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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 08/09/2021 Scarica PDF

La derelizione dei beni nelle procedure concorsuali e gli obblighi di ripristino ambientale

Riccardo Della Santina, Dottore Commercialista, Professore a contratto


Sommario: 1. Premessa. 2. Le deroghe al principio di universalità oggettiva: quelle previste dalla disciplina concorsuale in funzione della natura del bene. 3.(segue) Le deroghe al principio di universalità oggettiva: quelle previste da altre disposizioni di legge. 4. La derelictio nella legge fallimentare. 5.La derelictio nel CCII. 6. La derelictio quale (possibile) rimedio degli obblighi di ripristino ambientale che graverebbero sul curatore.

 

 

1. Premessa.

Quale che sia l’angolo visuale dal quale si decide di osservare il fallimento (ovvero la procedura liquidazione giudiziale dei beni del debitore nel«Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza», inde CCII) non può non cogliersi, tra i tanti caratteri che contraddistinguono l’istituto[1], quello della universalità e della collettività[2].

Universalità doppiamente intesa: sul piano soggettivo, in quanto coinvolge tutti i creditori, nessuno escluso, del debitore; sul piano oggettivo, poiché è l’intero patrimonio del debitore, e non un singolo bene, sottoposto all’attività di liquidazione necessaria a ricavare le somme da destinare alla soddisfazione dei creditori[3]. Sotto quest’ultimo profilo il fallimento assume così la natura di processo di esecuzione forzata[4], attesa la funzione satisfattiva dell’intero ceto creditorio attribuita al patrimonio del fallito[5].

Collettività intesa, invece, nel senso della necessità di una pluralità di creditori quale presupposto della stessa esistenza della procedura[6], ovvero, e forse più propriamente, perché dipendente, sul piano funzionale, non dall’iniziativa dei singoli creditori ma operante, invece, a favore della massa[7].

La caratteristica della universalità oggettiva delle procedure concorsuali trova riscontro, sul piano normativo, in una serie di disposizioni cui è assegnato il compito di regolare gli effetti patrimoniali derivanti dalla sentenza di fallimento (o di apertura della liquidazione giudiziale nel CCII) nei confronti del debitore.

Così l’art. 42, comma 1 l.fall. (142 CCII) dispone che la sentenza (di fallimento o di apertura della liquidazione giudiziale) priva il debitore (fallito) dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data della dichiarazione. Si tratta del fenomeno comunemente conosciuto come «spossessamento»[8], che opera appunto (ope legis) dalla data della sentenza di fallimento e determina un vincolo di indisponibilità per il debitore sui propri beni e, correlatamente, un vincolo di destinazione[9] su di essi a favore della massa dei creditori. Come si è fatto da più parti notare lo «spossessamento» riguarda tutto il «patrimonio del debitore fallito», intendendosi la nozione di patrimonio intesa qui latu sensu, ovvero riferita a tutte le situazioni giuridiche soggettive suscettibili di valutazione economica facenti capo ad un soggetto[10]. Così il «patrimonio del fallito» ricomprende, oltre i beni scritcu sensu intesi, i diritti, i poteri, le facoltà, le aspettative, le azioni e persino i beni non commerciabili o, addirittura, provento di reato[11].

Il secondo comma dell’art. 42 l.fall. (art. 142 CCII) estende l’apprensione al patrimonio fallimentare anche dei beni pervenuti al debitore durante la procedura (i cd. beni sopravvenuti). Da questo punto di vista, pertanto, lo «spossessamento» segna il trapasso del sistema della responsabilità patrimoniale del diritto comune (art. 2740 c.c.), al regime speciale delle procedure concorsuali, anche se permangono tra le due discipline differenze sostanziali allorché la disposizione concorsuale prevede che i beni siano compresi nel fallimento dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione, escludendo così i creditori successivi all’apertura del concorso dal soddisfacimento sui beni futuri[12]. Va altresì sottolineato che, mentre nell’esecuzione individuale il principio della responsabilità patrimoniale relativamente ai beni sopravvenuti può trovare applicazione solo con il successivo pignoramento dei beni che vengono via via ad esistenza, l’esecuzione concorsuale determina un’apprensione ipso iure all’attivo del fallimento di tali beni[13].

L’art. 44, comma 1 l.fall. (art. 144, comma 1 CCII) priva di efficacia nei confronti dei creditori concorsuali gli atti e i pagamenti eseguiti dal debitore dopo l’apertura della procedura, mentre il comma successivo stabilisce l’inefficacia dei pagamenti da lui ricevuti.

La disposizione rappresenta il corollario sul piano dinamico dell’effetto dello spossessamento: se il debitore viene privato dell’amministrazione e della disponibilità del proprio patrimonio ne consegue che gli atti di disposizione successivi all’apertura della procedura devono ritenersi inefficaci nei confronti dei creditori concorsuali. Così l’art. 42 l.fall. (142 CCII) e l’art. 44 l.fall. (144 CCII) stabilendo l’uno il principio dello spossessamento e l’altro il principio dell’inefficacia degli atti successivi all’apertura del concorso costituiscono i capisaldi della cd. cristallizzazione del patrimonio del debitore[14].  

 

2. Le deroghe al principio di universalità oggettiva: quelle previste dalla disciplina concorsuale in funzione della natura del bene.

L’art. 46 l.fall. (così come il corrispondente art. 146 CCII) prevede un elenco di beni e di diritti che non sono appresi all’attivo della procedura e quindi non subiscono l’effetto dello spossessamento. La ratio dell’esclusione, disposta ipso iure, dipende dalla particolare natura di tali beni e diritti che sono direttamente funzionali al soddisfacimento dei «beni della vita» del debitore o dei suoi familiari.

Sono così esclusi: «i beni e i diritti di natura strettamente personale» (art. 46, comma 1 n. 1) l.fall.), in quanto riconducibili alla sfera della persona sia sotto il profilo dell’integrità fisica dell’individuo, sia nell’ottica di tutela dei suoi valori morali essenziali[15]; «gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia», nella misura stabilita dal giudice delegato che dovrà tenere conto, nella determinazione, della condizione personale del debitore e di quella della sua famiglia[16].

Sempre nel solco della necessità di garantire i bisogni del nucleo familiare deve leggersi la previsione di cui al punto 3) dell’art. 46 l.fall., che esclude dal patrimonio appreso alla procedura «i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’articolo 170 del codice civile». Tuttavia, per quanto riguarda l’esclusione dal fallimento dei beni costituiti in fondo patrimoniale (artt. 167 e ss. c.c.), è necessario svolgere qualche ulteriore considerazione. La costituzione del fondo patrimoniale è, infatti, un atto a titolo gratuito, soggetto quindi alla dichiarazione di inefficacia ex art. 64, comma 1 l.fall. (art. 163, comma 1 CCII) se compiuto dal debitore nei due anni anteriori all’apertura della procedura (ovvero a revocatoria trattandosi di atto idoneo a diminuire la garanzia patrimoniale dei creditori ex art. 66 l.fall. e 165 CCII)[17]. Inoltre il secondo comma dell’art. 64 l.fall.[18], dispone che «i beni oggetto degli atti di cui al primo comma sono acquisiti al patrimonio del fallimento mediante trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento». In buona sostanza, se il fondo patrimoniale è stato costituito nei due anni anteriori all’apertura della procedura non opera in via automatica, per i beni che vi sono stati conferiti, la salvaguardia prevista dall’art. 46, comma 1, n. 3) l.fall., talché saranno anch’essi soggetti allo «spossessamento» e quindi appresi all’attivo del fallimento.

Sono altresì esclusi dallo spossessamento «le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge» (art. 46, comma 1 n. 4) l.fall. e art. 146, comma 1, n. 4) CCII), dove il termine «cose» deve qui intendersi riferito, oltre che ai beni materiali, anche ai diritti di credito[19]. Il richiamo normativo è innanzitutto all’art. 514 c.p.c. (rubricato, appunto, «Cose mobili assolutamente impignorabili»). Vi sono poi altre disposizioni che escludono la pignorabilità dei beni, quali, ad esempio: le cose oggetto di contratto estimatorio detenute dall’accipiens prima che questi ne abbia pagato il prezzo (art. 1558 c.c.); i fondi speciali per la previdenza e l’assistenza (art. 2217 c.c.); le partecipazioni in società di persone (art. 2270 c.c.); le quote del fondo consortile (art. 2614 c.c.). La formula usata nell’art. 46, comma 1 n. 4) l.fall. (e ripetuta nell’art. 146, comma 1 n. 4) CCII) deve essere intesa in senso restrittivo, per cui rimangono esclusi dalla previsione le cose relativamente pignorabili (art. 515 c.p.c.) e le cose pignorabili in particolari circostanze di tempo (art. 516 c.p.c.), che saranno pertanto soggette allo spossessamento[20]. 

Al fine di garantire la tutela di un diritto fondamentale dell’individuo opera l’art. 47, comma 2 l.fall. che impedisce la distrazione della casa di proprietà del fallito, nei limiti in cui essa è necessaria alle esigenze abitative sue e della famiglia, fino all’avvenuta liquidazione delle attività. Le condizioni oggettive affinché operi la disposizione sono pertanto il diritto di proprietà dell’immobile e la sua destinazione ad abitazione prima del fallimento[21]. L’esclusione del bene dallo spossessamento ha, tuttavia, natura temporanea permanendo, secondo l’opinione prevalente, fino al momento dell’avvenuta aggiudicazione, non dovendo interpretarsi la locuzione «fino alla liquidazione delle attività» come un obbligo del curatore nel destinare alla vendita l’abitazione come ultimo atto liquidatorio[22]. L’art. 147 CCII, che rappresenta la disposizione omologa dell’art. 47 l.fall., modifica, ampliandole, le condizioni oggettive, prevedendo che, oltre al caso della proprietà dell’immobile, l’esclusione dallo spossessamento operi anche quando il debitore sia titolare di un diritto reale sull’abitazione; inoltre, la novella, chiarisce la portata temporale dell’esclusione, prevedendo che essa permanga fino alla avvenuta liquidazione del bene (non utilizzandosi più quindi l’equivoca formula fino alla liquidazione delle attività).   

 

3. (segue) Le deroghe al principio di universalità oggettiva: quelle previste da altre disposizioni di legge.    

Vi sono situazioni in cui la regola dell’attrazione alla procedura concorsuale del(l’intero) patrimonio del debitore segna (o può segnare) il passo di fronte ad altre disposizioni previste dall’ordinamento che incidono anch’esse sul rapporto giuridico esistente tra il debitore e i suoi beni.

Si tratta in primo luogo delle «misure cautelari reali» disciplinate dalla normativa penale, sia generale che speciale.

Senza alcuna pretesa di esaustività, non essendo questa la sede per una trattazione approfondita dell’argomento, il riferimento è: al sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p., che è una misura prodromica e strumentale all’esecuzione individuale nei confronti del debitore reo, e ha la funzione di evitare che siano disperse le garanzie patrimoniali; il sequestro preventivo ex art. 321, comma 1 c.p.p., che ha la funzione di evitare che, quando vi è il pericolo, la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati (cd. sequestro preventivo puro o impeditivo); il sequestro preventivo ex art. 321, comma 2 c.p.p., che ha invece la funzione di assicurare la fruttuosità pratica della “misura di sicurezza patrimoniale” della confisca penale (cd. sequestro ai fini della confisca, v. infra); il sequestro probatorio ex art. 253 ss c.p.p., che è invece funzionale alle esigenze processuali correlate all’acquisizione delle prove.

