posto le basi del trust per il passaggio generazionale[97].
Da lì, il passo è stato breve per capire come risulti strategico, e dopo il 2006 anche fiscalmente vantaggioso[98], trasferire al trustee la partecipazione di controllo dell’impresa, unitamente ad una serie di indicazioni, ad esempio il patto di famiglia, che certamente rappresenteranno per il trustee linee guida delle quali dovrà tener conto.
Ad un recente convegno tenutosi in Bologna[99], un relatore[100] ha segnalato la difficoltà di gestione delle sopravvenienze negoziali con ciò intendendo gli ostacoli, a volte dannosi, che emergono quando si dovrebbero apportare modifiche a negozi giuridici in ragione di fatti sopravvenuti, tuttavia ostacolate dalla sopraggiunta litigiosità fra le parti contraenti.
Se questo è certamente l’ostacolo insormontabile che potrebbe palesarsi rispetto alla sottoscrizione da parte dei nuovi soci, dei patti di famiglia sottoscritti dai loro ascendenti, o al rinnovo di organi societari secondo regole prestabilite, ma non vincolanti, per contro tutto ciò è scongiurato quando tale fascio di obbligazioni venga conferito ad un terzo che operi su di un piano di assoluta neutralità, rispetto agli interessi individuali di soci.
Un terzo, nello specifico il trustee, che forte della sua partecipazione di controllo, potrà assumere le decisioni migliori nell’interesse dell’impresa e di tutti i soci, fino ad assumere la decisione più nevralgica, ma a volte ineludibile, di vendere nel momento migliore perché manca la governance che assicuri una proficua continuità aziendale o perché le pretese dei legittimari sono tali da rendere inevitabile questa decisione.
Sono tante, molte di più di quante siano note, le famiglie imprenditoriali italiane che hanno fatto ricorso al trust per il passaggio generazionale dell’impresa, nella piena consapevolezza di questa complessiva strategia[101].
3.3 Trust, impresa e procedure concorsuali.
La sentenza di Cassazione n. 10105\14 più volte citata, non è servita solo a mettere la parola fine ai trust liquidatori illeciti ma, piuttosto, ha aperto la strada in una nuova direzione che vede l’impiego efficace e competitivo del patrimonio vincolato di destinazione, all’interno delle realtà aziendali del nostro paese.
Abbiamo già ricordato come il giudice di legittimità abbia espresso molto chiaramente come non sia necessario il criterio della residualità per il trust che operi in questo ambito, tanto da affermare che persino un trust liquidatorio alternativo alla liquidazione societaria previsa dal codice civile[102], possa rappresentare una soluzione lecita se sono assolte alcune condizioni fra le quali, l’insussistenza di uno stato di insolvenza e lo svolgimento di un’effettiva attività di liquidazione[103].
Calcando questa strada, alcune recenti decisioni di merito hanno ritenuto meritevole di tutela, e dunque valido, il trust istituito in luogo della procedura di liquidazione di cui agli artt. 2487 e ss. cod. civ., in quanto strumento più veloce e destinato a produrre effetti nei confronti di una società non insolvente e, come tale, scevro dall’intento di sostituire la procedura concorsuale[104].
Un recente caso che riguarda la sezione fallimentare del Tribunale di Bologna è di significativo interesse rispetto al rapporto fra trust liquidatorio, cancellazione della società dal registro delle imprese e concordato[105].
Una Società a responsabilità limitata in liquidazione[106] aveva depositato nel 2013 la domanda di ammissione al concordato preventivo con riserva ex artt. 160 e 161, comma 6, L.F. che era stato omologato nel dicembre dello stesso anno, con nomina del Commissario Giudiziale e del Liquidatore[107].
In ragione di fatti accaduti nel corso della procedura concordataria[108], nel 2018 risultavano tre cause pendenti, promosse da una Lavoratrice che non aveva sottoscritto l’accordo sindacale ex art. 47 L.428/90, una cospicua serie di creditori irreperibili (202 per l’esattezza) e, per contro, un’ampia disponibilità di residuo attivo liquido nella procedura che aveva, nel frattempo, pagato i creditori concordatari in misura largamente satisfattiva[109].
Questo articolato scenario rendeva impossibile la rapida chiusura del concordato e la cancellazione della Società dal Registro delle Imprese, obiettivi che invece si prefiggevano sia il Commissario Giudiziale, sia il Liquidatore sia, infine, il Liquidatore Civilistico della Società.
Su suggerimento del Giudice Delegato, veniva presa in esame l’ipotesi di ricorrere al trust e quindi si procedeva preliminarmente alla disamina di alcune delicate problematiche.
Un primo aspetto riguardava i creditori concordatari, nei confronti dei quali il Liquidatore era consapevole della sussistenza di posizioni soggettive del tutto diverse, essendovi creditori titolari di diritti di credito certi, liquidi ed esigibili: i creditori irreperibili, ed altri invece del tutto eventuali, come la Lavoratrice che aveva promosso le cause e, a cascata, gli avvocati patrocinanti le cause stesse, laddove la medesima fosse uscita vittoriosa anche delle spese legali. Sussisteva poi un’ulteriore categoria di creditori potenziali, aventi titolo da sopravvenienze tributarie o previdenziali, sino alle spese necessarie per chiudere la procedura, nei confronti dei quali il Liquidatore era consapevole della necessità di preservare parte dell’attivo residuo.
L’individuazione di queste tre macro aree che risultavano interessare l’attivo residuo si traduceva, previa accurata stima, nella previsione di 3 provviste: la “Provvista Cause Pendenti” dove venivano ricompresi, con ampio margine prudenziale, anche i costi derivanti dalle spese legali in caso di soccombenza, la “Provvista Creditori Irreperibili” e la “Provvista Sopravvenienze Eventuali”.
La successiva problematica esaminata si incentrava sulla necessità di capire se il trust avrebbe potuto assicurare l’efficace e trasparente gestione delle risorse accantonate nelle diverse provviste posto che, mentre risultavano di facile soluzione le posizioni dei creditori irreperibili e sopravvenienze eventuali, l’ambito delle cause pendenti e tutela dei diritti della Lavoratrice, rapportati alla chiusura del concordato e cancellazione della Società dal Registro delle Imprese in pendenza dei processi, si palesava più delicato.
La prima questione esaminata ha preso in esame la posizione del trustee e dei creditori concordatari, rispetto alle cause pendenti[110] posto che, non applicandosi al concordato l’art. 43 della legge fallimentare, la legittimazione processuale nella lite rimaneva in capo alla Società e non agli organi della procedura.
Infatti, la Lavoratrice aveva convenuto in giudizio, sia la società cessionaria del ramo d’azienda venduto dalla Società in concordato all’asta giudiziale, sia il Liquidatore Civilistico della Società stessa. Ciò implicava una decisione in punto alla posizione che avrebbe assunto il trustee, rispetto ai giudizi in corso, qualora gli fosse stata ceduta la Provvista Cause Pendenti, chiusa la procedura concordataria e cancellata la Società.
Ci si chiese in sostanza se fosse necessario cedere al trustee il diritto litigioso e quindi l’interesse ad agire processualmente in senso formale e sostanziale.
Pensando ad un trustee che in esito al giudizio relativo alle cause pendenti, fosse tenuto solo a consegnare la relativa provvista a chi, fra le parti processuali, ne fosse uscita vittoriosa, non risultarono dubbi sulla insussistenza, in capo al medesimo, di alcun interesse concreto a resistere in giudizio.
Si concluse pertanto sulla posizione di assoluta neutralità del trustee rispetto all’esito delle cause, non avendo alcun interesse a perorare la posizione di una parte, rispetto all’altra.
La seconda questione esaminata ha riguardato l’individuazione dei possibili creditori della Provvista Cause Pendenti che risultarono essere, la Lavoratrice, se vincitrice nei giudizi, ed eventualmente i suoi avvocati, in caso di condanna alle spese, subordinatamente all’inadempimento da parte della cessionaria dell’azienda, all’obbligo di manleva che aveva assunto nei confronti della Società, nel contratto di compravendita, ovvero i creditori concordatari, in caso di soccombenza giudiziale della Lavoratrice.
Infine, la questione da ultimo esaminata, invero la più spinosa, si è incentrata sugli effetti della cancellazione della Società dal Registro delle Imprese, rispetto alle cause pendenti, che era obiettivo cogente, senza attendere il passaggio in giudicato delle sentenze.
Divenne allora punto focale di studio il ruolo e la responsabilità del Liquidatore Civilistico della Società che, come suddetto, era parte convenuta nei processi in corso (essendo rimasto solidalmente responsabile, con la cessionaria, nei confronti dell’attrice) e che aveva manifestato la volontà di dare immediata notizia alle altre parti in causa, della sopravvenuta cancellazione della Società, per conformarsi ai doveri di correttezza e trasparenza di cui all’art. 88 cpc.
Le norme prese in esame sono state l’art. 2495 cc e gli artt. 110,111, 299 e 300 cpc.
Una iniziale considerazione non poteva che partire dall’effetto principale prodotto dalla cancellazione di una società dal Registro delle Imprese: l’estinzione della persona giuridica che, come statuito dalla Suprema Corte[111], impedisce il venir ad esistenza di un successore a titolo universale sicché il processo prosegue fra le parti originarie.
In particolare, partendo dal dettato dell’art. 2495, comma 2[112],si prospettarono i possibili scenari nei quali si sarebbe potuta trovare la Lavoratrice munita di un titolo esecutivo di condanna della Società, nel frattempo cancellata.
Partendo da una possibile decisione della creditrice di escutere direttamente la Società[113], questa avrebbe potuto azionare il suo titolo esecutivo: nei confronti dei soci della Società cancellata, nel solo caso in cui dal bilancio finale di liquidazione, fosse risultato attribuito loro un attivo residuo dal liquidatore[114] e, in tale ipotesi, nei limiti di tale attivo, oppure nei confronti del Liquidatore Civilistico della Società, qualora fosse stata accertata una sua “colpa”[115].
La prima opzione venne ritenuta concretamente impossibile, posto che la Società non avrebbe avuto alcun residuo attivo, essendo stato del tutto assorbito dalla procedura concordataria. Dal bilancio finale di liquidazione, infatti, non sarebbe emerso alcun attivo distribuibile ai soci.
