Trust


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 06/02/2014 Scarica PDF

La nuova strada della non riconoscibilità per i trust ripugnanti

Annapaola Tonelli, Avvocato in Bologna


§ 1. I fatti sottostanti

Entrambi i fatti dai quali traggono origine le decisioni qui commentate sono purtroppo comuni a molti trust interni.

Il caso bolognese.

Il fidejussore di una società fortemente esposta con istituti di credito, uno dei quali ha già chiesto il rientro, decide di istituire un trust avente ad oggetto l’immobile adibito ad abitazione sua e della famiglia.

Nomina beneficiario se stesso, il coniuge ed i figli ed enuncia la tipica finalità assistenziale dei trust di famiglia.

Nelle disposizioni relative al guardiano, prevede una clausola che recita: “Il guardiano rinuncia sin d’ora a qualunque azione contrattuale o extracontrattuale, giudiziale o extragiudiziale, anche a titolo di risarcimento danni contro il trust, il Disponente, il Trustee, i beneficiari comunque riferibile al rapporto nascente dal presente atto, fatto salvo il regolare e puntuale pagamento del compenso”.

Sempre il disponente, si riserva in via esclusiva il potere di revocare il guardiano che, a sua volta, ha il potere esclusivo di revocare il trustee, una trust company professionale.

La durata del trust è prevista in un tempo superiore alla presumibile vita fisiologica dei coniugi.

Dal punto di vista tecnico, il trust viene ad esistenza con un atto istitutivo che non contiene il contestuale trasferimento di alcun bene in proprietà al trustee mentre, con un atto di dotazione immediatamente successivo, il disponente trasferisce in proprietà del trustee neo-nominato l’immobile.

L’istituto di credito agisce giudizialmente chiedendo in via principale che venga accertata e dichiarata la non riconoscibilità del trust ex art. 13 della Convenzione de L’Aja[2] per violazione dell’art. 2 della stessa Convenzione per tre diverse fattispecie: 1) il trust risulta istituito in assoluta carenza di beni, 2) manca l’interesse meritevole di tutela in quanto il medesimo obiettivo può essere raggiunto con il fondo patrimoniale, 3) è violato l’art. 2, ult. co, della Convenzione, in quanto il Disponente risulta essere riservato tutti i poteri di gestione e controllo diretto, o indiretto del trust in forza della clausola sopra riportata per esteso. In subordine chiede dichiararsi la revocatoria dell’atto di dotazione patrimoniale ex art. 2901 cc.

Il caso triestino è invece una pronuncia resa in II grado dal tribunale in sede tavolare[3].

Il disponente del trust, ottenuto il rigetto della domanda tavolare di trascrizione a nome del trustee[4] dell’immobile che intende trasferirgli in proprietà, impugna in secondo grado per ragioni svariate, fra le quali alcune strettamente tavolari che qui non rilevano.

Il trust è strutturato sostanzialmente riconoscendo l’assoluta prevalenza della posizione beneficiaria del disponente, rispetto a quella residuale dei suoi figli, con obbligo per il trustee accumulare il reddito praticamente senza soluzione di continuità.

Solo esaminando infatti alcune specifiche clausole dell’atto istitutivo di trust si possono trarre ulteriori informazioni circa la gestione del fondo nel corso del trust, ed emergono le ulteriori – e stringatissime – posizioni beneficiare dei figli del disponente che tuttavia non consentono di superare la manifesta insufficienza della finalità enunciata nelle premesse dell’atto istitutivo che, oltre a menzionare la sola posizione beneficiaria del disponente, eleva l’accumulo e la preservazione del reddito a causa del trust. Si legge infatti “il disponente intende con questo strumento creare e mantenere un fondo di accumulo che provveda alla propria serenità economica, garantendogli ed assicurandogli l’attuale tenore di vita la cura e l’assistenza – personale e medica –durante gli anni successivi al ritiro dell’attività lavorativa oltre a soddisfare eventuali ulteriori esigenze di vita anteriori a tale momento”. 

