Trust
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 05/11/2014 Scarica PDF
Certezze ed incertezze del diritto - Nota a Cass. n. 10105 del 9 maggio 2014 e Trib. Belluno 16 gennaio 2014
Annapaola Tonelli, Avvocato in Bologna1. Il punto
della Corte di Cassazione sui trust interni: il programma negoziale
La sentenza della Corte di Cassazione n. 10105 del 9 maggio 2014 è l'ultima di
una serie di decisioni di legittimità[1] che si sono occupate dei trust
interni[2].
Sebbene la maggior parte di questi precedenti abbia trattato illeciti impieghi
del trust, puntualmente censurandoli e privandone di effetti i relativi atti,
altre decisioni hanno invece fugato alcuni significativi dubbi: la mancanza di
soggettività giuridica del trust[3], la carenza di elusività per il trust che,
perseguendo interessi apprezzabili e meritevoli di tutela per l'ordinamento
giuridico, faccia anche conseguire risparmi fiscali[4], la necessità di
valutare il programma negoziale enunciato dal disponente per giudicare della
natura reale o simulata del trust[5].
Un punto è comune denominatore di queste sentenze: la Corte non mette in
discussione la legittimità del trust interno rispetto al nostro ordinamento
giuridico salvo poi verificarne, caso per caso, la funzione economico
individuale perseguita dal disponente.
Fanno da corollario a queste pronunce di legittimità, alcune recenti decisioni
di merito[6]che hanno tracciato con chiarezza il percorso che il giudice deve
intraprendere per valutare la riconoscibilità di un trust interno, che ha quale
punto di partenza la verifica della conformità dell'atto istitutivo, ai
requisiti minimi enunciati all'art. 2 della Convenzione[7].
Convenendo con questa impostazione, il giudice di legittimità argomenta dalla
Convenzione per ricordare i limiti che essa pone tali per cui non sarà mai
possibile, per il trust interno, pedissequamente attuare tutto quello che la
legge regolatrice prescelta consentirebbe di fare[8].
Correttamente infatti, laddove il trust producesse effetti legittimi per la sua
legge regolatrice, ma incompatibili con il nostro ordinamento, il trust
risulterebbe non riconoscibile ai sensi dell'art. 13 della Convenzione. Per
meglio dire la Corte, nella prima parte della sua motivazione, indica l'art. 13
come norma di riferimento per la pronuncia di non riconoscibilità, per poi
ripiegare successivamente sull'art. 15, ma sul punto torneremo più avanti.
Certo è che la Corte pone grande attenzione al programma negoziale enunciato
dal disponente, da valutarsi caso per caso, al fine di rinvenire
quell'interesse meritevole di tutela che, solo laddove esistente, potrà
giustificare l'applicazione di una legge straniera ad un rapporto squisitamente
italiano.
In particolare, ricorda il giudice di legittimità, che non esiste una
"causa trust", fattispecie causale del tutto astratta[9], stante la
minima struttura di trust rinvenibile all'art. 2 della Convenzione[10].
Ogni trust risulta avere dunque una specifica causa che emerge dal programma
negoziale enunciato dal disponente, da intendersi proprio alla luce della
moderna lettura che la Cassazione ha dato della causa del negozio giuridico,
spostandone l'asse di valutazione alla "funzione economico
individuale"[11], in luogo della più datata interpretazione in chiave di
funzione economico sociale.
Trattando allora della funzione economico individuale del programma negoziale
enunciato dal disponente, al momento della istituzione del trust, grande
importanza assumono i motivi strettamente personali che l'hanno indotto a
quella scelta, non solo rispetto agli strumenti approntati dal diritto civile,
ma proprio come elementi fondanti la sua stessa volontà.
In ragione di ciò, la Corte afferma che: "quale strumento negoziale
astratto, il trust può essere piegato, invero al raggiungimento dei più vari
scopi pratici, occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le
circostante del caso di specie da cui desumere la causa concreta
dell'operazione".
Non è peregrino dunque ritenere che con quest'ultima decisione, la Corte di
Cassazione abbia definitivamente sdoganato il trust interno posto che, quando
si sofferma all'analisi preliminare da farsi per decretare la validità di uno
specifico trust, non richiama alcuna argomentazione diversa dalla ricerca
dell'interesse meritevole di tutela.
Tutte le motivazione giuridiche addotte da quella parte della dottrina che,
soprattutto fra la fine e l'inizio di questo secolo, si opponeva per massimi
sistemi al riconoscimento del trust interno[12] non vengono considerate dal
giudice di legittimità.
Non è altresì infondato pensare che la Corte abbia tenuto conto della
giurisprudenza di merito costante e uniforme[13] in favore di questo istituto,
valorizzando il precedente giurisprudenziale come fonte del diritto[14]. Del
resto "assicurare che la legge sostanziale, che ogni giudice è chiamato ad
applicare, sia interpretata esattamente ed in modo uniforme su tutto il
territorio nazionale" è un principio non solo condiviso dalla dottrina
[15] ma anche più volte ribadito dalla Corte di Cassazione.
Ad eccezione infatti del decreto bellunese qui in commento, e del precedente
decreto del medesimo foro del 2002[16], e di alcune decisioni isolate[17], la
giurisprudenza appare oggi conforme ed attestata in punto alla validità dei
trust interni tanto che, ad eccezione del tavolare di Belluno, anche quei fori
sopra citati che inizialmente avevano respinto lo strumento, hanno poi
radicalmente rivisto le loro posizioni con successive decisioni di segno
opposto[18].
2. I nuovi ambiti del trust liquidatorio: interesse meritevole di tutela,
irrilevanza della residualità, non applicabilità della sanzione di nullità
Con questa sentenza, finalmente, la Corte ha potuto esprimersi anche sui trust
liquidatori, facendo chiarezza rispetto ad un frenetico procedere di alcuni
tribunali fallimentari[19] i quali, pur di eliminare gli effetti di sciagurati
trust posti in essere al solo fine di sottrarre beni al processo fallimentare,
avevano adottato decisioni comprensibili nella pratica, ma errate in punto di
diritto.
Una prassi esecrabile aveva infatti fatto ricorso al trust per - esclusivamente
- tentare di sottrarre al concorso, imprese in palese stato di insolvenza,
adottando sempre il medesimo schema: veniva posta in liquidazione la società
insolvente, contestualmente si trasferiva in un trust il poco attivo residuo,
il cui scopo apparente dichiarato era quello di liquidarlo per procedere al
pagamento dei creditori in regime di par condicio[20], per poi immediatamente
dopo cancellare la società dal registro delle imprese e sperare nel decorso
dell'anno per evitare il fallimento[21].
Nella pratica, tuttavia, non solo non veniva posta in essere alcuna reale
attività di liquidazione dell'attivo, ma lo stesso era proprio, per il tramite
del trust, del tutto sottratto alla pretese creditorie. Trovatisi di fronte a
questi trust, le curatele fallimentari avevano subito reagito chiedendo la
declaratoria di nullità degli atti istitutivi de quibus, prontamente loro
concessa.
Dal punto di vista strettamente giuridico, tuttavia, la sanzione della nullità
risulta inappropriata come parte della dottrina aveva da tempo evidenziato
[22]in quanto delle due l'una: o il trust nasce meritevole di tutela e, se
tale, non può poi divenire successivamente nullo per il solo sopravvenuto
fallimento, ovvero sin dalla sua venuta ad esistenza, è immeritevole[23].
E non solo questa argomentazione conferma l'inadeguatezza della censura di
nullità.
La tutela rimediale offerta dal legislatore, al creditore i cui diritti siano,
o possano essere, lesi, risiede unicamente nell'azione revocatoria ex art. 2901
c.c., essendo il negozio in frode ai creditori - mai nullo - ma solo
revocabile.
A ciò aggiungasi, quale riflessione di carattere generale, la natura tipica
della sanzione di nullità, che ha fonte sempre in una norma specifica che
all'evidenza non esiste per la fattispecie in esame.
Apprezzabilmente la Corte fa un ragionamento completamente diverso, liquidando
la questione della nullità con una chiara motivazione: "la sanzione di
nullità presuppone che l'atto sia stato riconosciuto dal nostro ordinamento; il
conflitto con la disciplina concorsuale inderogabile determina invece la stessa
inesistenza giuridica del trust nel diritto interno".
In punto al diritto dei trust, e al suo coordinamento con il nostro sistema
giuridico, ciò è di importanza sostanziale in quanto pone su piani diversi,
come deve essere, la non riconoscibilità del trust illecito, rispetto alle
sanzioni previste dalle leggi del foro che eliminano gli effetti prodotti da un
trust che risultino contrari a norme interne imperative o di ordine
pubblico[24].
