CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 23/01/2020 Scarica PDF
Indicatori e indici della crisi nel sistema degli strumenti di allerta: l'interpretazione sistematica e di metodo offerta dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili
Riccardo Della Santina, Dottore Commercialista, Professore a contrattoSommario: 1. Introduzione. - 2. Il quadro normativo: premessa di metodo - 3. L’interpretazione sistematica offerta dal CNDCEC nella seconda parte del documento - 4.Il pregiudizio della continuità aziendale nell’esercizio in corso o per i sei mesi successivi. - 5.I ritardi nei pagamenti reiterati e significativi. - 6.La sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi. – 7. Il set degli indici. - 8. Gli indici specifici. - 9. Brevi considerazioni finali.
1. Introduzione.
Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC) ha reso pubblico il documento «Crisi d’impresa. Gli indici d’allerta» (inde il Documento) elaborato in adempimento alla delega contenuta nell’art. 13, comma 2 del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 titolato «Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza» (inde il CCI)[1].
Il Documento si compone, oltre che di una premessa e di una appendice metodologica, di una parte prima, dedicata specificatamente agli indici, in stretta attuazione alla delega ricevuta[2], e di una parte seconda[3], di più ampio respiro, ove viene invece affrontata la questione della diversa funzione che indicatori e indici assumono nel sistema degli strumenti di allerta disciplinato dal CCI[4].
Ebbene è proprio questa seconda parte, che pure appare in rapporto solo incidentale rispetto all’oggetto della delega, quella che contiene gli spunti di riflessione più interessanti e che apporta un contributo significativo alla sistemazione di subiecta materia.
2. Il quadro normativo: premessa di metodo
L’art. 12, comma 1 CCI, definisce strumenti di allerta: gli obblighi[5]di segnalazione posti a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e della società di revisione (art. 14 CCI) ovvero dell’agenzia delle entrate, dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’agente della riscossione (art. 15 del CCI); gli obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile, segnatamente dall’art. 2086; il tutto finalizzato alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione (il principio dell’emerging insolvency[6]).
La disposizione tuttavia, a ben vedere, più che fornire una definizione puntuale degli strumenti delinea un sistema, fatto da più elementi correlati tra loro in funzione della rilevazione anticipata della crisi (che ne costituisce l’oggetto).
Così, il dovere, previsto dal riformato art. 2086 c.c. (oggi rubricato «Gestione dell’impresa»)[7], che grava in capo all’imprenditore collettivo[8] di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla dimensione e alla natura dell’impresa e funzionale alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita di continuità aziendale, deve considerarsi non uno strumento di allerta ma il presupposto affinché gli altri componenti del sistema (gli indicatori e gli indici della crisi), operino tra loro in funzione dell’emerging insolvency[9].
La necessità dell’adozione di un adeguato assetto organizzativo, d’altronde, è anche prevista dal CCI come principio generale, al Capo II, Sezione I – Obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi, art. 3 – Doveri del debitore, in ciò confermandosi l’opinione secondo cui esso costituisce più una regola di funzionamento del sistema che non uno strumento di per sé idoneo alla rilevazione precoce dello stato di crisi.
Detto in altro modo, e volendo mutuare la metafora dalla scienza informatica, l’adeguato assetto organizzativo rappresenta il sistema operativo (o software di sistema) mentre gli indicatori e gli indici fungono da programmi applicativi[10].
Se, come si è già detto, la rilevazione tempestiva della crisi ne costituisce l’oggetto è allora a tale nozione che bisogna guardare per comprendere le regole di funzionamento del sistema e per valutarne l’efficacia.
Non è questa la sede per rendere conto dell’ampio dibattito che, negli ultimi tre lustri, ha occupato la dottrina nel tentativo di fornire una definizione positiva del concetto di crisi, introdotto nella legge fallimentare dal legislatore con il D.lg. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. in L. 14 maggio 2005, n. 80.
È utile tuttavia ricordare che l’indeterminatezza della disposizione aveva consentito il tentativo di emancipare la nozione di crisi d’impresa dal paradigma del debito - e quindi dall’insolvenza - per ricondurla più a monte, nell’ambito delle dinamiche che determinano il cattivo funzionamento dell’attività dell’impresa – che sono in primo luogo di natura economica[11]- e che, non manifestandosi già in evidenti squilibri di natura finanziaria, non sono finitime dell’insolvenza[12].
Il CCI fornisce ora (cfr. art. 2, comma 1 lett. a) una definizione di «crisi» applicabile in via generale a qualsiasi debitore, qualificata come «lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza» e che, specificatamente per l’impresa, «si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate».
Tale definizione, che è chiaramente orientata al modello del debito, riconduce la crisi nell’alveo dell’insolvenza[13]. In questo senso eloquente è la previsione che vede la manifestazione esteriore della crisi rappresentata dall’insufficienza prospettica dei flussi di cassa ad adempiere con regolarità alle obbligazioni pianificate (intese come esistenti e previste)[14], in ciò riecheggiandosi la definizione di insolvenza (attuale) di cui alla lettera b) del medesimo art. 2 CCI[15].
Vale anche la pena ricordare che la stessa legge delega (L. 19 ottobre 2107, n. 155), all’art. 2 –Principi generali - alla lettera d) del 1° comma, prevedeva una definizione dello stato di crisi intesa come probabilità di futura insolvenza e che, d’altronde, anche la normativa sovranazionale di matrice comunitaria – Direttiva 2019/1023 del 20 giugno sui preventive restructuring framework – definisce stato di crisi le situazioni in cui il debitore versa in difficoltà finanziarie e per il quale sussiste la probabilità di insolvenza[16].
Il fatto che la crisi, intesa come insolvenza prospettica, trovi oggi una sua propria piena dignità nel diritto positivo, parrebbe così azzerare qualsiasi tentativo di proseguire nell’elaborazione di una nozione di crisi che non sia ancillare rispetto all’insolvenza e che trovi un’utile collocazione nell’ambito del diritto positivo. Detto in altro modo, ci si può chiedere se la tipizzazione della crisi prevista dal CCI esaurisca tutto lo spazio relativo a situazioni di difficoltà dell’impresa rilevanti sul piano giuridico[17].
La questione riguarda, per esempio, l’obbligo della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa (e della perdita della continuità aziendale) previsto dal novellato articolo 2086 c.c. Rimane infatti da chiarire se la crisi cui si riferisce la norma coincida con la previsione di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) del CCI oppure se afferisca ad un concetto più ampio, che prescinda dallo stato di insolvenza, seppur prospettica, per approdare ad un dimensione della crisi più aziendalista, che tenga in conto le dinamiche economiche e produttive dell’impresa.
Così come si pone anche la necessità: di definire e sistematizzare tra loro i concetti di equilibrio economico-finanziario, prevedibile andamento della gestione (cfr. art. 14, comma 1 CCI) e perdita (e recupero) della continuità aziendale (cfr. art. 2086 c.c.); di chiarire infine se esista, e quale sia, il rapporto tra tali concetti e la crisi d’impresa tipizzata nel CCI[18].
3. L’interpretazione sistematica offerta dal CNDCEC nella seconda parte del documento.
Si è già detto che il documento elaborato dal CNDCEC si compone di due parti, con la seconda che assume particolare interesse, in quanto meritevolmente dedicata a fornire un’interpretazione sistematica del quadro normativo relativo al «sistema di allerta», che appare di per se confuso e disaggregato nel susseguirsi di concetti e nozioni tra loro dissonanti.
In tale ambito il CNDCEC si preoccupa così, preliminarmente, di chiarire cosa debba intendersi per «stato di crisi» - la inadeguatezza delle disponibilità liquide attuali e dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni esistenti ed a quelle previste– premurandosi, altresì, di evidenziare che «tale indicazione, anche tenuto conto, dell’orizzonte temporale breve (sei mesi) scelto dal legislatore, è evidentemente riduttiva rispetto alle possibili definizioni di crisi suggerite dalla dottrina aziendalistica ma costituisce l’unica giuridicamente apprezzabile ai fini della costruzione del sistema dell’allerta. In altre parole è possibile che vi siano imprese che potrebbero sotto altri profili essere considerate “in crisi” ma le loro criticità non rilevano sino a quando non vi sia una probabilità di insolvenza nei sei mesi successivi»[19].
La precisazione d’altronde non è irrilevante in quanto da essa deriva l’organizzazione gerarchica dei fondati indizi della crisi, dalla cui presenza scaturisce l’obbligo di segnalazione previsto dall’art. 14, coma 1 del CCI.
È evidente infatti che essendo la crisi intesa come stato di insolvenza prospettica circoscritta ad un brevissimo lasso temporale, i sintomi attesi, cui attribuire la maggiore rilevanza, non potranno che essere gli squilibri di natura finanziaria ovvero gli inadempimenti (i ritardi nei pagamenti)[20].
Da questo punto di vista, opportunamente, il documento si occupa di ricondurre a sistema tutta una serie di «concetti» che il legislatore introduce in sequenza (casuale) nell’art. 13 comma 1 CCI, e di attribuire loro un significato compiuto: cosa debba intendersi per indicatori e cosa invece per indici e quale sia la relazione esistente tra loro; quale sia la funzione da assegnare agli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario manifestati dall’impresa e quale sia il rapporto esistente tra tali squilibri e la condizione di continuità aziendale per almeno i sei mesi successivi; quale valenza debbano assumere, infine, i ritardi nei pagamenti reiterati e significativi.