In relazione invece alla ricorrenza di una possibile colpa, e dunque negligenza, imperizia o imprudenza, del Liquidatore Civilistico, due elementi concreti indussero gli organi della procedura a ravvisarne l’assoluta inconsistenza. Alcuna responsabilità gli si sarebbe potuta addebitare in relazione ad un fatto, quello di dar luogo ad un trust con la Provvista Cause pendenti, del tutto sottratto alla sua decisione e volontà. Si trattava infatti di una decisione assunta dal liquidatore, autorizzato dal comitato dei creditori e con il parere favorevole del Giudice Delegato, nell’ambito dei poteri conferiti dalla procedura concordataria. A ciò si aggiungeva una considerazione strettamente pratica, che risultava assorbente rispetto a qualsiasi ulteriore perplessità, la sussistenza della Provvista Cause Pendenti che, nella sua integra e unitaria destinazione, perseguita per il tramite del trust istituendo, avrebbe assicurato massima protezione ai diritti della Lavoratrice uscita vittoria dalle cause pendenti. Risultava quindi azzerato un suo possibile concreto interesse ad agire nei confronti del Liquidatore Civilistico, trovando piena soddisfazione dei suoi diritti di credito nel trust espressamente dedicatole.
Questa conclusione portò ad escludere la ricorrenza delle ipotesi previste dall’art. 2495, comma 2, nel caso di specie[116].
Si esaminò poi l’ulteriore ipotesi rappresentata dalla possibilità che l’attrice dovesse decidere di agire in revocatoria, ex art. 2901 cc, contro il trust. Tale eventualità fu presa in esame con un’opportuna distinzione temporale fra l’ipotesi di avvio della domanda inefficacia, con un titolo esecutivo già in mano, ovvero in pendenza delle cause pendenti; le ricadute sarebbero state completamente diverse.
Nessuno dubitava sul fatto che la domanda di revocatoria avrebbe potuto astrattamente accogliersi, sotto il profilo della ricorrenza dell’elemento oggettivo, laddove il giudice avesse semplicemente ritenuto che il titolo esecutivo già esistente, o quello eventualmente conseguibile in caso di esito vittorioso, non avrebbe potuto azionarsi contro un soggetto diverso dal debitore originario: il trustee.
Ma simile accertamento, pur accogliendo la domanda revocatoria dell’attrice, risultava del tutto priva di qualsiasi concreto interesse patrimoniale per la stessa.
Mettendo infatti da parte l’elemento oggettivo, sotto il diverso profilo della necessaria ricorrenza anche dell’elemento soggettivo e dell’effettivo interesse ad agire, si pervenne ad una conclusione del tutto opposta.
Ciò che risultò del tutto insussistente, dal lato pratico della questione, era la ricorrenza di un interesse ad agire in capo alla Lavoratrice che difatti, qualora avesse dato corso all’azione revocatoria già munita di titolo esecutivo, avrebbe visto la sua domanda decadere immediatamente a fronte dell’altrettanto immediato pagamento del suo credito da parte del trustee e ciò, per altro, nella sola ipotesi in cui l’attrice, ancor prima di richiedere il pagamento, avesse iniziato l’azione.
La struttura del trust infatti, avrebbe previsto che a fronte del titolo esecutivo, il trustee sarebbe stato immediatamente obbligato a pagare, ogni eccezione rimossa, sicché l’ipotesi di preventivo avvio della domanda revocatoria poteva prendersi in considerazione nell’esclusivo caso in cui l’attrice l’avesse iniziata prima della richiesta di pagamento.
Nella diversa ipotesi di azione radicata dalla Lavoratrice mentre erano in corso le cause, si ritenne che proprio la sussistenza del trust, con la relativa provvista, avrebbe fatto venir meno un concreto (e proficuo) interesse ad agire dell’attrice, i cui diritti sarebbero risultati maggiormente tutelati dal trust, voluto e gestito dagli organi della procedura, rispetto alla teorica possibilità di agire per il recupero del credito nei confronti dei soci della Società cancellata.
Con riferimento infine alle posizioni soggettive dei creditori irreperibili, nonché all’emersione di possibili futuri creditori, o asseritamente tali, per sopravvenienze passive di natura tributaria e previdenziale, la questione si pose in modo molto più semplice.
Fu subito chiaro come si dovesse partire dal termine di prescrizione di ciascun credito, ritenendo che alla maturazione del termine di prescrizione relativo al credito più recente, l’obbligo di conservazione delle risorse a ciò destinate, e confluite nella Provvista Creditori Irreperibili, sarebbe venuto meno.
Individuato questo termine di prescrizione al 2026, si tracciò il percorso da seguire medio tempore, avendo altresì acquisito consapevolezza sul fatto che le eventuali sopravvenienze passive si sarebbe prescritte prima del 2026, con il risultato pratico di poter far coesistere, nello stesso trust, entrambe le provviste.
Partendo dal piano di riparto finale della procedura, perfettamente indicante le percentuali di spettanza di tutti i creditori concordatari, irreperibili e non, risultò chiaro come quelli, fra gli irreperibili, che si fossero presentati all’incasso, avrebbero potuto essere soddisfatti attingendo dalla relativa provvista, per il quantum di spettanza. Maturata la prescrizione, si sarebbe quindi provveduto alla ripartizione della Provvista per i Creditori Irreperibili risultante a detta data, in ragione dei pagamenti medio tempore effettuati, fra i tutti creditori concordatari, con accrescimento in loro favore delle somme non incassate dagli irreperibili ed analoga sorte avrebbe subito la Provvista per le Sopravvenienze Eventuali.
La dinamica risultava dunque la medesima che avrebbe avuto luogo se il concordato fosse rimasto in piedi, con piena salvaguardia dei diritti dei creditori irreperibili, concordatari ed eventuali.
Emergeva però un valore aggiunto del trust, dato dal fatto concreto di sganciare i creditori concordatari dal termine di effettiva chiusura del concordato che, nel regime normale previsto dalla legge fallimentare, sarebbe cessato alla definizione di tutte le posizioni.
Per gli effetti di questo lungo studio, si è infine proceduto alla istituzione di due trust, l’uno per le cause pendenti e l’altro per i creditori irreperibili e sopravvenienze eventuali. La procedura concordataria è stata quindi chiusa, e la Società, redatto il bilancio finale di liquidazione, cancellata dal registro delle imprese.
E’ ovvio che sono state molteplici le accortezze previste nella predisposizione di questa operazione,
come ad esempio informare i creditori irreperibili e la Lavoratrice, dell’avvenuta istituzione del trust in loro favore, adottando i mezzi di comunicazione prevista dalla legge, per il concordato, mettendoli così in grado di sapere e a chi rivolgersi qualora avessero deciso di incassare i loro crediti.
Parimenti si è proceduto alla redazione del bilancio finale di liquidazione della Società, riportando l’intera operazione in modo puntuale e trasparente. Ad oggi, cancellata la Società e chiuso il concordato, il trustee riferisce di alcuni creditori irreperibili che si sono fatti vivi e che sono stati regolarmente pagati.
Questo caso fa seguito ad una serie di precedenti che hanno visto l’impiego del trust a latere dei concordati preventivi[117], tenendo a mente che il primo caso italiano data al 2005[118].
Di grande utilità infatti si è rivelato il trust per i casi di società di persone ammesse alla procedura concordataria, essendo strumento utile a cristallizzare, a vantaggio dei creditori concordatari, i patrimoni personali dei soci che, come a tutti noti, non sono ricompresi nell’automatic stay di legge.
Per contro, anche in ambito strettamente fallimentare, il trust ha permesso di conseguire interessanti risultati, e il primo caso italiano data al 2003[119].
Un utilizzo del trust in ambito fallimentare di significativa utilità e fra i primi in Italia data al 2010[120], quando il giudice delegato autorizzò il curatore a proporre ad un debitore della procedura di istituire un trust avente ad oggetto un bene immobile il cui ricavato avrebbe dovuto versare interamente al fallimento. Il debitore accettò questa proposta alternativa, dando luogo ad un trust autodichiarato, che gli avrebbe evitato, non solo la revocatoria, ma anche la vendita giudiziale del suo bene. Il trust si concluse in pochi mesi con l’incasso del credito da parte del curatore e la consegna del residuo a mani del debitore. Ancora la medesima sezione fallimentare autorizzò, in un diverso fallimento, una transazione fra il curatore e l’amministratore della fallita, convenuto in giudizio per responsabilità nel dissesto. In particolare, l’amministratore avrebbe istituito un trust autodichiarato avente ad oggetto l’immobile che si obbligava a mettere in vendita, per corrisponderne il ricavato alla procedura, a titolo transattivo. In questo caso, per altro, l’immobile produceva anche un reddito locatizio che la procedura ha incamerato sino alla vendita del cespite che è avvenuta pochi mesi dopo l’istituzione del trust.
Questo caso è di interesse scientifico anche per un diverso aspetto posto che, nella medesima procedura, si ebbe, sia il trust citato, sia un diverso vincolo di destinazione su un immobile, ex art. 2645 ter cc[121], che altro debitore aveva posto su un suo immobile, parimenti obbligandosi a porlo in vendita e consegnarne il ricavato al curatore. In quest’ultimo caso, a fronte dell’inerzia del debitore, il curatore potè, quale unica soluzione, convocarlo in giudizio per inadempimento, non potendolo revocare come avrebbe fatto tout court se fosse stato un trustee, e la questione necessitò di parecchi anni per giungere a definizione[122].
Altro caso interessante data al 2017 e riguarda l’istituzione di un trust per addivenire alla rapida conclusione di un fallimento, con cessione dei crediti esistenti al nominato trustee[123] al quale è seguita l’immediata chiusura della procedura.
L’ esperienza maturata in questi ambiti, consente oggi di trarre alcune importanti conclusioni sulle caratteristiche che dovrà avere il trust che acceda ad una procedura fallimentare, concordataria, di liquidazione (in base alla nuova terminologia del codice della crisi) o di composizione negoziale della crisi di impresa.
La prima considerazione da farsi in puro diritto è che questi trust potranno avere due cause: solutoria o di garanzia.
Potranno anche essere portatori di entrambe le cause, pensando ad un trust che inizialmente sia di solo garanzia (che vincola dei beni in trust a garanzia dell’adempimento di determinate obbligazioni) e come tale destinato a rimanere statico, per poi divenire solutorio, e quindi dinamico, nel momento in cui il trustee dovesse vendere i beni per pagare i creditori.
La prassi più diffusa parrebbe oggi aver fatto proprio il pensiero che avemmo quando cominciammo a pensare a questa tipologia di trust: la scelta strategicamente migliore è senza dubbio in favore del trust di scopo[124].
Optare per un trust di scopo[125], infatti, significa per un verso rendere più libera ed efficiente l’attività del trustee e, per contro, far sì che il trust risulti perfettamente compatibile con i principi del diritto fallimentare[126].
Ritenemmo infatti sin dai primi impieghi, come la natura strettamente pubblicistica del processo fallimentare non ammetta alcuna deviazione rispetto al percorso tracciato dal legislatore sicché, per fare una considerazione su tutte, mai il trustee avrebbe potuto essere legittimato a pagare i creditori concorsuali o concordatari, in luogo dell’organo giudiziale espressamente previsto.