E' intuitivo infatti comprendere come possa essere lecito, e quindi
riconoscibile, quel trust che esprima un programma meritevole di tutela ma che,
tuttavia, risulti ledere i diritti dei legittimari, del coniuge comunista o dei
creditori. In questi casi, riconosciuto il trust, lo stesso subirà la sanzione
interna espressamente prevista che potrà essere l'azione di riduzione sino a
concorrenza della legittima lesa, l'annullamento della disposizione lesiva
della comunione fra coniugi[25], l'inefficacia del trasferimento di beni
rispetto al creditore ex art. 2901 c.c.
Al contrario, il riconoscimento del trust è un'indagine che deve compiersi a
monte, e per prima, e condurrà alla pronuncia di non riconoscibilità tutte le
volte in cui saranno riscontrati specifici elementi.
Il primo, certamente, è la mancata conformità del trust ai requisiti minimi di
cui all'art. 2 della Convenzione[26]. Il secondo potrebbe ricorrere quando il
trust produca un fatto illecito, anche di rilevanza penale per il quale,
tuttavia, non sussista una norma penale ad hoc. Il terzo è quello che si trae
dal caso di specie: quando il trust sottrae il patrimonio ad un regime di
controllo pubblicistico previsto ex lege [27].
La chiave di volta è quindi rappresentata dall'interesse meritevole di tutela
in quanto solo partendo da esso, e dalla sua analisi dettagliata, come afferma
la Corte, si potrà ravvisarne l'insussistenza ed aprire la strada alla
declaratoria di non riconoscibilità.
Sempre in punto al diritto dei trust, un'altra questione di estrema delicatezza
è risolta dalla Corte: la residualità che viene richiesta del trust interno per
essere riconoscibile.
La motivazione sul punto è indubbiamente dirompente.
Per riassumerne brevemente il significato, sin dai primi atti di trust che
timidamente si affacciarono all'inizio dello scorso decennio nelle aule di
tribunale, il primo elemento che veniva addotto a sostegno della validità dello
strumento era appunto la sua residualità[28], intendono con ciò la necessità di
ricorrere al trust per perseguire un fine lecito che con i normali strumenti del
diritto civile, non sarebbe stato conseguibile[29].
Fu in particolare il giudice tavolare di Trieste a rammentare l'importanza del
principio di residualità del trust, laddove nel lontano 2005 scrisse "grazie alle prerogative riconosciute al giudice tavolare e di cui sopra si
è detto, non ci si potrà limitare ad un apprezzamento in
negativo, ma si dovranno altresì "ricostruire sistematicamente
gli effetti" del negozio, per verificare se essi siano rapportabili a
quelli previsti dall'ordinamento giuridico, e se si perseguano ulteriori
obiettivi non altrimenti raggiungibili con gli strumenti ordinari, altrimenti
rimanendosi all'interno del fenomeno del negozio misto, del collegamento
negoziale, della frantumazione e ricomposizione negoziale di cui si è scritto"[30].
Da allora, si è sempre ritenuto il requisito della residualità elemento imprescindibile per il trust interno[31], come hanno del resto
ribadito anche recenti decisioni di merito[32].
Afferma invece la Corte che, almeno con riferimento ai trust liquidatori
leciti: "potrebbe dirsi lo strumento vietato qualora si esiga che esso, per essere
riconosciuto nel nostro ordinamento, assicuri un quid pluris rispetto a quelli
già a disposizione dell'autonomia privata nel diritto interno. Non sembra però che l'ordinamento imponga questo limite, alla luce del sistema rinnovato
dalle riforme attuate negli ultimi anni che ammettono la gestione concordata
delle stesse crisi di impresa".
Due allora le conseguenze che ne derivano, l'una pratica, l'altra scientifica:
via libera al trust liquidatorio che, pur nulla apportando di nuovo, rispetto
alla liquidazione dell'impresa civilisticamente prevista, risulti lecito e
rispettoso degli obblighi che il giudice di legittimità gli pone a carico;
ampio spazio alla libera autonomia negoziale che possa esprimersi anche
attraverso il trust interno, senza nulla dover offrire in più rispetto agli
istituti civilistici, quanto meno in ambiti puramente obbligatori.
3. I requisiti del trust liquidatorio "lecito"
Interessante la via tracciata dalla Corte affinchè possa ritenersi legittimo
-anche - il trust liquidatorio.
In primo luogo tale tipologia di trust potrà dirsi lecita tutte le volte in cui
l'impresa interessata non versi in stato di insolvenza, cosi confermando ciò
che giurisprudenza di merito e dottrina hanno costantemente affermato[33].
In secondo luogo deve sussistere un accordo con i creditori, nessuno escluso,
in quanto solo in tal modo potrà riconoscersi la trasparenza e il rispetto dei
diritti delle parti tutte coinvolte[34].
La liquidazione deve pertanto esser negoziata con tutti i creditori e
concretamente attuata, non potendo certo essere un mero simulacro. In
proposito, quando ancora i trust liquidatori non avevano rivelato un lato
oscuro, scriveva la dottrina sul possibile impiego del trust alla gestione
negoziale della crisi d'impresa, precisando come si dovesse: "separare i
diritti segregati dal patrimonio del debitore. attribuire
ad un soggetto professionalizzato la liquidazione di beni di difficile
monetizzazione. garantire la massima trasparenza nell'ambito di suddette operazioni di
alienazione dei beni in trust" e quindi modulare lo strumento
correttamente parametrandolo "alla natura ed estensione della crisi
governata con l'accordo [35].
Ciò non di meno, pur apprezzando la non necessaria ricorrenza del requisito
della residualità per la tipologia di trust qui in
esame, il trust liquidatorio potrebbe nella realtà presentare
comunque una natura residuale più competitiva rispetto alla
liquidazione civilistica.
Ciò avverrà tutte le volte in cui la liquidazione del fondo in trust verrà
attribuita ad un soggetto terzo, rispetto all'imprenditore, che, se trustee
professionale, assicurerà trasparenza di gestione, segregazione del fondo e
operazione liquidatorie costantemente monitorate dal guardiano e dai creditori.
Prevedere poi nell'ufficio di trustee una persona terza rispetto
all'imprenditore, potrà dare maggiore garanzia ai creditori, invogliandoli ad
accettare la soluzione alternativa del trust rispetto alla normale
liquidazione.
Così facendo, l'accordo concluso fra tutti i soggetti aventi diritto, avverrà
in piena esplicazione della loro autonomia negoziale e potrà indurre i
creditori persino ad accettare percentuali di soddisfazione del loro credito,
anche sensibilmente minori rispetto all'entità dello stesso, laddove in
contropartita avranno la certezza della liquidazione trasparente, la loro
diretta partecipazione o controllo e la consapevolezza di non dover più
affannarsi ad iniziare subito l'esecuzione forzata nel timore che qualcun altro
arrivi prima di loro.
Del resto, fra le molteplici censure che i giudici di merito hanno rivolto ai
trust liquidatori[36], quella più condivisa traeva origine dalla prassi di far
mantenere al disponente un controllo pieno sul trust, nominandolo a seconda dei
casi, trustee o del guardiano, insieme all'operare di nascosto e all'insaputa
del ceto creditorio.
4. Dalla nullità alla non riconoscibilità del trust "anticoncorsuale":
rapporto fra artt. 15 e 13 della Convenzione
La più importante questione che ha risolto la Corte è certamente
l'individuazione della sanzione che deve invece colpire il trust
anticoncorsuale (come la Corte stessa nomina) ossia la sua non riconoscibilità.
Le ragioni esplicitate per motivare il giudizio di non riconoscibilità sono
perfettamente condivisibili e ricorrono tutte le volte in cui il solo fine del
trust, posto in essere dall'impresa già insolvente e destinata solo al
fallimento, risulti essere "segregare tutti i beni, a scapito delle forme
pubblicistiche quali il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti
a tutela dei creditori del disponente". In questi casi, afferma la Corte,
tali trust non possono essere tutelati dall'ordinamento in quanto "sottraendo il patrimonio o l'azienda al suo titolare, ed impedendo una
liquidazione vigilata - in quanto rimette per intero la liquidazione
dell'attivo alla discrezionalità del trustee - determina l'effetto
non accettabile per il nostro ordinamento di sottrarre il patrimonio del
debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione della crisi dell'impresa e
dell'attivo fallimentare della società settlor il patrimonio stesso".