Un altro istituto di carattere penale che si pone in concorrenza con il principio dell’universalità oggettiva concorsuale è quello della confisca, previsto dagli artt. 240 e 240-bis c.p. Si distingue la confisca obbligatoria (ex art. 240, comma 2 c.p.) dalla confisca facoltativa. In particolare la prima fattispecie riguarda cose aventi natura intrinsecamente e oggettivamente pericolosa, per cui il bene rappresenta un potenziale pericolo a prescindere dal soggetto (reo o terzo) nella cui disponibilità si trovi, ragion per cui, sia pur con le significative deroghe previste dall’art. 240 coomma 2 e 3 c.p., non può essere lasciata nella disponibilità di privati, ma deve essere necessariamente appresa dallo Stato, che è, ontologicamente, in grado di neutralizzarne la funzione criminosa. La confisca facoltativa è invece prevista dal primo comma dell’art. 240 c.p., e si riferisce ai cc.dd. instrumenta delicti («cose che servirono o furono destinate a commettere il reato») ovvero al prodotto o al profitto dell’attività criminosa. Assai peculiare è, poi, l’ipotesi di confisca (c.d. “per sproporzione”) prevista dall’art. 240 bis c.p. (introdotto con d. lgs. 21/2018), che interesserà obbligatoriamente, in caso di commissione dei delitti di cui al primo comma, i beni o il denaro di cui il reo risulti titolare, anche per interposta persona, e per i quali lo stesso non riesca a dimostrare la provenienza né il rapporto di proporzione con il proprio reddito accertato. A queste tipologie di confisca, si aggiungono, poi, le varie ipotesi settoriali, prescritte dal legislatore, perlopiù in via obbligatoria, in caso di commissione di certi reati a matrice economica (si pensi, a titolo esemplificativo, alla confisca obbligatoria di cui all’art. 648 quater c.p., nel caso di commissione dei delitti di riciclaggio).

Quanto alla natura giuridica della suddetta misura ablatoria, ci si è interrogati se la stessa debba assumere natura di «pena» o di «misura di sicurezza». Il dibattito, alla luce delle variegate tipologie di «confisca» previste dal nostro ordinamento (che presentano funzionalità difformi), non ha condotto ad una soluzione unitaria: certo è che l’effetto concreto della suddetta misura è sempre quello di privare il reo di beni economici; quanto alla sua funzione, risultano ancora attuali le indicazioni della Corte Costituzionale, la quale, con approccio pragmatico, ha da tempo ritenuto che la misura ablatoria in questione possa «essere disposta per diversi motivi e indirizzata a diverse finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa»[23].

Un cenno a parte meritano poi le cc.dd. confische «antimafia» di cui agli artt. 24 d.lgs. 159/2011 (misura ante delictum) e 12-sexies d. lgs. 396/1922 (misura post delictum, oggi prevista dall’art. 240-bis c.p.), per le quali si assiste ad una maggiore omogeneità interpretativa: se nel primo caso si ritiene che la natura sia quella di «misura di prevenzione», nel secondo, la giurisprudenza è unanime nell’optare a favore di un «misura di sicurezza patrimoniale»[24].

Dalla, pur concisa, elencazione che precede risulta tuttavia evidente come esista, sul terreno dello spossessamento dei beni appartenenti al debitore/reo, una linea comune di confine piuttosto estesa tra la disciplina concorsuale e quella penale e come, in conseguenza, sussistano reciproche interferenze.

Nel tentativo di comporre i potenziali contrasti esistenti tra le due discipline, concorsuali e penalistiche, è ripetutamente intervenuta in primis la giurisprudenza di legittimità.

Così, sulla questione della concorrenza tra normativa antimafia e legge fallimentare, si è sostenuto la prevalenza della procedura preventiva (antimafia) su quella fallimentare, essendo considerato prioritario l’interesse pubblico perseguito dalla legislazione antimafia, rispetto all’interesse meramente privatistico rappresentato dal rispetto del principio della par condicio creditorum[25].

In termini più generali erano già intervenute le Sezioni Unite, con la ben nota sentenza n. 29951/2004 con la quale, in primo luogo, si occupano della compatibilità del sequestro preventivo impeditivo della res (ex art. 321, comma 1 c.p.p.) con il sopravvenuto fallimento del soggetto indagato cui il bene colpito dalla misura ablatoria sia riferibile, stabilendo che: «il giudice - a fronte di una dichiarazione di fallimento del soggetto a cui il bene appartenga - ben può disporre l'applicazione, il mantenimento o la revoca del sequestro previsto dal 1 comma dell'art. 321 c.p.p., senza essere vincolato dagli effetti di cui all'art. 42 L.F.; lo stesso giudice, però, nel discrezionale giudizio sulla pericolosità della res, dovrà effettuare una valutazione di bilanciamento (e darne conto con adeguata motivazione) del motivo della cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale. Alla stregua di tale valutazione, il bene sequestrato potrà anche essere restituito all'ufficio fallimentare, ferma restando, ovviamente, la possibilità di nuova applicazione della misura di cautela reale nei casi in cui ritorni attuale la sussistenza dei presupposti».

Nel caso invece del sequestro funzionale alla confisca (ex art. 321, comma 2 c.p.p.) l’arresto distingue tra ipotesi di confisca obbligatoria (ex art. 240, comma 2 c.p.) e di confisca facoltativa (ex art. 240, comma 1 c.p.).

Nella prima fattispecie, il sequestro avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria, deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare, senza margini di discrezionalità disponibili per il giudice della cautela reale sulla valutazione della pericolosità della cosa, in quanto la res «è considerata pericolosa in base ad una presunzione assoluta: la legge vuole escludere che il bene sia rimesso in circolazione, sia pure attraverso l'espropriazione del reo, sicché non può consentirsi che il bene stesso, restituito all'ufficio fallimentare, possa essere venduto medio tempore e il ricavato distribuito ai creditori».

Nel sequestro preventivo funzionale alla confisca facoltativa, non avendo la misura cautelare reale ad oggetto un bene intrinsecamente illecito, non può escludersi che l’intervenuta procedura concorsuale possa determinare la sopraggiunta inidoneità delle condizioni di applicabilità. Qui è al giudice della cautela reale ad essere devoluto il concreto accertamento che, lo spossessamento derivante dalla declaratoria fallimentare, possa essere idoneo a fare venir meno lo stesso motivo della cautela, assicurando, da una parte, la garanzia dei creditori sul patrimonio dell’imprenditore fallito, e, dall’altra parte, la necessità di evitare che il reo resti in possesso delle cose che sono servite a commettere il reato o che ne sono il prodotto o il profitto.

Le Sezioni Unite con l’arresto citato affrontano poi ancora i casi del sequestro probatorio (ex artt. 253 ss c.p.p.) e del sequestro conservativo penale (ex art. 316 c.p.p.), concludendo: che il sequestro probatorio, essendo finalizzato alla tutela delle esigenze di ricerca della prova, tipiche del procedimento penale, persegue un interesse di natura pubblica, pertanto poziore rispetto all’interesse privatistico dei creditori concorsuali ed è quindi attuabile – o mantenibile – anche su beni coinvolti in procedure concorsuali fintanto che permangono le esigenze probatorie; il sequestro conservativo penale, in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto, deve invece farsi rientrare, in caso di fallimento dell’obbligato, nell’area di operatività del divieto di cui all’art. 51 l.fall., palesandosi una sostanziale identità funzionale con l’omologo sequestro civile, che dottrina e giurisprudenza ritengono pacificamente non esperibile in costanza di fallimento. In particolare, poiché la situazione dell’imprenditore fallito si pone in rapporto di specialità rispetto a quella dell’imputato tenuto alle obbligazioni civili scaturenti dal reato, trova applicazione la normativa speciale del fallimento (fermo restando, peraltro, il riconoscimento del privilegio previsto dall'art. 316, comma 4, c.p.p., almeno per i sequestri eseguiti prima dell’apertura della procedura fallimentare, cosicché nonostante la caducazione del sequestro, i crediti andranno ammessi al passivo fallimentare con privilegio sui beni sequestrati, subordinati alla pronuncia irrevocabile di condanna dell'imputato), talché si avrà  da un lato, l’inefficacia del sequestro di cui all’art. 316 c.p.p. qualora sia disposto in pendenza di fallimento, anche se il reato è stato commesso prima dell’apertura della procedura concorsuale; dall’altro, la caducazione della misura qualora il fallimento intervenga successivamente.

A valle della elaborazione giurisprudenziale è intervenuto sulla materia il legislatore con il CCII.

La legge n. 155/2017 (Delega al governo per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza) all’art. 13, comma 1, disponendo i principi della delega, stabilisce che «il Governo adotta disposizioni di coordinamento con il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, stabilendo condizioni e criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di insolvenza».

Le disposizioni di interesse sono contenute nel Titolo VIII della parte prima del Dlgs. 14/2019.

L’art. 317, rubricato «Principi di prevalenza delle misure cautelari reali e tutela dei terzi», che la relazione illustrativa considera avente contenuto ricognitivo, stabilisce in buona sostanza, un criterio di prevalenza del procedimento di prevenzione destinato a sfociare in un provvedimento di confisca rispetto alla procedura concorsuale[26]. Peraltro, non è escluso che, in simili ipotesi, le ragioni creditorie possano ricevere tutela, considerato che, a mente dell’art. 52 lett. b d. lgs. 159/2011 (testo normativo che, come ricordato, è destinato a regolare il procedimento di prevenzione, per effetto del rinvio, operato dall’art. 317 CCI, all’art. 104-bis disp att. Cpp), sono fatti salvi, rispetto alla misura ablatoria, i diritti di credito di terzi maturati antecedentemente al sequestro, a condizione che il credito in questione «non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, sempre che il creditore dimostri la buona fede e l’inconsapevole affidamento».

I successivi artt.  318 e 319 si occupano invece del sequestro preventivo, ex art. 321, comma 1 c.p.p., e del sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p., dettando un criterio di prevalenza della procedura concorsuale rispetto alle misure di carattere penale[27](nel caso di sequestro impeditivo, la misura penale dovrà, tuttavia, prevalere, nel caso in cui la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle cose colpite dal vincolo costituisca reato ovvero le suddette attività siano subordinate ad autorizzazione amministrativa). Sia nel primo che nel secondo caso la scelta risulta condivisibile, atteso che, in ipotesi di sequestro impeditivo, le regole di spossessamento fallimentare sembrano essere idonee a perseguire la ratio processuale sottesa alla misura penale (privare il reo della disponibilità di cose pericolose); in ipotesi di sequestro conservativo, invece, la prevalenza del diritto concorsuale risponde a ragioni di carattere sistematico (correlate al divieto d’inizio o di prosecuzione di azioni esecutive nei confronti del soggetto fallito).

Oltre al sistema ordinamentale penale anche la normativa sovranazionale prevede eccezioni al principio dell’universalità oggettiva. Ci si riferisce, in particolare, al Regolamento CE n. 848/2015, secondo cui, oltre alla procedura principale d’insolvenza (aperta nello Stato nel cui territorio è situato il COMI), possano essere aperte procedure secondarie d’insolvenza negli Stati in cui il debitore possiede una dipendenza (cfr. art. 3, § 2). Gli effetti delle procedure secondarie sono limitati ai beni del debitore che si trovano nel territorio ove ha sede la dipendenza, che sono, pertanto, sottratti alla procedura concorsuale principale.

 

4. La derelictio nella legge fallimentare.

Il fenomeno dello spossessamento universale subito dai beni del debitore nell’ambito delle procedure concorsuali, al di là delle situazioni particolari, dipendenti dalla peculiare natura dei beni ovvero dalla concorrenza di altre disposizioni normative, è comunque soggetto ad una più generale disciplina derogatoria che ruota attorno al giudizio, affidato agli organi della procedura, sulla convenienza, o meno, di provvedere alla liquidazione dei beni in ambito concorsuale.

La disciplina è recata dall’art. 42, comma 3, dall’art. 44 comma 3 e dall’art. 104-ter, comma 9 della legge fallimentare.

