Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23442 - pubb. 01/04/2020
Aumento di capitale deliberato in epoca anteriore al fallimento, clausola compromissoria ed esecuzione coattiva
Cassazione civile, sez. VI, 25 Febbraio 2020, n. 4956. Pres. Scaldaferri. Est. Dolmetta.
Società di capitali - Aumento di capitale - Deliberato in epoca anteriore al fallimento - Clausola compromissoria - Esecuzione coattiva dell’obbligo di eseguire i conferimenti dovuti
L’aumento di capitale deliberato in epoca anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento, così come la richiesta di esecuzione dello stesso posta in essere in sede fallimentare, sono da ritenere compresi nell’ambito di applicazione della clausola compromissoria - contenuta nello statuto sociale - concernente i «rapporti sociali».
Il comma 2 della norma dell’art. 2466 cod. civ., che concerne l’esecuzione coattiva dell’obbligo di eseguire i conferimenti dovuti, si applica anche nel caso di scioglimento o fallimento della società a responsabilità limitata, secondo quanto emerge dalla disposizione dell’art. 2491, comma 1, cod. civ.
La clausola arbitrale, eventualmente contenuta nello statuto della società, non si applica nel caso in cui il socio moroso contesti il diritto del curatore di incamerare in via definitiva le somme da questi trattenute in ragione dell’art. 2466, comma 3, cod. civ., non essendo arbitrabili le pretese fatte valere dai soci verso l’amministrazione fallimentare.
Nel caso in cui, in luogo del procedimento speciale previsto dall’art. 2466 cod. civ., il curatore avvii l’esecuzione forzata ex art. 150 l. fall., la richiesta di esecuzione dell’aumento di capitale sfociata nel decreto ingiuntivo non riguarda la materia del credito del socio verso la società fallita, bensì il credito della fallita nei confronti del socio.
Il diritto della società al versamento dei conferimenti dovuti dai soci morosi è da ritenere «disponibile» ai sensi degli artt. 806 e 808 cod. proc. civ., posto che la norma dell’art. 2466, co. 3, cod. civ. abilita l’amministratore, al ricorrere di determinati presupposti, a ridurre il capitale sociale. (Lucrezia Cipriani) (riproduzione riservata)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea - Presidente -
Dott. MARULLI Marco - Consigliere -
Dott. TERRUSI Francesco - Consigliere -
Dott. CAIAZZO Rosario - Consigliere -
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26458-2018 proposto da:
C.R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE, 161, presso lo studio dell'avvocato ANGELO ANGLANI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ELENA SANTORO, FABIO MARELLI;
- ricorrente -
contro
FALLIMENTO (*) SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona dei curatori, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato PIETRO GOBIO CASALI;
- resistente -
per regolamento di competenza avverso la sentenza n. 528/2018 del TRIBUNALE di MANTOVA, depositata l'11/07/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/11/2019 dal Consigliere Dott. ALDO ANGELO DOLMETTA;
lette le conclusioni scritte del PUBBLICO MINISTERO in persona del SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE DOTT. LUISA DE RENZIS che visti gli artt. 43,47 e 380 ter c.p.c., chiede alla Corte di accogliere lo stesso ricorso e per l'effetto cassare l'impugnata sentenza del Tribunale di Mantova ed accertare e dichiarare la competenza dell'arbitro unico di cui all'art. 24 dello statuto della srl (*) a decidere la controversia oggetto del giudizio RG 4715/2016.
FATTI DI CAUSA
1.- Dietro proposta del curatore, il giudice delegato al fallimento della s.r.l. (*) in liquidazione ha emesso, ai sensi dell'art. 150 L. Fall., decreto ingiuntivo nei confronti di C.R.F. per l'immediato versamento delle somme che questi, quale socio, ancora doveva in relazione alla delibera di aumento del capitale assunta dalla società poi fallita nel dicembre 2010.