Ciò che invece lascia alcuni dubbi è la norma della Convenzione in forza della
quale la Corte invoca la non riconoscibilità, ossia l'art. 15 lett.e) il cui
testo esplicita: "La Convenzione non ostacolerà l'applicazione delle
disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro, allorchè non
si possa derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione della
volontà in particolare nelle seguenti materie. e) la
protezione dei creditori in caso di insolvibilità".
Ritiene infatti il giudice di legittimità che non si possa fare riferimento
all'art. 13 della Convenzione[37] in quanto è norma che si rivolgerebbe allo
Stato mentre l'art. 15 sarebbe rivolto direttamente al giudice come, sempre a
detta della Corte, recita chiaramente il 2° co dell'art. 15 in tema di favor
trust[38].
Per altro a questa conclusione la Corte giunge alla fine della sua motivazione,
dopo invece aver precisato che non possa parlarsi per i trust anticoncorsuali
di nullità, in quanto la nullità presuppone il previo riconoscimento del trust.
Ed allora proprio partendo da questa premessa, che si condivide pienamente, non
si comprende però come possa poi la Corte ripiegare sull'art. 15 se non
incorrendo, almeno a parere di chi scrive, in una contraddizione
A voler infatti diversamente ragionare, e partendo dalla premessa esplicitata
dalla Corte stessa, per la quale la nullità del trust segue sempre il suo
avvenuto riconoscimento, risulta all'evidenza di difficile applicazione l'art.
15 della Convenzione.
Al contrario, l'art. 13 certamente si rivolge allo Stato, ma non solo a questi.
La ratio dell'art. 13 risiede nella consapevolezza dimostrata dal legislatore
internazionale sui possibili abusi che sarebbero potuti venir ad esistenza,
all'interno del foro, grazie alla mera applicazione di una legge straniera ad
un rapporto tutto interno.
Ciò l'ha indotto a scrivere l'art. 13 per stabilire che non possa riconoscersi
quel trust"i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della
legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del
trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l'istituto
del trust o la categoria del trust in questione".
In tal modo la Convenzione ha conferito al giudice del foro il potere di non
riconoscere quello specifico trust che, applicando una legge straniera ad un
rapporto tutto regolato da una sola bandiera, di fatto generi abusi di sorta.
Dall'art. 13 derivano allora due possibilità: o lo Stato - legislatore
disciplina il trust con norma interna, non potendo certo lo Stato, in quanto
tale, altro fare, oppure rimane il potere residuale del giudice che, in assenza
di norma interna che regolamenti l'istituto, potrà non riconoscere il trust che
produca effetti aberranti. Tale giudizio però, non potrà fondarsi su
argomentazioni di mero "capriccio"[39] ma, partendo dal presupposto
dell'applicazione della legge straniera ad un rapporto tutto interno, condurrà
al non riconoscimento dello specifico trust, tutte le volte in cui l'applicazione
della legge straniera al rapporto tutto interno, risulterà il mezzo impiegato
per perseguire un fine contrario ai precetti fondanti le leggi del foro.
Il problema se lo pose il Tribunale di Bologna quando, chiamato per la prima
volta in Italia ad esprimere un giudizio "per massimi sistemi" sulla
validità del trust interno, lo risolse con un'argomentazione in diritto molto
convincente. Scrisse infatti nel lontano 2003 il giudice bolognese: "Altro
problema (sul quale si tornerà in seguito), differente e logicamente successivo
rispetto a quello della determinazione della legge applicabile, riguarda gli
esiti del riconoscimento del trust e le preclusioni al riconoscimento o
all'efficacia previste dalla stessa Convenzione qualora la scelta del disponente
sia "abusiva" e, cioè, quando i suoi effetti determinino, nel Paese
con cui il trust presenta i collegamenti più stretti, l'elusione di norme
imperative inderogabili con atto negoziale (art. 15) e/o di norme di
applicazione necessaria (art. 16) oppure quando gli effetti appaiano in
manifesto contrasto con l'ordine pubblico (art. 18) o, infine, in tutti i casi
in cui il riconoscimento sia "ripugnante" per l'ordinamento (art.
13). Diverse interpretazioni sono state date all'art. 13. Secondo alcuni autori
la disposizione è rivolta esclusivamente ai legislatori degli Stati aderenti e
costituisce una clausola di salvaguardia, normalmente inserita nelle
convenzioni internazionali, che consente a chi lo desideri di paralizzare, in
sede di ratifica, alcuni effetti del testo che ci si appresta a rendere
operativo nel proprio ordinamento. Difettando nella legge di ratifica italiana
(L. 364/1989) una specifica disposizione che precluda, per volontà del
legislatore, il riconoscimento dei trust "interni" ed essendo questi
ultimi ricompresi nell'ambito di applicazione della Convenzione de L'Aja, la
scelta della legge applicabile operata in tali casi dal settlor potrà essere
disattesa esclusivamente per le ragioni espressamente previste dalla normativa
uniforme (artt. 15, 16 e 18). Secondo un'altra opinione - che questo Giudice
ritiene preferibile e da condividere - la disposizione, come ogni norma di
diritto internazionale privato, non può che riguardare lo Stato come soggetto
internazionale, il quale, legittimato dalla norma, potrà intervenire (o non
farlo) o con un proprio strumento normativo o con le applicazioni concrete
della disciplina da parte dei giudici e delle autorità amministrative. Rientra
anche nei poteri del giudice, dunque, fare applicazione dell'art. 13; tuttavia,
l'utilizzo di detta norma, lungi dall'essere obbligatorio o - al contrario -
"capriccioso", potrà avvenire soltanto in maniera conforme alla ratio
del legislatore della ratifica e, quindi, anche in ossequio al principio di
salvaguardia dell'autonomia privata, al solo fine di evitare il riconoscimento
di trust "interni" che siano disciplinati da legge straniera con
intenti abusivi e/o fraudolenti. In altri termini, non sarà sufficiente
rilevare la presenza di un trust i cui elementi significativi siano più
intensamente collegati con lo Stato italiano per disapplicare la legge scelta
per la sua disciplina e per la sua costituzione evitando di riconoscerne gli
effetti, ma sarà, invece, necessario desumere un intento in frode alla legge,
volto, cioè, a creare situazioni in contrasto con l'ordinamento in cui il
negozio deve operare. Proprio questa, in definitiva, pare essere
l'interpretazione più corretta da dare all'art. 13 della Convenzione: quella di
"norma di chiusura" (sul punto, oltre al prevalente orientamento
dottrinale, Tribunale di Bologna, decreto 16/6/2003). Difatti, mentre il
Capitolo IV della Convenzione de L'Aja introduce un meccanismo (parallelo a
quello previsto dall'art. 3 comma 3° della Convenzione di Roma del 1980) di
salvaguardia delle norme inderogabili, di applicazione necessaria o di ordine
pubblico della lex fori (artt. 15, 16 e 18) e si muove nel campo degli effetti
conseguenti al riconoscimento, l'art. 13 si pone sul diverso piano del
riconoscimento stesso del trust (Capitolo II della Convenzione) quale fenomeno
di applicazione di una legge straniera. In sostanza, mentre gli artt. 15, 16 e
18 non frappongono in linea di principio alcun ostacolo al riconoscimento dei
trust e si limitano ad escludere la produzione di certi specifici effetti contrastanti
con particolari norme interne, l'art. 13 non può essere considerato come
strumento volto a garantire l'applicazione della lex fori perché a ciò
provvedono già le succitate disposizioni. La disposizione in esame, piuttosto,
concerne il riconoscimento stesso dell'istituto e, quindi, il principale
fenomeno disciplinato dalla Convenzione; ciò vale soprattutto per i c.d. trust
"interni", la cui esistenza e validità dipendono dalla scelta della
legge straniera e dal suo riconoscimento. Poiché il trust "interno"
non può essere ritenuto invalido ex se per la carenza di elementi di estraneità
(si rinvia alle considerazioni sopra svolte a proposito della libertà di scelta
della legge regolatrice ex art. 6), né per il suo contrasto con norme
inderogabili o di applicazione necessaria o di ordine pubblico (a garanzia
delle quali presiedono gli artt. 15, 16, 18, che, però, incidono sugli effetti
di un trust già riconosciuto), l'unica possibile e ragionevole soluzione
ermeneutica (a meno di non voler dare all'art. 13 un'interpretatio abrogans
degli artt. 6 e 11) è quella, appunto, di considerare la disposizione come una
"norma di chiusura della Convenzione" (paragonabile all'art. 1344
c.c.), che mira a cogliere le fattispecie che sfuggono alle norme di natura
specifica: in altri termini, l'art. 13 costituisce l'estremo ed eccezionale
rimedio apprestato per i casi in cui le modalità e gli scopi di un trust, i cui
effetti sfuggono alle previsioni degli artt. 15, 16 e 18, siano comunque
valutati dal giudice come ripugnanti ad un ordinamento che non conosca quella
particolare figura di trust, ma nel quale tuttavia il negozio esplichi in
concreto i suoi effetti. Il percorso logico da seguire è, dunque, il seguente:
i trust "interni" sorgono in conseguenza della scelta, da parte del
settlor, di una legge regolatrice idonea; la scelta è da ritenersi libera e
legittima ex art. 6 della Convenzione; secondo la regola generale di cui
all'art. 11, i trust istituiti in conformità alla legge determinata in base al
Capitolo II (e, quindi, anche i trust "domestici") devono essere
riconosciuti come tali; in forza degli artt. 15, 16 e 18, qualora i trust
riconosciuti producano effetti contrastanti con norme inderogabili o di
applicazione necessaria della lex fori o con principi di ordine pubblico del
foro, l'applicazione della legge straniera dovrà cedere il passo a quella della
legge interna; infine, ex art. 13, qualora un trust "interno",
regolato da legge straniera, produca effetti ripugnanti per l'ordinamento che
non siano colpiti dagli artt. 15, 16 e 18, è possibile negare tout court il
riconoscimento (il quale sarebbe, a tali condizioni, inesigibile).