 

4.1. I beni sopravvenuti.

Si è già in precedenza osservato che l’apprensione alla massa attiva fallimentare dei beni sopravvenuti in corso di procedura, così come disposto dall’art. 42, comma 2 l.fall., postula la dinamicità del patrimonio del debitore, in apparente armonia con il principio sancito dall’art. 2470 c.c. Si è anche evidenziata, tuttavia, la discontinuità della disposizione concorsuale rispetto al principio civilistico. Infatti, mentre i creditori per obbligazioni sorte dopo il fallimento, ma funzionali all’acquisizione del bene, saranno soddisfatti in prededuzione, i creditori successivi al fallimento rimarranno esclusi dalla ripartizione delle somme ricavate dalla liquidazione del bene futuro a vantaggio dei creditori concorrenti, ciò in aperto contrasto con il principio della responsabilità patrimoniale del debitore sancito dall’art. 2740 c.c. (il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri)[28]. L’altro elemento di distinzione tra la disciplina concorsuale e la disposizione civilistica in tema di responsabilità patrimoniale del debitore è rappresentato dalla diversa modalità di acquisizione del bene: nel fallimento, infatti, è un effetto diretto dell’apertura della procedura, mentre diversamente è necessario sottoporre il bene all’esecuzione individuale.

Tuttavia, se non pare potersi recare in dubbio che il diritto all’acquisizione dei beni sopravvenuti origina ipso iure dalla dichiarazione di fallimento del debitore, controversa è invece la questione delle modalità con cui tale diritto debba esercitarsi[29].

 Sul punto si confrontano due opinioni: quella dell’automaticità e quella della necessità di un provvedimento degli organi della procedura affinché l’acquisizione si realizzi.

Secondo la tesi dell’automatismo, prevalente in giurisprudenza[30]e presente, pur con diverse sfumature, anche in dottrina l’acquisizione alla massa attiva dei beni sopravvenuti nel patrimonio del debitore successivamente all’apertura della procedura, costituirebbe l’effetto diretto della dichiarazione di fallimento senza che, quindi, sia necessaria alcuna particolare attività processuale degli organi concorsuali[31].

Si è tuttavia fatto notare già in epoca precedente l’introduzione del terzo comma all’art. 42 l.fall., come non vi fosse comunque alcun obbligo per il curatore di subire l’acquisizione dei beni sopravvenuti, accollando alla massa le passività connesse, ma che si trattasse di una scelta (di acquisire o non acquisire il bene) devoluta agli organi concorsuali da esercitarsi all’esito del giudizio di convenienza economica; procedimento incompatibile quindi, per sua natura, con l’idea dell’acquisizione automatica del bene [32].

La possibile aporia - tra acquisizione ipso iure e rinuncia all’acquisizione per difetto di convenienza - è stata così l’occasione, per quella parte di dottrina contraria al concetto di automatismo, per provare a risolvere, invero con grande pluralità di posizioni, la complessa problematica[33].

Sulla questione è intervenuto il legislatore della «Riforma»[34] introducendo all’art. 42 l.fall. il terzo comma, a mente del quale il «curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi».

La disposizione recepisce quanto giurisprudenza e dottrina avevano già sostenuto prima dell’introduzione della novella, ovvero che non incombe sul curatore l’obbligo di acquisire un bene futuro, ma che l’apprensione alla massa attiva rappresenta il frutto di una scelta assunta dagli organi concorsuali sulla base del giudizio di convenienza economica (che viene adesso precisato come differenza tra il presumibile valore di realizzo del bene futuro e i costi sostenuti per il suo acquisto e da sostenere per la sua conservazione).

Il terzo comma niente dispone tuttavia a proposito delle modalità di acquisizione dei beni sopravvenuti, con il risultato di rinfocolare sulla questione il dibattito mai sopito. Così, da una parte, la possibilità del curatore di rinunciare all’acquisizione antieconomica del bene futuro viene letta come avallo della tesi dell’automaticità dell’acquisto, che verrebbe meno solo a seguito di rinuncia espressa del curatore[35]; dall’altra si fa notare che «rinunciare ad acquisire» è espressione che mal si concilia con un’acquisizione già avvenuta, cosicché la lettera della norma deporrebbe a favore della tesi della non automatica dell’acquisizione[36].

Quale sia la tesi che si ritiene prevalente, non può non osservarsi che il sistema delineato dai commi due e tre dell’art. 42 l.fall. non trova oggi frequente applicazione, essendo modellato sul fallimento dell’imprenditore individuale. Le fattispecie in cui al fallito possono pervenire beni successivamente all’apertura della procedura sono, infatti, comunemente riferite alla successione mortis causa, alla donazione, alle vincite di gare o lotterie, o anche, più probabilmente, ai redditi quali stipendi, pensioni o altri proventi della propria attività. Si tratta però, all’evidenza, di situazioni che possono verificarsi solo se il fallito è una persona fisica e non ricorrenti, invece, nel caso di fallimento di società.

 

4.2 Le utilità conseguite dal fallito in corso di procedura.

Il fenomeno dello spossessamento determina, quale naturale conseguenza, che il patrimonio oggetto di segregazione debba rimanere insensibile rispetto all’attività giuridica e materiale compiuta dal fallito dopo l’apertura della procedura. Tale insensibilità (cd. cristallizzazione dell’attivo)[37], sancita dall’art. 44 l.fall., è totale, nel senso che riguarda non solo le obbligazioni che sorgono da atti negoziali, ma anche quelle che originano da qualunque fatto o atto giuridico, come delitti o quasi delitti, atti compiuti in stato di necessità, indebiti arricchimenti, gestioni di affari ecc.[38]; è però anche relativa, nel senso che si manifesta non già come nullità degli atti, bensì come loro inefficacia nei confronti della massa, indipendentemente dalla circostanza che l’attività del fallito abbia cagionato un danno ai creditori[39]. Ciò significa, da una parte, che gli atti sono pienamente validi e che la loro efficacia può essere fatta valere dal e nei confronti del fallito tornato in bonis; dall’altra parte che la legittimazione a far valere l’inefficacia è solo del curatore, che può rinunciarvi se ritiene di potersi avvantaggiare degli effetti dell’attività posta in essere dal fallito[40].

Sotto quest’ultimo profilo, con la «Riforma» è stato aggiunto all’art. 44 l.fall. il terzo comma, secondo il quale «fermo quanto previsto dall’articolo 42, secondo comma, sono acquisite al fallimento tutte le utilità che il fallito consegue nel corso della procedura per effetto degli atti di cui al primo e secondo comma». Si tratta di una disposizione che non si è rivelata tuttavia di immediata interpretazione.

Il suo tenore letterale pare innanzitutto deporre nel senso di attrarre alla regola dettata dall’art. 42, comma 2 l.fall.  – accollo alla massa delle passività necessarie all’acquisto e alla conservazione dei beni sopravvenuti - i beni o le somme che pervengono al fallimento a seguito di determinati atti (o pagamenti) inefficaci. Una lettura così limitata finirebbe però per fare ritenere del tutto ridondante la norma, in quanto altro non sarebbe se non la ripetizione di un principio di carattere generale già espresso dall’art. 42, comma 2 l.fall.[41].

Si è allora ritenuto che l’ulteriore effetto della disposizione sarebbe quello di imporre l’acquisizione (automatica) dell’utilità, negando al curatore la facoltà di rinunciarvi[42].

È stato però osservato che l’acquisizione di un’utilità non è sempre e necessariamente un fatto positivo per i creditori, potendosi determinare situazioni in cui, per esempio, i costi di conservazione del bene acquisito rendono diseconomica l’operazione. Inoltre, l’automaticità dell’acquisizione, contrasterebbe con la stessa lettera della disposizione, che salvaguarda l’applicazione dell’art. 42, comma 2 l.fall. e che, a sua volta, secondo l’opinione prevalente, richiederebbe l’esternazione della volontà degli organi della procedura, espressa o anche tacita, di acquisire al fallimento il bene [43]. In questa prospettiva, quindi, anche l’acquisizione delle utilità derivate dall’attività compiuta dal fallito dopo l’apertura della procedura, viziata da inefficacia relativa, sarebbe soggetta all’esito del giudizio di convenienza operato dal curatore, analogamente a quanto prevede l’art. 42 l.fall., il che riproporrebbe il giudizio di scarsa significatività della stessa disposizione[44].

 

4.3 L’abbandono dei beni già esistenti nel patrimonio del fallito.

Gli artt. 42 e 44 l.fall. si occupano, come abbiamo visto, di disciplinare il caso di beni (o di utilità) pervenuti al fallito in corso di procedura, disponendo la loro acquisizione all’attivo fallimentare, fatta salva la possibilità per gli organi della procedura, allorché si prospetti un giudizio di non convenienza economica, di rinunziarvi.

L’art. 104-ter, l.fall. (rubricato programma di liquidazione), al comma otto, prevede invece la possibilità per il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, di «non acquisire all’attivo» o di «rinunciare a liquidare» uno o più beni, allorché «l’attività di liquidazione» appaia «manifestatamente non conveniente». Si tratta del cd. «procedimento di abbandono dei beni» (la derelictio fallimentare), che riguarda però beni che sono già esistenti nel patrimonio del debitore al momento della dichiarazione di fallimento. A dispetto del tenore letterale, che potrebbe suggerire una facile interpretazione, la norma necessita, al contrario, di un certo sforzo ermeneutico in chiave applicativa.     

La prima questione da affrontare riguarda il perché della collocazione della derelictio all’interno della disposizione che disciplina la formazione del programma di liquidazione (inde anche p.l.), rispetto alla quale appare prima facie estranea[45]. Il secondo comma dell’art. 104-ter l.fall. - che specifica il contenuto minimo obbligatorio del p.l. - non contempla infatti il procedimento di abbandono dei beni ed inoltre, l’approvazione della derelictio, è riservata al comitato dei creditori e non al giudice delegato, che deve invece autorizzare, ai sensi del nono comma, l’esecuzione degli atti conformi al p.l. Da qui si è così sostenuto che la previsione dell’abbandono dei beni non riguarda strettamente la disciplina del programma di liquidazione e che, pertanto, il curatore possa procedere con la derelictio (anche) al di fuori del programma stesso[46].

Si è, per contro, autorevolmente osservato come la ricomprensione della derelictio nel programma di liquidazione sia, invece, la soluzione da preferirsi in quanto ciò consente al giudice delegato di compiere una più efficace valutazione dell’attività di liquidazione nel suo complesso, pur non essendo ad egli direttamente devoluto il provvedimento autorizzativo dell’abbandono. Diversamente opinando la disposizione si risolverebbe in una duplicazione del meccanismo di integrazione dei poteri del curatore, già previsto dall’art. 35 l.fall.[47]. In buona sostanza si tratterebbe, secondo questa tesi, di inserire un’apposita sezione nel programma di liquidazione in cui indicare i beni, cui si intende rinunziare ad acquisire o a liquidare, specificando i motivi della decisione[48]. L’autorizzazione del comitato dei creditori, in questo caso, deriverebbe direttamente dall’approvazione del programma di liquidazione da parte del comitato espressa ai sensi del primo comma dell’art. 104-ter l.fall.[49].

Quale che sia l’opinione che si ritiene di condividere vi è comunque la necessità di coordinare le due ipotesi previste dal «procedimento di abbandono» dei beni (non acquisizione o rinunzia alla liquidazione) con la disciplina della «custodia e dell’amministrazione delle attività fallimentari» (di cui al Capo IV l.fall.).

L’intervenuto fallimento, come si è già evidenziato, priva il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di apertura della procedura, ma non determina la sottrazione al fallito ope legis del loro possesso[50].