L'ingiunto ha presentato opposizione ex art. 645 c.p.c. avanti al Tribunale di Mantova, eccependo l'incompetenza della autorità giudiziaria ordinaria in ragione di apposita clausola contenuta nello statuto della società; l'intervenuta prescrizione e comunque la decadenza della pretesa azionata; la sussistenza di una "revoca implicita" della delibera di aumento; la compensazione "dei versamenti derivanti dalla delib. 20.12.2010 con quanto versato da C. in esecuzione della delib. di aumento del 27.4.2011".
2.- Con sentenza depositata l'11 luglio 2018, il Tribunale di Mantova ha rigettato l'opposizione proposta dall'ingiunto, affermando la propria competenza, respingendo inoltre le ulteriori eccezioni preliminari e pure i rilievi di merito ivi formulati.
3.- Per quanto qui interessa, la sentenza ha ritenuto, in particolare, che la controversia di cui all'opposto decreto ingiuntivo non rientrava nell'ambito della clausola compromissoria contenuta nello statuto della società fallita, secondo la quale "tutte le controversie aventi a oggetto rapporti sociali... saranno risolte mediante arbitrato rituale secondo diritto in conformità al regolamento della camera arbitrale... da un arbitro unico nominato dalla camera arbitrale" (art. 24).
Il fallimento - così si è osservato - "ha agito in via monitoria al fine di ottenere l'esecuzione dei versamenti ancora dovuti dai soci in forza della delib. 20.10.2012": perciò, la pretesa in tal modo azionata "non trova la propria fonte nello statuto sociale, nè si può affermare che, mediante l'espletata azione in via monitoria, il curatore abbia inteso "subentrare" nel rapporto contrattuale ovvero nello statuto della società"; la "causa petendi del credito fatto valere dal fallimento infatti trova la propria fonte nella delibera che ha disposto l'aumento di capitale, poi non versato".
4.- C.R.F. ha impugnato la sentenza con ricorso per regolamento facoltativo di competenza ex art. 43 c.p.c., in relazione alla parte in cui ha escluso la competenza arbitrale riguardo alla controversia di cui all'opposto decreto ingiuntivo.
Il fallimento ha depositato una "memoria difensiva", ai sensi dell'art. 47 c.p.c., u.c..
Entrambe le parti hanno anche depositato memorie.
Ragioni della decisione
5.- Il ricorrente assume "violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, dell'art. 83 bis L. Fall., e dell'art. 808 quater c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 e/o n. 4".
A suo avviso, la sentenza ha commesso, in particolare, due distinti errori.
Il primo consiste nell'affermare che il curatore non sarebbe subentrato nel rapporto sociale. In realtà, l'obbligo di effettuare i versamenti per l'aumento di capitale sottoscritto - si annota - non può che derivare dal rapporto sociale: "il curatore si pone nella medesima posizione sostanziale e processuale del fallito ed esercita il diritto che era già sorto in capo alla società prima della dichiarazione di fallimento.
Il secondo errore sta nell'affermazione per cui la pretesa del fallimento troverebbe la propria fonte non già nello statuto, bensì nella delibera di aumento. Il giudice sovrappone e confonde - così si censura - il "piano inerente allo statuto sociale, ossia l'atto che contiene le norme relative al funzionamento della società", con il "plano relativo alla delibera di aumento di capitale, che si pone quale atto organizzativo della società con cui si estrinseca una modifica statutaria".
6.- Nella memoria ex art. 47 c.p.c. il fallimento - nel riprendere gli argomenti formulati dalla sentenza del Tribunale mantovano - rileva inoltre che l'"art. 150 L. Fall. impone al curatore di chiedere l'ingiunzione al giudice delegato e all'ingiunto di proporre opposizione ai sensi dell'art. 645 c.p.c., per cui non può esservi alcuna competenza arbitrale: si tratta di competenza inderogabile ed esclusiva". Ancora aggiunge la memoria che il "curatore non è un socio che ha sottoscritto il contratto sociale contenente la clausola arbitrale, ma un terzo al quale non è opponibile, in quanto egli non subentra nell'atto costitutivo": il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34 comma 3, "prescrive che la clausola compromissoria negli atti costitutivo societari "è vincolante per la società e per tutti i soci", non per i terzi diversi dai soci".