E' dunque chiaramente esplicitata la portata bilaterale dell'art. 13 che, in
quanto norma di diritto internazionale privato, si rivolge allo Stato, affinchè
il suo legislatore possa decidere liberamente se intervenire con norma ad hoc,
ed anche, laddove lo Stato-legislatore non intervenga, in via residuale al
giudice, conferendogli quell': "estremo ed eccezionale rimedio apprestato
per i casi in cui le modalità e gli scopi di un trust, i cui effetti sfuggono
alle previsioni degli artt. 15, 16 e 18, siano comunque valutati dal giudice
come ripugnanti ad un ordinamento che non conosca quella particolare figura di
trust, ma nel quale tuttavia il negozio esplichi in concreto i suoi
effetti."[40]
L'art. 13 è per concludere un rimedio estremo e residuale rispetto all'art. 15
della Convenzione e le due norme, seppur complementari, corrono su binari
autonomi; mentre l'art. 15 riconosce al giudice del foro il potere di
disapplicare, con lo strumento sanzionatorio interno, il trust che, seppur
riconosciuto, risulti violare norme interne di rango pubblicistico o
imperative, l'art. 13 conferisce al giudice l'ulteriore potere di eliminare ex
tunc quel trust che, non sanzionabile con gli strumenti interni per carenza di
norma ad hoc (proprio come nel caso dei trust anticoncorsuali") risulti
ripugnante per gli effetti che produce nel foro.
E così argomentando, ben può altresì collocarsi l'art. 15, 2° della Convenzione
che impone al giudice di salvaguardare comunque, laddove è possibile, lo scopo
del trust ed i fini leciti che il disponente voleva perseguire, mentre alcun
favor trust può esprimersi per il "trust ripugnante" che, non riconosciuto
dal giudice, risulta giuridicamente inesistente per l'ordinamento interno.
Ne consegue come i trust liquidatori anticoncorsuali non possano ritenersi
semplicemente atti in frode ai creditori e quindi revocabili in forza del
combinato disposto di cui agli artt. 2901 c.c. e 15 lett. e) della Convenzione,
ma atti con effetti ripugnanti per il nostro ordinamento che il giudice nemmeno
riconosce ex art. 13.
5. Altre questioni: le sorti del negozio di liquidazione, la clausola di
"autodistruzione"
Pacifiche le sorti del negozio di dotazione patrimoniale che acceda ad un atto
istitutivo non riconosciuto dal giudice del foro. Afferma infatti la Corte che
quest'ultimo, in quanto causalmente collegato al primo, risulterà
inevitabilmente nullo ex art. 1418, 2° co, tutte le volte in cui l'atto
istitutivo risulterà non riconoscibile per l'ordinamento giuridico italiano. La
nullità dell'atto di dotazione è intuitiva in quanto, per effetto della
dichiarata inesistenza dell'atto principale, quello che gli è subordinato,
risulterà privo di causa e come tale, questa volta sì, ex lege,
irreversibilmente nullo.
Parte della giurisprudenza di merito poi aveva ritenuto che non fosse nullo
quel trust liquidatorio che avesse previsto la sua automatica cessazione (da
qui, il termine "autodistruzione") in caso di sopravvenuto
fallimento[41].
Oggi la Corte elimina la necessità di questo requisito, ritenendolo del tutto
ininfluente posto che, la declaratoria di non riconoscibilità del trust,
rendendo l'atto istitutivo giuridicamente inesistente, produrrà comunque la
diretta apprensione dei beni da parte della curatela fallimentare, sussista o
meno tale clausola.
6. Il confronto con il decreto tavolare del Tribunale di Belluno 16 gennaio
2014
La sentenza di legittimità commentata si inserisce quindi nel solco della
giurisprudenza di legittimità e merito che l'hanno preceduta, per tracciare il
legittimo percorso dei trust interni che si è chiamati a rispettare e, entro il
quale, si consegue la certezza che un trust meritevole di tutela potrà essere
riconosciuto, spiegare i suoi legittimi effetti e dunque, assicurare il
rispetto dei diritti manifestati il disponente con la sua istituzione.
Una brusca, quanto incerta deviazione, proviene dal decreto tavolare bellunese
del 16 gennaio 2014.
Le argomentazione in diritto esplicitate in questo decreto sono state tutte
ampiamente risolte e superate dalle - ormai oltre 200 - decisioni di merito[42]
che hanno seguito la prima pronuncia del tribunale bellunese del 2002[43], fra
le quali tutti i giudici tavolari che pacificamente oggi ordinano la
trascrizione sul libro fondiario della proprietà acquisita dal trustee per
diversi scopi e finalità. Non solo, ma come esplicitato all'inizio di questo
commento, prima della sentenza n. 10105 del 9 maggio 2014, la Corte di
legittimità si era già pronunciata sul trust interno.
Non rientra quindi fra i temi trattati da questo commento la replica alle
motivazioni giuridiche addotte dal tribunale bellunese, rinviando alla
giurisprudenza citata e, soprattutto, alla prassi attuale espressione
dell'evoluzione dei rapporti economico-sociali di cui una comunità è
portatrice, esprimendo concrete esigenze e legittime istanze che proprio il
diritto, e i suoi operatori, hanno il dovere di recepire e tutelare[44].
Certo è che se il trust interno non fosse stato sentito come strumento
necessario per soddisfare particolare esigenze portate dalla comunità sociale,
la sua diffusione, anche su impulso di giudici tutelari o curatele
fallimentari, non sarebbe stata dell'entità oggi raggiunta.
La riflessione che qui si vuole condividere è dunque di natura diversa.
La premessa è che qualsiasi tesi giuridica, ed a maggior ragione decisione
giurisdizionale, è meritevole di apprezzamento e considerazione a prescindere dalla
conclusione a cui porta.
Tuttavia, proprio perché ha effetti che si riverberano sulla collettività,
esprime un valore sociale e giuridico che la deve rendere in grado di far
acquisire, a chi la legga, una chiara rappresentazione della questione nei suoi
esatti contorni, per trarne un precedente che si fondi su una oggettiva
rappresentazione della realtà.
Solo con una chiara rappresentazione della realtà, si può infatti decidere, e
la decisione è strettamente personale, in quale ambito e sfera giuridica
collocare il provvedimento esaminato, la sua rilevanza rispetto all'ordinamento
giuridico, e farsene una concreta opinione a riguardo.
La decisione è quindi da intendersi anche come strumento di portata generale
per l'operatore del diritto e per il cittadino, per trarne un riferimento
completo, preciso e chiaro.
In altri termini, e per concludere, nulla sarebbe da obiettare a questa
decisione tavolare se, dopo aver correttamente rappresentato lo stato della
giurisprudenza ad oggi esistente sui trust interni, si fosse poi ad essa
distaccata, motivandone le ragioni.
Così però non può dirsi sia avvenuto e questo è il suo primo punto debole e
fortemente censurabile
Se una qualsiasi persona non particolarmente conoscitrice dei trust interni,
leggesse il decreto del Tribunale di Belluno 16 gennaio 2014, ne trarrebbe una
rappresentazione non coerente con la realtà e sarebbe indotta a non ricorrere
allo strumento, avvertendo chiaramente gravi margini di incertezza rispetto
all'ordinamento interno.
