Deontologia
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 29/01/2016 Scarica PDF
Brevi note sull'azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge 117/1988
Massimo Vaccari, Magistrato1. Le modifiche alla legge 117/1988 in tema di azione di rivalsa
Tra le modifiche alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati introdotte dalla legge 27 febbraio 2015 n. 18 alcune riguardano i presupposti dell’azione di rivalsa dello Stato verso il magistrato.
Innanzitutto, con la modifica dell’art. 7, comma 1, è stato elevato, da un anno a due anni, a decorrere dal momento dell’intervenuto risarcimento, il lasso di tempo in cui essa va esercitata[1]. In secondo luogo (art. 8) è stata aumentata la misura di essa, portandola da un terzo alla metà di una annualità dello stipendio “percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta” (la parte tra virgolette era già contenuta nel testo originario).
Un’altra novità può essere ravvisata nella esplicitazione del carattere obbligatorio di tale azione (“Il Presidente del Consiglio dei Ministri…ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato…).
Infatti la disciplina precedente sul punto era equivoca (“Lo Stato…esercita l’azione di rivalsa”) e proprio per questo motivo, la relazione della commissione giustizia della Camera alla proposta di legge 2738 ha ritenuto opportuno precisare che, con la novella, “la rivalsa verso il magistrato è stata espressamente resa obbligatoria”.
2. Le conseguenze della espressa previsione dell’obbligatorietà della rivalsa: profili di costituzionalità
Questa previsione non pare però conforme al disposto dell’art. 24, comma 1, Cost. che, nel riconoscere il diritto di difesa, implicitamente riconosce anche il diritto di non agire in giudizio.
Essa infatti sottrae alla Presidenza del Consiglio, il diritto di valutare la convenienza della azione di rivalsa sulla base, soprattutto, di un raffronto tra i costi del giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato, tra i quali il più rilevante è costituito dall’entità della somma versata per sentenza o transazione alla parte vittoriosa, i possibili costi del giudizio nei confronti del magistrato e le probabilità di successo del medesimo.
La scelta di precisare il carattere obbligatorio dell’azione appare anche irragionevole se la si ricollega a quella, compiuta sempre con la legge 18/2015, della riformulazione della c.d. clausola di salvaguardia (art. 2 l.117/1988).
Al riguardo è opportuno evidenziare che la novella, pur riproponendo la clausola di salvaguardia (art. 2, comma 1, lett. b), ne ha ridotto l’ambito di operatività perché nel punto successivo ha ampliato i casi di colpa grave, sia numericamente, con l’introduzione dell’ipotesi del travisamento del fatto o delle prove, sia nella loro configurazione oggettiva, avendo eliminato il riferimento alla negligenza inescusabile quale presupposto per l’integrazione che danno luogo a responsabilità dello Stato.
La negligenza inescusabile, al pari del dolo, costituisce invece ancora il presupposto soggettivo dei comportamenti che, ai sensi dell’art. 7 comma 1 l.117/1988, determinano l’esercizio dell’azione di rivalsa. Nella nuova disciplina, quindi, non vi è più quella corrispondenza sotto il profilo soggettivo tra i casi di responsabilità dello Stato e quelli di responsabilità del magistrato, individuata dalla legge Vassalli[2] mentre, come si dirà subito, vi è solo una parziale corrispondenza sotto il profilo oggettivo tra gli uni e gli altri.
Da ciò consegue che, dal momento dell’entrata in vigore della l.117/1988, la Presidenza del Consiglio dovrà esercitare l’azione di rivalsa “al buio”, vale a dire senza aver avuto, nella maggior parte dei casi, il conforto della positiva verifica dell’elemento soggettivo della negligenza inescusabile del magistrato nel giudizio nei confronti dello Stato e anche nei casi, invero remoti, in cui fosse stata acclarata l’insussistenza di quel presupposto.
E’ evidente infatti che molto difficilmente nell’ambito del giudizio nei confronti dello Stato vi potrà essere un accertamento anche solo incidentale, in punto di negligenza inescusabile, poiché, a giustificare l’affermazione della responsabilità dello Stato, sarà sufficiente la verifica della commissione di uno dei fatti illeciti di cui all’art. 2, comma 3, che sono di per sé indicativi di colpa grave[3].
L’azione di rivalsa va poi esercitata obbligatoriamente nei confronti di tutti i responsabili (ad esempio nei confronti dei componenti di un organo collegiale), nonostante uno di essi potrebbe essere esente da negligenza, avendo assunto una posizione dissenziente dagli altri, sia pure con riferimento ai limiti di stipendio di cui ciascuno di essi gode[4].