   

§ 2. Le decisioni a confronto: la Convenzione[5] quale norma sovrana per il Tribunale di Bologna

La decisione del Tribunale di Bologna ha rammentano la imprescindibile importanza della Convenzione quale struttura normativa di primo riferimento alla quale tutti i trust interni devono rapportarsi per poter essere riconosciuti dal nostro ordinamento.

In particolare, i requisiti minimi che qualsiasi trust deve presentare, per risultare conforme al dettato della Convenzione, ed elencati al suo articolo 2, sono stati in questi anni sempre più dimenticati, sull’onda erroneamente entusiastica delle infinite possibilità che, al contrario, le diverse leggi applicabili, mettono a disposizione del disponente.

Probabilmente il problema non si sarebbe presentato con così evidente clamore se i disponenti italiani avessero scelto quale legge applicabile ai loro trust quella inglese, ma è altrettanto noto che alcune preclusioni di tale legge, che indubbiamente costituisce il modello per eccellenza dei trust, hanno indotto i più a scegliere quelle leggi che, al contrario, avevano superato alcune a volte “scomode”, altre volte inutili, limitazioni.

Tuttavia se per un verso è certamente vero che nessuna legge del modello internazionale[6] consente ai trust interni di superare, o porre in secondo piano, i limiti posti dalla Convenzione, è altrettanto vero che i limiti suddetti sono certamente rispondenti ai principi che da sempre la legge inglese pone a fondamento del diritto dei trust.

Ricostruendo la questione negli esatti termini, si rammenta che l’art. 2 della Convenzione detta quali requisiti minimi che qualsiasi trust deve presentare, per essere riconoscibile “almeno” per la Convenzione: la presenza del trustee, l’esistenza di beni, l’individuazione dei beneficiari o del fine specifico, poteri, diritti ed obblighi del trustee circa la conduzione del trusted infine la volontà di istituire un trust da parte del disponente che si desume dall’ult. Co dell’art. 2 in combinato disposto con il successivo art. 3[7].

Ne consegue, come ha ritenuto il giudice bolognese, che qualsiasi atto di trust deve in primo luogo essere confrontato con questo articolo e quindi, in altri termini, presentare le caratteristiche suddette[8] con l’effetto che mancandone anche una sola, il trust non risulterebbe riconoscibile per la Convenzione.

Il Tribunale di Bologna, in relazione a detti requisiti minimi, si sofferma in particolare su due, dei quali ravvisa la carenza nell’atto istitutivo presentato al suo esame: la presenza di “almeno un”bene[9] al momento dell’istituzione del trust e l’effettiva volontà di istituire un trust da parte del disponente[10].

Ciò nonostante il tribunale si riporta però all’art. 15, 2° co della Convenzione che, enunciando un favor trust per l’interprete, impone al giudice del foro di verificare se sussistano altri elementi che consentano il riconoscimento del trust che parrebbe prima facie non esserlo.

Argomentando da questa norma, il giudice emiliano osserva come immediatamente dopo l’istituzione del trust sia stato concluso l’atto di trasferimento di beni al trustee e detto atto, contenendo tutti i requisiti minimi dell’art. 2[11], consente di superare l’impasse iniziale, potendolo ritenere (e quindi si noti, l’atto di dotazione, non l’atto istitutivo) conforme alla Convenzione[12].

Salvato pertanto il trust sotto questo profilo, esclusivamente grazie all’applicazione dell’ art. 15, 2° co della Convenzione, il tribunale sposta la sua attenzione sul diverso aspetto dell’essersi, il disponente, sostanzialmente riservato tutti i poteri in atto istitutivo, venendo così ad avere un controllo diretto, anche se apparentemente mediato dal guardiano, sul trust e sull’attività del trustee.

Questo passaggio, che merita una doverosa premessa, risulta parimenti esaminato anche dal giudice triestino, anche se partendo da presupposti diversi[13].

Posto che sia il trust portato avanti il foro di Bologna, sia quello che ha interessato il foro di Trieste, sono retti dalla legge di Jersey, occorre porre nella giusta luce il rapporto che è venuto a crearsi fra l’art. 9A di detta legge[14] e l’ult. Co dell’art. 2 della Convenzione che recita: “Il fatto che il costituente[15] si riservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcun diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust”.