7.- Il ricorso va accolto, in conformità a quanto deciso dalla pronuncia di Cass., 30 settembre 2019, 24444 con riferimento a controversia analoga alla presente, secondo i termini e nei limiti qui di seguito illustrati.
8.- Secondo la prospettazione fornita dal curatore fallimentare, la fattispecie che viene qui in esame propone quali dati di base: in primo luogo, un aumento di capitale deliberato dall'assemblea in epoca anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento della società e per un certo periodo di tempo rimasto (almeno per in parte) non eseguito; in secondo luogo, una richiesta di esecuzione dello stesso nei confronti di C.R. (assunto quale socio), posta in essere in sede fallimentare e poi sfociata nel decreto ingiuntivo emesso dal giudice delegato. Rispetto a questi dati (che assume in thesi) il ricorrente predica l'applicazione della clausola compromissoria contenuta nello statuto sociale (art. 24).
Nella sua delineazione strutturale di base, dunque, la fattispecie in oggetto integra gli estremi di un'ipotesi tipica di contratto pendente alla data della dichiarazione di fallimento. Come tale, per sè idonea a ricadere nell'ambito applicativo dell'art. 83 bis L. Fall.: norma in effetti ritenuta comunemente applicabile non solo nel caso di arbitrato pendente al tempo della sentenza dichiarativa, ma pure in quello in cui a risultare pendente è il contratto che contiene la clausola compromissoria.
Si tratta, pertanto, di verificare se i contenuti della clausola compromissoria, di cui all'art. 24 dello statuto della società poi fallita, siano effettivamente pertinenti alla fattispecie appena indicata, nonchè, e distintamente, se l'applicazione di questa clausola a tale fattispecie non incontri i limiti dei diritti indisponibili e degli specifici divieti di legge, di cui alle norme dell'art. 806 c.p.c., comma 1 e del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 3.
9.- Analizzando più da vicino i termini proposti dalla fattispecie concreta, è da notare adesso che, secondo quanto emerge direttamente anche dall'impianto sistematico del codice civile, la delibera di aumento del capitale di società si pone come atto (secondo altra ricostruzione dommatica, come fatto) "modificativo dell'atto costitutivo" (cfr., con specifico riferimento alla s.r.l., l'intestazione della sezione V, capo VII, titolo V, libro V, del codice). La delibera si pone, quindi, come atto modificativo del negozio costitutivo della società data: in cui, fermi per l'appunto gli altri patti e clausole, per decisione dei soci (cfr. l'art. 2479 c.c., comma 2, n. 4) vengono modificati i termini contenutistici di quell'elemento costituivo del negozio di s.r.l. che è rappresentato dal capitale della società (art. 2463 c.c., comma 2, n. 4).
Posta questa struttura di base, lo statuto della società e la delibera di aumento non si pongono in termini alternativi, o antagonistici, nei confronti dell'aumento di capitale (sua decisione e sua esecuzione), come pure ha ritenuto il Tribunale mantovano. Si pongono, invece, in termini di consecutività sostanziale, la delibera sovrapponendosi alla precedente decisione statutaria in punto di misura del capitale.
Non può essere dubbio, d'altra parte, che - trattandosi di vicenda modificativa del precedente patto societario - la controversia, che per un verso o per altro concerna l'aumento, rientra, di per sè, nell'ambito dei "rapporti sociali" (secondo la formula adottata dall'art. 24 dello statuto della società poi fallita, in via di sostanziale mutuazione di quella contenuta nel D.Lgs. n. 3 del 2005, art. 34, comma 1).
10.- Peculiare attenzione richiede, peraltro, anche il punto specificamente relativo all'esecuzione dell'aumento deliberato dall'assemblea, che è quanto qui viene, anzi, in diretto e immediato interesse.