Con l’inventario (ex art. 87 l.fall.) il curatore individua, elenca, descrive e valuta i beni che costituiscono il patrimonio del fallito, prendendoli in consegna (ex art. 88 l.fall.) e divenendone pertanto (mero) detentore[51](assumendo peraltro la responsabilità della loro custodia)[52]. Si è anche detto che l’inventario rappresenta l’atto con cui effettivamente e contabilmente i beni del fallito si trasformano in attivo fallimentare[53]. Ebbene, dal punto di vista cronologico, le operazioni inventariali precedono certamente la predisposizione del programma di liquidazione, se non altro perché il termine mobile dei sessanta giorni (entro cui il programma deve essere presentato al comitato dei creditori per l’approvazione) decorre proprio dal deposito dell’inventario. Da tale elementare constatazione deriva pertanto che l’istituto della non acquisizione sarà praticabile dal curatore solo per i beni non inclusi nel fallimento e per i quali non si è già verificata, quindi, la presa in consegna ex art. 88 l.fall. Detto in altri termini, per i beni inventariati (e quindi presi in custodia dal curatore) la derelictio pare attuabile unicamente mediante la rinunzia alla liquidazione; ciò sia che si opti per la tesi dell’istituto dell’abbandono come sub procedimento del programma di liquidazione sia che lo si ritenga un atto autonomo[54].

A questo punto mette in buon conto affrontare la questione della condizione cui è sottoposta la decisione di non acquisire, o rinunziare a liquidare, un bene del fallito. In proposito il dato letterale della disposizione appare chiaro allorché parla di «manifesta non convenienza dell’attività di liquidazione». Il giudizio sotteso presuppone pertanto che il curatore operi la comparazione tra due valori: il valore di presunto realizzo del bene e il valore presumibile dei costi da sostenere per la sua conservazione e liquidazione. Nel caso di prevalenza dei costi ecco che si realizza la condizione di non convenienza.

L’avverbio manifestamente è stato inteso nel senso che, in caso di dubbio, non è ammissibile la derelictio[55].

Non può tuttavia sottacersi che, probabilmente, il significato sul piano interpretativo, da attribuirsi al termine «manifestamente», debba essere ricercato con un maggior grado di intensità. Il giudizio di convenienza, infatti, si risolve, come abbiamo detto, in una (semplice) formula aritmetica (sottrazione) il cui risultato, rispondendo alle regole della matematica, è ontologicamente scevro da qualsiasi dubbio (se la differenza sarà positiva l’attività di liquidazione sarà giudicata conveniente, viceversa, se il risultato sarà negativo, si mostrerà non conveniente). Sotto questo profilo, quindi, l’utilizzo dell’avverbio manifestamente niente aggiunge sul piano metodologico al giudizio di convenienza.

Il discorso si fa diverso, invece, allorché si ponga l’attenzione non sul risultato in sé ma sul procedimento valutativo impiegato per determinare i due valori da comparare. Ricordato che si tratta comunque di un giudizio di tipo preventivo (in quanto si svolge ex ante), dunque per sua natura aleatorio, è verosimile ritenere che, il termine manifestamente, debba riferirsi non al risultato ma al processo logico deduttivo che conduce alla stima dei due valori: di presumibile realizzo e di presumibile costo di conservazione e liquidazione del bene. Si tratta, cioè, di applicare un criterio massimamente cautelativo[56], qui inteso nel senso di limitare nell’elaborazione, per quanto possibile, il ricorso a congetture e ipotesi che non siano in stretta aderenza con la best practice in tema di tecniche valutative-estimative. La necessità della prudenza è imposta dagli effetti che la derelictio determina, ovvero l’esclusione del bene dalla massa attiva destinata a generare le somme vincolate alla soddisfazione dei creditori concorrenti.

La prospettiva, inoltre, varia a seconda che si tratti di non acquisire ovvero rinunziare a liquidare un bene.

Nel primo caso, infatti, poiché la scansione temporale degli adempimenti previsti dalla legge fallimentare (cfr. artt. 84-88 e art. 104-ter) pone la decisione di non acquisire un bene a ridosso della dichiarazione di fallimento, è evidente che il giudizio di convenienza mantiene integra tutta la sua natura prognostica, con l’aggravante del poco tempo a disposizione del curatore per acquisire le informazioni necessarie ad una compiuta elaborazione dei valori da comparare. La decisione di rinunziare a liquidare un bene si pone invece in un momento successivo rispetto alla sua presa in consegna, e può avvenire anche dopo uno o più tentativi di vendita[57], eseguiti ai sensi dell’art. 107 l.fall., che non abbiano sortito esito positivo. In quest’ultimo caso appare evidente come la natura aleatoria del giudizio di convenienza venga mitigata dalla conoscenza da parte del curatore di informazioni certe, soprattutto in merito al presumibile valore di realizzo (che sconterà la riduzione del prezzo conseguente ai tentativi di vendita già eseguiti).

In buona sostanza pare potersi ritenere che la decisione di non acquisire rappresenti un atto di amministrazione del curatore di sicura più elevata difficoltà (e rischiosità) rispetto alla decisione di rinunciare a liquidare un bene, allorché, verosimilmente, saranno disponibili per il curatore informazioni dotate di un maggior grado di attendibilità che possono assicurare all’atto un tasso di oggettività decisamente superiore.

Si è già accennato che l’effetto della derelictio è quello di escludere i beni dalla massa attiva (nel caso di non acquisizione) ovvero di non procedere al loro realizzo (nel caso di rinunzia alla liquidazione), talché, da un lato essi tornano nella piena disponibilità del fallito, dall’altro lato potranno essere assoggettati alle azioni cautelari ed esecutive esercitate uti singuli, non applicandosi più, per tali beni, il divieto posto dall’art. 51 l.fall. Da qui la previsione contenuta nell’ultimo periodo dell’ottavo comma dell’art. 104-ter l.fall., per cui il curatore deve dare comunicazione dell’avvenuto abbandono dei beni ai creditori i quali, appunto, potranno, in deroga all’art. 51 l.fall., iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore[58]. Legittimati a procedere in executivis saranno non solo i creditori concorrenti, ma tutti i creditori, in quanto il bene derelitto rientra nella piena disponibilità del debitore ed è assoggettato alle ordinarie regole della responsabilità patrimoniale[59]. Ci si è chiesti allora se la comunicazione della intervenuta derelictio prevista dalla norma debba essere destinata a tutti i creditori del debitore, ai soli creditori insinuati ovvero unicamente ai creditori ammessi. Sulla questione pare che la soluzione più convincente, nel silenzio della legge, sia quella che ritiene che l’onere informativo a carico del curatore valga solamente nei confronti dei creditori che abbiano fatto (almeno) domanda di insinuazione al passivo[60].

Il bene abbandonato può pertanto essere oggetto di una parallela procedura esecutiva individuale che si sovrappone alla liquidazione fallimentare (secondo alcuni sulla falsariga dell’azione individuale esercitabile dal creditore fondiario ex art. 40 TUB[61]). È da escludersi tuttavia che il curatore possa promuovere un intervento in tale procedura individuale, nemmeno nella fase eventuale della distribuzione del prezzo[62]. Rimane invece necessario che lo stesso curatore si premunisca di conoscere l’esito dell’esecuzione, in quanto sarà necessario ridurre il credito insinuato (se la domanda non sia ancora stata decisa), ovvero il credito ammesso in sede di riparto, della somma di cui il creditore ha già goduto in sede extra fallimentare[63].

È generalmente ritenuta ammissibile la possibilità per il curatore di modificare in corso di procedura la decisione assunta sulla derelictio [64]. Al tal fine, in coerenza con l’opinione che ritiene che la procedura per l’abbandono dei beni sia parte integrante del programma di liquidazione, è stato ritenuto necessario che il curatore - al fine di acquisire il bene alla massa attiva ovvero riprendere l’attività di liquidazione - provveda con un supplemento al p.l. (cfr. art. 104-ter, comma 6 l.fall.) nel quale allegare i motivi che hanno determinato un mutato giudizio di convenienza[65] e, nel caso di «nuova acquisizione», le condizioni di vendita del cespite (cfr. art. 104-ter, comma 2 lett. e). Sul punto si può tuttavia aggiungere che, qualora la derelictio sia consistita nella rinuncia alla liquidazione del bene avvenuta in corso di procedura (cioè in epoca successiva al deposito del p.l.), il curatore, in luogo del supplemento del p.l., potrebbe limitarsi ad ottenere l’autorizzazione del comitato dei creditori per la ripresa dell’attività di liquidazione e l’autorizzazione poi del giudice delegato per l’esecuzione degli atti necessari alla vendita del cespite. Ciò in quanto, essendo il bene stato inventariato e preso in consegna dal curatore, il p.l. conterrà ab origine le condizioni di vendita previste dall’art. 104-ter, comma 2, lett. e) l.fall. rispetto alle quali il giudice delegato, nell’autorizzare l’esecuzione ab initio degli atti conseguenti, avrà potuto già esercitare i controlli ad esso devoluti (di denotazione e di correlazione).

La decisione del curatore di acquisire un bene abbandonato, ovvero di riprendere l’attività di liquidazione rinunziata, troverà però un limite nello stato giuridico del bene stesso all’epoca del ripensamento. Più precisamente la ripresa della liquidazione sarà possibile solo entro il termine della vendita o dell’assegnazione del bene nell’ambito dell’esecuzione individuale eventualmente introdotta dal creditore uti singuli. L’acquisizione di un bene precedentemente escluso dall’attivo fallimentare, invece, secondo autorevole opinione sarà possibile fino alla vendita del cespite operata dal fallito, nella considerazione che non essendosi verificato lo «spossessamento» non opera la condizione di inefficacia dell’atto nei confronti dei creditori prevista dall’art. 44 l.fall.[66]. Peraltro si sostiene che resta salvo il diritto in capo al curatore di acquisire all’attivo il ricavato della vendita, detratti i costi, non essendo i beni derelitti ontologicamente non compresi nel fallimento[67].

 

5. La derelictio nel CCII.

La legge fallimentare, come abbiamo visto, nel disciplinare l’istituto della derelictio distingue nettamente il caso di beni (o utilità) pervenute al fallito in corso di procedura dal caso di beni già esistenti nel patrimonio del debitore alla data di dichiarazione di apertura del concorso: la rinunzia all’acquisizione dei beni futuri è dunque regolata dall’art. 42 l.fall. (art. 44 l.fall. nel caso di utilità) mentre la rinunzia all’acquisizione o alla liquidazione di beni già facenti parte del patrimonio del fallito è invece regolata dall’art. 104-ter, comma 8 l.fall.

Il CCII, come vedremo, modifica radicalmente questa impostazione.

L’art. 142, comma 3 CCII (che rappresenta la norma omologa dell’art. 42, comma 3 l.fall.) prevede che: «Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunziare ad acquisire i beni del debitore, compresi quelli che gli pervengono durante la procedura, qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi».

Il profondo cambio di prospettiva appare subito evidente.

La disposizione, diversamente dalla germana norma fallimentare, non si limita infatti a disciplinare la derelictio dei beni sopravvenuti, ma fissa anzi una regola di portata generale rappresentata dalla facoltà, del curatore, di rinunziare ad acquisire, nel caso di non convenienza, qualsiasi bene del debitore: sia che si tratti di beni già esistenti nel patrimonio che di beni futuri.  Ebbene, siccome nel CCII sopravvive un’altra disposizione che, analogamente a quanto prevede l’art. 104-ter, comma 8 l.fall., consente anch’essa al curatore di non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni (si tratta dell’art. 213, comma 2 CCCI, vedi infra) si pone un’evidente esigenza di coordinamento tra le due disposizioni, oltreché, forse, anche la necessità di una verifica circa la tenuta, in tale contesto, del principio di universalità oggettiva anche nell’ambito della disciplina della liquidazione giudiziale.