Parimenti non si sarebbe potuto negare però ad una classe di beneficiari specificatamente individuata, segnatamente i creditori, quei diritti che lo stesso diritto dei trust loro conferisce inderogabilmente quali il diritto di informazione e rendiconto di cui abbiamo sopra ampiamente trattato.
Negare loro questi diritti, sarebbe stato minare la validità del trust nelle sue stesse fondamenta così come, allo stesso tempo, tali diritti si sarebbero potuto tradurre in un’ingerenza sull’attività liquidatoria del trustee, paralizzandone funzionalità ed efficienza.
Abbiamo prima accennato a casi in cui curatori fallimentari hanno nominato unico beneficiario di un trust, l’agenzia delle entrate. Ebbene, dal lato pratico, la presenza di un solo beneficiario, renderà l’attività del trustee, che dovrà per forza informare dell’esistenza del trust il beneficiario predetto, del tutto subordinata al volere di quell’unico beneficiario del fondo, con ricadute pesanti sull’intera struttura. Senza poterci esimere dal pensare se si possa poi adottare simile soluzione, considerando l’ipotesi di domande tardive o ultra tardive.
Optare invece per il trust di scopo, i cui organi preposti, trustee e guardiano, potranno essere svolti da persone di fiducia della procedura, laddove non lo stesso Commissario o Liquidatore, significa rendere l’attività del trustee veloce e rapida, del tutto indipendente dal ceto creditorio, che porteranno avanti secondo le disposizioni dell’atto istitutivo, per poi consegnare il risultato del suo operato a mani dell’organo giudiziale (curatore o commissario) che procederà all’utilizzo ai sensi di legge.
3.4 Trust, enti pubblici e terzo settore.
Il primo caso risale al 2005 quando la Fondazione della Cassa di Risparmio di Trieste decise di fornire i fondi al Comune di Duino Aurisina per l’ampliamento di un asilo pubblico, facendo ricorso al trust e dunque ad un trustee terzo che, secondo le regole dettate dal Comune, avrebbe dato corso all’opera, evitando così di trasferire i fondi nelle casse del Comune. Fu un ardito esperimento, anche perché l’intera operazione era soggetta al giudice tavolare che controlla i trasferimenti immobiliari in quella parte del territorio italiano, e si concluse con un decreto[127] che non solo ebbe grande eco fra gli studiosi, ma anche dimostrando l’efficienza di un’operazione in termini di tempo e costi[128].
Successivamente molte pubbliche amministrazioni hanno cominciato a pensare all’utilizzo del trust per la gestione della cosa pubblica, avviandosi verso una delle sfide più ardite, vuoi per la particolarità degli interessi sottesi, vuoi per la delicatezza della normativa pubblicistica.
Parlando di casi concreti, tra il 2013 e 2014, facemmo un analogo esperimento nel Comune di Bologna grazie al supporto di una cittadina che da sempre, insieme al marito, portava avanti iniziative in ambito culturale o scientifico, a beneficio della città. In particolare era suo intento, mettere a disposizione del Comune una somma di danaro per la costruzione di alcuni bagni pubblici nella zona universitaria, al fine di migliorarne la vivibilità ed intervenire fattivamente su alcune aree piuttosto degradate.
Fu adottato il medesimo format triestino, salvo per il trasferimento al trustee dello spazio pubblico, e l’area di ristoro è stata costruita a stretto giro, avanzando un residuo di cassa che è stato restituito alla Signora mentre il danaro impiegato non è mai transito per le casse dell’ente pubblico.
Attualmente vi sono molteplici progetti in avanzato stato di perfezionamento che interessano il Comune bolognese.
Uno fra essi riguarda il Teatro Comunale di Bologna che sta dando vita ad un trust onlus, dove confluiranno le somme donate da chi vorrà sostenerlo. Gli importi che possono essere donati non hanno limite, potendo essere rappresentati anche da piccole somme.
Ciò che caratterizza questo progetto, non è solo individuare nuove forme di crowdfunding, ma invogliare il cittadino a lasciare a beneficio dell’ente lirico anche piccole somme,[129] importando nel nostro Paese la tipologia dei trust secolarmente impiegati nel mondo anglosassone e statunitense per queste realtà[130]. In primo luogo, si darà pubblica rendicontazione del fondo in trust, costantemente aggiornata sul sito del Teatro, sicché i donatori potranno in ogni tempo vederne capienza e destinazione specifica.
In secondo luogo i trustees saranno soggetti terzi rispetto al personale dirigente dell’ente lirico, posti su di un piano di terzietà e imparzialità e i guardiani, a loro volta, saranno soggetti estranei rispetto ai trustees ed al Teatro.
È indubbio che rispetto a quando si avviò l’esperimento triestino, si è fatta molta strada, anche con l’ausilio di una giurisprudenza fattiva e preziosa, inducendo riflessioni che hanno condotto a strategie e pianificazioni operative che a quel tempo non erano pensabili.
Ad esempio, rispetto al caso triestino, si è compreso, come non sia affatto necessario il trasferimento della proprietà del bene pubblico, destinatario dell’opera o lavoro previsto, in proprietà al trustee, bastando invece la più semplice costituzione di un fondo in trust, esclusivamente destinato alla gestione delle risorse a ciò destinate.
Il che, ovviamente, non solo a beneficio di una maggiore semplificazione dell’intera procedura ma soprattutto per ragioni che attengono alla particolare normativa che regolamenta questo settore.
Ci riferiamo ad uno studio che stiamo portando a compimento con una fondazione privata bolognese che da tempo destina le sue risorse al miglioramento, restauro o persino ristrutturazione di aree o beni pubblici e che, tuttavia, risente fortemente nella sua fattiva operatività, delle problematiche connesse alla messa in pratica delle norme pubblicistiche in materia di appalti[131].
Si è quindi dato vita ad un gruppo di lavoro nel quale un esperto di diritto amministrativo ha reso un articolato parere, giungendo ad una conclusione che si è rivelata di estremo interesse[132].
Il trust consente di attuare il principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Costituzione posto che sia indubbio come uno scopo di liberalità possa essere indirettamente attuato grazie all’utilizzo di un trust destinato alla collettività cittadina, agevolando l’attività della pubblica amministrazione, permettendo di migliorare ed arricchirne il patrimonio, sgravandolo dagli oneri economici connessi alla realizzazione degli interventi programmati. Per contro il privato cittadino potrà apprezzare lo strumento che per il tramite della segregazione e destinazione patrimoniale, renderà le risorse estranee ed indipendenti da quelle proprie della amministrazione pubblica, evitando il ricorso a strumenti giuridici istituzionalizzati e fortemente paralizzati nella loro concreta operatività quali enti, fondazioni o associazioni.
Qualora poi tali risorse di fonte privata risultino in grado di coprire l’intero fabbisogno finanziario dell’opera, risulterà applicabile l’art. 20 codice dei contratti che non pare di ostacolo alla stipula di una convenzione tra amministrazione e trustee, nel rispetto di principii di trasparenza, pubblicità, non discriminazione e parità di trattamento.
Per fare ciò, è tuttavia necessario assolvere alcune condizioni e permettere una convivenza tra trust e contratti pubblici senza elusione della normativa euro-unitaria sugli affidamenti pubblici. Non è peregrino ritenere che sia rispettata la disciplina europea sulla concorrenza quando verrà nominato trustee un organismo di diritto pubblico, e cioè un soggetto istituzionalmente tenuto, ai sensi dell’art. 3, lett. d), del codice degli appalti d.lgs. n. 50/2016, all’applicazione delle regole sull’affidamento dei contratti previsti dal codice che perseguono uno scopo sociale dato dalla realizzazione di un’opera pubblica, in esecuzione di accordi fra amministrazioni. Si tratterebbe quindi di accordi pubblicistici ai sensi dell’art. 15 della l. n. 241/1990 nel quale si innesterebbe la nomina dell’ente privato, il trustee, che ha un ruolo fondamentale, essendo il solo soggetto legittimato ad impiegare le risorse che costituiscono il fondo in trust, destinate alla realizzazione dell’opera prevista.
Alla luce di queste considerazioni si è pensato di dare una risposta a diffuse esigenze della cittadinanza locale che, a diverso titolo, chiedeva di poter sopperire fattivamente all’inerzia pubblica, o comunque alla lentezza decisionale, che nel concreto non portava a compimento la ristrutturazione di aree degradate, spazi pubblici, strade sconnesse o disagevoli.
La volontà di rendersi parte attiva risultava provenire da svariate categorie di cittadini: importanti imprenditori, che ad esempio volevano abbellire e ristrutturare le aree e spazi pubblici prospicenti le loro aziende, associazioni di cittadini residenti in aeree storiche della città, degradate da tempo e non adeguatamente manutenute, i singoli condomini di piccoli vicoli del centro storico che si offrivano di pagare i lavori di ristrutturazione dei portici o marciapiedi sconnessi.
Si sta quindi portando avanti il progetto di istituire un trust, a beneficio del Comune di Bologna, dove confluiranno piccole o grandi risorse, che i trustees impiegheranno per portare a compimento una serie di progetti, di concerto con il personale comunale preposto ai lavori pubblici e dunque nel rispetto delle loro direttive.
Un trust quindi che potrà dar corso a infiniti progetti, con sub-fondi interni destinati ad ogni iniziativa, del tutti segregati e separati dalle casse dell’ente pubblico.
Alla luce di quanto suddetto, i vantaggi di simile iniziativa sono di immediata percezione.
Il fine di tutto questo, oltre ai notevoli ed immediati risultati pratici che verranno conseguiti, è anche fornire strumenti nuovi, più competitivi ed efficiente rispetto alle rigide strutture della fondazione o di altri istituti usati nella prassi, spesso compressi nella loro pratica funzionalità da rigidità normative, anche di controllo pubblico, attingendo dell’esperienza di altri paesi che hanno una secolare tradizione di impiego del trust in questi ambiti.
La gestione delle risorse economiche che possono essere destinate ad una fondazione è un aspetto che interessa non solo il caso del Teatro Comunale, ma qualsiasi fondazione privata a carattere filantropico o di promozione della cultura o ricerca scientifica.
Un esempio specifico viene nuovamente da Bologna e si riferisce alla Fondazione Golinelli[133].
Questa Fondazione, voluta e pensata dal cav. Marino Golinelli, fondatore di una nota casa farmaceutica, persegue l’obiettivo di promuovere la ricerca e progettazione in ambito scientifico, bio-medico e tecnologico, fornendo i fondi necessari a giovani scienziati meritevoli.
Nel 2015 la Fondazione Golinelli portò a compimento due ambiziosi progetti, il giardino delle imprese e Opus 2065, per i quali mise a disposizione svariate decine di milioni di euro.