Nel sistema dei contratti con comunione di scopo (dal codice civile denominati "contratti plurilaterali"), nel cui contesto si situa, tra gli altri, anche il contratto di società, l'ordinamento ammette - com'è noto - la regola del trattamento differenziato della singola parte contrattuale rispetto all'insieme delle altre (cfr., così, gli artt. 1424,1446,1459 c.c.).
Con riferimento all'esecuzione dei conferimenti nella s.r.l., la detta regola si è tradotta nella disposizione dell'art. 2466 c.c., che per l'appunto prescrive l'obbligo degli amministratori della società di seguire determinati percorsi nei confronti dei contraenti morosi (ciascuno distintamente considerato rispetto agli altri, salva comunque l'applicazione della regola della parità di trattamento): come intesi o ad addivenire all'esecuzione coattiva dell'obbligo di eseguire il conferimento (cfr. all'interno del comma 2 dell'art. 2466) ovvero, in alternativa (nel senso, peraltro, che sarà chiarito nel n. 16), a sostituire con altri il socio moroso (cfr. sempre il comma 2 della norma) e anche, nel caso occorrente, a sciogliere il contratto limitatamente alla (sola) partecipazione del socio moroso (art. 2466, comma 3).
Secondo quanto è corretta opinione comune, tale disposizione si applica tanto nel caso di costituzione della società, quanto in quello dell'aumento del capitale.
11.- Nel caso di scioglimento della società, e anche nell'eventualità di fallimento della medesima, non pare subire alterazioni sostanziali la parte della norma dell'art. 2446 c.c. che concerne l'esecuzione coattiva dell'obbligo di eseguire i conferimenti dovuti (salva, nel caso, l'"integrazione" derivante dall'art. 150 L. Fall.; questo punto verrà ripreso infra, nel n. 14): secondo quanto emerge, prima di tutto, dalla disposizione dell'art. 2491 c.c., comma 1.
Qualche perplessità potrebbero forse sorgere, invece, in relazione all'altra parte normativa dell'art. 2466, riferita alla sostituzione del contraente moroso con altri soggetti: di per sè, ben difficilmente reperibili (come disposti a versare il conferimento dovuto), attesa la situazione in cui si trova oggettivamente a versare la società (dei cui conferimenti si discute).
A ben vedere, trattasi tuttavia di un ostacolo solo fattuale all'applicazione della disciplina di questa parte dell'art. 2466: in specie, nel senso che, ai sensi del comma 3, in ogni caso la concreta "mancanza di compratori" delle quote morose produce in via diretta la conseguenza che gli amministratori o i liquidatori della società - o, nel caso, il curatore fallimentare "escludono il socio, trattenendo le somme riscosse" (per precedenti versamenti che quest'ultimo abbia eventualmente compiuto).
12.- Nel caso in cui il socio moroso contesti, per una o per altra ragione, il diritto del curatore di incamerare definitivamente le somme, che questi abbia trattenuto in ragione della detta norma, non può comunque trovare applicazione la clausola arbitrale che sia eventualmente contenuta nello statuto della relativa società.
In effetti, una simile pretesa per definizione si atteggerebbe nei termini di richiesta di restituzione somme: assumendo, quindi, la consistenza (ipotetica) di un credito del socio verso il fallito. Ed è principio acquisito quello per cui "non sono mai arbitrabili le pretese fatte valere da terzi", soci compresi, "verso l'amministrazione fallimentare" (cfr., in particolare, la citata Cass., n. 24444/2019). Per queste pretese, in ogni caso occorre il "procedimento di verifica dello stato passivo", che non ammette alternative.
13.- Nella controversia qui in concreto esame, tuttavia, il curatore ha optato per la strada dell'esecuzione forzata, azionando la richiesta prevista dalla norma dell'art. 150 L. Fall. (nell'ambito dottrinale non mancandosi di sottolineare che la scelta tra il procedimento ex art. 150 L. Fall. e l'adozione del "procedimento speciale stabilito" dall'art. 2466 risponde, di per sè, a una scelta di opportunità).