Si legge infatti nel provvedimento de quo che: "a fronte dei provvedimenti
giurisprudenziali richiamati dal reclamante a sostegno della propria tesi, le
questioni esaminate non possono considerarsi pacificamente risolte, in assenza
sul punto, di una decisione della giurisprudenza di legittimità, essendo
numerosi i provvedimenti che hanno escluso l'ammissibilità del trust interno
(v. Trib. Santa Maria Capua Vetere 5 marzo 1999 e 25 marzo 1999; Trib. Napoli 1
ottobre 2003; Appello Napoli 27 maggio 2004; Tribunale Velletri 29 luglio 2005
oltre al già menzionato provvedimento del Tribunale di Belluno 25 settembre
2005" .
All'inizio di questo commento, abbiamo precisato quali fossero le decisioni di
legittimità precedenti la sentenza 10105 del 9 maggio 2014, che hanno preceduto
temporalmente anche il decreto bellunese[45].
Contrariamente dunque a quanto si legge, la Corte di Cassazione già si era
pronunciata sul trust interno prima del gennaio 2014.
Di ciò il tribunale avrebbe dovuto darne conto, soprattutto allorquando ve ne
sono alcune che, chiarendo la natura giuridica del trust, come privo di
soggettività giuridica[46], o la sua legittimità, salvo verificarne caso per
caso l'interesse meritevole di tutela[47], ne confermano per principi generali
la compatibilità con l'ordinamento interno.
Lascia poi ancora più perplessi la giurisprudenza di merito citata nel decreto
tavolare, dalla quale il Tribunale verrebbero trarre ragioni a conforto della
sua tesi rigetto della domanda tavolare, rappresentata dai soli 6 provvedimenti
sopra citati.
Dimentica però il giudice tavolare di dire che tutti quei tribunali contrari
tra la fine degli anni 90 e i primi anni di questo secolo, hanno poi rivisto le
loro posizioni, tanto che oggi quegli stessi fori trascrivono nei pubblici
registri il diritto di proprietà del trustee senza nulla opporre[48]. Altresì
avrebbe dovuto dare atto della diversa posizione assunta all'unanimità dai
tutti i giudici tavolari italiani, nessuno escluso, i quali intavolano da anni
in favore del trustee sul libro fondiario[49], nonostante la posizione espressa
dal tribunale bellunese nel 2002.
Ma non è tutto perché anche il conservatore del registro delle imprese al quale
è soggetto il comune di Cortina d'Ampezzo trascrive sul pubblico registro la
proprietà della partecipazione sociateria acquisita dal trustee come chiunque
potrà agevolmente verificare
Anche di queste decisioni il giudice tavolare avrebbe dovuto dar conto.
E forse, per finire, il giudice avrebbe dovuto - anche solo - dare atto che il
trust interno oggi, non nasce solo nella prassi professionale, ma anche nelle
aule giudiziarie su istanze di curatori fallimentari, commissari giudiziali,
tutori di interdetti, amministratori di sostegno che ne fanno richiesta ai
relativi giudici i quali, per contro, puntualmente lo autorizzano senza contare
la numeora produzione dell'Agenzia delle Entrate, i provvedimenti in tema del
Ministero dei Beni Culturali e recentemente anche il Ministero delle
Infrastrutture[50].
Se questa è dunque è la prima censura che può ascriversi alla decisione in
commento, altra ne ricorre, persino più delicata.
Più volte è stato citato il precedente del Tribunale di Belluno del 22
settembre 2002, giudizio tavolare di II grado, a firma del medesimo estensore
di questo provvedimento; il caso di specie da cui trasse spunto è emblematico e
occorre illustrarlo.
Tizio istituì nel 2002 un trust di famiglia dove fece confluire un importante
patrimonio formato da più immobili: fra questi uno era situato a San Vito di
Cadore, l'altro a Cortina d'Ampezzo. San Vito, sempre nel bellunese, è soggetto
al regime della trascrizione su base personale vigente in tutta Italia, tranne
che nei territori del Nord Est, Cortina, invece, al regime tavolare.
La trascrizione tavolare ha efficacia costitutiva del diritto ed è rimessa
all'autorità giudiziaria, in sede di volontaria giurisdizione la quale,
ricevuta l'istanza di intavolazione del notaio rogante, se non ravvisa ragioni
ostative di diritto o in fatto, autorizza l'annotazione sul libro fondiario.
Solo con l'annotazione, dunque, la proprietà del bene immobile passa dal
cedente, al cessionario.
Il Conservatore di San Vito, serenamente trascrisse nel 2002 in favore del
trustee, contro il disponente mentre, al contrario, il giudice tavolare di
Cortina si rifiutò e il decreto tavolare del 22 settembre 2002 confermò in II
grado il rigetto.
Tizio ha dunque oggi un immobile in trust ed uno fuori e non può fare nulla
perché il decreto tavolare di secondo grado non è purtroppo impugnabile in
Cassazione.
Nella medesima situazione si trovano oggi il disponente e il trustee, la cui
richiesta di intavolazione è stata rigettata con questo provvedimento del
gennaio 2014, con la differenza che costoro oggi sono le sole persone in tutta
Italia che si vedono negato tale diritto.
Rammentando infine che se l'immobile ampezzano del disponente in questione non
fosse stato di sua personale proprietà ed invece avesse fatto parte del
patrimonio di una società la cui partecipazione fosse stata di proprietà del
disponente, col che oggetto del trasferimento fosse stata tale partecipazione,
il conservatore del locale registro delle imprese avrebbe pacificamente
iscritto la quota a nome del trustee
Non è forse incostituzionale questo?
Ma non è tutto.
La grave lacuna di questo decreto è aver del tutto dimenticato la legge
italiana di ratifica della Convenzione che, anche a voler ammettere che non
consenta il trust interno, comunque impone al giudice il rispetto del 2° co
dell'art. 15 che recita: "Qualora le disposizioni del precedente paragrafo
siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di
realizzare gli obiettivi del trust con altri mezzi giuridici".
Ad un recentissimo convegno, un autorevole studioso ha evidenziato la grande
importanza e portata di questo secondo comma che appresta una tutela rimediale
che travalica persino il trust, obbligando il giudice, per altro a ciò tenuto
anche dai nostri precetti interni di conservazione del negozio giuridico, a
salvaguardare comunque la volontà espressa dal disponente, con i mezzi
giuridici a sua disposizione[51].
E proprio la portata di questa norma non fu dimentica dal Tribunale di Velletri
quando, contestando il trust interno, ne preservò comunque gli effetti
dichiarando che nel caso di specie si trattava di contratto a favore di
terzo[52].
Di ciò non vi è traccia nel decreto bellunese.
Al contrario, un primo spunto sarebbe venuto dalla moderna lettura del
contratto di affidamento fiduciario, le cui norme costitutive si ravvisano nello
stesso codice civile, come ha sostenuto recentemente autorevole dottrina,
prontamente confermata dalla giurisprudenza di merito[53].
Un secondo spunto, a tutto voler concedere, vi sarebbe stato nell'art. 2645 ter
c.c. se non fosse che, con altro provvedimento - parimenti dubbioso - del
tavolare ampezzano di primo grado[54], questo giudice ha ritenuto che detta
norma abbia "limitato ambito di applicazione destinata
alla costituzione di patrimoni destinati alla tutela di interessi riferibili al
settore sociale nelle sue varie applicazioni (ricerca scientifica, cura di
persone disabili, tutela e promozione della cultura dell'ambiente e
simili)"
All'evidenza così certo non è, bastando leggere l'art. 2645 ter c.c. ma
tuttavia, ed ancora, se anche questa norma si ritenesse non applicabile, non
certamente perché si riferisce solo a persone a disabili, ma più
legittimamente, ad esempio, per carenza di forma dell'atto (posto che tale
articolo richiede l'atto pubblico) rimarrebbe la strada del contratto a favore
di terzo, già indicata dal citato tribunale di Velletri[55].
Nulla di tutto ciò.
Evidentemente le ragioni propulsive del fine perseguito dal tribunale
bellunese: delegittimare il trust interno hanno fatto dimenticare le buone
ragioni ed i diritti che andavano invece adeguatamente preservati.
Con buona pace della certezza del diritto e dell'art. 2907 c.c.