Per volontà del cav. Golinelli, le risorse non confluirono nelle casse generiche della Fondazione che aveva, e dovrà avere in futuro, fondi propri per il suo sostentamento, ma confluirono invece in due trust: Eureka Trust e Trust Opus 2065, ciascuno dei quali esclusivamente finalizzato al compimento dei rispettivi progetti.
Questi ultimi casi sono un esempio concreto di come il trust si possa rivelare lo strumento più efficace per le iniziative di crowdfunding, soprattutto quando siano finalizzate ad iniziative filantropiche, di ricerca scientifica o di sostegno all’ambiente[134].
L’Associazione il Trust in Italia ha dato vita ad un trust per la raccolta di fondi destinati alla ricostruzione del Ponte Morandi[135], dopo la terribile tragedia a tutti nota, conseguendo la qualifica onlus[136].
Le ragioni sono di evidente intuizione e possono facilmente cogliersi anche alla luce del caso che abbiamo sopra esposto relativo al Teatro Comunale di Bologna. La segregazione delle risorse nel trust e la sua unitaria ed univoca destinazione rassicura i donatari circa il loro effettivo impiego in luogo della dispersione nelle casse dei diversi enti di volta in volta beneficiari. Così ad esempio la ricerca scientifica che si volesse finanziare, portata avanti da un gruppo di ricercatori universitari, potrà ad esempio essere finanziata al meglio in luogo del mero trasferimento delle risorse al dipartimento di appartenenza; così del resto insegnano le esperienze americane[137] ed inglesi. Analogamente potrà dirsi per i lasciti testamentari che potranno essere destinati, per mezzo della loro istituzione in un trust, a specifici fini o enti senza incorrere in alcuna ipotesi di confusione patrimoniale.
4. Serve una legge italiana sul trust?
La domanda che viene spontanea è dunque se serva oggi una legge italiana sul trust; da alcuni invocata ma da molti non auspicata.
Non vi è dubbio che qualora si dovesse disciplinare l’istituto con una norma interna, non basterà inserire alcuni articoli nel codice civile.
La disciplina dovrebbe essere organica e comprendere il diritto processuale civile, il diritto penale, la procedura penale, il diritto fallimentare, il diritto societario e bancario, il diritto tributario, il diritto amministrativo.
E’ intuitivo che la disciplina, ad esempio civilistica del trust, non potrà precludere un suo impiego anche in ambiti non privatistici con la necessità di adeguare le norme di riferimento che potrebbero risultare incompatibili, alla nuova fattispecie prevista.
Diversamente, si potrebbero penalizzare ambiti che invece oggi, in forza del lavoro sinora fatto, sono state interessate proficuamente dal trust.
Questa è la prima considerazione da fare.
Il tentativo di molti, compreso il giudice di legittimità, di ascrivere il trust alla fattispecie contrattuale, come afferma la stessa dottrina “è francamente imbarazzante”[138] ed è un grave rischio.
Affermiamo questo, non tanto per ragioni che trarrebbero spunto dalla difficoltà di ravvisare elementi sinallgmatici fra il trustee, i disponenti e i beneficiari, quanto piuttosto per l’impossibilità oggettiva di applicare al trust le norme contrattuali e i rimedi previsti dal codice civile quali: la risoluzione per inadempimento, l’eccessiva onerosità sopravvenuta, la clausola risolutiva espressa, il diritto di recesso, le condizioni risolutive ed altro.
Anche il tema della responsabilità andrebbe radicalmente rivisto posto che sussistono precise discriminanti rispetto all’individuazione del possibile creditore, considerato che il ristoro del danno causato dal trustee è sempre destinato alla reintegra del fondo in trust e mai invece ai beneficiari.
Se non ci fosse chiarezza sul punto nella norma interna, vi sarebbe una probabile deriva con risvolti paradossali.
Questa deriva non c’è affatto stata sino ad oggi posto che, se per un verso parte della prassi professionale ha istituito atti di non trust, per contro la censura giurisprudenziale non solo è stata unanime, ma ha molto spesso motivato le decisioni facendo riferimento espresso al diritto dei trust e non a farraginose interpretazioni analogiche.
La dottrina ha costantemente tentato la via analogica, la riflessione accademica sulla similitudine con istituti interni, la giurisprudenza mai.
Su questo si è invitati a riflettere con attenzione.
L’ultima decisione triestina[139] ha dichiarato la non riconoscibilità, rapportando all’art. 2 della Convenzione, la rule inglese delle 3 certezze e dunque ha sanzionato il trust portato al suo vaglio per carenza della certainity of intention.
Il tribunale di Ancona[140] ha autorizzato il trustee di un trust retto dalla legge di Jersey a costituirsi nel giudizio diretto a far dichiarare la nullità del trust e a prelevare dal fondo in trust le somme necessarie per sostenere le spese legali. Nella motivazione, il giudice si rifà espressamente all’art. 51 della legge di Jersey, evidenziando come detta norma consenta al trustee di adire la Corte per riceverne direttive. Ha dunque ha deciso, applicando il principio di diritto dei trust denominato Beddoe application, in forza del quale il trustee si può rivolgere preventivamente al giudice per essere autorizzato a agire o a difendersi in giudizio e, sopra tutto, per essere autorizzato a prelevare dal fondo in trust le somme necessarie per la difesa in giudizio.
La chiave di accesso ad una legge italiana che fosse esaustiva sul trust, dovrebbe poi necessariamente partire dal concetto, significato, portata e limiti dell’obbligazione fiduciaria conferita al trustee, al cui adempimento sono legittimati i beneficiari e non, come molti credono, i disponenti.
Solo in punto a questa voce, si pensi a quali diverse conclusioni si potranno trarre con riferimento, ad esempio, al tanto dibattuto tema del litisconsorzio dei beneficiari nell’azione revocatoria (o di non riconoscibilità) per la quale non si potrà dare una risposta certamente univoca.
E le infinite forme che possono assumere le posizioni beneficiarie previste in trust, da quelle fisse a quelle totalmente marginali, quali concrete tutele potranno trovare in giudizio se la legge non fosse organica ed esaustiva?
Infine non si potrà parlare certo “del trust” ma dei trust, che potranno essere portatori di cause solutorie, liberali, di garanzia o di causa famiglia, ciascuno di essi con regole del tutto diverse.
Davvero il nostro legislatore potrebbe legiferare ricomprendendo i contenuti normativi che nei paesi anglosassoni si sono formati nei secoli, sino ad oggi?
Se tutto ciò non verrà adeguatamente ponderato, si produrrà l’effetto di far entrare nel nostro diritto positivo un “qualcosa” che tutto sarà, tranne un trust, come già fu fatto con il tentativo rappresentato dall’art. 2645 ter cc e che produrrà l’effetto di penalizzare o limitare le possibilità e soluzioni che oggi lo strumento di equity ci consegna.
Se queste sono iniziali considerazioni, altre poi se ne possono fare di diversa natura.
La prima, vale la pena ribadirla, l’abbiamo già rappresentata e riguarda i nostri tribunali che hanno dimostrato di aver dimestichezza con l’istituto, che hanno rifuggito sterili tentativi di ricondurre il trust dentro schemi civilistici, con sforzi interpretativi in chiave analogica, cogliendo piuttosto il reale significato del cuore del trust: l’obbligazione fiduciaria.
La seconda è più teorica, pensando a come, qualsiasi legge interna, ci farebbe perdere il senso e la cultura di uno strumento che secolarmente impiegato, oggi detta regole, ed ha suoi precetti, ricondotti sotto il titolo “diritto dei trust”, in dialogo costante e continuo confronto, con tutti gli ordinamenti che se ne occupano. Il che parrebbe antitetico e forse persino involuto rispetto all’ attuale sentire sociale di una realtà in continua evoluzione e scambio culturali fra paesi, con modalità comunicative e di condivisione delle informazioni nemmeno ipotizzabili 30 anni fa.
Tutto ciò andrebbe perso.
[1] M Lupoi, I trust, i flussi giuridici e le fonti di produzione del diritto, in Foro it., 2018, 3147.
[2] Cass. 18 dicembre 2004 n.48708, in www.il-trust-in-italia.it; Cass. 30 marzo 2011 n.13276 in T&AF 2011, 408; Cass. Sez. V penale 30 marzo 2011 in www.il-trust-in-italia.it; Cass. 22 dicembre 2011 n. 28363, in T&AF 2013, 280; Cass. Pen. 5 giugno 2013, in T&AF, 2013, 621.
[3] Si tratta di due decisioni in materia tavolare a firma dello stesso giudice: Trib. Belluno 22 settembre 2002 in T&AF, 2003, 255; Trib. Belluno 16 gennaio 2014 in www.ilcaso.it ed inoltre Trib. Udine 28 febbraio 2015, confermata dalla Corte di Appello Trieste 29 luglio 2016 per la quale pende giudizio di legittimità. In relazione a queste decisioni, si veda M. Lupoi, Il dovere professionale di conoscere la giurisprudenza, in T &AF, 2016, 115.
[4] Cass. 19 aprile 2018 n. 9637 in Foro It., 2018, 10, 1, 3136, commentata da M Lupoi, I trust, i flussi giuridici e le fonti di produzione del diritto, cit.
[5] La dottrina più autorevole si concentrava sulla residualità del trust, rispetto ai negozi di diritto civile, evidenziando come la legittimità dell’istituto si sarebbe conseguita ogni volta in cui il fine perseguito dal disponente non sarebbe stato perseguibile con gli strumenti forniti dal nostro diritto: M. Lupoi, Trusts, Milano, 2000, 615; M. Dogliotti - A. Braun, Il trust nel diritto delle persone e della famiglia, Milano, 2003; S.M. Carbone, La scelta della legge regolatrice, in T & AF, 2000, 3.
[6] Fra le più significative decisioni in tema di meritevolezza si rammentano: Trib. Trieste 23 Settembre 2005 in T&AF, 2006, 83; Trib. Trieste 9 aprile 2007 e 19 Settembre 2007 in T & AF 2008, 42.
[7] Trib. Urbino 11 novembre 2011 in T&AF, 2012, 406.
[8] In questa rivista con nota di A. Tonelli, Certezze ed incertezze del diritto: Nota a Cass. n. 10105 del 9 maggio 2014 e Trib. Belluno 16 gennaio 2014.
[9] Trib. Trieste 29 ottobre 2019 in questa rivista.
[10] M Lupoi, I trust, i flussi giuridici e le fonti di produzione del diritto, cit.
[11] Art. 11 della Convenzione.
[12] In questo senso si esprime il Trib. Trieste 29 ottobre 2019 cit.
[13] Trib. Bologna 1 ottobre 2003 in T & AF, 2004, 67.
[14] Trib. Belluno 22 settembre 2002 cit.
[15] Cass. 9 maggio 2014 n. 10105 cit.