Gli indicatori della crisi, nella ricostruzione sistematica offerta dal CNDCEC[21] rappresentano situazioni che segnano di per se «il momento di discrimine tra situazioni di crisi che assumono rilevanza per gli obblighi segnaletici e situazioni che non la assumono ancora» e sono identificati: a) nell’assenza della sostenibilità del debito nei successivi sei mesi; b) nel pregiudizio per la continuità aziendale nell’esercizio in corso o quanto meno per i sei mesi di durata residua; c) nella presenza di ritardi reiterati e significativi nei pagamenti, avendo anche riguardo ai limiti posti ai fini delle misure premiali dall’art. 24 CCI.
Gli indici di cui all’art. 13 comma 2 CCI costituiscono invece segnali di crisi, ma non assumono da soli rilevanza sufficiente a fare ritenere sussistente uno stato di crisi ai sensi dell’art. 14 CCI.
Il concetto di «indicatori» deve pertanto desumersi più ampio del concetto di «indici», che fanno invece riferimento a confronti tra grandezze economiche, patrimoniali e finanziarie e che sono sintetizzati in «ratios» la cui elaborazione è alimentata da dati di matrice contabile[22].
Siffatta impostazione comporta che i tre indicatori assumano rilevanza autonoma, in quanto tra loro non concorrenti, ai fini dell’accertamento dei fondati indizi di crisi, cosicché l’esistenza anche di una sola delle tre condizioni determinerà comunque, per l’organo di controllo societario, l’obbligo di segnalazione di cui all’art. 14, comma 1 CCI[23].
Il sistema degli indici costituisce anch’esso un fondato indizio della crisi, ma, a differenza degli indicatori, che hanno rilevanza segnaletica autonoma, per esso si richiede una valutazione complessiva di tutti gli elementi che lo compongono, da effettuarsi secondo la sequenza indicata nel Documento[24].
Così il superamento del valore soglia del primo indice rende ipotizzabile la presenza della crisi ovvero, nel caso in cui esso rimanga sotto soglia, si passerà alla verifica del secondo indice. Anche qui, nel caso in cui il valore sia maggiore del limite previsto è presumibile lo stato di crisi (mentre nel caso di non superamento della soglia il procedimento si arresta). Qualora il dato previsto dal secondo indice sia inattendibile o indisponibile (nei termini più infra precisati) il secondo passaggio viene omesso e si passa direttamente alla verifica del set degli indici previsti dall’art. 13, co.2.
Il primo «nodo dell’albero» richiede l’accertamento della consistenza del patrimonio netto: un patrimonio netto negativo, infatti, fa presumere l’esistenza di uno stato di crisi.
Il secondo «nodo dell’albero» è costituito dalla verifica del debt service coverage ratio (DSCR), che, se di valore inferiore a uno fa presumere lo stato di crisi; se invece l’indice è superiore all’unità il procedimento, come poc’anzi detto, si arresta in assenza di una ragionevole presunzione dello stato di crisi.
Il terzo nodo, a cui si accede solo quando i dati necessari alla elaborazione del DSCR non sono disponibili o comunque siano ritenuti inattendibili, prevede l’accertamento della crisi attraverso la misurazione di cinque indici: solamente nel caso in cui siano congiuntamente superate tutte le soglie fissate è presumibile ritenere sussistente lo stato di crisi[25].
Gli indici sono i seguenti:
a. indice di sostenibilità degli oneri finanziari in termini di rapporto tra gli oneri finanziari ed il fatturato;
b. indice di adeguatezza patrimoniale, in termini di rapporto tra patrimonio netto e debiti totali;
c. indice di ritorno liquido dell’attivo, in termini di rapporto da cash flow e attivo;
d. indice di liquidità, in termini di rapporto tra attività a breve termine e passivo a breve termine;
e. indice di indebitamento previdenziale e tributario, in termini di rapporto tra l’indebitamento previdenziale e tributario e l’attivo.
4. Il pregiudizio della continuità aziendale nell’esercizio in corso o per i sei mesi successivi.
Si è già detto al § che precede che la prospettiva della perdita della continuità aziendale per l’esercizio in corso, ovvero per i sei mesi successivi (quando la sua durata residua sia inferiore a sei mesi) costituisce un fondato indizio della crisi, da cui discende l’obbligo di segnalazione posto a carico degli organi di controllo societari (cfr. art. 14, comma 1 CCI).
La continuità aziendale rappresenta non solo uno dei postulati del bilancio (cfr. art. 2423-bis c.c.), ma costituisce lo stesso presupposto perché si possa parlare d’impresa in normale funzionamento[26]. Il pregiudizio alla continuità costituisce pertanto il rischio più rilevante nella vita di un’impresa e agli amministratori è oggi espressamente richiesto di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile che sia idoneo ad intercettare precocemente tale evento, sì da consentire l’adozione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il suo ricupero (cfr. art. 2086 c.c.).
Il motivo della particolare rilevanza che il legislatore attribuisce alla continuità aziendale è facilmente spiegabile dal fatto che la sua perdita, quando la continuità non venga rigenerata attraverso idonee iniziative, determina generalmente una (notevole) riduzione del valore del patrimonio dell’impresa e quindi della garanzia per i creditori (cfr. art. 2740 c.c.)[27].
Il pregiudizio al «going concern» può essere la conseguenza dei più svariati fattori e tra essi, sicuramente, vi rientra a pieno titolo la sopraggiunta insostenibilità del debito, condizione questa che qualifica anche la situazione di insolvenza prospettica (cfr. art. 2, comma 1 lett. a) CCI).
L’insostenibilità del debito nei sei mesi successivi costituisce perciò un evento che segnala già, di per se, un fondato indizio della crisi, ed è pertanto verosimile ritenere, come peraltro indicato dal CNDCEC, che le cause significative per la valutazione della perdita della continuità aziendale - intesa come indicatore autonomo della crisi - debbano essere «diverse da probabili insolvenze»[28].
Il Principio di revisione internazionale ISA n. 570 sulla continuità aziendale si limita ad evidenziare «fatti» potenzialmente sintomatici di una crisi - i cd. trigger event - precisando però che l’elenco non è esaustivo e che la presenza non solo di uno, ma anche di più di tali «fatti», non significa necessariamente che esista una significativa previsione di perdita della continuità[29]. Detto in altri termini il Principio fornisce una guida utile ad intercettare il pregiudizio al going concern ma non segnali on/off[30].
I trigger event sono distinti in tre gruppi: «indicatori finanziari», «indicatori gestionali» e «altri indicatori». Come è facile verificare dalle brevi note che seguono, gli indicatori, quand’anche siano espressioni numeriche, colgono comunque le situazioni di allarme che sono destinati a segnalare nel loro aspetto qualitativo, proprio in aderenza al principio che non si tratta di indici on/off bensì, appunto, di indicatori.
4.1 Indicatori finanziari
4.1.1 Situazione di deficit patrimoniale o di capitale circolante netto negativo.
Per le società di capitali il deficit patrimoniale, senza ricapitalizzazione o trasformazione regressiva, è causa di scioglimento della società. Si tratta pertanto di una condizione che, in assenza dei provvedimenti idonei al suo superamento, determina ex se la perdita della continuità aziendale - a meno che non venga deliberato l’esercizio provvisorio ex art. 2487, comma 1 lett. c) c.c. - ma che non è invece univocamente indicativa di una situazione di crisi. L’attivo realizzabile potrebbe infatti essere maggiore delle passività da estinguere e la liquidazione chiudersi pertanto in bonis. Il capitale circolante netto negativo - le passività a breve superano le attività a breve - segnala, invece, un’inadeguata relazione temporale degli impieghi e delle fonti di finanziamento – attivo fisso finanziato con debiti a breve – che determina una potenziale difficoltà dell’impresa a fare fronte alle obbligazioni di prossima scadenza. Sul piano teorico tale situazione è superabile attraverso una ristrutturazione delle posizioni debitorie – con spostamento dal breve al lungo termine – e quindi non è indicativa di per se di una crisi. Va detto tuttavia che il verificarsi di tale circostanza, quando le cause non siano imputabili a specifiche contingenze, è sintomatica della difficoltà dell’impresa a ricorrere al mercato dei capitali in modo non armonico, sicché la soluzione teorica diventa di difficile attuazione pratica e quindi la situazione richiede un attento monitoraggio.
4.1.2 Prestiti a scadenza fissa e prossimi alla scadenza senza che vi siano prospettive verosimili di rinnovo o di rimborso oppure eccessiva dipendenza da prestiti a breve termine per finanziare attività a lungo termine.
Non è infrequente che l’impresa contragga prestiti in varie forme, come mutui, bond ecc., che prevedono la restituzione del capitale in un’unica soluzione alla scadenza del prestito. La mancanza della provvista necessaria all’estinzione della posizione debitoria, unita all’indisponibilità del creditore a rinegoziare il rinnovo del prestito, determina pertanto uno stato di difficoltà per l’impresa che può sfociare in iniziative «ostili» del creditore, idonee ad innescare una vera e propria situazione di crisi. Il ricorso alle passività a breve per finanziare attività a medio lungo termine riconduce alla medesima condizione del capitale circolante netto negativo a cui pertanto si rinvia.