Di conseguenza, il tema, che qui viene indagato, rimane estraneo alla materia del credito del socio verso la società fallita, per restare focalizzato sulla situazione inversa, del credito della società fallita nei confronti del socio (cfr. sopra, nel n. 8).
14.- In materia di diritto al versamento dei conferimenti dovuti dai soci morosi, il fallimento trova - secondo la formula di uso corrente - il diritto già esistente nel patrimonio del fallito. Realizzandosi così un fenomeno di semplice "sostituzione" (di tratto essenzialmente gestorio) del curatore nella posizione degli amministratori o dei liquidatori.
Per la verità, a questo schema si potrebbe forse obiettare che - una volta dichiarato il fallimento della società - il curatore dispone di un potere ulteriore rispetto a quelli che fanno da comune corredo alla corrispondente azione di amministratori e di liquidatori: alla normale possibilità di chiedere decreto ingiuntivo aggiungendosi (non sostituendosi) quello di chiedere senz'altro l'intervento del giudice delegato, secondo quanto per l'appunto stabilito dalla norma dell'art. 150 L. Fall. (il curatore non perde il potere di procedere in via monitoria ricorrendo alle regole di diritto comune).
Non sembra, tuttavia, che ciò possa formare una base sufficiente per dare vita a una posizione di diversità rilevante di terzietà, secondo quanto invece sostenuto nella memoria depositata dal fallimento della s.r.l. (*) (cfr. sopra, nel n. 6) - del curatore rispetto alle originarie posizioni contrattuali. In effetti, la causa petendi rimane comunque identica, pur nel caso di utilizzo dello strumento che arricchisce i poteri del curatore.
D'altro canto, come è stato osservato in ambito dottrinale, il procedimento di cui all'art. 150 conserva una natura monitoria; nè è pensabile che lo stesso risulti utilizzabile pur in difetto di prova scritta. Lo scarto differenziale dello strumento dell'art. 150 L. Fall. sembra dunque consistere - in ragione della competenza, che viene assegnata (anche) al giudice delegato nelle maggiori rapidità e snellezza del relativo procedimento.
15.- Rimane da considerare il punto della arbitrabilità della controversia relativa alla materia dell'obbligo di esecuzione dei conferimenti nell'ambito di una s.r.l..
In relazione alla nozione di diritto (non) disponibile, di cui all'art. 806 c.p.c. ed al D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 3, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che il "limite della disponibilità si fonda", nella sua radice di base, "sulla stessa configurazione del giudizio arbitrale": "l'arbitro, derivando il suo potere da quello delle parti, non può decidere una controversia relativa a diritti sottratti alla disponibilità delle parti".
Di base, "l'area dell'arbitrabilità coincide con quella della disponibilità dei diritti": allora, "la disponibilità va commisurata al diritto oggetto della controversia, e non alle questioni che gli arbitri, devono sciogliere in vista della decisione, suscettibili di essere affrontate con effetti incidenter tantum". L'inderogabilità e l'imperatività che eventualmente regolino il diritto "non rende automaticamente quest'ultimo indisponibile, rimanendo viceversa tenuti gli arbitri ad applicare la normativa cogente in materia prevista" (cfr., in specie, Cass., 16 aprile 2018, n. 9344; sul punto v. anche, tra le altre decisioni, la più volte citata pronuncia di Cass., n. 24444/2019).
Ora, è orientamento consolidato di questa Corte che le controversie in materie societarie ben possono, in linea generale, formare oggetto di compromesso (si veda, del resto, il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34): con esclusione, peraltro, di quelle "che hanno a oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi" (Cass., 23 febbraio 2005, n. 3772; Cass., n. 24444/2019).
16.- La presenza del principio di tutela del capitale sociale e in specie dell'effettività del medesimo - che, nel sistema vigente, connota propriamente la regolamentazione delle società c.d. di capitali (si pensi ad esempio, per la specifica forma della s.r.l., al disposto dell'art. 2467 c.c.) - potrebbe forse far dubitare che quello al versamento dei conferimenti dovuti sia da considerare, ai fini dell'arbitrabilità delle relative controversie, nel novero dei "diritti disponibili" (ex art. 806 c.p.c.D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 3).