Ulteriore e distinto profilo di irragionevolezza della norma in esame è dato rinvenire nella assimilazione tra transazione e sentenza di condanna quali presupposti processuali dell’azione obbligatoria di rivalsa, sebbene essi abbiano genesi del tutto differenti.
Il primo dei predetti esiti infatti è frutto di una scelta discrezionale della parte-Presidenza del Consiglio dei ministri e come tale può essere dettato da varie considerazioni, soprattutto di convenienza, che potrebbero anche essere viziate da un errore di valutazione sulla ammissibilità o sulla palese infondatezza della domanda risarcitoria. Ebbene, anche a fronte di una simile evenienza, il magistrato subirebbe l’azione di regresso che sarebbe però destinata ad insuccesso per lo Stato.
Proprio al fine di evitare una simile eventualità, il testo previgente dell’art. 7 l.117/1988 aveva stabilito che l’azione di regresso potesse essere esercitata a seguito di conclusione del giudizio con transazione, purchè questa fosse stata conclusa dopo la declaratoria di ammissibilità della domanda (da tale previsione i commentatori[5][6] avevano desunto, a contrario, che una transazione conclusa in relazione ad una domanda dichiarata inammissibile non desse titolo per quella azione).
3. Differenze rispetto all’azione di rivalsa nei confronti degli altri dipendenti pubblici
Ancora, va evidenziata la ingiustificata differenza tra questa disciplina e quella dell’azione di regresso nei confronti degli altri dipendenti pubblici sotto almeno due aspetti.
In primo luogo l’azione di rivalsa verso i dipendenti pubblici, in base ai principi generali in tema di garanzia personale (art.1950 c.c.), non derogati dall’art. 22, comma primo, del d.P.R. 10 gennaio 1957 n.3, non è obbligatoria, sebbene presupponga che nel giudizio nei confronti dello Stato sia stato accertato l’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) del comportamento del funzionario danneggiante e la conseguente valutazione sulla probabilità di successo della rivalsa stessa.
In secondo luogo l’iniziativa giudiziaria rimane discrezionale anche in caso di transazione della lite, come si evince dal disposto dell’art. 30 d.P.R. 10 gennaio 1957 n.3, e la ratio di tale previsione è la medesima, sopra citata dell’originario testo dell’art. 7, comma 1, l.117/1988.
La ragione di tali disparità di trattamento normativo non potrebbe individuarsi nemmeno nella diversità dei presupposti della responsabilità del magistrato e di quella degli altri dipendenti pubblici, atteso che il titolo dell’azione regresso è costituito in entrambi i casi dall’esistenza della obbligazione i danni dello Stato e dall’intervenuto pagamento. Tantomeno tale ragione può consistere nella differente entità economica della rivalsa (contenuta, per i magistrati, in una somma pari alla metà dello stipendio annuale al momento in cui l’azione di risarcimento è proposta, ai sensi dell’art. 5 l.18/2015). Tale aspetto avrebbe dovuto anzi costituire un ulteriore motivo per rendere discrezionale l’azione di regresso nei confronti del magistrato, dal momento che la limitazione dell’entità della somma recuperabile, a fronte delle motivazioni dell’esito sfavorevole per lo Stato del giudizio risarcitorio, potrebbe in certi casi sconsigliare quella iniziativa.
4. Limitazione della rivalsa ad alcune ipotesi di responsabilità: irragionevolezza della soluzione
Infine, vi è un ulteriore profilo della nuova disciplina che desta non poche perplessità ed è quello per cui l’obbligo della rivalsa è connesso solo ad alcune delle ipotesi che possono dar luogo a responsabilità, vale a dire al diniego di giustizia, alla violazione manifesta del diritto, al travisamento del fatto o delle prove.
Per contro l’azione di rivalsa non va esercitata qualora lo Stato sia stato ritenuto responsabile per:
- L’affermazione o la negazione di fatti la cui esistenza o inesistenza siano incontrastabilmente escluse dagli atti del procedimento[7];
- L’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione;
- in tutti i casi di dolo diversi da quelli che si collegano alle fattispecie tipiche elencate all’art. 2, commi 2, 3 e 3 bis.
Tale distinzione non era presente nel testo originario poiché in esso vi era perfettamente corrispondenza tra i presupposti oggettivi dell’zione nei confronti dello Stato e quelli della rivalsa.
Come è stato notato in dottrina[8] ratio e ragionevolezza di tale selezione risultano incomprensibili, tanto più se si considera che sono state escluse dalla rivalsa ipotesi di responsabilità che sono in astratto ben più gravi di quelle che la legittimano, come l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione o quella per fatti dolosi non collegati a fattispecie rivelatrici di colpa grave.