Ritengono pertanto entrambi i giudici che, per contro, risulti incompatibile con la Convenzione quel trust interno nel quale il disponente risulti essersi riservato “tutte le prerogative”[16] a prescindere da quello che la legge applicabile prescelta gli consentirebbe di mantenere.

Questo è uno dei passaggi più importanti della decisione bolognese che non censura tanto il tenore della legge applicabile scelta dal disponente, quanto piuttosto evidenzia come, qualunque sia il tenore di questa legge (ed in forza del citato art. 9A della legge di Jersey il disponente potrebbe riservarsi infiniti poteri) comunque se il trust è interno, lo stesso deve prevedere solo limitati poteri per il disponente al quale, in altri termini, deve risultare concretamente sottratta la possibilità indiscriminata di controllo diretto (o indiretto) sull’attività del trustee.

Ciò consente ora di tracciare i giusti contorni al rapporto fra legge inglese e leggi del modello internazionale, proprio partendo dall’ult. co dell’art. 2 della Convenzione.

La Convenzione infatti, che risente ampiamente del modello inglese, mostra con la previsione di cui all’ult.co dell’art. 2, di aver accolto una delle 3 certezze del trust come inteso dall’equity ossia la “certezza di voler istituire un trust”[17] che si rifà ad un leading case inglese del 1840[18] e che va, a sua volta, di pari passo con la massima di diritto consuetudinario normanno “donner et retenir ne vaut”.

Questi principi sostanziali sono enunciati in un noto precedente inglese che ritenne tale regola violata quando: “The settlement was a sham in the sense that it was made to appear to be what it was not”[19].

In altri termini “dare” (donner) al trustee e poi di fatto “trattenere” (retenir) non vale e quindi non è possibile che il disponente solo apparentemente conferisca una obbligazione fiduciaria al trustee per poi di fatto non avergliela conferita affatto, continuando “dietro alle quinte” a gestire i beni come se ancora fossero suoi.

Ne consegue che qualsiasi trust interno, anche se retto da leggi che come quella di Jersey abbiano di fatto superato la “rule donner et retenir ne vaut”, ne rimangono invece completamente soggetti proprio ed esclusivamente in forza del citato ult.co dell’art. 2[20].

Le decisioni in commento, ed in particolare a quella bolognese segnatamente per questo aspetto, hanno rammentato l’importanza (ed ineludibilità) della Convenzione per i trust interni, indicando la corretta strada da intraprendere per opporsi a tutti quei disponenti che per perseguire fini tutt’altro che meritevoli, dimentichi della Convenzione, come una scheggia impazzita pensano di aver trovato nel trust lo strumento che consenta loro di poter “fare tutto”.

La strada per censurare simili atti non dunque nè la simulazione nè tantomeno la nullità, sanzioni che possono essere prese in esame solo per i trust che hanno superato prima il vaglio di conformità alla Convenzione, poi ai precetti della legge regolatrice,[21] ma la declaratoria di non riconoscibilità del trust ai sensi dell’art. 13 con l’effetto di risultare, come ha decretato il Tribunale di Bologna, giuridicamente “inesistente”.

 

§ 3. Le decisioni a confronto: l’interesse meritevole di tutela quale principio sovrano per il Tribunale di Trieste

Entrambe le motivazioni commentate si soffermano lungamente sull’interesse meritevole di tutela[22] di cui deve essere portatore qualsiasi trust per essere riconoscibile dal nostro ordinamento.

Mentre il giudice bolognese però, dopo averlo preso opportunamente in esame, ne evidenzia la ricorrenza nel caso specifico, optando per diversa la censura ai sensi dell’ult. co dell’art. 2 come suddetto, quello triestino ne ravvisa l’insussistenza e quindi dichiara parimenti la non riconoscibilità del trust di specie per il nostro ordinamento.