Intanto conviene muovere ricercando le ragioni che hanno indotto il legislatore del codice a introdurre la regola della derelictio (di tipo generale, ovvero non limitata ai beni sopravvenuti) già all’interno della norma che invece ribadisce, in ossequio al principio della universalità oggettiva, anche nella novella il paradigma dello spossessamento quale effetto, per il debitore, dell’apertura della procedura. Non è inutile in proposito osservare che il primo comma dell’art. 142 CCII riproduce fedelmente (fatto salvo le modifiche necessarie per sostituire i termini fallimento e fallito) il primo comma dell’art. 42 l.fall. mentre il secondo comma dell’art. 142 replica il secondo comma dell’art. 42 l.fall. Il che, da una parte, depone nel senso di escludere qualsiasi volontà del legislatore di modificare il regime di segregazione applicabile ai beni del debitore dall’apertura del concorso, dall’altra parte non aiuta però a comprendere i motivi per cui si è voluto «anticipare» la derelictio all’interno della disciplina che regola gli «effetti dell’apertura della liquidazione giudiziale per il debitore», mantenendo poi un’analoga previsione nell’ambito della disposizione che regolamenta il programma di liquidazione. Né, in tal senso, è di particolare aiuto la relazione illustrativa che si limita, quasi in forma tautologica, a ribadire il principio, già ben noto in vigenza della legge fallimentare riformata, secondo cui è possibile rinunziare ad acquisire o liquidare uno o più beni nel caso di «manifesta» non convenienza[68].

Vale la pena, allora, proseguire nell’indagine provando a ripercorrere la cronologia temporale che scandisce le fasi successive alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale.

Mette in conto premettere che, fatte salve alcune modifiche marginali, la disciplina della custodia e amministrazione dei beni compresi nella liquidazione giudiziale è rimasta nel CCII immutata rispetto alla legge fallimentare, il che consente di ritenere ancora del tutto attuali gli insegnamenti sedimentati da dottrina e giurisprudenza a proposito dello spossessamento e della presa in consegna e custodia dei beni del debitore da parte del curatore.

Sul punto giova riprendere quanto già argomentato nelle pagine che precedono, ovvero che, a fronte del fenomeno dello spossessamento, generato istantaneamente alla (e quale effetto della) dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale (cfr. art. 142 CCII), sta l’immediata acquisizione (o, se si preferisce, segregazione) del patrimonio del debitore alla procedura concorsuale. La successiva fase della inventariazione (ex art. 196 CCII) ha, infatti, natura ricognitiva e non costitutiva[69]. Diversamente opinando, mentre il debitore perderebbe immediatamente la disponibilità e l’amministrazione dei suoi beni, se il curatore la «acquisisse» solo al momento dell’inventario, si determinerebbe una frattura temporale in cui la gestione dei beni non sarebbe imputabile a nessuno, con ricadute non sostenibili su diversi profili, quali, ad esempio il regime della responsabilità[70].

E sta proprio qui forse la chiave di lettura per comprendere i motivi che hanno spinto il legislatore del codice a prevedere già nell’art. 142 l’istituto della derelizione.

Se si condivide l’opinione secondo cui è con la dichiarazione di apertura della procedura che si determina l’effetto di apprensione all’attivo del patrimonio del debitore, si deve allora convenire che i costi di acquisizione e conservazione dei beni che ne fanno parte gravano fin da subito (ovvero dalla data della sentenza) sulla massa quali crediti prededucibili e continueranno a maturare fino a quando il curatore non assumerà l’eventuale decisione di abbandonare uno o più di tali beni. Ebbene, anticipare la possibilità di derelinquere ad un momento quanto più prossimo possibile alla data della sentenza di apertura della procedura, potrebbe così evitare di onerare la massa dei costi inerenti alla conservazione di quei beni destinati comunque ad essere derelitti.

Il che può spiegare, forse, il motivo per cui l’abbandono (generale) dei beni sia una facoltà del curatore già prevista nel CCII all’art. 142, ma non spiega, invece, il motivo per cui la possibilità di rinunziare ad acquisire o a liquidare sia ripetuta poi anche nell’ambito dell’art. 213 che si occupa, invece, di regolare la formazione del programma di liquidazione.

Per provare a coordinare le due disposizioni, oltreché per comprendere le ragioni della loro coesistenza, è utile ricordare nuovamente quale è la scansione temporale degli adempimenti relativi all’amministrazione dei beni che incombono sul curatore successivamente alla sentenza di apertura della liquidazione. Si tratta, come è noto: della ricognizione dei beni ed eventuale apposizione dei sigilli, che per espressa previsione di legge deve avvenire con immediatezza, ovvero nell’imminenza della sentenza (art. 193 CCII); della redazione dell’inventario, che deve avvenire nel più breve termine possibile (art. 195 CCII); della presa in consegna dei beni che, essendo conseguente all’inventario, avverrà anch’essa nel più breve termine possibile (art. 197 CCII); della predisposizione del programma di liquidazione, per cui è previsto un doppio termine, di sessanta giorni dalla redazione dell’inventario o, in ogni caso, di centottanta giorni dalla data della sentenza (art. 213 CCII).

Così posta la questione può allora ritenersi che la derelictio prevista dall’art. 142 CCII sia da collegarsi a quell’attività ricognitiva dei beni del debitore che il curatore, ex art. 193 CCII, deve svolgere nell’immediatezza dell’apertura della procedura e dalla quale potrebbe emergere ictu oculi l’opportunità di abbandonare il bene, allorché sia manifesto che i costi di acquisizione e conservazione superano il valore di presumibile realizzo. Si eviterebbe così di assumere a carico della massa oneri inerenti ad un bene rispetto al quale sarebbe già del tutto evidente l’inutilità della liquidazione. Anzi, sotto altro profilo, si può aggiungere che la derelictio prevista dall’art. 142 CCII possa costituire un rafforzamento dell’onere di diligenza posto a carico del curatore nella ricognizione dei beni di cui all’art. 193 CCII, talché il mancato esercizio della facoltà di abbandono di un bene, palesemente inidoneo ad una proficua liquidazione, potrebbe comportare una responsabilità del curatore ex art. 136 CCII.

La rinunzia ad acquisire un bene prevista dall’art. 213 CCII potrebbe invece rappresentare l’esito di un giudizio più meditato, maturato dal curatore durante l’attività d’inventariazione, compiuto anche con l’ausilio degli esperti nominati ai sensi dell’art. 195 CCII. La manifesta non convenienza dell’acquisizione (che costituisce anche per il CCII così come per la legge fallimentare la condizione oggettiva per la rinunzia all’acquisizione) non sarebbe, pertanto, in questo caso, apprezzabile ictu oculi durante la ricognizione del bene, ma risulterebbe appunto a conclusione di un’attività valutativa-estimativa più estesa compiuta dal curatore. Questa fase potrebbe chiudersi con la mancata presa in consegna del bene da parte del curatore, previa autorizzazione all’abbandono rilasciata dal comitato dei creditori (a seguito di una richiesta autonoma ovvero all’esito dell’approvazione del programma di liquidazione). 

Diverso ancora dovrebbe essere considerato il caso della rinunzia alla liquidazione di un bene, prevista anch’essa dall’art. 213, comma 2 CCII, che postula invece la precedente presa in consegna del bene stesso da parte del curatore e la sua inclusione nel programma di liquidazione. Qui il giudizio di non convenienza deve ritenersi che sopravvenga durante la fase di realizzo del bene, in particolare a seguito del succedersi dei tentativi di vendita senza aggiudicazione. In questo senso depone d’altronde lo stesso tenore dell’art. 213, comma 2 CCII, che, con disposizione innovativa, fa presumere la manifesta non convenienza alla prosecuzione dell’attività di liquidazione dopo sei esperimenti di vendita a cui non ha fatto seguito l’aggiudicazione.

Così sistemata la materia pare allora potersi concludere che la derelictio di cui all’art. 142, comma 3 CCII trovi la più opportuna applicazione per quei beni dei quali il curatore, durante l’attività ricognitiva ex art.193 l.fall., sia già in grado di apprezzare ictu oculi l’inutilità (melius la non convenienza); che la rinuncia all’acquisizione ex art. 213, comma 2 CCII, trovi invece una più appropriata pratica per i beni rispetto ai quali il giudizio di non convenienza si formi all’esito dell’attività valutativa-estimativa compiuta durante la fase di inventariazione; che la rinuncia alla liquidazione, infine, consegua all’andamento non positivo della fase di realizzo del bene, e sia pertanto successiva all’approvazione del programma di liquidazione.

Una tale lettura ci pare possa anche ricondurre la vera novità del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza rispetto alla legge fallimentare nell’ambito della derelictio, costituita dalla previsione di cui all’art. 142, comma 3 di rinunciare all’acquisizione non solo dei beni sopravvenuti ma anche di quelli già esistenti nel patrimonio del debitore (alla data della sentenza di apertura della procedura), nell’ambito delle eccezioni fisiologiche al principio della universalità oggettiva senza, per questo, metterne in dubbio la stessa persistenza[71].

 

6. La derelictio quale (possibile) rimedio degli obblighi di ripristino ambientale che graverebbero sul curatore.

Un caso che si presenta con una certa frequenza è quello del rinvenimento di rifiuti che insistono su (o sono incorporati nei) beni (tipicamente, ma non necessariamente, immobili: si pensi per esempio ad un autoveicolo carico di rifiuti lasciato sulla pubblica via) del debitore abbandonati in epoca precedente la dichiarazione di fallimento (o di apertura della liquidazione giudiziale).

La questione che si pone è quella, da una parte, di accertare gli obblighi che tale situazione determina in capo al curatore e dall’altra di verificare se la derelictio possa costituire un rimedio praticabile per evitare sia l’insorgenza di tali obblighi che le conseguenze economiche che ne deriverebbero in danno ai creditori.

Sul problema si è recentemente pronunciata l’Adunanza Plenaria (inde anche Ad. Plen.) del Consiglio di Stato (n. 3/2021) assumendo che: «la presenza di rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione di fallimento dell’impresa, tramite l’inventario dei beni dell’impresa medesima ex art. 87 e ss. L.F., comportino la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione» e statuendo il seguente principio di diritto: «ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare».

La decisione, tutt’altro che condivisibile sotto diversi profili[72], muove dal presupposto che, ai fini dell’obbligo della rimozione dei rifiuti, a niente rileva la distinzione tra il possesso e la detenzione  (che poi è il titolo giuridico che caratterizza il rapporto esistente tra il curatore e i beni del fallito), poiché «ciò che conta è la disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo giuridico che consenta (o imponga) l’amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati», ovvero «la sussistenza di un rapporto gestorio, inteso come “amministrazione del patrimonio altrui”, ciò che certamente caratterizza l’attività del curatore fallimentare con riferimento ai beni oggetto della procedura». I Giudici proseguono poi, valorizzando il principio comunitario secondo cui «chi inquina paga», affermando che, un approdo diverso da quello predicato, finirebbe per accollare alla comunità incolpevole i costi della bonifica in aperto contrasto, appunto, con la regola che vuole che gli oneri del ripristino ambientale siano sopportati da chi ha provocato l’inquinamento.

In disparte tutte le possibili valutazioni critiche sulla fondatezza dell’iter logico deduttivo seguito dai Giudici, molte delle quali attingono al diritto ambientale e quindi esulano dalla competenza del presente scritto, la nostra attenzione si posa invece su un’eccezione mossa dalla difesa del curatore ricorrente, che attiene strettamente alla disciplina concorsuale, ovvero la evocata applicabilità dell’art. 42, comma 3 l.fall.  per escludere il bene inquinato dall’attivo fallimentare.