Inoltre non è chiaro se per le ipotesi non contemplate sia esclusa qualsiasi forma di rivalsa, come sembra più logico, alla luce della previsione generale sulla sua obbligatorietà, o se invece la rivalsa sia facoltativa, ipotesi questa che, riconoscendo alla Presidenza del Consiglio una discrezionalità sul punto, sarebbe però incompatibile con il principio di indipendenza della magistratura.
5. Note processuali
Se l’azione di rivalsa ha ad oggetto una somma di importo fino ad euro 50.000,00 essa deve essere preceduta dalla negoziazione assistita da avvocati ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.l. 132/2014.
Pertanto, in applicazione di tale disposizione, il Presidente del consiglio dei ministri dovrà inviare al magistrato ritenuto responsabile un invito a concludere la convenzione di negoziazione assistita.
Tale invito dovrà essere sottoscritto dal Presidente del Consiglio dei Ministri e la sottoscrizione dovrà essere autenticata dalla Avvocatura dello Stato.
Infatti nelle negoziazioni assistite che coinvolgano delle amministrazioni pubbliche, queste ultime devono essere assistite dalla propria avvocatura, non solo al momento della stipula della convenzione, secondo quanto prevede testualmente l’art. 2, comma 1 bis, aggiunto in sede di conversione del decreto legge sopra citato, ma necessariamente anche nella fase precedente.
La ricezione dell’invito determinerà, ai sensi dell’art. 8 del d.l 132/2014, la sospensione del termine di decadenza dell’azione di rivalsa.
In caso di svolgimento della procedura di negoziazione, a seguito della conclusione della convenzione di negoziazione assistita, l’avvocatura dello Stato dovrà attentamente valutare se rendere note al magistrato le risultanze del giudizio risarcitorio al fine di indurre lo stesso a optare per una soluzione conciliativa, perché, sebbene esse non siano utilizzabili, in linea generale, nell’eventuale successivo giudizio, venendone a conoscenza egli potrebbe servirsene per predisporre la propria difesa nel giudizio di rivalsa.
[1] Trattasi, come già chiarito in dottrina con riguardo al regime previgente, di termine di decadenza. La conseguenza è che va confermata la a possibilità per lo Stato di agire in rivalsa sulla base di una sentenza esecutiva di primo grado, per rispettare il termine di due anni, qualora il giudicato non si sia ancora formato. Sul punto si veda: F. Cipriani, il Giudizi di rivalsa contro il magistrato, Foro It., 1988, V, col. 434.
[2] La soluzione è giudicata positivamente da F.Dal Canto, La legge n.18/2015 sulla responsabilità civile dello Stato per fatto del magistrato: tra buone idee e soluzioni approssimativa, in Questione Giustizia 3/2015, pag. 193, in quanto idonea a realizzare, in linea di principio, un ragionevole bilanciamento tra i molteplici interessi in gioco in tema di responsabilità conseguente all’attività giudiziaria.
[3] Quanto esposto nel testo rende evidente come l’intervento nel giudizio nei confronti dello Stato del magistrato che abbia tenuto uno dei comportamenti fonte di responsabilità sia, non solo inopportuno, perché renderebbe a lui opponibile la sentenza sfavorevole emessa nei confronti dello Stato, ma anche inutile, poiché la sua posizione non verrebbe vagliata.
[4] Secondo F.Cipriani, cit. col. 438, l’obbligazione dei componenti del collegio ha natura solidale.
[5] Le considerazioni esposte nel testo fondano la ordinanza del Tribunale di Verona del 12 maggio 2015 con la quale è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 e di altre norme della l. 117/1988 come modificate dalla l.18/2015. L’ordinanza è leggibile in www.questionegiustizia.it.
[6] A. Proto Pisani, La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, in Foro It, 1988, V, col. 428.
[7] E. Scoditti, Le nuove fattispecie di “colpa grave”, in Foro It. 2015, V, c. 323, osserva che il riferimento nell’art. 7 al solo travisamento del fatto o delle prove e non anche alla affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento, tradisce già la difficoltà di rinvenire nel corpo della legge una differenza tra le due ipotesi. Secondo tale autore poi “lo sdoppiamento che l’art. 2, comma 3, ha stabilito tra travisamento del fatto e affermazione, o negazione del fatto, contrastata dagli atti del procedimento incrina in modo serio il bilanciamento tra principio costituzionale di indipendenza della magistratura e quello di responsabilità perché invade il campo della valutazione del fatto, istituzionalmente affidato al libero convincimento del giudice”.
[8] Dal Canto, cit. pag. 194.
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