[16] Trib Milano 22 ottobre 2009, in T&AF, 2010, 77; Trib. Milano 30 giugno 2009 in T&AF, 2010, 80; Trib. Milano 29 ottobre 2010 in T&AF, 2011, 146; C di Appello di Milano 29 ottobre 2009 in T&AF, 2010, 274; Trib. Alessandria, 24 novembre 2009 in T&AF, 2010, 171; Trib. di Bolzano 23 luglio 2011 in T&AF, 2012, 178; Trib. Milano 22 gennaio 2013, in T&AF, 2013, 537. Infine il Trib. Bolzano 8 aprile 2014 in T&AF, 2014,49, che propose una nuova strategia per difendersi dalla società cancellata dal registro imprese e per la quale era decorso l’anno per chiederne il fallimento: la cancellazione, dal registro imprese, della cancellazione effettuata al fine di far rivivere la società e dunque sottoporla alla procedura concorsuale dalla quale si era abusivamente sottratta. Sul punto si rinvia agli scritti di M Atzori, Riflessioni sui trust liquidatori, in Moderni sviluppi dei Trust, Milano, 2011, 549, Quaderni di Trust e Attività Fiduciarie n. 11, 2012.
[17] Lo schema tipico era più o meno il seguente: l’impresa già insolvente e dunque solo da assoggettare al fallimento, veniva posta in liquidazione e, a distanza di 2 o 3 giorni, veniva svuotata dell’attivo che confluiva in un trust ad hoc ed immediatamente cancellata dal registro delle imprese.
[18] In T & AF, 2014, 293. La sentenza è stata pubblicata anche in P. Panico, International trust laws, Oxford University Press, Oxford, 2017,74, che scrive: “A significant element in the court’s decision was the circumstance that a protector had disclaimed his right to sue the trustee or to bring any actions in relation to the trust….However, it indicates an effective way to challenge a trust in a non-trust jurisdiction where it can be enforced only if it meets the requirements of the Hague Convention or some equivalent private international law provision. If in the opinion of a competent court the extent of the reserved powers is such that the trustee is not in control of the trust property, the purported trust is not recognized and therefore unenforceable.”
[19] C. A. Bologna 11 gennaio 2019, i n T & AF, 2019, 391 con nota di A Tonelli, L’ultimo comma dell’art. 2 della Convenzione e la posizione del disponente.
[20] Trib. Reggio Emilia 21 ottobre 2014, in Giust. Civ., 2016, 3 con nota di S Leuzzi.
[21] Trib. Trieste 23 gennaio 2014, in T &AF, 2014, 515.
[22] Trib. Trieste 29 ottobre 2019 cit.
[23] E’ importante illustrare le regole generali che informano il diritto dei trust. M LUPOI, Trusts, Milano, 1997, 258, scrive: “Il modello del trust internazionale possiede alcune caratteristiche comparatisticamente significative: la sua fonte è esclusivamente legislativa, il numero di ordinamenti che lo testimoniano è elevato (circa venti) e nessuno fra essi può essere visto come il primo movente, ma anzi tutti collaborano alla sua evoluzione”. Nella pratica ciò significa che qualsiasi trust retto da una legge straniera, non può mai essere esaminato e valutato solo alla luce della sua specifica legge regolatrice ma deve essere calato all’interno del diritto dei trust e precetti che ad esso fanno riferimento. E’ noto che il modello tradizionale (o classico) di trust attiene alla cultura storico-giuridica, prassi e giurisprudenza secolare del diritto inglese. A questo modello classico si contrappone il cd. ‘trust del modello internazionale’, con ciò intendendo quell’insieme di ordinamenti che hanno codificato il trust, tenendo a mente il modello tradizionale. Emblematicamente il Bailato di Jersey, la cui legge sui trust si applica alla maggior parte dei trust istituiti da disponenti italiani, fa parte di questi ordinamenti e dunque la Jersey Trusts Law 1984 appartiene al trust del modello internazionale. Il modello internazionale ha la caratteristica di essere una struttura aperta e, come tale, in costante e stretta comunicazione con gli altri ordinamenti che ne fanno parte e la relativa giurisprudenza, alla quale i diversi paesi attingono, nella continua evoluzione della prassi, alla luce dei precedenti giurisprudenziali. Ciò appare tanto più evidente se solo si pensa all’attività normativa che il Parlamento inglese può svolgere anche per Jersey, emanando leggi che ivi hanno diretta applicazione e alla funzione sostanzialmente nomofilattica del Privy Council. In ogni caso la citazione di precedenti inglesi è piuttosto abituale nelle sentenze di Jersey, soprattutto ogni qual volta l’ordinamento locale si presenti privo di regolamentazione con riferimento ad un determinato ambito giuridico e la stessa Court of Appeal di Jersey è spesso condizionata al rispetto dei precedenti della House of Lords Inglese.
[24] Per il significato proprio delle “3 certezze” si rinvia a M Lupoi, Istituzioni di diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Padova, 2016, 42.
[25] Knight v Knight (1840) 3 Beav 148, 49 ER 58.
[26] Le altre due certezze sono la certainty of intention (certezza della volontà del disponente di dar vita effettivamente ad un trust) e la certainty of objects (certezza dei beneficiari in favore dei quali il trust è istituito)
[27] D HAYTON C MITCHELL, HAYTON & MARSHALL, The law of trust and Equitable remedies, 12th ed., London, 2005, 129-190.
[28] Il primo tribunale italiano a citare il precedente delle 3 certezze fu il Trib. Reggio Emilia 14 marzo 2011, in T &AF, 2011, 630. In particolare nella motivazione, si legge: “si dubita fortemente ... della legittimità di un simile trasferimento, il cui oggetto è assolutamente indeterminato ... Se l’atto di dotazione patrimoniale del trust è nullo (come sembra, per le ragioni anzidette), il Trust ... non può essere riconosciuto perché, secondo l’art. 2 della Convenzione de L’Aja, ‘Ai fini della presente Convenzione, per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente - con atto tra vivi o mortis causa - qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato’: la mancanza di beni ... posti (validamente) sotto il controllo del trustee esclude l’applicabilità delle disposizioni della Convenzione (peraltro - e non è poco - difetterebbe nell’atto istitutivo un’altra ‘certezza’ e, cioè, la sussistenza di un fondo in trust”.
[29] Trib. Trieste 29 ottobre 2019 cit.
[30] La non riconoscibilità di un trust, nella fattispecie liquidatorio, per mancata sussistenza di un fondo in trust, validamente trasferito dalla società disponente, al trustee, è stata recentemente decretata dal Trib. Trieste 29 ottobre 2019 cit.
[31] Trib. Bergamo 4 novembre 2015 in www.il-trust-in-italia.it; alcune decisioni tributarie della Corte di Cassazione 25 febbraio 2015 n. 3886; 24 febbraio 2015 nn. 3735 e 3737, in www.il-trust-in-italia.it e Tribunale di Monza 12 ottobre 2015 e 13 maggio 2015, in questa Rivista, con nota di A. Tonelli, Riflessioni sull’ordinanza del Tribunale di Monza 12 ottobre 2015 e sulla sentenza del Tribunale di Monza del 13 maggio 2015: ma l’Italia è un paese non trust?
[32] App. Venezia, decr. 10 luglio 2014, in Vita not., 2014, p. 1279 ss.; Trib. Torino,10 marzo 2014, in Trusts, 2014, p. 430; Trib. Udine, ord. 4 novembre 2013, in Trusts, 2014, p. 437; Trib. Chieti, 14 maggio 2013, in www.ilcaso.it; Trib. Firenze, 11 aprile 2013, in Trusts, 2013, p. 533
[33] M Lupoi, Trusts, Milano, Giuffrè, 1997
[34] M Lupoi, Trusts, Milano 1997; A GAMBARO (che rappresentò l’Italia in sede di redazione della Convenzione) Segregazione e unità del patrimonio, in T &AF, 2000, 155.
[35] A HUDSON, Understanding Equity & Trusts, London, 2017, 6th, 32, precisa che: “legal title in the trust property must be vested in the trustee by the settlor”.
[36] Milroy v Lord (1862) 4 De GF & J 264.
[37] A HUDSON, Understanding Equity & Trusts, cit., 18 scrive che per effetto del trasferimento del bene, il legal title è trasferito al trustee e quindi questi: “acquires all of the common law rights in the property….. from the prospecitive of the outside world, the trustee appears to be the owner of the property”.
[38] Come infatti fu detto dal Tribunale di Bologna 1ottobre 2003 cit., la legge n. 364 del 1989, ratificando la Convenzione, ha implicitamente ammesso la separazione patrimoniale, trattandosi del solo effetto dalla stessa richiesto, così rispettando la riserva di legge di cui all’art. 2740, comma 2 cc.
[39] La prassi che ha avuto corso dai primi anni del 2000 è stata quella di intestare gli immobili a nome del trustee nella sua qualità di trustee del trust. Per fare un esempio la trascrizione risultava quindi effettuata a favore della Società Alfa S.R.L. quale Trustee del Trust Primavera 2000. Il notaio in Bologna M. L. CENNI, nel 2003, fece una prima trascrizione cosiddetta “doppia” ovvero intuì l’importanza di riportare anche nel quadro D della nota i vincoli che il trustee, in forza del trust, subiva nella gestione dei beni e per un esempio di tale trascrizione vd. T&AF, 2004, 481. In tal modo si è quindi poi operato in tutte le conservatorie italiane. Parimenti dopo il decreto del Tribunale di Bologna 16 giugno 2003, in T&AF, 2003, 580, che definitivamente stabilì la legittimità della iscrizione nel Registro delle Imprese delle quote societarie e nome del trustee, anche in tale registro si è proceduto alla iscrizione secondo la specificazione suddetta.
[40] Si tratta del caso che ha dato luogo al provvedimento del Tribunale Bologna 29 novembre 2019 cit.
[41] Trib. Bologna 25 luglio 2019 in www.il-trust.in-italia.it.
[42] M Lupoi, I trust nel diritto civile, Torino, 2004, 359 scrive “In presenza delle circostanze che l’equity identifica come meritevoli del suo intervento – le situazioni affidanti – la proprietà dovuta indica che il titolo del constructive trustee non è pieno agli occhi dell’equity; questa mancanza di pienezza segue allora la posizione soggettiva ed è questa la ragione per la quale il trust è opponibile a chiunque riceva quella posizione”.
[43] Re Rose (1952) Ch 499.
[44] Di favor trust nel ha parlato per la prima volta il Trib. Bologna 9 gennaio 2014 cit. e proprio argomentando su questo punto ha salvato l’atto dotativo di beni al trust, istituito senza fondo, in quanto conteneva, da se solo esaminato, tutti i requisiti necessari ad essere ritenuto esso stesso il trust effettivo: l’indicazione della causa del trust, la presenza del trustee, la nomina dei beneficiari, l’indicazione della legge prescelta.