4.1.3 Indizi di cessazione del sostegno finanziario da parte dei creditori.
Il mercato del capitale di credito a cui le imprese italiane fanno ricorso è tipicamente rappresentato dal sistema bancario. Una crescente difficoltà da parte dell’impresa ad accedere al credito bancario può dipendere da cause di natura sia endogena, riassumibili in un deterioramento del merito creditizio dell’impresa, che esogena, relative a politiche monetarie restrittive praticate dalle autorità che danno luogo al fenomeno del credit crunch.
4.1.4 Bilanci storici o prospettici che mostrano flussi di cassa negativi.
Una particolare rilevanza segnaletica ai fini dell’evidenza di una condizione di allarme è rappresentata dalla prospettiva (nella logica del forward looking) di flussi di cassa negativi rilevabili dal «piano d’impresa»[31]. Va tuttavia detto che la presenza di un cash flow negativo – non di tipo strutturale - non determina uno stato di crisi laddove l’impresa sia in grado di sostenerlo.
4.1.5 Principali indici economico-finanziari negativi.
Gli indici in parola sono quelli elaborati dalla scienza aziendale già da tempo, e a cui il legislatore del CCI fa riferimento al primo comma dell’articolo 13. Casomai si pone anche qui il problema se gli indici debbano essere calcolati sulla base dei dati storici ovvero prospettici, in linea con la logica del forward looking[32].
4.1.6 Consistenti perdite operative o significative perdite di valore delle attività utilizzate per generare i flussi di cassa.
L’EBIT (Ernings Before Interests and Tax) negativo non segnala in via autonoma una situazione di pregiudizio alla continuità o peggio di crisi. L’impresa può infatti essere dotata di una struttura patrimoniale e finanziaria adeguata ad assorbire le perdite. La perdita di valore delle attività funzionali al core business – si pensi per esempio al marchio di un brand nel settore del fashion – può essere invece sintomatica di un modello di business non più attuale da cui può derivare un rapido declino dell’impresa.
4.1.7 Difficoltà nel pagamento di dividendi arretrati o discontinuità nella distribuzione di dividendi.
Si tratta di eventi che denotano situazioni e cause tra loro diverse. I dividendi arretrati rappresentano per l’impresa dei veri e propri debiti e la difficoltà nel procedere al loro pagamento segnala una più generale situazione di illiquidità (che può essere temporanea o strutturale). La discontinuità nella distribuzione dei dividendi può invece essere originata da più motivi (strategie del management condivise o meno dagli azionisti, variabilità del modello di business, volontà di privilegiare il rafforzamento patrimoniale ecc.) e non pare comunque indicativa di una situazione di pregiudizio alla continuità.
4.1.8 Incapacità di pagare i debiti alla scadenza.
La questione è particolarmente complessa e sarà diffusamente trattata a proposito dell’indicatore costituito dai reiterati e significativi ritardi nei pagamenti.
4.1.9 Incapacità di rispettare le clausole contrattuali dei prestiti.
È una situazione finitima rispetto a quanto indicato al § 4.1.2. Vi si differenzia in quanto si tratta di inadempimenti reiterati a motivo della tipologia rateale dell’ammortamento del prestito contratto. Come già visto in precedenza laddove non vi sia la disponibilità da parte del creditore a rinegoziare la posizione la situazione può presentare rilevanti profili di criticità, fino a degenere in una crisi.
4.1.10 Cambiamento delle forme di pagamento concesse dai fornitori, dalla condizione “a credito” alla condizione “pagamento alla consegna”.
Così come detto al § 4.1.3 si tratta di un evento che segnala il deterioramento del merito creditizio dell’impresa e che non rende più possibile per il debitore ottenere credito, in questa caso di fornitura. Non concedere più credito è una decisione che i fornitori, infatti, generalmente prendono alla fine di un processo in cui si sono resi evidenti altri segnali, via via sempre più gravi, sintomatici della non buona condizione di salute dell’impresa. È una condizione che difficilmente l’impresa può sostenere in quanto incide, spesso in maniera esiziale, sul ciclo finanziario incassi-pagamenti e che può se non risolta in modo strutturato determinare un vero pregiudizio nella continuità aziendale e precipitare in uno stato di crisi.
4.1.11 Incapacità di ottenere finanziamenti per lo sviluppo di nuovi prodotti ovvero per altri investimenti necessari.
Siamo sempre nell’ambito del pregiudizio al merito creditizio che incide questa volta non sul ciclo operativo a breve (acquisto delle materie necessarie alla funzione di produzione) ma sul ciclo degli investimenti dell’impresa. L’impossibilità di accedere al credito, bancario o di fornitura, determina infatti l’incapacità dell’impresa di dare corso agli investimenti programmati in quanto manca la copertura finanziaria per la loro realizzazione. Fronteggiare tale situazione è possibile solo nel breve termine e a condizione che gli investimenti non abbiano natura sostitutoria rispetto a assets non più utilizzabili nel ciclo produttivo.
4.2 Indicatori gestionali
4.2.1 Intenzione della direzione di liquidare l’impresa o di cessare le attività.
Si è già detto, parlando a proposito dell’evento patrimonio netto negativo, che la cessazione dell’attività, o nel caso di imprenditori collettivi, lo scioglimento della società prelude alla fase di liquidazione che può avvenire, o in forma atomistica con la vendita dei singoli assests, ovvero prevedendo la vendita del complesso aziendale in funzionamento, magari disponendosi, nelle more, l’esercizio provvisorio. È evidente che solo con la liquidazione individuale dei beni viene meno la «continuità», in quanto nell’altro caso il normale funzionamento dell’azienda rappresenta proprio il presupposto per la sua cessione.
4.2.2 Perdita di membri della direzione con responsabilità strategiche senza una loro sostituzione.
Si tratta di una situazione che l’adeguato assetto organizzativo, di cui all’art. 2086 c.c., dovrebbe scongiurare alla radice, in ossequio al detto popolare tutti sono necessari nessuno è indispensabile. Si possono verificare tuttavia casi, si pensi ai «creativi» nel settore del fashion, in cui l’abbandono dell’impresa da parte di alcune figure può costituire una minaccia al going concern.
4.2.3 Perdita di mercati fondamentali, di clienti chiave, di contratti di distribuzione, di concessioni o di fornitori importanti.
Sono eventi tra loro molto differenti, alcuni dei quali presentano significative difficoltà ad essere governati. È il caso, per esempio, del venir meno di una concessione per un’impresa mono concessionaria, e che possono determinare un serio pregiudizio alla continuità.
4.2.4 Difficoltà con il personale.
Rientra tra gli eventi che possono determinare difficoltà all’impresa la turbolenza nei rapporti con i lavoratori, da cui possono derivare scioperi o più in generale proteste dei dipendenti con conseguenti difficoltà di svolgimento della normale attività.
4.2.5 Scarsità nell’approvvigionamento di forniture importanti.
La concentrazione in pochi fornitori degli acquisti dei beni necessari al processo economico-produttivo costituisce per l’impresa un notevole fattore di rischio alla continuità, in quanto l’espone all’arbitrio di soggetti terzi.
4.2.6 Comparsa di concorrenti di grande successo.
L’apparizione sullo stesso mercato di altri competitori che, per dimensioni, storia, forza finanziaria ecc., siano definibili «forti» può costituire una minaccia al modello di business dell’impresa che, se non adeguatamente fronteggiato (magari anche per una impossibilità oggettiva di poterlo fare) può determinare l’impossibilità di prosecuzione dell’attività.
4.3 Altri indicatori
Si tratta di eventi di varia natura e tra loro eterogenei (capitale ridotto al di sotto dei limiti legali o non conformità del capitale ad altre norme di legge, come i requisiti di solvibilità o liquidità per gli istituti finanziari; procedimenti legali o regolamentari in corso che, in caso di soccombenza, possono comportare richieste di risarcimento cui l’impresa probabilmente non è in grado di far fronte; modifiche di leggi o regolamenti o delle politiche governative che si presume possano influenzare negativamente l’impresa; eventi catastrofici contro i quali non è stata stipulata una polizza assicurativa ovvero contro i quali è stata stipulata una polizza assicurativa con massimali insufficienti) che hanno in comune l’attitudine a generare situazioni di rischio per l’impresa e che, se non opportunamente fronteggiate, possono determinare una situazione di crisi.
5. I ritardi nei pagamenti reiterati e significativi.
Si è già detto che la presenza di ritardi ripetuti e rilevanti nei pagamenti dei debiti[33] costituisce un autonomo indicatore (un fondato indizio) della crisi da cui scaturisce l’obbligo di segnalazione posto a carico dell’organo di controllo societario dall’art. 14, comma 1 CCI.
Ma quando i ritardi debbono considerarsi reiterati e significativi e quindi tali da essere sintomatici di uno stato di crisi?
Sulla base di quanto dispone l’ultimo periodo del primo comma dell’art. 13 CCI, pare potersi ritenere: i) che la reiterazione e la significatività dei ritardi dei pagamenti si presume nei casi previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a) (l’esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni) e lett. b) (l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti); ii) che, anche al di fuori di tali casi, è tuttavia onere degli amministratori e dell’organo di controllo valutare i ritardi nei pagamenti che presentino in ogni modo i caratteri di reiterazione e significatività e giudicare la loro rilevanza quali fondati indizi della crisi[34].
Per quanto riguarda il richiamo all’art. 24 CCI non può non rilevarsi come le fattispecie previste dalle lettere a) e b) segnalino una situazione di insolvenza già conclamata più che rappresentare sintomi di una prossima situazione di crisi[35].