[1] Cass. 18 dicembre 2004 n.48708, in www.il-trust-in-italia.it; Cass. 13 giugno 2008
in T&AF, 2008, 522; Cass. 30 marzo 2011 n.13276 in T&AF 2011, 408;
Cass. Sez. V penale 30 marzo 2011 in www.il-trust-in-italia.it;
Cass. 22 dicembre 2011 n. 28363, in T&AF 2013, 280; Cass, Sez. Un. 15 marzo
2012 n. 4132 in tema di giurisdizione del giudice italiano, in T&AF, 2013,
522; Cass. 28 giugno 2012, in T&AF, 2013, 45; Cass.19 novembre 2012 n.
20254: in T&AF, 2013, 279; Cass. Pen. 5 giugno 2013, in T&AF, 2013,
621; Cass. 16 settembre 2013 n. 37848 in tema di trattamento tributario della
posizione beneficiaria, in T&AF, 2014, 174; Cass. 8 ottobre 2013 n. 41670,
in T&AF, 2005, 60.
[2] Con "trust interno" si intende la tipologia di trust qui in esame
ed in generale il trust i cui elementi costitutivi tutti (cittadinanza e
residenza del disponente e dei beneficiari, luogo ove si trovano i beni in
trust, luogo ove la finalità o lo scopo del trust devono essere attuati)
rimandano al territorio dello Stato italiano ad eccezione della legge
applicabile al trust specifico che, in ragione della mancanza di legge italiana
sul trust, non può che essere una legge straniera. Così M.LUPOI in Trusts,
Milano, 2001, 546 e ss
[3] Cass. 22 dicembre 2011 n. 28363 cit. con nota di A.TONELLI
[4] Cass.19 novembre 2012 n. 20254. cit
[5] Cass. 18 dicembre 2004 n.48708 cit.
[6] Trib. Bologna 9 gennaio 2014 e Trib Trieste 22 gennaio 2014 in questa
rivista con nota di A.TONELLI e nello stesso senso v. anche Trib. Bologna 26
marzo 2014 www.il-trust-in-italia.it e Tribunale di Reggio
Emilia 14 marzo 2011 in T&AF, 2011, 630 e in questa rivista
[7] Ci riferiamo alla Convenzione sulla legge applicabile ai trust ed al loro
riconoscimento, adottata a L'Aja il 1° luglio 1985 ed integralmente ratificata
e resa esecutiva dalla Stato italiano con L. 16 ottobre 1989 n. 364 entrata in
vigore il 1° gennaio 1992
[8] In questo senso si era chiaramente espresso il giudice triestino nel
decreto 22 gennaio 2014 cit. Analoghe parole sono state spese da M. LUPOI,
all'incontro di studi tenutosi in Ravenna il 10 ottobre 2014, Il trust e le sue
concrete applicazioni, per i cui atti vd. www.fondazioneforenseravennate.it
[9] In questo senso si era già espresso il Trib. Belluno 22 settembre 2002, a
firma del medesimo estensore del provvedimento bellunese qui citato, in
T&AF, 2003, 255.
[10] Fin dai suoi primi scritti, M. LUPOI, definì lo schema di trust enunciato
dall'art. 2 della Convenzione come "trust amorfo" in quanto privo
degli elementi fondanti la fattiscpecie, su tutti, l'obbligazione fiduciaria
che lega fra loro i beneficiari, al trustee e al programma negoziale alla cui
esecuzione il trustee è "fiduciariamente preposto".
[11] Fra le più recenti, Cass. 20 marzo 2012 n. 4372 in Giudice di Pace, 2012,
4, 303 con nota di PALMERI; Cass. Sez. III, 08/05/2006, n. 10490 in Corriere
Giur., 2006, 12, 1718 nota di ROLFI. La Cass. SS. UU. 11 novembre 2008, n.
26972, in Danno resp. 2009, 4 ss., intervenuta in tema di danno esistenziale e,
richiamando il concetto della causa concreta, aveva stabilito come fosse
risarcibile anche il danno non patrimoniale derivante da fatti che avevano leso
interessi di natura non patrimoniale ex art. 1174 c.c. Detti interessi
avrebbero potuto, secondo le Sezioni Unite, essere rinvenuti proprio cercando
la causa concreta posta a base del negozio di specie. In dottr. F. GALGANO, Il
contratto, Padova 2007, 143 ss; SACCO, Il contratto, Torino 2004, 792 ss.;
ROPPO, Op cit., 369 ss.. Non a caso però, proprio il concetto della funzione
economico individuale della causa si trae dall'esperienza giuridica dei paesi
di common law, che tratta la questione facendo riferimento alla cd.
consideration del contract, e fra per i primi scritti in tema, vd. GORLA, Il
contratto, I, Milano 1955.
[12] Ci si riferisce alla nota discussione che ha visto quali attori
principali, pro trust interni, M. LUPOI e A. GAMBARO, e contra, dall'altro F.
GAZZONI, C. CASTRONOVO, G. BROGGINI in cui scritti in ordine cronologico sono
stati: M. LUPOI, Lettera ad un notaio curioso di trust, in Riv. Not, 1998, 343
e ss; C. CASTRONOVO, Il trust e "sostiene Lupoi",in Europa e dir.
Priv., 1998, I, 441; G. BROGGINI, Trust e fiducia nel diritto internazionale
privato, in Europa e dir.priv., 1999,I,399; F. GAZZONI, Tentativo
dell'impossibile (osservazioni di un giurista non vivente su trust e
trascrizione), in Riv. Not., 2001,1, 11; M. LUPOI, Lettera ad un notaio
conoscitore dei trust, in Riv. Not., 2001, 5, 1159; F. GAZZONI, In Italia tutto
è permesso anche quello che è vietato,(lettera aperta a Maurizio Lupoi sul
trust ed altre bagatelle), in Riv. Not., 2001, 5, 1247; A. GAMBARO, Notarella
in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della
XV Convenzione de L'Aja, in Riv. Dir. civ, 2001, 2, 257; F. GAZZONI, Il
cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, in Riv. Not.,
2002, 5, 1107; A. GAMBARO, Un argomento a due gobbe in tema di trascrizione del
trustee in base alla XV Convenzione de L'Aja, in Riv. dir. civ, 2002, 6, 919;
F. GAZZONI, Il cammello la cruna dell'ago e la trascrizione del trust, in Rass.
Dir. Civ., 2003, 4, 953. Molteplici le eccezioni avanzate da questa dottrina.
Fra esse, le più significative riguardavano la segregazione dei beni in trust
rispetto al patrimonio personale del trustee intesa quale effetto minimo
richiesto dalla stessa Convenzione sulla legge applicabile ai trust e al loro
riconoscimento (artt. 2 e 11). Gli effetti della segregazione sono peculiari,
con particolare riguardo all'art. 2740 cc, norma di ordine pubblico con
esplicita riserva di legge, tanto che ne è derivato un acceso dibattito,
ampiamente riportato nelle riviste giuridiche. La parola fine a questa diatriba
è stata posta dalla giurisprudenza italiana formatasi, dopo la prima importante
decisione del Tribunale di Bologna 18 aprile 2000 cit. fino ai giorni nostri,
con le decisioni riportate in nota precedente. Fra queste, è indubbio che una
delle più importanti sia rappresentata dalla nota sentenza del Tribunale di
Bologna 1 ottobre 2003 cit. che, in oltre 50 pagine di motivazione, destituisce
di fondamento ogni assunto della citata dottrina contraria, evidenziando come
non ricorra alcuna violazione del citato art. 2740 cc.
[13] La sussistenza di una giurisprudenza attestata e conforme in relazione ad
una specifica fattispecie è un valore che non può essere facilmente disatteso
dal giudice e dall'interprete. In dottr. così scriveva INZITARI, Obbligatorietà
e persuasività del precedente giudiziario, in Contr. Impr, 1988, 527 e ss
[14] Centinaia le decisioni giurisprudenziali ad oggi esistenti in materia di
trust interni: da quelle che ne hanno confermato la legittimità rispetto
all'ordinamento giuridico italiano, ai decreti di giudici tutelari di tutta
Italia che ne hanno autorizzato l'istituzione in favore di disabili, minori o
persone bisognevoli di supporto ed aiuto, ai decreti di giudice delegati che
hanno autorizzato il curatore fallimentare ad istituire un trust per la
liquidazione di parte dell'attivo fallimentare o che hanno omologato concordati
preventivi con programmi di liquidazione attuati anche per il tramite del
trust, ai procedimenti di separazione o divorzio che si sono conclusi
prevedendo l'istituzione di un trust in favore della famiglia separata. Per una
completa rassegna vd. www.il-trust-in-italia.it e T&AF dal 2000
[15] Proto Pisani Lezioni di diritto processuale civile , IV, Napoli, 2002, p.