[45] Trib. Bologna 23 Settembre 2008 in T&AF, 2008, 631; Tr. Modena 11 Agosto 2005 in T&AF, 2006, 581.
[46] A HUDSON, Equity & Trusts, London, 2017, 9th ed., 93-5
[47] Trib. Massa, 29 agosto 2018, in T&AF, 2019, 320.
[48] Trib. Roma, 19 maggio 2016, in T&AF, 2016, 619.
[49] Trib. Cassino, 2 maggio 2017, in T&AF, 2018, 197.
[50] Trib. Bologna24 marzo 2015, in T&AF, 2015, 595.
[51] Cass. 25 maggio 2017 n. 13175, T&AF, 2018, 186; Cass. 27 giugno 2018 n. 16897, in T&AF, 2019, 79.
[52] Cass.15 aprile 2019, n. 10498, in T&AF, 2019, 546.
[53] Trib. Milano, 2 luglio 2018, in T&AF, 2019, 77; Trib. Milano 19 ottobre 2017, in T&AF, 2018, 301; C. A. Trento 6 novembre 2018, in T&AF, 2019, 549.
[54] Trib. Terni 3 settembre 2018, in T&AF, 2019, 165; C. A. Milano 25 settembre 2017, in T&AF, 2018, 314; Cass. 29 maggio 2018 n. 13388, in T&AF, 2019, 72; Cass. 19 aprile 2018 n. 9637 in T&AF, 2018, 504; Cass. 3 agosto 2017 n. 19376, in T&AF, 2018, 44.
[55] Trib. Milano, 19 ottobre 2017, in T&AF, 2018, 312.
[56] Trib. 29 agosto, 2018, in T&AF, 2019, 320.
[57] Trib. Roma, 10 ottobre 2018, in T&AF, 2019, 318; Cass. 29 maggio 2018 n. 13388, in T&AF, 2019, 72.
[58] Cass. 25 maggio 2017 n. 13175 in T&AF, 2018.
[59] Trib. Genova 7 novembre 2017, in T&AF, 2018, 308; Trib. Firenze 18 luglio 2017, in T&AF, 2018, 319.
[60] C. A. Milano 24 gennaio 2017, in T&AF, 2017, 405.
[61] C. A. Milano 25 novembre 2016, in T&AF, 2017, 297.
[62] M Lupoi, I trust, i flussi giuridici e le fonti di produzione del diritto cit.
[63] Cass. 25 maggio 2017 n.13175 e Cass. 3 agosto 2017 n. 19376 cit.
[64] Sussistono due principi significativi del diritto dei trust, come insegna la dottrina inglese. A HUDSON, Equity and trusts, 168, cit., scrive: “Two ideas are fundamental to the law of the express trust. The first idea is that the consciences of the trustees can only be controlled if there are beneficiaries who can bring the trustees to court when the trustees have failed to perform their obligations under the trust adequately. Therefore the courts insist on being able to take control of a trust in the event that there is some failure to perform the terms of the trust properly. If there were nobody entitled to bring the trustees before a court would not be able to control the administration of the trust. In consequences it is a requirement if the English trust law that there must be at least one beneficiary in whose favour the court can decree performance of the trust. The second idea is that a trust requires that some property be held on trust for some person as beneficiary such that the beneficiary acquires a proprietary right in the trust property. It is the beneficiary’s proprietary right in the trust property which gives the beneficiary the locus standi to petition the court if the trustees fail to perform their duties.…The beneficiary principle is a requirement that there must be an ascertainable beneficiary or beneficiaries for a trust to be valid”.
[65] Così infatti ha deciso da ultimo il Trib. Bologna 29 novembre 2019 cit.
[66] Giudice delle Esecuzioni del Tribunale di Bologna 7 febbraio 2019 in T & AF, 2019, 391 con nota di A Tonelli, L’ultimo comma dell’art. 2 della Convenzione e la posizione del disponente
[67] Trib. Trieste 29 ottobre 2019 cit.
[68] Sul punto si rinvia a M Atzori, Riflessioni sui trust liquidatori, cit.
[69] Trib. Palermo, 12 novembre 2018, in T&AF, 2019, 433; Trib. Pescara, 24 febbraio 2017, in T&AF, 2017, 537.
[70] Ci riferiamo sempre alla sentenza n. 10105 del 9 maggio 2014.
[71] Ci riferiamo al caso che ha dato origine alla sentenza del Trib. Trieste 29 ottobre 2019 cit.
[72] Due recenti sentenze, Trib. Treviso, 3 gennaio 2019, in T&AF, 2019, 531 e Trib. Pescara, 5 maggio 2016, in T&AF, 2017, 309, hanno continuato a dichiarare la nullità del trust liquidatorio in frode ai creditori per un verso quindi confermando l’inutilità dello strumento a questi fini ma, per altro verso, continuando con l’applicazione della sanzione della nullità sulle cui riserve, abbiamo già detto.
[73] Molteplici sono le decisioni a riguardo, da ultimo Cass. 19 maggio 2017, n. 12718, in T&AF, 2017, 637; Trib.Parma, 20 aprile 2018, in T&AF, 2019, 442; Trib. Savona, 27 febbraio 2018, in T&AF, 2018, 637; C. App. Milano, 7 novembre 2017, in T&AF, 2018, 295.
[74] M Lupoi, I trust, i flussi giuridici e le fonti di produzione del diritto, 3156. cit.
[75] Cass. 25 maggio 2017 n.13175 e Cass. 3 agosto 2017 n. 19376 cit.
[76] A HUDSON, Equity and trusts, 168, cit. scrive: “Two ideas are fundamental to the law of the express trust. The first idea is that the consciences of the trustees can only be controlled if there are beneficiaries who can bring the trustees to court when the trustees have failed to perform their obligations under the trust adequately. Therefore the courts insist on being able to take control of a trust in the event that there is some failure to perform the terms of the trust properly . If there were nobody entitled to bring the trustees before a court would not be able to control the administration of the trust. In consequences it is a requirement if the English trust law that there must be at least one beneficiary in whose favour the court can decree performance of the trust . The second idea is that a trust requires that some property be held on trust for some person as beneficiary such that the beneficiary acquires a proprietary right in the trust property . It is the beneficiary’s proprietary right in the trust property which gives the beneficiary the locus standi to petition the court if the trustees fail to perform their duties.…The beneficiary principle is a requirement that there must be an ascertainable beneficiary or beneficiaries for a trust to be valid”. M LUPOI, I trust nel diritto civile, Utet. Torino, 2004, 319 scrive: fondamentale è il diritto dei beneficiari di essere informati delle vicende del trust. Nei trust di natura non famigliare il problema non si pone neanche perché gli interessi delle parti sono bene definiti e la trasparenza fra trustee e beneficiari è la regola.
[77] Cf Scally v Southern Health and Sociale Services Board [1992] 1 AC 294, 304-306; Re Murphy’s Settlement [1998] 3 All ER 1; Armitage v Nurse [1998] Ch 241 at 253 and 261; Re Tillot [1892] 1 Ch 86; A G of Ontario v Stavro (1994) 119 DLR (4th) 750; re Murphy’s Settlement [1998] 3 All ER 1.
[78] Tr. Reggio Emilia 14 maggio 2007 in T&AF, 2007, 425.
[79] Un precedente è del Trib. Bologna 20 Marzo 2006 in T&AF, 2006, 579 e altro caso di responsbailità del trustee è indirettamente trattato dalla Cass. 22 dicembre 2011 n. 283637, in T&AF 2013, 280, con nota di A Tonelli, Soggettività giuridica del trust e responsabilità del trustee.
[80] Si tratta di una rule, risalente al precedente inglese Sanders vs Vautier (1841) 4 Beav 115, codificato dalle leggi del modello internazionale in forza del quale se tutti i beneficiari sono designati, irrevocabili e con posizioni stabili sul fondo in trust, possono sempre unanimemente decidere di porre termine anticipatamente al trust.
[81] Cass. 22 dicembre 2011 n. 283637, in T&AF 2013, 280, con nota di A Tonelli, Soggettività giuridica del trust e responsabilità del trustee.
[82]Cass. 9 maggio 2014 n. 10105 cit.; Cass. 20 febbraio 2015 n. 3456; Cass.1 febbraio 2016 n. 1873; Cass. 27 gennaio 2017 n. 2043, in T&AF, 2017, 283.
[83] Trib. Ravenna 8 agosto 2017, in T&AF, 2018, 179; Trib. Mantova 9 febbraio 2018, in T&AF, 2018, 528.
[84] M. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645 ter cod. civ. quale frammento di trust, in T & AF, 2006, p. 169; sullo stesso tenore, A. Di Sapio, I trust interni auto destinati: misura negoziale complementare o alternativa alle misure legali di protezione delle persone prive di autonomia, in Dir. Fam., 2010, 834.
[85] A. Picciotto, Brevi note sull’art. 2645 ter cc: il trust e l’araba fenice, in Contr. e Impr, 2007, 1314.
[86] Trib. Milano decreto 8 Marzo 2005 in T&AF, 2005, 585; Trib. Pordenone 20 Dicembre 2005 in T&AF, 2006, 247; Trib. Milano 7 Giugno 2006 in T&AF, 2006, 575; Trib. Genova 1 Aprile 2008 in T&AF, 2008, 392; Trib. Forlì 23 settembre 2010, in T&AF, 2012, 83; Trib. Reggio Emilia, 22 giugno 2012, in T&AF, 2013, 57; Trib. Siracusa 17 aprile 2013, in T&AF, 2014, 189; Trib. Savona 14 febbraio 2018, in T&AF, 2918, 526; Trib. Siracusa 17 aprile 2013, in T&AF, 2014, 189.
[87] Il primo caso di cessione di una posizione beneficiaria in un trust con valenza una tantum in ambito divorzile è del Tr. Bologna 1° Aprile 2009 in T&AF, 2009, 411.
[88] Trib. Reggio Emilia 4 Dicembre 2006 in T&AF, 2007, 419; Trib. Reggio Emilia 26 marzo 2007 in T&AF, 2007, 419.
[89] Disegno di legge n. 244 del 23 Marzo 2018.
[90] Trib. Roma, 10 ottobre 2017, in T&AF, 2018, 538, ha autorizzato un amministratore di sostegno ad istituire un trust a vantaggio dell’amministrato, disabile grave, con beni sia di questi, sia dei suoi genitori.