In particolare la presenza di debiti per retribuzioni scaduti da oltre due mesi è una situazione non frequente nel nostro Paese e sintomatica di una grave patologia finanziaria che affligge l’impresa.
L’esistenza di debiti scaduti verso fornitori è invece un evento abbastanza usuale per le nostre imprese che, in base alla lettera b) del primo comma dell’art. 24 CCI, assume rilevanza allorché si tratti di debiti scaduti da oltre centoventi giorni e il cui ammontare sia superiore all’importo dei debiti non scaduti[36].
Al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 24 CCI, rimane, come abbiamo detto, comunque onere dell’organo di controllo (e ancor prima degli amministratori) valutare situazioni di ritardi nei pagamenti che siano significative, in quanto ripetute e rilevanti.
Da questo punto di vista assumono sicuramente rilievo le ipotesi previste dall’art. 15 CCI. È vero infatti che tali fattispecie costituiscono eventi da cui deriva l’obbligo di segnalazione a carico dei «creditori pubblici qualificati» (le cd segnalazioni esterne), ma è altrettanto vero che si tratta di situazioni che, anche prima che lo stock di debito raggiunga i parametri previsti dalla disposizione, dovrebbero essere intercettate internamente all’impresa ed essere oggetto di segnalazioni da parte dell’organo di controllo[37].
Sono rilevanti poi i ritardi nei pagamenti dei debiti verso fornitori che, pur non superando il parametro di cui all’art. 24, comma 1 lett. b), siano comunque superiori ai limiti della fisiologia.
È fisiologico un pagamento differito rispetto al termine contrattuale quando risultino confermate tutte le seguenti condizioni: i) non comporti reazione da parte del fornitore mediante azioni volte alla riscossione o alla pretesa degli interessi moratori; ii) il fornitore prosegua regolarmente le forniture (senza condizionarle a pagamenti a pronti delle forniture); iii) la gestione della supply chain intervenga senza interruzioni[38].
Per quanto riguarda i debiti di natura finanziaria, sono significativi i ritardi di pagamento oltre i novanta giorni che superano le soglie di rilevanza per la classificazione creditizia scaduta in stato di default e ogni altra circostanza che determini la decadenza dal beneficio del termine.
Il riferimento è alla definizione di default prudenziale prevista dalle Linee Guida EBA (EBA/GL/2016/07) e alla definizione della soglia di rilevanza delle obbligazioni creditizie in arretrato previste dal Regolamento Delegato (UE) n. 171/2018 della Commissione Europea del 19 ottobre 2017 (“RD”) per le banche e i gruppi bancari, per le SIM e i gruppi di SIM.
In particolare rileva la condizione oggettiva («past-due criterion», il debitore è in arretrato da oltre 90 giorni consecutivi nel pagamento di un’obbligazione rilevante), per di più se aggravata dalla revoca degli affidamenti ovvero dalla dichiarazione di decadenza dal beneficio del termine. La condizione soggettiva («unlikeliness to pay» – la banca giudica improbabile che, senza il ricorso ad azioni quali l’escussione delle garanzie, il debitore adempia integralmente alla sua obbligazione), deve invece essere eventualmente valutata in sede di fondatezza degli indizi di crisi.
Le soglie di rilevanza dell’esposizione sono espresse in termini assoluti, 500 euro, ed in termini relativi, l’1% di tutte le esposizioni verso il medesimo intermediario finanziario.
Non dovrebbero rilevare i ritardi nei pagamenti dovuti esclusivamente all’esistenza di crediti liquidi ed esigibili nei confronti della pubblica amministrazione (diversa dagli enti in stato di dissesto). Ciò in analogia con quanto previsto dall’art. 15, comma 5 CCI che priva di rilevanza segnaletica situazioni in cui, a fronte di una posizione debitoria verso i creditori pubblici qualificati, il debitore vanti crediti nei confronti della pubblica amministrazione per un ammontare complessivo non inferiore alla metà del debito verso il creditore pubblico qualificato.
6. La sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi.
Lo «squilibrio economico finanziario»[39] che rende probabile l’insolvenza del debitore (la crisi nella definizione recata dall’art. 2, comma 1 lett. a) CCI), per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle attività pianificate (esistenti e previste).
La sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi, art. 13, comma 1 primo periodo CCI, costituisce pertanto l’indicatore per eccellenza dei fondati indizi della crisi, dalla cui presenza deriva l’obbligo di segnalazione ex art. 14, comma 1 CCI.
Si tratta di un evento che, come abbiamo già avuto modo di dire, nella visione offerta nel Documento dal CNDCEC, rappresenta un indicatore autonomo (al pari, giova ricordarlo, di quelli di cui si è parlato al § 4 – il pregiudizio della continuità e al § 5 – i ritardi nei pagamenti reiterati e significativi), che fa presumere di per se l’esistenza di uno stato di crisi.
Gli indicatori, che rappresentano la dimensione qualitativa, verrebbe da dire quasi percettiva, della crisi debbono tuttavia trovare espressione in forme che ne consentano in concreto l’apprezzamento. Soccorre allo scopo il sistema degli indici, che sono parametri «quantitativi»[40] sintomatici di squilibri di natura essenzialmente finanziaria.
Il rapporto tra il concetto di indicatore e quello di indice diviene peraltro particolarmente intricato quando l’evento indagato è la sostenibilità dei debiti. Si tratta, infatti, di una condizione che postula un rigoroso approccio forward-looking e che può essere accertata unicamente ricorrendo all’elaborazione di espressioni basate su dati previsionali: in altri termini l’evento mal si presta a valutazioni di tipo descrittivo-qualitativo, ma necessita di una formula numerica sintetizzata in un indice.
La costruzione dell’indice muove dalla definizione di debito sostenibile, secondo cui il debito è sostenibile quando i flussi di cassa liberi consentono di fare fronte al suo servizio (pagamento di capitale e interessi).
In prima approssimazione potremmo pertanto dire che si tratta di comparare due valori: i flussi di cassa liberi da destinare al servizio del debito e il debito da servire, entrambi determinati con riferimento al medesimo orizzonte temporale dei sei mesi successivi.
Per comodità di esposizione partiamo nel definire il debito da servire come il debito finanziario che, nel periodo considerato, andrà ragionevolmente a scadenza. L’avverbio ragionevolmente sta ad indicare che le posizioni debitorie, come le linee di credito con la clausola «fino a revoca», per le quali non si prevedono eventi straordinari che possano provocare la risoluzione del rapporto da parte della banca, ovvero le linee di credito autoliquidanti, utilizzate in modo convenzionale, non debbono essere tenute in considerazione, fatto salvo gli interessi che a seguito del loro uso matureranno nel periodo. Nel debito da servire si ricomprendono poi, oltre al debito finanziario, anche i debiti di funzionamento - che si genarono nel ciclo operativo – che sono scaduti oltre il limite fisiologico: i debiti commerciali (tipicamente verso fornitori) e gli altri debiti (tributari, previdenziali ecc.)[41]. Cosa debba intendersi per limite fisiologico è questione che è già stata affrontata al § 5 e a cui si rinvia.
I flussi di cassa liberi da destinare al servizio del debito sono rappresentati dalle risorse finanziarie generate dall’attività operativa, detratti gli investimenti di mantenimento pianificati nel periodo e gli oneri fiscali (Free Cash Flow from Operations – FCFO)[42]. Si tratta di una grandezza che, attenendo all’area operativa, sconta già lo stock di debito funzionale non scaduto, il che spiega il motivo per cui tra il debito da servire non sono ricompresi i debiti operativi.
Così posta la questione è intuitivo concludere che il debito intanto sarà sostenibile in quanto i flussi di cassa liberi saranno almeno uguali al debito da servire.
Va tuttavia evidenziato che se la conclusione è intuitiva il procedimento con il quale vi si giunge non lo è affatto. Esso presuppone infatti l’elaborazione di dati economici e finanziari di natura previsionale, il che postula l’adozione di un piano d’impresa[43] la cui costruzione e implementazione presuppone, a sua volta, l’esistenza di un adeguato assetto organizzativo[44].
Come si è già avuto modo di dire l’accertamento della condizione di sostenibilità del debito non si presta all’utilizzo di metodi che facciano ricorso a trigger di natura descrittiva.
La questione d’altronde non è di facile soluzione sul piano sistematico, e nemmeno appare del tutto chiarita nel Documento del CNDCEC.
Se la (non) sussistenza della condizione di sostenibilità del debito infatti è un indicatore che segnala di per se lo stato di crisi, e che obbliga gli organi di controllo alla segnalazione, l’indice che lo misura, il Debt Service Coverage Ratio (DSCR), nella ricostruzione del Documento si pone anche come secondo nodo «dell’albero delle decisioni». Ma all’albero delle decisioni si accede solo quando manca l’evidenza di uno dei tre indicatori: pregiudizio alla continuità aziendale, reiterati e significativi ritardi nei pagamenti e, appunto, sostenibilità del debito nei sei mesi successivi.
Si potrebbe sostenere allora che il DSCR opera sia come indice che misura la sostenibilità del debito; sia come nodo dell’albero delle decisioni, che entra in gioco però solo in assenza del segnale di allerta portato dall’indicatore. Il che presupporrebbe tuttavia avere già accertato la sostenibilità del debito proprio per mezzo del DSCR che, in caso di positività fa presumere ex se la crisi. Si crea pertanto un evidente diallele allorché il presupposto per l’impiego dell’indice risiede nella mancanza del segnale di allerta dell’indicatore che, a sua volta, per essere verificata richiede l’uso del medesimo indice.