In via del tutto preliminare, si evidenzia come oltre alla carenza dei requisiti minimi di cui al citato art. 2 della Convenzione, l’assenza di interesse meritevole di tutela ascrivibile al trust, configuri giustamente una ipotesi di non riconoscibilità del trust ai sensi dell’art. 13 della Convenzione e non, invece, la sua declaratoria di nullità che sarebbe giuridicamente errata[23].

Prima di entrare nel merito delle motivazioni in esame, e delle ragioni giuridiche addotte a sostegno delle decisioni ivi commentate, valgano allora alcune brevi considerazioni su cosa si intenda esattamente con interesse meritevole di tutela.

Risale alla fine degli anni novanta, una serie di importanti contributi della nostra dottrina[24] sull’effettivo ruolo del trust nell’ordinamento giuridico italiano.

In particolare, assumendo che i principi di diritto internazionale privato non consentano di applicare una legge straniera ad un rapporto tutto italiano, ciò risulta di fatto possibile solo allorquando, per il tramite del trust, viene perseguito un fine lecito che sarebbe precluso con gli strumenti approntati dal diritto civile. L’esempio di scuola a riguardo era quello della coppia di fatto che non può usufruire del fondo patrimoniale.

La nota serie delle prime decisioni sulla legittimazione dei trust interni, provenienti dal Tribunale di Bologna[25], fece suo questo ragionamento fino a quel momento solo dottrinale, che fu poi condiviso da tutta la giurisprudenza che ne è seguita sino a divenire punto fermo dei trust interni[26].

Aggiungendo allora questo ulteriore requisito a quelli preliminari dei quali ogni trust interno deve risultare portatore, la prassi virtuosa ha fatto ricorso al trust tutte le volte in cui il fine perseguito dal disponente sarebbe stato vano se si fosse cercata la soluzione nell’esclusivo panorama dei negozi giuridici civilistici, espressamente menzionando la residualità del negozio di trust sin dalle premesse dell’atto istitutivo.

Tornando dunque alle decisioni in commento si vede che, mentre il giudice emiliano ha ravvisato la meritevolezza di tutela nel trust portato alla sua attenzione, individuandola nella durata del trust esplicitata nell’atto che, essendo destinata a durare oltre al fisiologica vita dei disponenti, supera i limiti del fondo patrimoniale, di diverso avviso è stato il giudice triestino per quanto attiene al trust portato al suo esame.

Precisa infatti il Tribunale di Trieste che la finalità meramente protettiva del patrimonio, priva di alcun concreto programma negoziale destinato ad avvantaggiare la classe dei beneficiari, e quindi destinata solo a proteggere il disponente ed il suo patrimonio, produca il perverso effetto di far assurgere a causa del trust, quello che in realtà sono solo i suoi effetti, ossia la segregazione del patrimonio.

Non è quindi meritevole di interesse quel trust che abbia quale causa la mera segregazione di un patrimonio destinato ad incrementarsi per effetto di accumulo del reddito, che per altro osserva il giudice può conseguirsi anche con altri strumenti, essendo tale desiderio del disponente non sufficiente a giustificare l’applicazione di una legge straniera ad un rapporto tutto nazionale.

 

§ 4. Conclusioni

Oltre al valore scientifico delle decisioni in commento, che finalmente individuano il corretto percorso giuridico per opporsi ai trust “ripugnanti”, le stesse sono destinate, almeno ci auguriamo, ad avere un forte impatto nella prassi. Si auspica infatti che rappresentino un monito, volto a disincentivare un uso indiscriminato ed illecito dello strumento partendo dal presupposto, manifestatamente errato, che con il trust si possano sovvertire o superare le norme imperative e di ordine pubblico del nostro ordinamento giuridico[27].