[91] Il Trib. Perugia Aprile 2002, in T&AF, 2002, autorizzò l’adesione di adesione di una minorenne al trust delle sorelle; Trib. Firenze 23 ottobre 2002, in T&AF, 2003, autorizzò per conto dei figli minori, la sostituzione di un trust con il preesistente fondo patrimoniale; Trib. Bologna 3 Dicembre 2003, in T&AF, 2004, autorizzò l’esecutore testamentario ad istituire un trust avente ad oggetto il legato testamentario del nonno in favore dei nipoti minorenni; il Giudice Tutelare, Trib. Firenze 8 Aprile 2004 in T&AF, 2004, 567, autorizzò l’istituzione di trust con beni di un minore disabile; il Giudice Tutelare Trib. Firenze 7 Luglio 2004, in T&AF, 2005, 85, autorizzò la modificazione del trust in favore di un interdetto; il Giudice Tutelare, Trib. Genova 14 Marzo 2006, in T&AF, 2006, 415, autorizzò l’amministratore di sostegno dell’autorizzazione all’istituzione di un trust in favore di disabile; il Giudice Tutelare, Tr. Modena 11 Agosto 2005, in T&AF, 2006, 581 autorizzò i nonni di due minori, i cui genitori erano deceduti in un incidente stradale, ad istituire un trust in favore dei nipoti avente ad oggetto i beni caduti in successione; il Giudice Tutelare, Trib. Padova 2 Settembre 2008, in T&AF, 2008, 628, autorizzò per conto dei figli minori, l’estromissione di beni dal fondo patrimoniale per essere vincolati in un trust; il Giudice Tutelare, Trib. Bologna 23 Settembre 2008, in T&AF, 2008, 631, espresse parere favorevole all’istituzione di un trust in favore di un amministrato, poi autorizzato, a seguito di ricorso ex art. 747 cpc, dal Tribunale Bologna 11 maggio 2009, in T&AF, 2009, 543; Trib Modena 11 dicembre 2008 in T&AF, 2009, 177 autorizzò ancora l’istituzione di un trust sui beni di un minore; il Giudice Tutelare, Trib. Rimini 21 Aprile 2009, in T&AF, 2009, 409 e Genova, 17 giugno 2009 in T&AF, 2009, 531, autorizzarono l’istituzione di un trust autorizzò l’amministratore di sostegno ad istituire un trust in favore dell’amministrato; Trib. Roma 26 ottobre 2009, in T&AF, 2010, 180, nominò l’amministratore di sostegno per la cura degli interessi del beneficiario di un trust; il Giudice tutelare, Trib Bologna 23 gennaio 2012, in T&AF, 2013, 47 autorizzò la parziale fuoriuscita di beni, per conto dell’amministrato, da un trust istituito dai loro genitori e destinati all’uno fra i due rimasto in vita, confermando invece la vigenza del trust per la quota dei beni destinati all’amministrato.
[92] Sul tema si rinvia allo studio di A Tonelli, Un trust per l’università italiana, in Riv. Dir. Ec., 2009, 1, 125 dove, partendo dall’esperienza americana ed anglosassone che vede le più importanti università del mondo costituite in forma di trust (Harvard, Yale, MIT, Princeton, Cornell, Standford, Cambridge, Oxoford, al cui interno ci sono dipartimenti specificamente designati alla gestione dei molteplici trust istituiti in favore di diversi progetti, ricerche scientifiche o compartimenti) si estende sino alle realtà propriamente culturali. Analogamente infatti anche i più importanti musei sono risultati essere trust (Moma e Metropolitan di New York, British Museum, National Gallery, Tate Gallery) così come significative collezioni (Guggenheim, Lehman, Royal Collection inglese, Paul Getty) sono tutti trust.
[93] Un interessante studio di questo strumento si ha in D MURITANO, S BARTOLI, C ROMANO, Trust e atto di destinazione nelle successioni e donazioni, Milano, Giuffré, 2014
[94] B Franceschini, Patti di famiglia per l’impresa e trust, in Trust. Applicazioni nel diritto comm. e azioni a tutela dei diritti in trust. Volume II, a cura di M Monegat G Lepore I Valas, Torino, 2010, p. 295
[95] A. De Dominicis, L’impiego dei trust nelle operazioni commerciali, in T &A F, 2010, 594.
[96] Si tratta di un caso di voting trust. Quando l’atto istitutivo di trust avente ad oggetto le partecipazione societarie venne portato al Conservatore del Registro delle Imprese per l’annotazione a nome del trustee delle partecipazione societarie, questi oppose un rifiuto. Impugnammo allora il provvedimento aventi al Giudice del Registro di Bologna che accolse la nostra domanda ed emise il noto decreto del 16 giugno 2003, in T&AF, 2003, 580, così aprendo la strada ai trust con partecipazione societarie.
[97] D. Hayton, Il trust come strumento di gestione dell’azienda di famiglia nel passaggio generazionale, in Contr. e impr., 2004, p. 247 ss.; B. FRANCESHINI, Patti di famiglia per l’impresa e trust, in Trust, II, Torino, 2010.
[98] L'art. 3, comma 4 ter del T.U. delle Imposte sulle Successioni e Donazioni, d.lgs.n.346\90, come modificato dalla legge 24 novembre 2006 n. 286 e successiva Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 18/E del 20 maggio 2013 riconosce esenzione fiscale al trasferimento in trust delle partecipazioni rappresentative del controllo societario qualora il trustee ne assicuri il possesso vincolato quinquennale e al termine del trust le medesime vadano ai discendenti o al coniuge del disponente. Sul punto vd. Studio Consiglio Nazionale Notariato, n. 36-2011/T, Profili fiscali del passaggio generazionale d’impresa, a cura di T. Tassani, in Studi e materiali, 2012, 137.
[99] Il disegno di legge sui patti prematrimoniali: il trust quale strumento di programmazione del matrimonio, Bologna 28 ottobre 2019.
[100] E Al Mureden, Professore ordinario di diritto civile presso l’Università di Bologna.
[101] La stampa nazionale ha riportato alcuni casi importanti. Da Il Sole 24 ore, 10 settembre 2015 si è avuta notizia del Trust istituito dalla Famiglia Antinori, per la continuità aziendale e passaggio generazionale della nota impresa vinicola Marchese Antinori; il 25 giugno 2014 Brunello Cucinelli, fondatore della prestigiosa casa di moda, ha comunicato di aver istituito un trust per gestire il suo passaggio generazionale. Lo stesso dicasi per il gruppo fondato da Giorgio Armani, di cui al Sole 24 ore 10 ottobre 2016. Da Il Sole 24 ore 7 giugno 2015 si è appreso invece che l’erede del fondatore della Faac, la diocesi di Bologna, ha fatto confluire in un trust la partecipazione societaria a beneficio delle attività benefiche portate avanti dalla Curia.
[102] Sulla natura e funzione del trust liquidatorio, sia come strumento lecito ed alternativo alla liquidazione societaria codicistica, sia come strumento utilizzato al solo fine di frodare in creditori, si contano numerosi contributi dottrinali e studi specifici. Si rinvia in particolare agli scritti di A. LUPOI, La liquidazione di società di capitali attraverso lo strumento del trust, in T&AF, 2015, 240, A. FAROLFI, Il trust liquidatorio secondo le risultanze della prassi e della giurisprudenza, in T&AF, 2014, 616 e allo studio del Consiglio Nazionale del Notariato, Note sul trust istituito da imprese in crisi (in funzione liquidatoria) in T&AF, 2012, 558. Si segnala anche la Comm. Trib. Torino, n.571 del 15 aprile 2015, in T&AFa, 2015, 405, dove viene precisato come si debba ritenere legittimo il conferimento dell’attivo societario in un trust i cui beneficiari siano i creditori sociali della società liquidata ed estinta, qualora ciò abbia il fine della proficua e più efficiente liquidazione dei beni e il soddisfacimento dei creditori non integralmente pagati.
[103] Cass. 23 maggio 2017 n. 12925, in T&AF, 2018, 69; Trib. Bolzano, 15 luglio 2016, in T&AF, 2017, 52 e Trib. Trieste 29 ottobre 2019 cit. hanno ribadito la necessaria ricorrenza di una effettiva attività di liquidazione da parte del trustee.
[104] Trib. Milano 8 gennaio 2018, in T&AF, 2018, 291; Trib. Ragusa 3 marzo 2017, in T&AF, 2017, 621 che precisa come non vi siano nell’ordinamento limiti imperativi o di ordine pubblico all’adozione di procedure alternative della liquidazione codicistica. Per contro, la C. A. Milano 24 gennaio 2017, in T&AF, 2017, 405, ha dichiarato nullo, perché in frode ai creditori, il trust liquidatorio istituito da una s.a.s. poiché l’atto istitutivo non indicava il valore aggiunto del trust rispetto alla liquidazione ordinaria, oltre che per la mancanza di una clausola di retroversione dei beni nell’ipotesi di fallimento della società.
[105] La completa trattazione di questo caso è in corso di pubblicazione su T&AF, 2019, con nota di A Tonelli, La pendenza di cause giudiziali e la sussistenza di creditori irreperibili non impedisce la celere conclusione di un concordato se si utilizza il trust .
[106] Si tratta di La Perla S.r.l. in liquidazione, nota azienda di corsetteria femminile e maschile.
[107] Rispettivamente il dott. Carlo Maria Lovato e Piero Aicardi mentre il Giudice Delegato è il dott. Maurizio Atzori.
[108] I fatti relativi a questo concordato sono di estremo interesse. La società ricorrente anticipava il contenuto sostanziale della proposta concordataria (nella forma della cessio bonorum pura, senza suddivisione in classi) comunicando altresì di aver individuato un importante gruppo industriale, la società Alfa, che avrebbe potuto affittare, e poi cedere, il ramo d’azienda più importante della Società. Univa alla domanda concordataria il contratto di affitto del ramo d’azienda, con impegno al successivo acquisto, sospensivamente condizionato all’autorizzazione del Tribunale ex art. 161, comma 7 L.F e raggiungimento dell’accordo sindacale con i lavoratori ex art. 47 L.428/90, chiedendo quindi l’autorizzazione alla firma del contratto. Con decreto immediatamente successivo, il Tribunale ammetteva la Società alla procedura di concordato con riserva, nominando il coadiutore ex art. 68 cpc e dando termine per il deposito della proposta e del piano al luglio 2013. Nel maggio 2013, una diversa società formulava una proposta nettamente superiore, notiziandone anche il Tribunale. Il Tribunale decideva dunque di non autorizzare la Società alla conclusione del contratto d’affitto con la prima, ritenendo che i poteri autorizzativi conferitigli dall’art.161, comma 7 L.F., avrebbero potuto esprimersi proficuamente solo in esito ad una selezione competitiva fra i soggetti interessati. La Società, preso atto della decisione del Tribunale, chiedeva che la selezione competitiva avvenisse sotto l’egida del Tribunale, sia per assicurare trasparente e rapida definizione della questione, sia per non perdere le “relazioni reputazionali” con il ceto creditorio. Nel giugno 2013 si teneva la selezione competitiva dalla quale usciva vittoriosa la seconda società, con la quale, dunque, il Tribunale autorizzava la Società a sottoscrivere il contratto di affitto d’azienda e successivo impegno all’ acquisto. Rileva, ai fini di questa nota, una clausola del contratto che valorizzava quali elementi costitutivi del ramo d’azienda ceduto, i debiti verso i dipendenti maturati sino al tempo della cessione, ponendoli, in sostanza, in capo esclusivamente alla cessionaria. Tale disposizione, tuttavia, spiega i suoi effetti nei soli rapporti interni fra la Società e la cessionaria, rimanendo entrambe solidalmente responsabili verso i lavoratori, ex art. 2112 cc, per i crediti loro spettanti, sino alla data del trasferimento
Nei giorni successivi, una sola dipendente della Società, rifiutava la conciliazione ex art. 411 cpc, dando corso ad una serie di cause giuslavoristiche contro la Società e la cessionaria.