La questione, se non fosse già complicata, si ingarbuglia ancora di più considerando che il DSCR non è utilizzabile quando i dati necessari ad alimentarlo non sono disponibili (in assenza di un piano d’impresa, quand’anche elaborato nel suo aspetto elementare) ovvero sono ritenute inattendibili (in mancanza di un adeguato assetto organizzativo). La conseguenza è che in siffatte situazioni la sostenibilità del debito non può essere accertata per mezzo del DCSR, ne può verificarsi ricorrendo alla presenza di situazioni che ne rendono evidente ictu oculi l’insostenibilità, in quanto il segnale ricercato non è negativo (insostenibilità) ma positivo (la sostenibilità).
Da questo punto di vista va salutato con estremo favore l’emendamento contenuto nello schema di decreto correttivo all’art. 3, comma 2 lett. a) che sostituisce il termine sostenibilità con «non sostenibilità», rendendo così chiaro che il processo ha come oggetto l’accertamento della condizione negativa. Ciò rende ora utilizzabili eventi come quelli, per esempio, indicati ai § 4.1.2, 4.1.3 e 4.1.9 dai quali è possibile apprezzare prima face che il debito è insostenibile e quindi considerare presumibile l’esistenza dello stato di crisi.
Così posta la questione sul piano sistematico si può allora ricostruire il rapporto tra l’indicatore e l’indice nei termini che seguono: la presenza di eventi, diversi da espressioni numeriche, che facciano ritenere non sostenibile il debito fa presumere ex se lo stato di crisi; in mancanza di tali evidenze si dovrà invece procedere secondo quanto previsto dal sistema «dell’albero delle decisioni» in cui il secondo nodo è appunto rappresentato dal DSCR.
6.1 Il calcolo del DSCR
Abbiamo già osservato che il DSCR rappresenta il secondo nodo «dell’albero delle decisioni» (il primo è costituito dal patrimonio netto negativo), il cui utilizzo è comunque possibile a condizione che esistano i dati necessari alla sua elaborazione (desumibili dal piano d’impresa) e che essi siano ritenuti attendibili dall’organo di controllo.
Tale giudizio di attendibilità presuppone in realtà un ulteriore giudizio da parte dell’organo di controllo, che ne costituisce il presupposto logico-giuridico, ovvero l’accertamento dell’adeguatezza della struttura organizzativa, contabile e amministrativa così come previsto dall’art. 2086 c.c.
Il Documento prevede due metodi (approcci) basati entrambi sul budget di tesoreria.
6.1.1. Il 1° metodo (metodo diretto)
L’approccio è di natura marcatamente finanziaria (in quanto la costruzione del modello si basa direttamente sulle previsioni finanziarie) e deriva dal budget di tesoreria costruito in modo da rappresentare le entrate e le uscite di disponibilità liquidite. Dal budget si ricavano così direttamente i valori del numeratore e del denominatore.
In particolare:
- al denominatore si sommano le uscite previste contrattualmente per il rimborso dei debiti finanziari (verso banche o altri finanziatori). Il rimborso è inteso come pagamento della quota capitale contrattualmente previsto per i successivi sei mesi, oltre che dello scaduto.
- al numeratore si sommano tutte le risorse disponibili per il suddetto servizio al debito, pari al totale delle entrate di liquidità previste nei successivi sei mesi, incluse le giacenze iniziali di cassa, dal quale sottrarre tutte le uscite di liquidità previste riferite allo stesso periodo, ad eccezione dei rimborsi dei debiti posti al denominatore. Si tiene quindi conto anche della gestione degli investimenti e della gestione finanziaria. Nell’ambito di quest’ultima, rilevano anche i flussi attivi derivanti dalle linee di credito non utilizzate delle quali, nell’orizzonte temporale di riferimento, si renda disponibile l’utilizzo. Le linee autoliquidanti dovrebbero essere considerate fruibili per la sola parte relativa ai crediti commerciali che, sulla base delle disposizioni convenute, sono ‘anticipabili’.
In buona sostanza secondo questo approccio al numeratore si inserisce lo stock dei flussi di cassa generati dalla gestione operativa, più il saldo algebrico delle gestione degli investimenti e finanziaria meno lo scaduto non finanziario.
6.1.2. Il 2° metodo
Il rapporto è effettuato tra i flussi di cassa complessivi liberi al servizio del debito attesi nei sei mesi successivi ed i flussi necessari per rimborsare il debito non operativo che scade negli stessi sei mesi.
Il numeratore si compone dei flussi di cassa al servizio del debito rappresentati:
a) dai flussi operativi al servizio del debito. Essi corrispondono al free cash flow from operations (FCFO)[45] dei sei mesi successivi, determinato sulla base dei flussi finanziari derivanti dall’attività operativa applicando il principio OIC 10 (§§ da 26 a 31)[46], deducendo da essi i flussi derivanti dal ciclo degli investimenti (§§ da 32 a 37 dell’OIC 10)[47]. A tal fine non concorrono al calcolo dei flussi operativi gli arretrati di cui alle lett. e) e f);
b) dalle disponibilità liquide iniziali;
c) dalle linee di credito disponibili che possono essere usate nell’orizzonte temporale di riferimento. Con riferimento alle linee autoliquidanti esse dovrebbero essere considerate fruibili per la sola parte relativa ai crediti commerciali che, sulla base delle disposizioni convenute, sono ‘anticipabili”.
Al denominatore si pone il valore del debito non operativo oggetto di rimborso nei sei mesi successivi, coì rappresentato:
d) dai pagamenti previsti, per capitale ed interessi, del debito finanziario;
e) dal debito fiscale o contributivo, comprensivo di sanzioni ed interessi, non corrente e cioè debito il cui versamento non è stato effettuato alle scadenze di legge (e pertanto è o scaduto ovvero oggetto di rateazioni), il cui pagamento, anche in virtù di rateazioni e dilazioni accordate, scade nei successivi sei mesi;
f) dal debito nei confronti dei fornitori e degli altri creditori il cui ritardo di pagamento supera i limiti della fisiologia. Nel caso di debito derivante da piani di rientro accordati dai fornitori/creditori, rileva la parte di essi, comprensiva dei relativi interessi, che scade nei sei mesi.
6.1.3 La periodicità di calcolo del DSCR
L’orizzonte temporale di osservazione è fissato dall’art. 13, comma 1 CCI in almeno i sei mesi successivi rispetto al momento in cui viene effettuata l’elaborazione. Nel Documento il CNDCEC opportunatamente avverte che il periodo di osservazione «può essere ampliato alla durata residua dell’esercizio se superiore a sei mesi, se ciò rende più agevole ed affidabile il calcolo del DSCR. In ogni caso, numeratore e denominatore devono essere tra di loro confrontabili».
Avere stabilito in sei mesi l’orizzonte dello scrutinio non risolve tuttavia la questione della periodicità con cui l’elaborazione del DSCR deve essere effettuata. La valutazione ad una certa data, infatti, col trascorrere dei mesi non sarà più idonea a misurare la condizione di sostenibilità del debito per i successivi sei mesi, semplicemente perché la previsione abbraccerà un periodo di tempo di minore durata.
L’art. 14, comma 1 CCI dispone che l’organo amministrativo deve valutare costantemente se sussiste l’equilibrio economico, finanziario e quale sia il prevedibile andamento della gestione (e sull’organo di controllo incombe l’obbligo di verificare che tale attività venga posta in essere). L’avverbio costantemente sta qui ad indicare continuamente (in continuum), ovvero senza soluzione di continuità. Se applicassimo tale principio al calcolo del DSCR (la questione si pone però anche con riferimento agli altri indici) significherebbe che, accettando la frequenza mensile dell’elaborazione, ogni mese si dovrebbe procedere all’elaborazione dell’indice con proiezione nei sei mesi successivi, o almeno alla sua revisione.
È tuttavia evidente che soddisfare tale esigenza richiede all’impresa un significativo sforzo sul piano organizzativo, indispensabile per la produzione delle informazioni a supporto dell’attività di pianificazione, che costituisce la base del principio del forward-looking. È allora verosimile ritenere che le imprese di minori dimensioni incontrino rilevanti difficoltà nell’adeguare la propria struttura organizzativa in modo da alimentare costantemente l’attività di budgeting.
Si pone pertanto la questione di conciliare la frequenza delle elaborazioni con l’esigenza di non rendere insostenibile per le imprese minori il «costo» delle informazioni.
L’art. 24 CCI, comma 1 lett. c), considera non tempestiva l’iniziativa, in quanto inidonea a prevenire l’aggravarsi della crisi, la domanda di accesso ad una delle procedure di composizione previste dal CCI, che sia presentata oltre il termini di sei mesi (ridotti a tre nel caso di composizione assistita ex art. 19), a decorre dal «superamento, nell’ultimo bilancio approvato, o comunque per oltre tre mesi, degli indici elaborati ai sensi dell’articolo 13, commi 2 e 3».
A di là della formulazione non troppo felice della disposizione, con riferimento al DSCR, il cui calcolo è alimentato da dati prospettici, non è sicuramente applicabile la condizione che fa riferimento all’ultimo bilancio approvato, per cui deve concludersi che l’elaborazione dovrebbe avvenire con cadenza comunque non superiore ai tre mesi.