Un'indicazione importante in senso contrario viene fornita, tuttavia, proprio dal disposto dell'art. 2466 c.c., che più sopra si è esaminato (cfr. i numeri 11 e 12).
In effetti, il comma 3, ultimo periodo, di questa disposizione stabilisce che - nel caso in cui non risulti effettivamente possibile, nel concreto della fattispecie, procedere alla vendita in danno del socio moroso per la "mancanza di compratori" gli amministratori debbono non solo "escludere il socio" trattenendo le somme da questi eventualmente versate, ma altresì procedere a "ridurre il capitale in misura corrispondente".
Ciò che tra l'altro implica, secondo quanto appare evidente, una sorta peculiare di rinuncia al credito (del tutto a prescindere - si deve pure avvertire per la necessaria completezza di discorso - dal tema, di per sè finitimo, relativo alla questione se mai gli amministratori, i liquidatori o il curatore fallimentare possano eventualmente procedere a rinunce involgenti il credito all'esecuzione del conferimento, fuor dall'ipotesi e termini stabiliti dalla norma dell'art. 2466 c.c., comma 3).
Quella appena indicata si manifesta - è opportuno altresì precisare - un epilogo possibile pure nel caso in cui gli amministratori o i liquidatori o il curatore fallimentare scelgano in un primo tempo di percorrere la strada dell'esecuzione coattiva: chè la riscontrata incapienza patrimoniale del socio moroso, o anche altre ragioni di opportunità, ben possono consigliare al gestore di abbandonare tale via per tentare quella della vendita in danno.
La constatazione che, sotto il profilo funzionale, tale riduzione del capitale risulta possedere il significato sostanziale di trasmettere un'informazione al mercato non elimina, per la verità, lo spessore del rilievo che, sotto il profilo strutturale, si manifesta proprio -nella rinuncia al credito che alla riduzione medesima viene a connettersi.
17.- La conferma della "disponibilità" - in relazione allo specifico punto dell'arbitrabilità delle relative controversie - del diritto della società al versamento dei conferimenti dovuti risulta comunque data, da altra prospettiva, dalla pronuncia di Cass., 28 agosto 2015, n. 17283.
Questa sentenza ha, infatti, ritenuto compromettibili in arbitro la stessa impugnativa di una delibera assembleare di aumento di capitale e la conseguente domanda di risarcimento del danno, pure assumendo (tra l'altro) che trattasi in definitiva di una mera "controversia tra socio e società".
Sui contenuti di questo arresto si è, d'altro canto, soffermata funditus la più volte citata pronuncia di Cass., n. 24444/2019, per l'appunto assegnandogli rilievo peculiare, assorbente, ai fini della soluzione del problema in esame. La compromettibilità della delibera assembleare che decide sull'aumento - così ha in particolare ritenuto la detta decisione - "implica che non possa dubitarsi, poi, che lo sia altresì, sul medesimo versante, la controversia semplicemente succedanea, tesa all'esecuzione del conferimento e in cui si discuta della sua esigibilità".
18.- Alla stregua delle osservazioni complessivamente svolte, deve in conclusione essere dichiarata la competenza arbitrale in ordine alla controversia de qua.
Va di conseguenza cassata la sentenza impugnata, con rimessione delle parti innanzi agli arbitri.
19.- Il Collegio ritiene equo compensare per intero le spese del regolamento, anche in considerazione del fatto che la questione, qui esaminata, risulta fatta oggetto di esame da parte della giurisprudenza di questa Corte solo in tempi molto recenti.
P.Q.M.
La Corte dichiara la competenza arbitrale. Cassa la sentenza impugnata e rimette le parti innanzi agli arbitri. Compensa per intero le spese del regolamento di competenza.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile - 1, il 20 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2020.