[1] La definizione “trust ripugnani” fu data dal Tribunale di Bologna nella nota sentenza del 1 ottobre 2003, in T&AF, 2004, 67, per quei trust che perseguono fini non compatibili con l’ordinamento giuridico italiano e come tali non meritevoli di riconoscimento ai sensi dell’art. 13 della Convenzione sulla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985 ed integralmente ratificata e resa esecutiva dalla Stato italiano con L. 16 ottobre 1989 n. 364 entrata in vigore il 1° gennaio 1992

[2] Ci riferiamo alla Convenzione di cui alla nota precedente

[3] Non è questa la sede per enunciare la complessa procedura tavolare ed suoi precetti fondanti. Per i fini che qui rilevano, basti ricordare che il sistema tavolare, in essere in molte province del nord-est italiano, è il procedimento con il quale si trascrive nei libri fondiari il passaggio di proprietà dei beni immobili ed è su base reale, a differenza del sistema di trascrizione su base personale vigente nel resto d’Italia. La differenza sostanziale è data dalla funzione di pubblicità costitutiva della trascrizione, non meramente dichiarativa, sicché il trasferimento, anche fra cedente e cessionario, ha effetto solo con la trascrizione nel libro fondiario. Preposta alla pubblicità tavolare è l’autorità giudiziaria ordinaria, segnatamente il Giudice Tavolare, il quale riceve la domanda di trascrizione, ne vaglia la legittimità per i principi sostanziali del il diritto, e quindi esamina la legittimità della causa sottostante il negozio concluso e quindi ordina, o respinge, l’istanza.

[4] La decisione di I grado è del Tribunale di Trieste del 21 dicembre 2012 in www.il.trust.in.italia.it.

[5] Vd. Nota 1

[6] L’art. 6 della Convenzione riconosce al disponente il diritto di scegliere quale legge applicare al proprio trust, aprendo così un vasto panorama di leggi possibili che sono comunque distinte in due categorie: da una parte la legge inglese e dall’altra tutte le leggi del cd. modello internazionale. Appartengono a questo secondo gruppo le leggi di paesi diversi dall’Inghilterra che hanno codificato il diritto dei trust, fra le quali: la legge di Jersey, Guersney, Isole di Cayman, Isola di Man, Malta, Cyprus, Bahamas, Belize, Bermuda, Isole Vergini Britanniche, Isole Cook, Isole di Turks e Caicos, Sud Africa etc.

[7] Significativa è invece la mancata previsione, all’art. 2 della Convenzione, dell’obbligo di trasferire i beni in proprietà al trustee, limitandosi la citata norma a richiedere che i beni siano “posti sotto il controllo del trustee”. Il trasferimento del fondo, infatti, con effetti reali dal disponente, o dal terzo apportatore di beni, al trustee, è requisito richiesto dalle leggi del modello internazionale e dalla legge inglese ma non è un requisito minimo previsto dalla Convenzione.

[8] La dottrina, proprio perché la Convenzione non enuncia una tipologia di trust, ma ne enuncia solo i requisiti minimi, ha volutamente individuato la Convenzione come un terzo genere fra quelle di diritto materiale uniforme (ossia che enunciano la fattispecie alla quale si rivolgono, esempio emblematico la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale) e quelle di puro diritto privato internazionale che si limitano ed enunciare i criteri di collegamento da adottare quando ci si trovi di fronte ad un rapporto presentante elementi di estraneità. Da qui, il termine di trust amorfo, inteso quale struttura minima che esce dall’art. 2 della Convenzione, destinato a completarsi, e quindi divenire un vero e proprio trust, con gli ulteriori elementi sostanziali previsti nelle specifiche leggi regolatrici.

[9] Almeno un bene, proprio per quanto riportato in nota 7, deve risultare “posto sotto il controllo” del trustee al momento della istituzione del trust in ossequio all’art. 2

[10] Lo stesso ragionamento sulla necessaria esistenza di beni al momento della istituzione del trust e l’effettiva volontà di istituire in trust è stato fatto anche dal Tribunale di Reggio Emilia nella sentenza 14 marzo 2011 in T&AF, 2011, 630 e su www.ilcaso.it

[11] L’atto di dotazione del trust in esame infatti conteneva, oltre ai beni trasferiti al trustee, l’espresso richiamo per esteso della finalità del trust (ossia la sua causa”) l’enunciazione dell’intera categoria dei beneficiari e la presenza del trustee

[12] C’è da chiedersi allora cosa sarà di tutti quei trust che, istituiti senza alcuna dotazione iniziale, rimangono vuoti per mesi interi per poi essere “riempiti” con atti di dotazione che non riportano i requisiti minimi ma si limitano a fare generico riferimento al Trust istituito.