504. Sulla funzione di nomofilachia e sulla natura della Corte di Cassazione vd
Calamandrei, Opere giuridiche a cura di Cappelletti, vol. VI, VII e VIII,
Morano, 1976 - 1979
[16] Trib. Belluno 22 settembre 2002 cit.
[17] Tr. Santa Maria Capua Vetere 14 Luglio 1999 in T&AF, 2000, 251 e ss
(Rifiuto di iscrizione del trasferimento di quote sociali al trustee; Tr.
Belluno decreto 25 Settembre 2002 in T&AF, 2003, 255 e ss; Tr. Napoli 1
Ottobre 2004 in T&AF, 2004, 74 e ss (Trust auto-dichiarato e ambito della
Convenzione de L'Aja); C. A. Napoli 27 Maggio 2004 in T&AF, 2004, 570 e ss;
Tr. Velletri 20 giugno 2005 in T&AF, 2005, 577.
[18] Oggi infatti si trascrive pacificamente nella Conservatoria dei Pubblici
Immobiliari o del Registro di Napoli, Santa Maria Capua Vetere e in tutti le
circoscrizioni territoriali dell'Italia del nord-est soggetta al regime
tavolare ad eccezione di Belluno.
[19] Ci riferiamo a quella serie di decisioni inizialmente provenienti dal
Tribunale di Milano: 22 ottobre 2009, in T&AF, 2010, 77 e ss; 30 giugno
2009 in T&AF, 2010, 80 e ss; 29 ottobre 2010 in T&AF, 2011, 146 e ss; C
di Appello di Milano 29 ottobre 2009 in T&AF, 2010, 274 e ss e di
Alessandria, 24 novembre 2009 in T&AF, 2010, 171 e ss.
[20] Anche solo questa finalità dimostra la totale illegittimità dei trust in
questione. Il regime di par condicio, gravemente penalizzante per il creditore
è infatti un'eccezione rispetto al percorso civilisticamente previsto per il
pagamento dei creditori e, come tale, il legislatore lo consente solo
nell'ambito strettamente pubblicistico del processo fallimentare che assicura
il controllo dell'autorità giudiziaria e la liquidazione dell'attivo da parte
di un pubblico ufficiale: il curatore. In ambito privatistico, non è certamente
possibile per il debitore arrogarsi il diritto di decidere di pagare i suoi
creditori in regime di par condicio, dovendo invece seguire le normali regole
che ci consegna il codice civile.
[21] Per ostacolare questi trust, iniziò dunque una prassi, il cui primo
precedente è del Trib. di Bolzano 23 luglio 2011 in T&AF, 2012, 178, con la
quale si ricorse alla cancellazione del provvedimento di cancellazione della
società dal registro delle imprese al fine di evitare la decorrenza dell'anno
che avrebbe impedito lo spirare del termine che precludeva il fallimento della
società cancellata.
[22] Così si erano pronunciati S. BARTOLI, Due sentenze di beni societari
costituiti in trust, in Corriere di Merito 2010, 4, 388; T. MANFEROCE, Trust e
procedure concorsuali, Relazione tenuta presso il Consiglio Superiore della
Magistratura all'incontro di studio sul tema I c.d. Patrimoni di scopo: fondo
patrimoniale, patrimonio destinato a uno specifico affare e "trust"
tra diritto interno e modelli stranieri Roma 11 - 13 ottobre 2010; M ATZORI,
Riflessioni sui trust liquidatori, in Moderni sviluppi dei Trust, Milano, 2011,
549, Quaderni di T&A, n. 11; F. GALLUZZO, "Validità di un trust
liquidatorio istituito da una società in stato di decozione", in Corr.
Giur., 2010, 527 e ss.; D. GALLETTI, "Il trust e le procedure concorsuali,
una convivenza subito difficile", Nota a: Trib. Milano, 16 giugno 2009, in
Giur. Comm., 2010 (5.2 2010), p. 895-910
[23] T. MANFEROCE cit.
[24] Così si espresse il Trib. Bologna 16 giugno 2003 quando, fra i primi in
Italia, dovette decidere circa la iscrizione di quote societarie a nome del
trustee sul registro delle imprese in Notariato, 2001,1, 45, con nota di A.TONELLI
[25] Così fu il caso che diede luogo alla sentenza del Trib. Bologna 1 ottobre
2003 in T&AF, 2004, 62
[26] Come ha stabilito il Trib. Bologna 9 gennaio 2014 cit.
[27] Ad esempio potrebbe risultare non riconoscibile il trust istituito dal
genitore del minore, con beni a questo appartenenti, per sottrarne la gestione
al controllo del giudice tutelare
[28] Anche nei suoi primi scritti la dottrina più autorevole accendeva una
lampada sulla residualità del trust, rispetto ai negozi di diritto civile, sottolineando
come la legittimità del primo si sarebbe conseguita tutte le volte in cui il
fine perseguito dal disponente, non sarebbe stato perseguibile con i secondi: M
LUPOI, Trusts, Milano, 2000, 615; M. DOGLIOTTI A.BRAUN, Il trust nel diritto
delle persone e della famiglia, Milano 2003; S.M. CARBONE, La scelta della
legge regolatrice, in T&AF, 2000, 3
[29] L'esempio di scuola era la famiglia di fatto che, potendo legittimamente
perseguire interessi di protezione patrimoniale a vantaggio dei suoi componenti,
come la famiglia legittima, non riusciva a trovare alcuno strumento idoneo
nello strumentario civilistico, men che meno nel fondo patrimoniale, ammesso
solo per la famiglia che si fondi sul matrimonio. In tema vd. A TONELLI, Trust,
famiglia di fatto ed interesse meritevole di tutela, all'incontro di studi Il
trust e le sue concrete applicazioni, in www.fondazioneforenseravvenate.it cit.
[30] Trib Trieste 23 settembre 2005 in T&AF, 2006, 83
[31] Unica eccezione in giurisprudenza viene dal Trib. Urbino 11 novembre 2011
in T&AF, 2012, 406 che, rigettando un ricorso cautelare, sostenne che il
trust è riconoscibile nel nostro ordinamento in forza della recessività del
principio del numero chiuso dei diritti reali e sulla scorta delle altre
ipotesi di segregazione patrimoniale conosciute al nostro ordinamento e della
progressiva erosione del principio di cui all'art. 2740, comma 2, cod. civ.
Ritenne dunque i trust interni libera espressione dell'autonomia negoziale
stabilita dall'art. 1322 cod. civ. e, in applicazione di tale principio,
affermò il diritto di ricorrere al trust anche in presenza di idoneo strumento
civilistico capace di adempiere alla medesima. Ribadì infine l'obbligo per il
giudice di valutare la validità di un trust facendo esclusivo riferimento alla
causa esplicitata al fine di verificare se fosse diretta a realizzare interessi
meritevoli di tutela
[32] Trib. Bologna 9 gennaio 1024 e Trieste 24 gennaio 2014 citt.
[33] Trib. Napoli 3 marzo 2014 in www.il-trust-in-italia.it; Trib.
Bolzano 8 aprile 2014 in T&AF, 2014,49; Trib. Milano 22 ottobre 2009 in
T&AF, 2010,77; Trib. Milano 17 luglio 2009 in T&AF, 2010,80. In dottr.
P. LICCARDO scrive in proposito: "La meritevolezza e/o liceità del trust
dipendono in gran parte dalla meritevolezza e/o liceità del piano e/o
dell'accordo di ristrutturazione stipulato o raggiunto, con diversità di
approccio interpretativo a seconda della condizione di tipicità, o di parziale
tipicità o di atipicità riconosciuta all'accordo medesimo; sono del pari
evidenti i riflessi negativi prodotti sull'atto segregativo dalla nullità
dell'accordo laddove ad esempio realizzi la dolosa distrazione di beni
destinati a far parte di una procedura fallimentare ormai ineludibile " in
Il Trust nelle procedure concorsuali, in Il trustee nella gestione dei
patrimoni, a cura di D. ZANCHI, Torino, 2009,
[34] Il Trib. Milano 22 gennaio 2013, in T&AF, 2013, 537, ha in particolare
revocato con provvedimento di urgenza il trustee di un trust liquidatorio,
privo di guardiano, che aveva omesso di portare avanti alcun concreto programma
liquidatorio, concedendo al contrario finanziamenti a suo favore, utilizzando
gli immobili in trust senza corrispettivo e, soprattutto, omettendo qualsiasi
rendiconto ai creditori che ne avevano fatto richiesta.