7. Il set degli indici.
Quando il DSCR non è disponibile, perché manca proprio l’attività di pianificazione, ovvero perché il processo di forecast non è ritenuto sufficientemente affidabile (anche dagli organi di controllo), si ricorre, sempreché la situazione di crisi non sia già stata intercettata dal patrimonio netto negativo o dalla presenza di reiterati e significativi ritardi, all’impiego combinato i una serie di cinque indici, con soglie diverse a seconda del settore di attività, che debbono allertarsi tutti congiuntamente.
Si tratta in sostanza dell’ultimo «nodo dell’albero delle decisioni», costituito dai seguenti cinque indici.
a) Indice di sostenibilità degli oneri finanziari in termini di rapporto tra gli oneri finanziari ed il fatturato.
È costituito dal rapporto tra oneri finanziari e fatturato ed include:
- al numeratore, gli interessi e altri oneri finanziari di cui alla voce C.17 art. 2425 c.c.;
- al denominatore, i ricavi netti, ovvero la voce A.1) Ricavi delle vendite e prestazioni dell'art. 2425 c.c.
b) Indice di adeguatezza patrimoniale in termini di rapporto tra patrimonio netto e debiti totali.
È costituito dal rapporto tra il patrimonio netto ed i debiti totali ed include:
- al numeratore, il patrimonio netto costituito dalla voce A stato patrimoniale passivo dell’art. 2424 c.c., detratti i crediti verso soci per versamenti ancora dovuti (voce A stato patrimoniale attivo) e i dividendi deliberati;
- al denominatore, i debiti totali costituiti da tutti i debiti (voce D passivo dell’art. 2424 c.c.), indipendentemente dalla loro natura e dai ratei e risconti passivi (voce E passivo dell’art. 2424 c.c.).
c) Indice di ritorno liquido dell’attivo in termini di rapporto da cash flow e attivo.
È costituito dal rapporto tra il cash flow e il totale attivo ed include:
- al numeratore, il cash flow ottenuto come somma del risultato dell’esercizio e dei costi non monetari (ad.es, ammortamenti, svalutazioni crediti, accantonamenti per rischi), dal quale dedurre i ricavi non monetari (ad.es, rivalutazioni partecipazioni, imposte anticipate);
- al denominatore il totale dell'attivo dello stato patrimoniale ex art. art. 2424 c.c.
d) Indice di liquidità in termini di rapporto tra attività a breve termine e passivo a breve termine.
È costituito dal rapporto tra il totale delle attività ed il totale delle passività a breve termine ed include:
- al numeratore, l’attivo a breve termine quale risultante dalla somma delle voci dell'attivo circolante (voce C attivo dell’art. 2424 c.c.) esigibili entro l’esercizio successivo e i ratei e risconti attivi (voce D attivo dell’art. 2424 c.c.);
- al denominatore, il passivo a breve termine costituito da tutti i debiti (voce D passivo) esigibili entro l’esercizio successivo e dai ratei e risconti passivi (voce E).
e) Indice di indebitamento previdenziale e tributario in termini di rapporto tra l’indebitamento previdenziale e tributario e l’attivo.
È costituito dal rapporto tra il totale dell’indebitamento previdenziale e tributario ed il totale dell’attivo. Esso include:
- al numeratore, l’indebitamento tributario rappresentato dai debiti tributari (voce D.12 passivo dell’art. 2424 c.c.) esigibili entro e oltre l'esercizio successivo, l’indebitamento previdenziale costituito dai debiti verso istituti di previdenza e assistenza sociale (voce D.13 passivo dell’art. 2424 c.c.) esigibili entro e oltre l’esercizio successivo;
- al denominatore, l'attivo netto corrispondente al totale dell'attivo dello stato patrimoniale art. 2424 c.c.
L’art, 13, comma 2 CCI prevede espressamente che la valutazione degli indici deve essere effettuata «unitariamente» ovvero si debbono allertare tutti congiuntamente affinché si possa ritenere presumibile l’esistenza della crisi.
Le imprese che adottano i principi contabili internazionali debbono fare riferimento alle equivalenti voci risultanti dal bilancio[48],
Le imprese che redigono il bilancio con le semplificazioni di cui agli artt. 2435-bis e 2435-ter c.c. determinano gli indici in base alla situazione contabile usata per la redazione del bilancio, considerato che il loro bilancio può non mostrare alcune delle grandezze necessarie.
Come si è già avuto modi di evidenziare al § 6.1.3 la periodicità di elaborazione degli indici non deve superare tre mesi e, in assenza di un bilancio approvato, dovrà essere condotta sulla base di una situazione infrannuale, avente natura volontaria, redatta dall’impresa per la valutazione dell’andamento economico e finanziario. Nel caso in cui si utilizzino bilanci non approvati dall’assemblea o bilanci infrannuali, è necessaria una loro approvazione da parte dell’organo amministrativo, o, in mancanza, del responsabile delle scritture contabili.
8. Gli indici specifici.
L’art. 13, comma 2 CCI che attribuisce la delega al CNDCEC per l’elaborazione degli indici prevede che con riferimento alle start-up innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n.179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n.221, e alle PMI innovative di cui al decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33, alle società in liquidazione e alle imprese costituite da meno di due anni vengano elaborati specifici indici.
Il Documento si occupa della questione al § 4, premettendo che comunque rimane ferma anche per tale tipologia di imprese l’applicabilità degli indicatori (cfr. supra § 3).
8.1 Le start-up innovative e le PMI innovative.
Per tali imprese il CNDEC, in esecuzione della previsione normativa, prevede la disapplicazione del set degli indici (ultimo nodo dell’albero) e la sua sostituzione con un unico indice, la capacità di ottenere le risorse finanziarie per la prosecuzione dell’attività di studio e di sviluppo, laddove un momento di criticità è costituito dalla sua sospensione per almeno 12 mesi. L’indice è applicabile in presenza di debito attuale o derivante dagli impegni assunti, ed è misurato tramite il DSCR.
Nel Documento non si chiarisce in modo esplicito quale sia la composizione del numeratore e del denominatore. È verosimile tuttavia ritenere che al numeratore vadano ricomprese le risorse finanziarie previste dai protocolli sottoscritti con gli investitori mentre al denominatore si debba tenere conto del fabbisogno finanziario minimo per la prosecuzione dell’attività di studio e sviluppo del progetto, mentre l’assenza di ricavi ed i risultati economici negativi non hanno rilevanza determinante al fine di individuare lo stato di crisi.
8.2 Società in liquidazione.
Lo stato di liquidazione, in assenza di prosecuzione dell’attività mediante l’esercizio provvisorio ex art. 2487 c.c., costituisce una condizione di disapplicazione degli indici che sono sostituiti dal rapporto tra il valore di realizzo dell’attivo liquidabile e il debito complessivo della società. Rilevano inoltre come indici della crisi (anche in presenza di un valore del rapporto uguale o maggiore di uno) il DSCR minore di uno ovvero l’indicatore rappresentato dai ritardi dei pagamenti reiterati e significativi. Non è sono invece significativi, per evidenti motivi, l’indicatore rappresentato dal pregiudizio alla continuità né l’indice costituito dalla presenza la presenza di un patrimonio netto negativo, che potrebbe derivare da un minore valore di libro degli assets rispetto a quanto realizzabile dalla loro liquidazione.
8.3 Imprese costituite da meno di due anni.
In linea generale se l’impresa è costituita da meno di due anni il Documento del CNDCEC prevede che l’unico indice che rileva è il solo patrimonio netto negativo.
Si applicano tuttavia gli indici di settore nel caso in cui l’impresa o la società neo costituita sia succeduta ad altra o sia subentrata ad altra nella conduzione o nella titolarità dell’azienda. Si tratta, ad esempio, dei seguenti casi:
- società beneficiarie di un complesso o di un ramo aziendale per effetto di una operazione di scissione;
- società incorporanti in una operazione di fusione o risultanti dalla fusione;
- società conferitarie di un complesso o di un ramo aziendale;
- imprese acquirenti un complesso od un ramo aziendale già esistente;
- imprese che conducono in affitto un complesso o un ramo aziendale già esistente.
8.4 Cooperative e consorzi.
L’art. 13 CCI non prevede particolari regole nell’elaborazione degli indici per le cooperative e i consorzi. Il Documento tuttavia contiene per tali tipologie di imprese alcune avvertenze.
Per le cooperative: il calcolo dell’indice DSCR deve tenere conto dei flussi attesi, per versamenti e rimborsi del prestito stesso, secondo una non irragionevole stima, basata sulle evidenze storiche delle relative movimentazioni non precedenti a tre anni; in presenza di prestito sociale, l’indice di adeguatezza patrimoniale potrà essere modificato sulla base di quanto previsto al terzo comma dell’art. 13 CCI, per tenere conto della incidenza di richieste di rimborso dei prestiti soci sulla base delle evidenze storiche non precedenti a tre anni; infine, nel calcolo dell’“indice di liquidità”, la voce relativa al “passivo a breve termine”, in relazione al prestito sociale, deve tener conto delle precisazioni e delle valutazioni effettuate con riferimento al calcolo del DSCR e dell’indice di adeguatezza patrimoniale.