[13] Difatti, mentre l’atto istitutivo del trust bolognese presenta la clausola, sopra riportata per esteso, di previa rinuncia del guardiano a qualsiasi azione contro il trustee, relegando di fatto l’ufficio di guardiano a mero simulacro, privo nel concreto di alcun potere fiduciario, il trust triestino vede invece in capo al disponente ogni potere di revoca del trustee e non risulta nemmeno nominato un guardiano.

[14] Trattasi di un articolo inserito dall’ “emendment” che la legge di Jersey (Trusts Jersey Law 1984) ha subito nel 2006. In particolare è stato inserito l’art. 9A  che consente al disponente di riservarsi ogni potere nel trust che istituisce. In tema si rinvia a E.BARLA DE GUGLIELMI, P PANICO, F PIGHI, LA LEGGE DI JERSEY SUL TRUST, Quaderni di T&AF, 8, Milano 2007.

[15] La Convenzione ha due sole traduzioni ufficiali, quella inglese e quella francese. Correttamente in quella inglese il termine è “settlor” che la prassi dei trust interni, che si rifà agli insegnamenti della massima dottrina in tema, M.LUPOI, rende con l’espressione il “disponente”. Nella traduzione non ufficiale che circola nei manuali si trova pertanto il sostantivo “costituente” che si riferisce al disponente\settlor ossia chi istituisce il trust

[16] Nello stesso senso si era pronunciato il Trib. Reggio Emilia cit.

[17] Tre sono le certezze che ci consegna la giurisprudenza inglese e l’equity per poter ritenere di essere in presenza di un trust: certainty of intention, certainty of subject matter, certainty of objects ossia la certezza di voler istituire un trust, la certezza dell’esistenza di un fondo, la certezza dei beneficiari. Sul punto UNDERHILL AND HAYTON, Law of trusts and trustees, London, 2010, 206 e ss

[18] Si tratta di Knight v Knight (1840) 3 Beav 148, 49 Er 58

[19] Si tratta del noto caso Abdel Rahman v Chase Bank (C.I.) Trust Company Limited and five Others, [1991] JRL 103 in T&AF, 2004, 296

[20] Diverso discorso sarebbe se il trust fosse retto dalla legge inglese. In questo caso si tratterebbe di trust non riconoscibile ai sensi dell’art. 2, ult. co della Convenzione, e di sham trust per il combinato disposto di cui all’art. 8 della Convenzione (che rinvia alla legge regolatrice per individuare le norme sulla validità del trust) con la legge inglese (che si rifà al precedente cit. in nota 18). Sul punto si esprime, ancorché con un obiter dictum, anche il tribunale bolognese laddove evidenzia che il trust in esame, che non è sham per la legge regolatrice, può invece risultare non riconoscibile per violazione della Convenzione.

[21] Negli ultimi tre anni si è assistito ad un effluvio di sentenze provenienti da diversi tribunali fallimentari italiani, fra i quali certamente Milano, Reggio Emilia, Mantova, pubblicate sia su questo sito, sia sul sito www.il-trust-in-italia.it sia infine sulla rivista T&AF, che hanno dovuto risolvere l’annoso problema dei trust cd. liquidatori. Trattasi in sostanza di trust “ripugnanti” che non perseguono alcun fine meritevole per il nostro ordinamento interno ed istituiti al solo fine di sottrarre il poco attivo patrimoniale rimasto in aziende decotte e destinate all’imminente quanto irreversibile fallimento. Apertasi allora la procedura concorsuale, i tribunali aditi, nel comprensibile e giustificato tentativo di togliere di mezzi questi strumenti palesemente fraudolenti, sono tout court ricorsi alla dichiarazione di nullità degli atti istitutivi che non è però, da un punto di vista strettamente giuridico, la soluzione corretta. Molteplici le ragioni a supporto di questa considerazione: prima di essere trust nulli, si trattava infatti smaccatamente di trust nemmeno riconoscibili per la Convenzione, in quanto carenti di molteplici requisiti minimi e, parimenti, del tutto privi di qualsiasi interesse meritevole di tutela. Errata si ritiene dunque la comminata sanzione della nullità pronunciata dai citati Tribunali considerato che è punto fermo del nostro diritto la revocabilità degli atti in frode ai creditori e non la diversa censura della nullità. Sul punto si rinvia allo studio di M ATZORI, Riflessioni finali sui trust liquidatori” in Moderni Sviluppi dei Trust, Quaderni di T&AF, Milano, 2011, 549.