Diciamo subito che i giudici di Palazzo Spada hanno avuto buon gioco nel rilevare l’inconferenza della norma richiamata al caso di specie (in quanto l’art. 42, comma 3 l.fall. si occupa dei beni sopravvenuti in corso di procedura e non dei beni già esistenti alla data del fallimento), premettendo tuttavia, a mo’ di preambolo e a dire il vero, in maniera decisamente criptica, non cogliendo, a nostro sommesso avviso, la vera portata giuridica della disposizione evocata, che la previsione dell’art. 42, comma 3 l.fall. «costituisce una mera eventualità di fatto, riguardante la gestione della procedura fallimentare e il ventaglio delle scelte accordate dal legislatore al curatore non incide sul rapporto amministrativo e sui principi in materia di bonifica come sopra rappresentati».

Ebbene sull’inapplicabilità dell’art. 42, comma 3 l.fall., quando si tratti di rinunziare a beni già esistenti nel patrimonio del fallito, non si può che convenire, e quindi non ci sarebbe alcunché da aggiungere.

Il fatto è che il tenore del preambolo, che sembra relegare l’istituto della derelictio ad un semplice atto gestorio del curatore, con effetti esclusivamente endofallimentari, potrebbe assumere una portata di carattere generale, con riguardo quindi anche alla derelictio di cui all’art. 104-ter, comma 8 l.fall.[73].

Volendo procedere con ordine, la prima questione che si pone è se, assunti come fondati tutti i motivi su cui poggia il principio di diritto enunciato nella decisione de qua - per cui farebbero capo al curatore gli obblighi di ripristino ambientale dei siti inquinati di proprietà del fallito - il ricorso alla derelictio prevista dall’art. 104-ter, comma 8 l.fall. consenta al curatore e alla massa dei creditori di rimanere indenne dalle conseguenze determinate dall’applicazione di tale principio. Detto in altro modo, l’abbandono del bene inquinato ex art. 104-ter. comma 8 l.fall. è fatto idoneo a spezzare quel(l’atipico) «legame» che, secondo i Giudici, esisterebbe tra debitore e curatore[74], in forza del quale la colpa dell’imprenditore inquinatore, poi fallito, si trasmetterebbe al curatore e le responsabilità patrimoniale (i costi di ripristino) ai creditori?

Una parte della dottrina ha ritenuto che il ricorso all’istituto della derelictio ex art. 104-ter, comma 8 l.fall. non sarebbe praticabile per i «siti inquinati» in quanto, la condizione di accesso (la manifesta non convenienza della liquidazione del bene), mai potrebbe ricorrere al sol fine di liberare la curatela da debiti già esistenti (o che trovano la loro causa in vicende anteriori alla dichiarazione di fallimento) che gravano sul bene e che nulla hanno a che vedere con l’attività di liquidazione; ciò diversamente da quanto avviene, invece, allorché si tratti di spese che ineriscono direttamente all’acquisizione di un bene[75]. In buona sostanza, tale opinione, pare poggiare sul fatto che nel giudizio di non convenienza il curatore dovrebbe tenere in considerazione solo eventuali costi futuri, funzionali all’acquisizione del bene, mentre non assumerebbero rilievo quelle situazioni giuridiche che, seppur preesistenti al fallimento, vanno comunque ad incidere sulla utilità dell’attività di liquidazione in quanto comportano il sostenimento di costi necessari a rendere «commerciabile» il bene [76]. In proposito ci sia consentito osservare che la condizione di non convenienza di cui all’art. 104-ter l.fall. inerisce proprio alla fase di liquidazione del bene - a differenza di quanto prevede l’art. 42, comma 3 l.fall. che invece si occupa dell’acquisizione di beni futuri - e la conseguente valutazione deve tenere conto di tutti i fattori che possono determinare un giudizio di antieconomicità[77].

La maggior parte degli autori ritiene invece, condivisibilmente, che il curatore, allorché i costi della bonifica del sito siano stimati in misura superiore al presumibile valore di realizzo del bene «inquinato» (o sul quale i rifiuti insistono), possa, previa autorizzazione del comitato dei creditori, rinunciare ad acquisire ovvero a liquidare tale bene in forza dell’art. 104-ter, comma 8 l.fall.[78].

Certo deve sussistere la condizione oggettiva per l’applicabilità della derelictio - la manifesta non convenienza - cosicché le tante volte in cui ciò non avvenga non sarà possibile per il curatore escludere il bene inquinato dall’attivo fallimentare, con la conseguenza che, rebus sic stantibus, permarranno in capo alla procedura obblighi, responsabilità ed oneri della bonifica secondo quanto statuito dal principio di diritto dei giudici di Palazzo Spada. Il rimedio della derelictio non è perciò sempre praticabile, e poiché il giudizio di non convenienza è, come si è ut supra evidenziato, per sua natura di tipo previsionale, ben possono verificarsi situazioni in cui a consuntivo i costi per il ripristino ambientale si rivelino di gran lunga maggiori di quelli stimati, determinando così ex post un radicale cambio di segno nel giudizio di convenienza (si pensi, ad esempio, all’attività di bonifica del sottosuolo la cui intensità risulta pianificabile solo in corso d’opera).  

Qui si pone tuttavia l’ulteriore questione se la decisione del curatore di rinunziare al bene risulti efficace solo nel caso in cui sia assunta prima dell’emissione dell’ordinanza sindacale ovvero anche quando sia successiva. Non sempre infatti, come si è visto, sono prontamente disponibili le informazioni necessarie ad apprezzare, con una sufficiente dose di certezza, quali siano i costi necessari alla bonifica del sito, talché, nelle more, il curatore può risultare destinatario di un provvedimento amministrativo che impone il risanamento dell’area inquinata.

Alla luce del tenore dell’art. 104-ter, comma 8 l.fall., da cui traspare la possibilità per il curatore di avvalersi della derelictio in qualsiasi momento durante la fase di liquidazione, pare potersi sostenere che la decisione di abbandonare il bene mantenga la sua efficacia anche se successiva all’ordinanza sindacale[79]. Se si condivide tale opinione deve pertanto ritenersi che il curatore possa assumere la decisione di rinunziare a liquidare il bene anche dopo che sono iniziate le prime operazioni di bonifica, allorché venga in evidenza che i costi necessari, diversamente da quanto stimato, supereranno in misura consistente il valore di presumibile realizzo del bene, così da rendere manifestamente non conveniente la sua liquidazione.

Rimane in ultimo da affrontare la questione della natura dei crediti nascenti dai lavori di ripristino ambientale, rispetto alla quale, a nostro sommesso avviso, è necessario distinguere il caso della derelictio del bene dal caso invece in cui, in mancanza della condizione oggettiva di non convenienza, non sia possibile per il curatore rinunziare alla liquidazione del bene che permarrà, pertanto, acquisito all’attivo fallimentare.

Cominciando da quest’ultima situazione ci pare che si possa osservare quanto segue. Intanto è utile premettere che, laddove le opere di ripristino ambientale siano eseguite direttamente dal curatore (se spontaneamente o a seguito di ordinanza sindacale non sembra rilevare) è d’uopo ritenere che, trattandosi di un atto di straordinaria amministrazione, l’intervento sia stato autorizzato dal comitato dei creditori ovvero, in via sostitutiva dal giudice delegato a cui, comunque, nel caso in cui la spesa sia superiore a cinquantamila mila euro, sarà stato previamente comunicato. Ciò detto non pare possa essere revocato in dubbio che i crediti nascenti dall’esecuzione dei lavori di bonifica siano da qualificarsi come prededucibili in quanto, l’attività realizzata, è da ritenersi funzionale alla liquidazione del bene inquinato [80]. Si aggiunga che trattandosi di crediti non contestati per ammontare o collocazione, a meno che non insorga controversia circa l’esecuzione dei lavori, i crediti de quibus potranno anche godere dell’esenzione dal procedimento di accertamento del passivo ex art. 111-bis, comma 1 l.fall. e anche potranno, presumibilmente essere pagati al di fuori del piano di riparto ex art. 111-bis, comma 3 l.fall. [81]. Lo stesso trattamento, ci pare, debbano ricevere i crediti dell’ente pubblico che, nel caso di inerzia del curatore, abbia eseguito la bonifica successivamente alla dichiarazione di fallimento. Si tratta, infatti, di un’attività comunque funzionale alla vendita del bene inquinato e non si scorge il motivo per cui i crediti che ne conseguono debbano essere trattati diversamente a seconda che il committente delle opere sia il curatore ovvero le stesse siano eseguite autonomamente dalla pubblica autorità in ossequio ad un precetto di legge[82]. Casomai, ciò che qui viene in rilievo, è il procedimento di accertamento di tali crediti, che ex art. 111-bis, comma 1 l.fall. pare debba sottostare alle regole del Capo V, ed il privilegio speciale di cui il credito, ex art. 253 T.U. Ambiente, godrebbe tra i crediti prededucibili (si tratta di un privilegio speciale immobiliare con preferenza, ex art. 2748, comma 2 c.c., sui creditori ipotecari).

Diversa si presenta invece la questione quando il curatore ha provveduto alla derelictio del bene e, conseguentemente, l’attività di ripristino ambientale sarà di esclusiva competenza della pubblica amministrazione[83]. Appare qui evidente che si spezza il nesso funzionale tra costi necessari alla bonifica e attività di liquidazione del bene escluso dall’attivo fallimentare[84], cosicché deve convenirsi con chi ritiene che il credito non possa che avere natura concorsuale. Si è autorevolmente sottolineato, infatti, che il credito in surroga corrispondente ai costi di ripristino è correlato a condotte antigiuridiche anteriori al fallimento e deve, pertanto, essere qualificato come concorsuale; che al credito non può essere riconosciuto il privilegio speciale in mancanza dell’immobile su cui grava; che il creditore può comunque procedere in executivis su tale bene stante il tenore dell’art. 104-ter, comma 8 l.fall. che comma 8 l.fall.[85].

*

In chiusura vale la pena svolgere un’ulteriore breve riflessione col fine di evidenziare come l’iter motivazionale su cui poggia la decisione del Consiglio di Stato qui in commento si mostri, se possibile, ancora meno convincente alla luce del CCII.

Si è visto che il primo passo da cui muovono i Giudici è ritenere l’inventario lo strumento attraverso il quale il curatore diviene detentore del bene inquinato. Ebbene, in disparte l’imprecisione di tale ragionamento, in quanto si è già detto che l’inventario ha funzione ricognitiva e non costitutiva, la fondatezza di tale postulato deve confrontarsi con la formulazione dell’art. 142 CCII. Tale disposizione, diversamente dall’art. 42 l.fall. che sostituisce, al comma tre consente al curatore, nel caso di non convenienza e previa autorizzazione del comitato dei creditori, di rinunziare non solo ai beni sopravvenuti ma anche ai beni già esistenti nel patrimonio del debitore. La ratio di tale facoltà, si è ut supra osservato, dovrebbe essere ricercata nella volontà del legislatore di permettere la derelizione già in una fase precoce della procedura, addirittura a ridosso della sentenza di apertura, allorché il curatore, provvedendo all’immediata ricognizione dei beni (ex art. 193 CCII) si avveda ictu oculi della non convenienza dell’acquisizione del bene (in quanto inquinato). Ricorrendo tale situazione è facile concludere che lo stesso curatore potrà immediatamente rinunciare ad acquisire il bene e, per l’effetto, si asterrà dal procedere agli incombenti conseguenti: inventariazione e presa in consegna (ivi compresa la «trascrizione» della sentenza).

In buona sostanza in questo caso il CCII farebbe venir meno in radice il titolo giuridico che secondo i Giudici di Palazzo Spada viene a rilievo tra il bene e il curatore per mezzo dell’inventario ex art. 87 l.fall. e che sarebbe alla base della ritenuta legittimazione passiva dello stesso curatore all’ordine di rimozione dei rifiuti.