Con riferimento invece alle cooperative agricole di conferimento, per le cooperative edilizie di abitazione, per i consorzi e le società consortili, inclusi i consorzi cooperativi, l’indice di adeguatezza patrimoniale potrà essere modificato sulla base di quanto previsto al terzo comma dell’art. 13 CCI, tenendo conto dei debiti vs soci riferiti allo scambio mutualistico.
9. Brevi considerazioni finali
L’introduzione nel nostro ordinamento del sistema degli early warning tools è stato accolto con favore dalla dottrina, pur con diversi distinguo, e non è certo intenzione del presente lavoro mettere in discussione i diffusi e articolati argomenti che sono stati spesi a supporto della riforma prima della sua entrata in vigore[49].
Riteniamo tuttavia che svolgere alcune ulteriori considerazioni possa essere utile a prendere confidenza con un sistema nuovo, che se funzionerà sarà ragionevolmente virtuoso e consentirà di ribaltare l’asse dei rapporti fra soluzioni concordate della crisi e liquidazione giudiziale, oggi tanto contestato perché sbilanciato dalla parte della liquidazione giudiziale, ritenuta l’espressione più alta del dirigismo statuale[50].
La prima considerazione è che la rilevazione (detection)[51] anticipata della crisi (intesa come insolvenza prospettica), è certamente condizione necessaria e tuttavia non sufficiente per la sua composizione[52].
La diagnosi precoce, infatti, intanto sarà il presupposto della guarigione in quanto la cura somministrata sarà adeguata. Detto in altro modo, l’emersione anticipata di per se non garantisce l’uscita dell’impresa dallo stato di crisi, né assicura il ritorno all’equilibrio economico e finanziario e quindi la conservazione del valore dell’azienda. Perché ciò possa avvenire è infatti necessario che la terapia sia efficace, il che, fuor di metafora, presuppone, nel diritto della crisi d’impresa, la «forza» dei procedimenti. Forza da misurarsi sia in termini di efficacia (idoneità a consentire il risanamento) ed efficienza (nel rapporto tra il risultato e le risorse impiegate), sia come capacità del procedimento stesso di condizionare a favore del turn round tutti gli stakeholder coinvolti[53].
A corollario di questa prima considerazione vale la pena poi aggiungere che se l’anticipata detection des difficultes non costituisce di per se un valore al fine della prevenzione della dissoluzione dell’impresa causata dall’aggravarsi dell’insolvenza, pare viceversa potersi affermare che il sistema costituito dai segnali di allerta e dal successivo procedimento innanzi all’OCRI, rappresenti invece un valido presidio per contrastare il consumo di risorse e il conseguente depauperamento del patrimonio sociale in danno ai creditori, ciò che troppo spesso avviene quando si procrastina l’inizio della liquidazione.
Sotto questo profilo, forse, avere così depotenziato lo strumento del concordato preventivo liquidatorio, non consente di cogliere appieno la potenzialità del sistema in chiave di prevenzione contro la consunzione del patrimonio causata dall’inutile prolungamento del fine vita dell’impresa.
Il motivo principale delle critiche che, in vigenza dell’attuale normativa, sono state mosse allo strumento del concordato preventivo liquidatorio, risiede nel fatto che la richiesta di accesso alla procedura giungeva spesso al termine di un lungo periodo di agonia dell’impresa, quando il patrimonio sociale era di fatto per gran parte consumato e le aspettative di soddisfazione per i creditori orami irrimediabilmente frustrate[54]. L’emersione anticipata della crisi rimedia a questa situazione, talché consentire una liquidazione concordata dell’impresa, in luogo della liquidazione giudiziale, potrebbe permettere di giungere in modo più efficace ed efficiente alla monetizzazione del patrimonio senza per questo pregiudicare in alcun modo le aspettative satisfattive dei creditori.
La seconda considerazione, che succede alla prima, muove appunto dalla necessità che i procedimenti successivi all’allerta, volti alla prevenzione della dissoluzione dell’impresa, siano efficaci, efficienti e, possibilmente, condizionanti l’habitat entro il quale il risanamento si deve realizzare.
Il legislatore del CCI ha scelto la via di rendere obbligatorio il procedimento avanti all’OCRI che segue all’allerta[55].
L’art. 14 del CCI ha infatti previsto l’obbligo degli organi di controllo di segnalare immediatamente all’organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi. In caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, gli organi di controllo che hanno effettuato la segnalazione informano senza indugio l’OCRI. Ne segue la convocazione dell’imprenditore, la sua audizione e, ove l’imprenditore ne faccia domanda, l’avvio della procedura di composizione assistita della crisi. All’audizione o alla conclusione della procedura di composizione assistita può seguire l’apertura, su domanda dell’imprenditore, di una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e quindi del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione o della liquidazione giudiziale, che può essere richiesta anche dai creditori o dal pubblico ministero. Ai sensi dell’art. 22 del CCI nel caso in cui l’imprenditore non compaia davanti all’OCRI o non adotti alcuna iniziativa e risulti evidente lo stato d’insolvenza, segue la segnalazione al P.M. che può chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale.
Non è certo questa la sede per mettere in discussione sul piano ideologico la scelta del legislatore[56], ma appare comunque utile ragionare sui presupposti (i pilastri) su cui dovrebbe basarsi la probabilità di successo del sistema di allerta e del procedimento avanti l’OCRI.
Il primo pilastro è che si realizzi il cambio culturale richiesto agli imprenditori dalla norma manifesto recata dall’art. 2086. L’adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile non rappresenta infatti solo la condizione affinché possa funzionare il sistema delle segnalazioni interne, ma costituisce un vero e proprio nuovo paradigma del fare impresa.
Certo non sarà facile, soprattutto per le micro imprese, trovare il punto di equilibrio tra la separazione e la contrapposizione di responsabilità nei compiti e nelle funzioni e la conservazione dell’elasticità gestionale (che costituisce uno dei punti di forza delle imprese più piccole a conduzione familiare); né sarà semplice contemperare le esigenze informative che un processo di pianificazione e controllo richiede con i costi da sopportare per la produzione delle informazioni necessarie ad alimentarlo. Ci vorrà tempo e, forse, una buona dose di iniziale tolleranza da parte degli organi deputati a verificare l’implementazione del nuovo paradigma.
Il secondo pilastro risiede nell’efficacia che l’OCRI dimostrerà nell’intervenire a valle delle segnalazioni: già nell’ambito dell’audizione (cfr. art. 18, comma 4 CCI: «Quando il collegio rileva l’esistenza della crisi, individua con il debitore le possibili misure per porvi rimedio e fissa il termine entro il quale il debitore deve riferire sulla loro attuazione») e, ancor di più, in sede di composizione assistita della crisi (cfr. art. 19 CCI)[57]. Tale efficacia dovrà però accompagnarsi ad una crescente fiducia da conquistare nei confronti degli imprenditori debitori, che non dovranno percepire l’OCRI come l’anticamera del tribunale fallimentare. Da questo punto di vista sarebbero controproducenti atteggiamenti di tipo vessatorio o comunque inutilmente «autoritari», mentre è auspicabile un approccio quanto più friendly possibile.
Il terzo pilastro riguarda anch’esso un cambiamento di cultura, atteso questa volta dagli stakeholder che, a vario titolo, interagiscono con l’impresa in crisi. Ci si riferisce in particolare ai soggetti erogatori del credito, sia bancario che di fornitura. Al di là infatti della prevista natura riservata e confidenziale del procedimento (sul cui effettivo rispetto ci sia consentito nutrire qualche dubbio) già le misure per superare la crisi di cui discorre l’art. 18, comma 4 CCI, postulano una disclosure sullo stato di crisi. Vieppiù nel caso del procedimento di composizione assistita. Se di fronte a tale situazione la reazione di banche e fornitori sarà quella di cessare di erogare credito all’impresa in crisi (come di fatto è avvenuto negli anni di vigenza della riforma) qualsiasi piano di risanamento apparirà velleitario. L’esperienza ha dimostrato infatti che troppo spesso, partendo dalla constatazione dell’impossibilità di accesso al credito per l’impresa in crisi (il che vuol dire: per gli acquisti pagamenti anticipati e per l’attivo circolante nessuna forma di copertura finanziaria), i piani di risanamento si sono rivelati «infattibili» perché hanno presunto livelli di FCFO irrealistici se non, addirittura, campati in aria.
L’ultimo pilastro è relativo al ruolo che i professionisti del debitore potranno recitare. È riteniamo a tutti evidente che il legislatore del CCI nei confronti dei professionisti che tipicamente assistono il debitore in crisi abbia, se non un vero e proprio atteggiamento ostile, quantomeno un certo pregiudizio. Ne sono riprova, nell’ambito della fase di allerta non volontaria: l’ultimo comma dell’art. 6 CCI secondo cui non «sono prededucibili i crediti professionali per prestazioni rese su incarico conferito dal debitore durante le procedure di allerta e composizione assistita della crisi a soggetti diversi dall’OCRI» (tra l’altro non era necessario prevedere una disposizione di quel tenore considerato che la fase di allerta non è di natura concorsuale e quindi non vi è alcuna consecuzione); l’art. 18 CCI, in sede di audizione del debitore, e l’art. 19 CCI in sede di composizione assistita, che non prevedono espressamente la facoltà per il debitore di farsi assistere da propri professionisti di fiducia. L’idea pare quindi quella di ritenere l’OCRI autosufficiente nella gestione della crisi e, conseguentemente, inutile, anzi dannosa in quanto costosa, l’attività di assistenza al debitore da parte dei professionisti di fiducia.