[35] Così P. LICCARDO cit.
[36] Trib. Napoli 3 marzo 2014 cit. Trib. Milano 22 gennaio 2013 cit.; Trib.
Milano 27 maggio 2013 in T&AF, 2014, 46
[37] L'art. 13 della Convenzione così recita: "Nessuno Stato è tenuto a
riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della
legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del
tustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l'istituto del
trust o la categoria del trust in questione"
[38] Diversamente opinando dalla Corte, il Trib Bologna 9 gennaio 2014 cit. ha
decretato la non riconoscibilità di un trust interno, per mancanza dei
requisiti minimi di cui all'art. 2 della Convenzione, ex art. 13, così come
questa lettura della norma, intesa quale norma di chiusura e quindi rimediale
per il giudice che voglia eliminare gli effetti di un trust
"ripugnante" per l'ordinamento interno, fu data anche dalla prime
pronunce in tema di cui al Trib. Bologna 1 ottobre 2003 e 16 giugno 2003 cit.
[39] Sono le parole della sentenza del Trib. Bologna 1 ottobre 2003 cit.
[40] Trib Bo 1 ottobre 2003 cit.
[41] Il Trib. Milano 29 ottobre 2010, in T&AF, 2011, 146 aveva stabilito
che il trust liquidatorio dovesse contenere clausole che ne limitavano
l'operatività in caso di insolvenza conclamata, ritenendo nullo il trust che
non prevedesse, in caso di fallimento, la consegna dei beni al curatore in
quanto, proprio la mancanza di tale previsione, veniva ritenuta unico motivo
del trust. Nello stesso senso, Trib Mantova 25 marzo 2011, in T&AF, 2011,
529.
[42] Per queste decisioni si rinvia all'archivio completo in www.il-trust-in-italia.it
[43] Ci riferiamo al Trib. Belluno 22 settembre 2002 cit.
[44] Scriveva in proposito autorevole dottrina processualistica: "Non c'è
dubbio intanto che non si possa identificare il diritto in senso oggettivo col
testo delle leggi; non certamente con le relative tavole (cartacee se non più
bronzee ma neanche con le parole incise). Le contingenze della nostra vita
sociale sono così infinitamente varie e complicate che non è neanche pensabile
di prevederle puntualmente per fornire a ciascuno e in ciascun momento una
regola legale già pronta (già..sfornata) per tutti i casi. I testi non possono
essere concepiti e formulati in via di previsione normativa se non scomponendo,
per così dire, a questo effetto il tessuto continuo del divenire, in aspetti o
momenti elementari, astrattamente riducibili a categorie più o meno generali,
aspetti o momenti che si potranno poi ravvisare avverati nella realtà pratica
in diverse combinazioni fra loro. A parte ciò bisogna ricordare che lo Stato
interviene ad innestare o imprimere il diritto su situazioni, rapporti o
vicende di cui esso non determina a suo libito lo schema. Che anzi, di solito,
lo rileva dall'osservazione da ciò che più spesso accade così come determinato
da esigenze ed esperienze tecniche, non di rado varianti nel tempo e da fattori
normativi di altro ordine o di più remote origini che, più o meno, continuano
ad operare. Nessuno si sognerà per esempio che sia una creazione del
legislatore l'ordinamento o la famiglia. Di qui il carattere estremamente
frammentario ellittico e lacunoso dei dettati legislativi, i rinvii anche
espressi ma molte volte quasi inavvertiti ad altre fonti, e la necessità di
ricorrere spesso all'analogia diretta o indiretta, senza contare la difficoltà
che sorgono dall'accavallarsi delle leggi dello Stato diverse e successive nel
tempo. Di qui la necessità del diturno ed incessante travaglio
dell'interpretazione collettiva, a cui quotidianamente tutti più o meno
concorriamo pratici e tecnici, esperti, studiosi e scienziati, a cui concorrono
come vedremo i giudici combinando, integrando, rielaborando, volgarizzando
quando occorre. Ma neanche per questa via il pensiero normativo arriverà mai a
cristalizzarsi in un corpus iuris esauriente e definitivo che ci offra per ogni
evento la sua regola già elaborata, onde non resti che applicarla
meccanicamente. Anche le illusioni giustinianee della constitutio de
confirmatione Digestorum, sono svanite da un pezzo. Il travaglio interpretativo
per aggiornare ed approssimare alla realtà della vita le formule preconcpeite
ed astratte continua e continuerà senza posa. E non toglie e non toglierà che
di fronte al caso pratico occorra pure sempre ricomporre ed adeguare quelle
formule alle caratteristiche della particolarità del fatto e cioè come norma
del caso concreto. Così siamo tenuti a fare noi singoli, nella nostra vita,
così sono tenuti a fare tutti gli uffici dello Stato nell'esercizio delle loro
funzioni, quando ci si debba uniformare, noi e loro, al diritto in senso
oggettivo, così sono tenuti a fare, come vedremo, anche i giudici (uffici e
organi giurisdizionali) quando debbano intervenire a garantirne l'osservanza o
reagire contro inosservanze che si siano già avverate". E. REDENTI,
Diritto processuale civile, I, Milano, 1951.
[45] vd. note da 1 a 5
[46] Corte di Cassazione 19 novembre 2012 n. 20254 che dichiara:
"l'istituzione di un trust non configura abuso del diritto:
[47] Corte di Cassazione 22 dicembre 2011 n. 28363
[48] Dopo infatti questi provvedimenti: Trib Chieti 10 marzo 2000 Trib Bologna
4 aprile 2000; Trib. Bologna 16 giugno 2003; Trib Verona 8 gennaio 2003, e gli
ultimi che lo hanno ulteriormente ribadito: Trib. Torino 10 febbraio 2011;
Trib. Pesaro 9 marzo2009; Trib Frosinone 10.01.2014, oggi i conservatori
trascrivono senza riserve, compreso il Trib di Santa Maria Capua Vetere e di
Napoli citt. Lo stesso può dirsi per il trust autodichiarato, la cui
legittimazione è stata riconosciuta, fra gli altri, da: Trib. Parma 21 ottobre
2003; Trib. Cagliari 4 agosto 2008;
[49] Questi i primi decreti tavolari che, diversamente ritenendo rispetto al
Trib. Belluno 22 settembre 2002, hanno intavolato a nome del trustee: Trib.
Trento Giudice Tavolare 20.07.04; Trib. Bressanone, Giudice Tavolare 11.09.06;
Trib. Trento Giudice Tavolare 25.01.06; Trib. Rovereto Giudice Tavolare
28.10.05; Trib. Trieste Giudice Tavolare 23.09.05 afferma la legittimità dei
trust interni ed ordina l'intavolazione del diritto di proprietà su un'area
trasferita al trustee per realizzare il programma negoziale volto alla costruzione
di un asilo nido da parte del Comune di Duino Aurisina, disponente del Trust;
Trib. Trento Giudice Tavolare 07.04.05; Trib. Trieste Giud. Tavolare 17.07.2009
ordina l'intavolazione di un diritto di proprietà trasferito dal trustee al
disponente in seguito all'atto di dichiarazione di cessazione di un trust di
scopo (cessato in quanto lo scopo è stato perseguito, ossia è stato costruito
l'asilo nido di cui al sub 6);
[50] Per i relativi provvedimenti vd. www.il-trust-in-italia.it
[51] così F. BOCCHINI, Applicazioni pratiche dei Trust interni, Napoli, 28
ottobre 2014
[52] Il Trib. Velletri 29 luglio 2005 in T&AF, 2005, 577 con nota di G.
FANTICINI
[53] M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014 e in giur:
Trib. Civitavecchia 5 dicembre 2013 in T&AF, 2014, 299 che autorizza il
soggetto invalido, rappresentato dall'amministratore di sostegno, a
sottoscrivere un contratto di affidamento fiduciario a suo favore. Trib Genova
30 gennaio 2014 che autorizza, con efficacia immediata, l'amministratore di
sostegno a stipulare in nome e per conto del soggetto amministrato la
dichiarazione di voler profittare del contratto di affidamento fiduciario a suo
favore.
[54] Decreto tavolare dell'Ufficio tavolare di Cortina d'Ampezzo n. 23 del 23
marzo 2006 inedito
[55] In questo senso I Valas, residualità e competitività del trust rispetto ai
negozi di diritto civile, Convegno Napoli 28 ottobre 2014 cit.
Scarica Articolo PDF