[1] «Il diritto concorsuale o fallimentare è uno statuto speciale di diritto sostanziale e processuale applicabile all’imprenditore commerciale in crisi, che altera le regole sulla libertà contrattuale dell’imprenditore, sui diritti e obblighi di cui è titolare, sui rapporti di cui è parte, sulle responsabilità, anche di natura penale, a cui deve rispondere e sugli strumenti processuali destinati a tutelare i diversi interessi implicati dalla crisi e assai spesso nascenti dalla crisi stessa, sia sotto il profilo cognitivo che esecutivo», così cecchella, Il processo di fallimento, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da f. vassalli – f.p. luiso – e. gabrielli, Torino, 2014, p. 4; in tal senso v. anche schiano di pepe, Il diritto fallimentare riformato, Padova, 2007, p. 24.

[2] Cfr. provinciali, Manuale di diritto fallimentare, IV ed., Milano, 1962, p. 16 ss.; per una lettura aggiornata giorgi, Introduzione al diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, III ed., Padova, 2020, p.39 ss secondo cui la caratteristica dell’universalità - oggettiva e soggettiva - «non regge all’impatto della riforma». 

[3] Cfr. jorio, Fallimento e concordato fallimentare, (a cura di) a. jorio, Tomo I, Milano, 2016, p. 18.

[4] Cfr. provinciali, Manuale di diritto fallimentare, IV ed., Milano, 1962, p. 20; «Secondo una ricostruzione che trova un certo seguito in giurisprudenza, il fallimento può essere descritto come un pignoramento universale, esteso a tutto il patrimonio del fallito», così cappa, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Fallimento e concordato fallimentare (a cura di) a. jorio, Milano, 2016, p. 1140 ss., ove in nota diffusi riferimenti giurisprudenziali; più articolata è la posizione di satta, Diritto fallimentare, Padova, secondo cui «si è affermata nella dottrina, e si può dire dominante, l’idea che la più cospicua tra le procedura concorsuali, cioè il fallimento, sia una esecuzione forzata (collettiva o universale, anziché individuale). Ma è chiaro che con ciò il problema, lungi dall’esser risolto, è appena posto, perché si tratta proprio di vedere come mai la soddisfazione dei crediti avviene in quella forma, anziché per le vie naturali dell’esecuzione singolare: con questa aggravante, che l’esecuzione singolare è addirittura interdetta durante lo svolgimento della procedura concorsuale», p. 4.

[5] Cfr. de rosa, Gli effetti del fallimento per il fallito: effetti patrimoniali e rapporti sostanziali, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da cagnasso e panzani, Tomo I, Milano, 2016, p. 974.

[6] Cfr. provinciali, Manuale di diritto fallimentare, IV ed., Milano, 1962, p. 16 ss.

[7] Così sciuto, La crisi d’impresa e le ragioni del diritto fallimentare, in Diritto commerciale (a cura di) cian, Vol. II, Diritto della crisi d’impresa, Torino, 2019, p. 3.

[8] «gli effetti del fallimento sul patrimonio del debitore vengono comunemente etichettati come “spossessamento”, secondo una terminologia risalente al code de commerce del 1808 – al quale si ispirano i nostri codici di commercio – dove l’effetto dell’affidamento alla massa dei creditori dell’amministrazione dei beni del fallito era denominata dessaisissement», così guglielmucci, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da f. vassalli – f.p. luiso – e. gabrielli, Torino, 2014, p. 4.

[9] Cfr. guglielmucci, Gli effetti del fallimento per il fallito, cit. p. 5; ferrara-borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, p. 317; nicita, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Trattato di diritto delle procedure concorsuali, diretto da Apice, I, Torino, 2010, p. 376; motti, L’attivo, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, p. 209; deve altresì evidenziarsi che in tempi recenti «si è andata affermando la condivisibile opinione di quanti ritengono che, dal momento che l’istituto trova già una sua compiuta disciplina negli artt. 42 ss. l. fall., non vi sia alcuna necessità di sussumerlo in diverse e più ampie categorie», così cappa, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Fallimento e concordato fallimentare, cit. p. 1141, ove in nota 8 diffusi riferimenti dottrinali.

[10] Così, de rosa, Gli effetti del fallimento per il fallito: effetti patrimoniali e rapporti sostanziali, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, cit. p. 974.

[11] Cfr. zanichelli, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Trattato delle procedure concorsuali, a. jorio – b. sassani, Vol. II, Milano, 2014, p. 7.

[12] Cfr. apice, Trattato di diritto delle procedure concorsuali, Torino, 2010, p. 376.

[13] Cfr. satta, Diritto fallimentare, cit. p.113; per altri lo spossessamento dei nuovi beni richiederebbe prima una decisione del curatore e poi un apposito provvedimento del giudice delegato essendo automatico il diritto all’acquisizione ma non il suo esercizio, cfr. ragusa maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, p.155. Sul punto, che appare particolarmente rilevante ai fini che qui interessano, torneremo infra.

[14] Cfr. Cass. S.U. 12476/2020, ove si afferma che a seguito dell’apertura del concorso sorge «la necessità di cristallizzare l’asse fallimentare (il patrimonio, e dunque l’attivo) alla data del fallimento (art.42, 44 e 52 legge fall.)».

[15] Così cavalli, Gli effetti del fallimento per il debitore, in ambrosini-cavalli-jorio, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, XI,2, Padova, p.343.

[16] «La ratio di tale previsione non è soltanto assicurare che il fallito possa procurare per sé e per i componenti del suo nucleo familiare gli indispensabili mezzi di sussistenza, ma anche di favorirne il reinserimento nell’ambiente economico e produttivo in linea con uno dei principi ispiratori della recente riforma», così t. cappa, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Fallimento e concordato fallimentare, cit. p. 1208. 

[17] Cfr. cappa, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Fallimento e concordato fallimentare (a cura di) jorio, cit., p. 1213.

[18] Introdotto dall’art. 6 comma 1-bis d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv., con mod., in l. 6 agosto 2015, n.132, e replicato dall’art. 163, comma 2 CCII.

[19] Cfr. guglielmucci, Sub. Artt. 46-49, in Comm. Scialoja-Branca l.fall., a cura di bricola-galgano-santini, Bologna-Roma, 1986. p.79.

[20] Cfr. satta, Diritto fallimentare, cit., p. 120.

[21] La legittimazione ad agire a tutela del diritto di abitazione spetta anche al coniuge del fallito, cfr. Cass. n. 4893/1992.

[22] Cfr. rocco di torrepadula, sub art. 42 2 44-47, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio e coordinato da fabiani, I, Bologna. P.747; guglielmucci, Gli effetti del fallimento per il fallito, cit. p. 37; contra, Cfr. jorio, Le crisi d’impresa. Il fallimento, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica-Zatti, Milano, 2000, p. 361; vella, Degli effetti del fallimento per il fallito, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di ferro, Padova, 2014, p. 677; zanichelli, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Trattato delle procedure concorsuali, cit. p. 46.

[23] Così C. Cort. n. 29/1961.

[24] Cass. S.U. n. 920/2004.

[25] Cass. pen. N. 16797/2011.

[26] Per un primo approfondimento v. rugani, I rapporti tra misure cautelari reali e procedure concorsuali nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d. lgs. 12 gennaio 2019 n. 14), in www.lalegislazionepenale.eu. 

[27] Cfr. rugani, I rapporti tra misure cautelari reali e procedure concorsuali nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d. lgs. 12 gennaio 2019 n. 14), cit.

[28] Cfr. cappa, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Fallimento e concordato fallimentare (a cura di) jorio, cit., p. 1155.

[29] de ferra, in de ferra-guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, in Comm. Scialojia, Branca l.fall, sub art. 42-50, p.26

[30] Cfr. Cass. 3117/2005, Cass. 8274/2002, ove rif. ai precedenti conformi della Suprema Corte.

[31] Per provinciali, Manuale di diritto fallimentare, IV ed., Milano, 1962, p. 623 «l’acquisizione del bene è - manifestata la volontà dell’ufficio fallimentare al riguardo – del tutto automatica e costituisce attività di esecuzione: rendendosi operativo (anche) sui beni sopravvenuti quell’atto di esecuzione concretato nella sentenza dichiarativa di fallimento, la cui efficacia (potenziale) già esercitavasi, come una forza attrattiva, rispetto a tutti i beni sopravvenuti»; cfr. satta, Diritto fallimentare, cit., p.113, con la precisazione che l’attività necessaria alla materiale acquisizione del bene assume funzione amministrativa; ferrara-borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, p. 333.

[32] Così zanichelli, Gli effetti del fallimento per il fallito e i creditori, in jorio-sassani, Trattato delle procedure concorsuali, Il fallimento, Vol. II, Milano, 2014, p. 11.

[33] Per una disamina delle diverse posizioni v. maffei alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, IV ed., Milano, 2013, p.268 ss., ove diffusi riferimenti bibliografici. 

[34] Il riferimento è al d.lgs. 5/2006

[35] Così vella, Degli effetti del fallimento per il fallito, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, cit. 595; per altri si potrebbe intendere che l’acquisto sia risolutivamente condizionato alla diversa volontà della procedura, cfr. garra, Commentario agli artt.42-50, in santangeli (a cura di), Il Nuovo Fallimento, Milano, 2006, p. 215, talché oggetto della volontà del curatore non è l’acquisizione – appunto automatica – ma la sola eventuale rinunzia, così pacchi, Commento agli art. 42 e 43, in nigro-sandulli-santoro (a cura di ), La legge fallimentare dopo la riforma, Torino, 2010, p. 575. 

[36] Così zanichelli, Gli effetti del fallimento per il fallito e i creditori, cit., pag. 12; per de rosa, Gli effetti del fallimento per il fallito: effetti patrimoniali e rapporti sostanziali, cit., «preferita la tesi che ripudia ogni automatismo in sede di acquisizione di beni alla massa, si deve procedere ad un’analisi bidirezionale della norma in commento, al fine di darne una lettura unitaria: se il 3° comma, da un lato, impone al curatore – previa autorizzazione del comitato dei creditori – di adottare un formale atto di rinuncia espressa all’acquisizione dei beni sopravvenuti, dall’altro, in modo simmetrico, non può non imporre un formale atto di acquisizione di tali beni. Dal 3° comma, quindi emerge – seppur in modo implicito – che, fino al momento dell’emanazione di un atto di acquisizione o di rinuncia, i beni non possono essere automaticamente acquisiti al fallimento e, tuttavia, non possono neppure ritenersi dismessi»; si è anche osservato che, per il caso di inerzia del curatore, in applicazione analogica di quanto previsto dall’art. 72, comma 2 l.fall, i soggetti interessati potrebbero diffidare il curatore e chiedere l’assegnazione di un termine al giudice delegato, cfr. cappa, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Fallimento e concordato fallimentare (a cura di) jorio, cit., p. 1157.

[37] Cfr. Cass. S.U. 12476/2020.

[38] Così satta, Diritto fallimentare, cit., p. 120.

[39] Cfr. zanichelli, Gli effetti del fallimento per il fallito e i creditori, cit., pag. 24.

[40] Cfr. cavalli, Gli effetti del fallimento per il debitore, in ambrosini-cavalli-jorio, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, XI,2, Padova, p.343; rocco di torrepadula, sub art. 42 2 44-47, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio e coordinato da fabiani, I, Bologna, p.721; tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, p. 193.

[41] Cfr. cappa, Gli effetti del fallimento per il fallito, in Fallimento e concordato fallimentare, cit., p.1184.

[42] Cfr. pacchi, La riforma della legge fallimentare, (a cura di) nigro-sandulli, Torino, 2006, 293.

[43] Cfr. maffei alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, cit., p. 291; sul punto v. anche la posizione più articolata di zanichelli, Gli effetti del fallimento per il fallito, cit., p. 26.

[44] Cfr. rocco di torrepadula, sub art. 42 2 44-47, cit., p. 729.

[45] Cfr. panzani, Il programma di liquidazione, in fauceglia-panzani, Fallimento e altre procedure concorsuali, Vol. II, Torino, 2009, p. 1160.