[22] Fra i precedenti nazionali che hanno trattato la meritevolezza di interessi quale requisito necessario dei trust interni, si segnala su tutti il Tribunale di Trieste 23 Settembre 2005, in T&AF, 2006, 83, che, sempre in un giudizio tavolare, evidenziò l’importanza del programma negoziale enunciato dal disponente in atto istitutivo. Ritenne infatti questo giudice che il programma negoziale, che altro non è che la causa del trust, per essere ritenuto meritevole e quindi giustificare l’applicazione di una legge straniera ad un rapporto tutto italiano, deve racchiudere ed enunciare specifiche finalità lecite che non sarebbero perseguibili, o che lo sarebbero non con la medesima efficacia del trust, con gli ordinari istituti civilistici

[23] Vd. Nota precedente

[24] M. LUPOI, Trust, Milano 1997, S.M. Carbone, La scelta della legge regolatrice, in T&AF, 200, 3; R. LUZZATTO, Legge Applicabile e riconoscimento di trusts secondo la Convenzione dell’Aja, in T&AF, 2000, 7;L ROVELLI, Libertà di scelta della legge regolatrice, in T&AF, 2001, 505.

[25] Trib Bologna 8 aprile 2000 in T&AF 2000, 372; Trib Bo 13 giugno 2003 in T&AF, 2003, 580 e Trib. Bo 1 ottobre 2003 cit.

[26] Invero una isolata decisione del Tribunale di Urbino 31 gennaio 2012, in T&AF, 2012, 406, non ritiene necessaria la funzione residuale del trust in quanto essendo intervenuta la legge di ratifica della Convenzione si sarebbe superato il problema della ricerca dell’interesse meritevole di tutela.

[27] Da sempre questi principi sono perorati dal gruppo di studi costituito all’interno dell’Associazione il Trust in Italia, fondata nella seconda metà degli anni 90 dal prof. Maurizio Lupoi ed oggi riconosciuta dal Consiglio Nazionale Forense quale associazione specialistica maggiormente rappresentativa in Italia. L’Associazione ha infatti costituito al suo interno il registro dei professionisti accreditati, al quale possono iscriversi solo coloro che, dopo aver dimostrato di essersi formati scientificamente, frequentando corsi o master strettamente specialistici, risultino aver superato un severo esame e, nel tempo successivo, dimostrino altresì di mantenere un costante aggiornamento professionale. Questo gruppo di studiosi traccia, non solo linee guida che traggono spunto dal confronto fra il diritto dei trust e la giurisprudenza italiana, al fine di predisporre atti che sia sintonici e rispettosi di entrambi gli aspetti, ma fortemente perora l’istituzione di quei soli trust che, meritevoli di tutela, concorrano alla evoluzione positiva e crescita giuridica del nostro diritto e dei professionisti, mettendo a disposizioni strumenti che possano migliorare e servire di aiuto alle molteplici esigenze della collettività sociale. Ferma censura è venuta dall’Associazione sia verso il proliferare dei trust liquidatori, e sul punto si rinvia anche agli Atti del Congresso di Sestri, pubblicato in Quaderni di T&AF, 8, 2011, Milano, fra i quali vi è il contributo citato in nota 20, sia nei confronti di tutti quei trust il cui indiscriminato ed approssimativo uso fatto in questi ultimi tempi, concorre solo a svilire e mortificare l’impiego di uno strumento che, al contrario, può solo apportare benefici e risolvere delicate situazioni.


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