[109] Residuava infatti una percentuale di circa il 2% ancora da distribuire, rispetto all’ 85% già corrisposto.
[110] Per un approfondito studio sulla successione del trustee nel processo in corso, si rinvia a I VALAS, La responsabilità del trustee che contratto con i terzi, la sua successione e le controversie giudiziarie, in T&AF, 2006, 549
[111] Cass. Sez. Un. n. 6070 del 13 marzo 2013, in Foro It. 2013, 7-8, 1, 2189.
[112] L’art. 2495, comma 2 recita: “Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda se proposta entro un anno dalla cancellazione può essere notificata presso l’ultima sede della società”.
[113] Il che poteva dipendere da due fattori: perché, trattando di debitori in solido, liberamente sceglieva di agire nei confronti della società in liquidazione oppure perché la cessionaria era risultata inadempiente.
[114] Cosi precisa la Cass. Sez. Un. n. 6070\2013 cit. e conforme Cass. 8 agosto 2013 n.18923 cit
[115] Cosi precisa la Cass. Sez. Un. n. 6070\2013 cit. e conforme Cass. 27 febbraio 2014 n.4699 cit.
[116] Tale convinzione permase nonostante una recente decisione di legittimità sembrasse rimettere la questione sotto un profilo più delicato ma circoscritto ad una ipotesi specifica. Infatti, la Suprema Corte, nella sentenza n. 9672 del 19 aprile 2018, in Corr. Trib, 2018, 46, 3584, afferma: “La questione, invero, è stata puntualmente affrontata dalle Sezioni Unite (Sez. U, 12 marzo 2013, n. 6070 e n. 6072) che individuano la ratio dell'art. 2495 c.c.,"…. ".Ed allora "il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l'inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell'interesse ad agire (ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse all'accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell'escussione di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo". E' ben vero che un orientamento della Corte, richiamato dagli stessi controricorrenti (Cass., 23 novembre 2016, n. 23916; Cass., 26 giugno 2015, n. 13259; da ultimo Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444), ha tuttavia reputato che "gli ex soci possono ritenersi subentrati dal lato passivo nel rapporto d'imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione" e, inoltre, che "l'accertamento di tali circostanze costituisce presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo". Queste conclusioni, peraltro, come osservato da Cass. 7 aprile 2017, n. 9094 (seguita, in termini ampi, da Cass. 16 giugno 2017, n. 15035), non sono in linea con i principi affermati dalle Sezioni Unite che individuano sempre nei soci coloro che sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata (ma non definiti all'esito della cancellazione) a prescindere dall'aver questi goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione. Ritiene il collegio, pertanto, di dover prestare adesione a questo più recente orientamento che si ricollega, in termini diretti, al dictum delle citate sentenze n. 6070 e n. 6072, la cui soluzione, come riconosciuto dalla dottrina, è ormai divenuta "diritto vivente". Come condivisibilmente osservato nei citati precedenti, poi, la circostanza che i soci abbiano goduto o meno di un qualche riparto, non è dirimente neppure ai fini dell'interesse ad agire del Fisco creditore. Le Sezioni Unite, invero, hanno riconosciuto che la circostanza si potrebbe riflettere sul requisito dell'interesse ad agire, ma hanno ammonito che il creditore potrebbe avere comunque interesse all'accertamento del proprio diritto. Si può porre il caso, che le stesse Sezioni Unite hanno esaminato, di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con la sola esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (v., al riguardo, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21105, che ha riconosciuto l'interesse ad agire del creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese). La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l'interesse dell'Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell'interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti. E l'esistenza di questi beni o crediti comporta, come pure rilevato dalle Sezioni Unite, che tra i soci medesimi s'instauri "un regime di contitolarità o di comunione indivisa"….. Merita, peraltro, di essere sottolineata anche una ulteriore più ampia prospettiva, ancorata alle peculiarità del processo tributario e della disciplina "amministrativa" che sottende gli accertamenti in questo ambito, di cui è necessario fare conto nel momento della trasposizione di principi propri delle materie civili.”
[117] Trib. Mondovì 16 Settembre 2005 in T&AF, 2009, 182; Trib. Modena 9 febbraio 2006 con commento di M GABOARDI, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, in C Cavallini (a cura di) Commentario alla legge fallimentare, Egea, Milano, 2010, 580; Trib. Napoli 19 novembre 2008, in T&AF, 2009, 636; Trib. Ravenna 4 aprile 2013, in T&AF, 2013, 632; Trib. Verona 13 marzo 2013, in T&AF, 2014, 58; Trib. Prato, 12 Agosto 2015, in T&AF, 2015, 575; Trib. Torino 12 ottobre 2015, in T&AF, 2016, 153.
[118] Il Trib. Parma 3 Marzo 2005, G.D dott. P Liccardo, istituì il primo trust a garanzia di un concordato, in T&AF, 2005, 409. In proposito si rammenta P. LICCARDO, Il Trust nelle procedure concorsuali, in Il trustee nella gestione dei patrimoni, a cura di D. ZANCHI, Torino, 2009, scrive in proposito: “La meritevolezza e/o liceità del trust dipendono in gran parte dalla meritevolezza e/o liceità del piano e/o dell’accordo di ristrutturazione stipulato o raggiunto, con diversità di approccio interpretativo a seconda della condizione di tipicità, o di parziale tipicità o di atipicità riconosciuta all’accordo medesimo; sono del pari evidenti i riflessi negativi prodotti sull’atto segregativo dalla nullità dell’accordo laddove ad esempio realizzi la dolosa distrazione di beni destinati a far parte di una procedura fallimentare ormai ineludibile”.
[119] Si tratta dal fallimento delle Officine Romanazzi dove il GD romano autorizzo il ricorso ad un trust avente ad oggetto la cessione dei crediti fiscali, in Il Fall., 2004, 101 con nota di G FAUCEGLIA, La funzione del Trust nelle procedure concorsuali.
[120] Trib Bologna 26 luglio 2010, Giudice Delegato M Atzori, in T&AF, 2010, 622. Questo caso è commentato da M. CASALINI, Trust di scopo a vantaggio di una procedura concorsuale, in T &AF, 2010, 359.
[121] Per il rapporto fra trust e vincolo di destinazione ai sensi dell’art. 2645 ter cc, vd. A. PICCIOTTO, Brevi note sull’art. 2645 ter cc: il trust e l’araba fenice, in Contr. e impr., 2007, p. 1314.
[122] Trib. Bologna 21 settembre 2015 inedita.
[123] Trib. Bologna 19 gennaio 2017, G.D M Atzori.
[124] A. TONELLI, La soluzione del trust nel programma di liquidazione, in Moderni sviluppi dei trust, Ipsoa, Milano, 2010, 571.
[125] Il trust di scopo è una fattispecie dei trust espressamente istituiti che non prevede posizioni beneficiarie. Sul punto si rinvia a M LUPOI, Istituzione del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Padova, Cedam 2016,165.
[126] Sul tema vedi anche in Gli aspetti civilistici e tributari del Trust, a cura di C Buccico, Torino, 2015, A Tonelli, Prassi applicative dei trust interni, 126
[127] Trib. Trieste, 23 settembre 2005, T & AF, 2006,82.
[128] Ex plurimiis, il caso è interamente esposto in Gli aspetti civilistici e fiscali del trust, C. BUCCICO (a cura di), A Tonelli, Prassi applicative dei trust interni, 156 cit.
[129] Ad esempio, il resto che potrebbe ricevere dall’acquisto, allo sportello del Teatro, del biglietto per lo spettacolo.
[130] Sul punto si rinvia a: A TONELLI, Un trust per l’università italiana, 125, cit.
[131] Un caso pratico al quale ci è rifatti attiene al Pittsburgh Cultural Trust, istituito da un gruppo di imprenditori della capitale della Pennsylvania, esattamente per perseguire il medesimo obiettivo, salvo svolgere anche un’attività imprenditoriale di locazione e vendita degli immobili in trust che non riguarda però la fattispecie italiana.
[132] E Nicola Fragale, Trust e affidamenti pubblici: problemi e prospettive alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, in corso di pubblicazione su T&AF 2019.
[133] A Tonelli, Il sogno di un imprenditore filantropo affidato al trust, in T&AF, 2016
[134] Sono innumerevoli i casi che ci vengono dell’esperienza internazionale. Fra i cento enti filantropici del mondo, e che svolgono un’attività di crowdfunding capillarmente diffusa si menzionano: The Pew Charitable Trust, The Helmsley Charitable Trust, The New York Community’ Trust, The Chicago Community Trust, Wellcome Trust, IBA Charitable Trusts, International Chandramauli Charitable Trus, National Philanthropic Trust (NPT) Freddy Mercury Trust, Trust for Africa; Aga Kahn Cultural Trust.
[135] In www.il-trust-in-italia.it.
[136] Sul lungo studio e lavoro che ha caratterizzato questo trust, sino alla qualifica onlus, si veda R Bonfanti, Il trust onlus di beneficienza per calamità naturali, in Studi sul Trust, in Quaderni di Trust e attività Fiduciarie, n. 13, 2019, 141.
[137] Ad esempio, all’interno della Università di Harvard, essa stessa un trust, c’è il Trust and Gift Department che gestisce le migliaia di trust, e dunque fondo per bilioni di dollari, che sono stati istituiti per diversi scopi, dal finanziamento della ricerca più importante, al piccolo gruppo di studiosi. Sul punto vd. A Tonelli, Un trust per l’università italiana, cit.
[138] M Lupoi, I trust, i flussi giuridici e le fonti di produzione del diritto, cit. 3151
[139] Trib. Trieste 28 ottobre 2019 cit.
[140] Trib. Ancona 29 gennaio 2018, in T&AF, 2018, 288.
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