[46] Cfr. gallone, Programma di liquidazione, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da cagnasso e panzani, Tomo II, Milano, 2016, p. 1816.

[47] Così nonno, art. 104-ter, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di ferro, Padova, 2014, p. 1424; ibidem, paluchowski, art. 104-ter, Programma di liquidazione, in pajardi, Codice del Fallimento, (a cura di) bocchiola- paluchowski, Milano, 2013, p. 1315.

[48] Cfr. paluchowski, art. 104-ter, Programma di liquidazione, cit., p. 1315.

[49] Cfr. Miccolis, Il processo di fallimento, Il programma di liquidazione, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da f. vassalli – f.p. luiso – e. gabrielli, Torino, 2014, p. 699.

[50] Così Cass. 17605/2005; ibidem Cass. 18653/2005.

[51] Cfr. Cass. 4776/1993.

[52] Cfr. penna, Art. 88, Presa in consegna dei beni del fallito da parte del curatore, in pajardi, Codice del Fallimento, (a cura di) bocchiola- paluchowski, Milano, 2013, p. 1072.

[53] Cfr. santangeli, Il processo di fallimento, Inventario e presa in consegna dei beni,in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da f. vassalli – f.p. luiso – e. gabrielli, Torino, 2014, p. 654.

[54] Cfr. nonno, art. 104-ter, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di ferro, Padova, 2014, p. 1424; conf. anche maffei alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, cit., pag. 730.

[55] Cfr. nonno, art. 104-ter, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, cit., p. 1423.

[56] Cfr. paluchowski, art. 104-ter, Programma di liquidazione, cit., p. 1315, che parla di «criteri prudenti di previsione».

[57] In tal senso depone l’art. 213, comma 2 CCII (vedi infra).

[58] Cfr. miccolis, Il processo di fallimento, Il programma di liquidazione, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, cit., p.699.

[59] Cfr. nonno, art. 104-ter, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, cit., p. 1424.

[60] Cfr. d’attore-sandulli, in nigro-sandulli La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, p.625; per altri autori, al fine di evitare il contenzioso relativo alle imposte che possono gravare su alcuni beni anche in corso di procedura è opportuno che il curatore invii la comunicazione anche ai pubblici uffici competenti, così zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Padova, 2008, p. 302.

[61] Cfr. amatore, Sub art. 104-ter, in Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, (diretto da) di marzio, Milano, 2017, p. 701.

[62] Cfr. d’attore-sandulli, in nigro-sandulli La riforma della legge fallimentare, cit., p. 625.

[63] nonno, art. 104-ter, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, cit., p. 1425; id. maffei alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, cit., p. 730.

[64] nonno, ibidem; maffei alberti, ibidem.

[65] Cfr. d’attore-sandulli, in nigro-sandulli La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, p.625; id. maffei alberti, ibidem.

[66] Cfr. d’attore-sandulli, ibidem.

[67] Così zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, p. 302-303.

[68] «Al fine di evitare che le acquisizioni al patrimonio da liquidarsi non vadano a vantaggio dei creditori comportando oneri di acquisizione o gestione superiori al valore del bene è previsto che il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, se già costituito, o, in mancanza, del giudice delegato, possa rinunciare sia ad acquisire beni che pervengono dopo l’apertura ma anche a recuperare beni che già si trovavano nel patrimonio se il presumibile valore di realizzo sia inferiore agli oneri di acquisizione o di conservazione».

[69] Cfr. santangeli, Il processo di fallimento, Inventario e presa in consegna dei beni,in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, cit., p. 655; contra cecchella, Il diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Padova, 2020, p.236-237, secondo cui «il curatore è costretto ad assumere alcune iniziative che preludono il suo possesso: l’apposizione dei sigilli ai sensi dell’art. 193, comma 1° cod., o eventualmente sollecitare al giudice delegato i provvedimenti innominati dell’art. 123, comma 1°, lett. b), cod.».

[70] Cosi fabiani-peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, in Fallimento, 2021, p.622; contra cecchella, ibidem, per il quale «per un certo lasso di tempo il patrimonio non è nel possesso di nessuno».

[71] Contra v. giorgi, Introduzione al diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit. p. 39.

[72] Per una analisi critica della decisione v. gabassi, Gli obblighi ambientali del curatore fallimentare. Note a margine di Cons. St. 3/2021, in www.dirittodellacrisi.it; fabiani-peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, cit.; pizza, Le regole per attribuire al curatore la qualifica di “detentore dei rifiuti” e per addossare i connessi oneri economici alla massa fallimentare, in www.ilfallimentarista.it.

[73] Per gabassi, ibidem, invece «sul tema non pare neppure potersi inferire che l’art. 104-ter, 8° co. e la possibilità di derelictio ivi prevista siano superati dal principio europeo del “chi inquina paga”».

[74] Atipico nel senso che: è vero che i giudici premettono che «deve escludersi che il curatore possa qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento dei rifiuti» e che pertanto «non si verifica un fenomeno successorio», strictu sensu inteso; tuttavia, configurando la responsabilità ambientale in capo al curatore come «oggettiva», a prescindere dall’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno contestato, i giudici stabiliscono in fatto un legame tra l’autore della condotta e  il curatore. Sul punto così gabassi, Gli obblighi ambientali del curatore fallimentare. Note a margine di Cons. St. 3/2021, cit., «Ove si decidesse, comunque, per l’assimilazione curatore fallimentare-operatore, in una sorta di immedesimazione organica tra il gestore della procedura e l’impresa gestita, qual che si trattasse di una qualsiasi successione nel ruolo di legale rappresentante (ove si sta parlando di un ente)» p. 10, e ancora «Non bisogna dimenticare, infatti, che si sta parlando qui di condotte “inquinanti” non già poste in essere dalla curatela, ma dal fallito prima dell’accesso alla procedura concorsuale: occorre, dunque, considerare che vi è una soluzione di continuità tra le due “persone” che deve necessariamente implicare che sull’una non possano traslarsi de plano le responsabilità dell’altra; occorre altresì tenere presente che vi è soluzione di continuità temporale, tra ciò che è accaduto prima e ciò che accade dopo la dichiarazione di fallimento. Affermare, invece, che un fatto accaduto prima della dichiarazione di fallimento – l’abbandono dei rifiuti – produce effetti dopo quel limite temporale significa non avvedersi dello iato, temporale e funzionale», p.13.

[75] Così giorgi, Rinuncia all'acquisizione e siti contaminati: derelizione dei beni o 'abbandono' … dei creditori?, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2019, I, p. 141, ove in nota 34 id. anche spagnuolo, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2007, I, p. 184 secondo cui «il curatore, anche se non passivamente legittimato dell’ordine di adozione di misure di tutela ambientale ha comunque, sulla base degli artt.182 e 242 ss., Cod., cit., l’obbligo di risarcire i danni causati dall’illecito già verificatosi; il rifiuto di acquisire alla massa i rifiuti o l’area perché privi di valore economico o perché i costi sono superiori al valore di possibile realizzo non può rendere inopponibile al fallimento il rapporto obbligatorio, risarcitorio o ripristinatorio, già sorto nei confronti del fallito».

[76] «È il caso, ad esempio, delle spese giudiziali del tutto sproporzionate che occorrerebbero per acquisire un bene (si immagini il caso di un immobile indiviso per il quale sia necessario intraprendere un giudizio di divisione convenendo una molteplicità di soggetti legittimati, per apprendere una quota di modesto valore, o del credito contestato e di dubbia fondatezza, per il quale pure le spese dell’accertamento appaiono eccessive rispetto alla probabile soccombenza o alle scarse possibilità di recupero) il cui presumibile realizzo, per costi e tempi, si appalesa antieconomico», così giorgi, ibidem.

[77] Cfr. fabiani-peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, cit., nota 30, secondo cui «proprio questo è il problema che il curatore valuta, cioè quello di non liquidare il bene, perché liquidarlo significa sopportarne l’onere della bonifica».

[78] Così recentemente lamanna, Il Consiglio di Stato considera il curatore sempre tenuto a smaltire i rifiuti inquinanti prodotti dal fallito, in www.ilfallimentarista.it.; fabiani-peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, cit.; gabassi, Gli obblighi ambientali del curatore fallimentare. Note a margine di Cons. St. 3/2021, cit.; v. anche d’orazio, Il curatore fallimentare e lo smaltimento dei rifiuti. Un sospiro di sollievo, in Fallimento, 2018, p. 601.

[79] Cosi fabiani-peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, cit. secondo cui sarebbe necessario che il curatore impugnasse l’ordinanza sindacale avanti il TAR facendo valere, appunto, il sopravvenuto abbandono del bene; id. gabassi, ibidem.

[80] Al fine di non appesantire oltre modo il presente elaborato si prescinde dall’ipotesi, a dire il vero frequente, in cui la condotta costituita dall’abbandono dei rifiuti venga contestata anche in sede penale con il conseguente sequestro nella migliore delle ipotesi dei rifiuti o, peggio, dell’area su cui insistono. Appare evidente che in questo caso l’unico modo per il curatore per disporre dell’immobile al fine del suo realizzo è, previa accordo con la Procura, provvedere allo smaltimento e all’avvio in discarica degli stessi rifiuti.

[81] È da ritenere, infatti, che il curatore assumendo direttamente in capo alla procedura i costi della bonifica abbia preventivamente verificato la esistenza di una disponibilità finanziaria sufficiente ad effettuare i relativi pagamenti a favore degli esecutori dei lavori, senza che da tali pagamenti ne derivi una violazione dei diritti degli altri creditori qualificati prededucibili.

[82] Cfr. fabiani-peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, cit., p. 625.

[83] Se si assume che l’esclusione del bene ex art. 104-ter, comma 8 l.fall. sia misura idonea ad evitare che gravino sul fallimento gli obblighi di ripristino ambientale, deve allora convenirsi che è impensabile che la procedura si faccia carico di costi per un bene escluso dal perimetro del patrimonio acquisito al fallimento, ciò a prescindere dall’esistenza o meno delle somme all’uopo necessarie. Questa visione si pone naturalmente in contrasto con la pronuncia dell’Ad. Plen. che presume, invece, la persistenza dell’imputabilità al fallimento dell’obbligo di porre in essere le attività strumentali alla bonifica, senza nemmeno prendere in considerazione l’istituto della derelictio. Partendo da tale assunto per i Giudici di Palazzo Spada sono possibili solo due alternative: l’una è che le opere di bonifica sia eseguite direttamente dal curatore e i costi derivanti pertanto «ricadano sulla massa dei creditori», qualificando così i relativi crediti come prededucibili; l’altra è che, nel caso di insufficienza o mancanza di fondi, i lavori siano eseguito dal Comune, che potrà insinuare in surroga il credito al passivo del fallimento rivendicando il privilegio ex art. 253 T.U. Ambiente. Il termine utilizzato nella sentenza «insinuare» non consente di comprendere però il senso compiuto del ragionamento seguito dai Giudici. Infatti i crediti prededucibili debbono, di regola, essere accertati con le regole del Capo V, per cui anche per essi il termine insinuare sarebbe appropriato. Se ne deve pertanto dedurre che l’interpretazione più appropriata della decisione in parte qua sia quella di ritenere prededucibile (nonché assistito dal privilegio speciale ex art. 253 T.U.A.) anche il credito azionato in surroga dal Comune. D’altronde secondo la (non condivisibile) visione offerta dall’Ad Plen. tanto l’intervento di bonifica del curatore quanto quello eventuale del Comune producono lo stesso effetto di rendere commerciabile un bene altrimenti inidoneo ad essere realizzato.

[84] V. Cass. n. 5705/2013 per cui «la prededucibilità, peraltro, assiste soltanto il credito per i costi di bonifica che avvantaggiano gli immobili acquisiti alla massa».

[85] Così fabiani-peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, cit., p. 627.


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