Se così fosse riteniamo che l’idea non tarderebbe a dimostrarsi velleitaria e, a nostro modesto avviso, costituirebbe un grave pregiudizio allo stesso successo della fase di allerta. I motivi sono molteplici e richiederebbero una disamina puntuale e approfondita che esula dalle finalità del presente lavoro. Sono tuttavia pienamente condivisibili le seguenti riflessioni che con acutezza fotografano la fallacità di tale idea: «Le imprese sono assistite da professionisti che stanno cominciando a comprendere quanto possa essere complesso e delicato per l’impresa ed il suo organo amministrativo subire la segnalazione all’OCRI da parte degli organi di controllo. Si risolveranno pertanto nel suggerire all’imprenditore di non transitare dalla fase della segnalazione avanti all’OCRI, ma di richiedere direttamente la composizione assistita a valle delle segnalazioni ricevute. La scelta della composizione assistita, in un primo momento, sembrerà quella preferibile in quanto presenta oneri inferiori rispetto alle soluzioni alternative di cui all’art. 37, si svolge lontano dalle aule del tribunale e vede tra i componenti del collegio degli esperti un “componente amico” (profilo opportunamente rafforzato dal correttivo). Quel che, invece, rischierà di passare sotto traccia è il fatto che redigere un piano richiede informazioni, esperienza e tempo. Se il piano non c’è, se le informazioni mancano, difficilmente l’OCRI potrà sostituirsi all’imprenditore e, se anche lo facesse, verrebbe meno il sano e costruttivo dibattito tra colui che ha formulato le stime e colui che, con il giusto grado di scetticismo, le mette in discussione: in pratica, l’OCRI, “se la canterebbe e suonerebbe da solo”»[58].
[1] Consultabile sul sito http://press-magazine.it/crisi-dimpresa-gli-indici-di-allerta-dei-commercialisti/.
[2] Soggetta ad approvazione del MISE
[3] Non soggetta ad approvazione del MISE
[4] Parte prima, Titolo II, Capo I.
[5] Meglio sarebbe dire gli oneri, così fabiani, La fase dell’allerta non volontaria e il ruolo dell’OCRI, in www.ilcaso.it10 ottobre 2019, p. 4.
[6] Cfr. fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2019, p. 7.
[7] Per un approfondimento sul tema dell’adeguato assetto organizzativo si veda l’ampio volume collettaneo, Assetti e modelli organizzativi nella corporate governance delle società di capitali, a cura di irrera, Bologna, 2016. Successivamente alle modifiche introdotte dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14: montalenti, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta, in La Nuova disciplina delle procedure concorsuale. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019; arato, Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi: ruoli e prerogative di amministratori, sindaci e revisori, ivi, p.77; ambrosini, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure d’allerta nel quadro normativo riformato, in www.ilcaso.it, 15 ottobre 2019.
[8] Secondo autorevole dottrina, peraltro, la prescrizione non sembra circoscritta alle imprese collettive; in tale senso si veda montalenti, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta, in La Nuova disciplina delle procedure concorsuale. In ricordo di Michele Sandulli, cit., p. 483.
[9] Sul rapporto funzionale esistente tra l’adeguato assetto organizzativo e gli strumenti di rilevazione tempestiva della crisi si veda: ambrosini, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure d’allerta nel quadro normativo riformato, cit., p. 8 ss.
[10] guiotto, I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, in Il fallimento, 2019, p. 409.
[11] Una generale ricostruzione critica nei saggi di guatri, Crisi e risanamento delle imprese, Milano, 1986; id. Turnaround. Declino, crisi e ritorno al valore, Milano, 1995
[12] Cfr. di marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, pp. 19-20.
[13] Cfr. rossi, Dalla crisi tipica ex cci alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, in www.ilcaso.it, 11 gennaio2019.
[14] ranalli, Definiti gli indici di crisi e il percorso di rilevazione dei suoi fondati indizi, in www.ilfallimentarista.it, Focus del 23 settembre 2019.
[15] Cfr. ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, in www.ilcaso.it, del 14 gennaio 2019, p.21 ss.
[16] Sulla compatibilità del CCI alle regole comunitarie si veda: panzani, Il preventive restructuring framework nella direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze, in www.ilcaso.it, 14 ottobre 2019.
[17] Cfr. rossi, Dalla crisi tipica ex cci alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, cit., p.4.
[18] Cfr. ranalli, Alcuni stimoli di riflessione sul “sistema di allerta”, in www.ilcaso.it, 20 novembre 2019, p. 3.
[19] Cfr. § 5.1 del Documento.
[20] Cfr. guiotto, I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, cit., p. 412
[21] Cfr. § 1.1 del Documento.
[22] L’impianto proposto dal Documento elaborato dal CNDCEC non trova un immediato e preciso riscontro in letteratura. Ciò è probabile sia la conseguenza più della formulazione, non troppo felice, degli artt. 13 e 14 CCI, che ha portato gli autori ad attribuire significati diversi alle locuzioni «indicatori della crisi», «fondati indizi della crisi» e «indici significativi della crisi», che non della ricerca di originali soluzioni esegetiche. Seppur in maniera frammentata interpretazioni conformi alla visione offerta dal Documento sono tuttavia presenti in modo diffuso in letteratura: «In sostanza, gli indicatori di crisi sono fissati con l’orizzonte di sostenibilità semestrale dei debiti e di altrettale continuità aziendale per l’esercizio corrente residuo (o, appunto, i sei mesi seguenti)», così ferro, Allerta e composizione assistita della crisi nel D.Lgs n. 14/2019: le istituzioni della concorsualità preventiva, in Il Fallimento, 2019, p. 425; secondo guiotto, « Al fine di limitare le interpretazioni soggettive e fornire all’imprenditore e all’organo di controllo criteri quanto più oggettivi possibili, il legislatore ha individuato al comma 1 dell’art. 13 due specifici indicatori della crisi, in presenza dei quali sia l’organo amministrativo, sia l’organo di controllo, ciascuno per quanto di rispettiva competenza, sono tenuti ad intraprendere le necessarie e idonee iniziative. I primi sono squilibri di carattere reddituale, patrimoniale e finanziario individuabili attraverso specifici indici. I secondi, disciplinati dall’ultimo periodo del medesimo comma, consistono in reiterati e significativi ritardi nei pagamenti delle obbligazioni aziendali, ai quali saranno destinate alcune specifiche considerazioni nel prosieguo della trattazione», I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, cit., p. 412; id. nardecchia, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Molteffa, 2019, p. 7.
[23] Cfr. ranalli, Le misure di allerta. Dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, Milano, 2019, p. 115 ss.
[24] Cfr. § 3.1 del Documento. Il modello decisionale è del tipo ad «albero» in cui ogni nodo rappresenta uno step a cui corrisponde una verifica e il cui esito è decisivo per il passaggio allo step successivo.
[25] In dottrina sulla necessità di una valutazione unitaria degli indici si veda diffusamente ranalli, Le misure di allerta. Dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, cit., p. 134 ss.
[26] Cfr. OIC 11 – Finalità e postulati del bilancio d’esercizio
[27] La perdita della continuità infatti, se non ripristinata con interventi mirati, laddove ciò sia comunque possibile, prelude ad una fase di «liquidazione» in cui il patrimonio dell’impresa «cessa di essere un complesso produttivo destinato alla creazione del reddito e si trasforma in un coacervo di beni destinati ad essere realizzati separatamente o a gruppi sul mercato, al pagamento dei creditori ed alla distribuzione ai soci dell’attivo netto residuo», il che comporta che il «criterio di valutazione delle attività, dunque, non può essere, come per il bilancio d’esercizio, il costo storico (la cui applicazione è giustificata dall’esigenza di determinare un utile interamente realizzato, distribuibile ai soci) bensì il valore di realizzo per stralcio dei beni ed il valore di realizzo dei crediti, al netto degli oneri diretti di realizzo», cfr. OIC 5 – Bilanci di liquidazione.
[28] Cfr. § 5.3 del Documento. Diversamente opinando i due indicatori, mancata sostenibilità dei debiti e perdita della continuità intercetterebbero lo stesso evento costituito, appunto, dalla insostenibilità delle obbligazioni esistenti e previste.
[29] In tal senso si veda anche: Le norme di comportamento del collegio sindacale, punto 11.1 – Prevenzione ed emersione della crisi; Principio contabile OIC 19 – Debiti – Operazioni di ristrutturazione del debito.
[30] Cfr. ranalli, Le misure di allerta. Dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, cit., p. 44.
[31] Con riferimento all’importanza del «piano d’impresa» nella logica del forwad looking si veda ranalli, Le misure di allerta. Dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, cit., p. 48
[32] Nel Documento al § 6.2 – Periodicità del calcolo degli indici della crisi, il CNDCEC ritiene che sia necessaria una valutazione degli indici almeno trimestrale e, in assenza di un bilancio approvato «dovrà essere condotta sulla base di una situazione infrannuale, avente natura volontaria, redatta dall’impresa per la valutazione dell’andamento economico e finanziario. Questa, nel rispetto del principio di proporzionalità, potrà essere costituita anche dai soli stato patrimoniale e conto economico, redatti secondo quanto previsto dall’OIC 30 o comunque facendo attenzione alla effettiva rilevanza delle scritture rispetto agli indici fatta salva la necessità di una adeguata valutazione preliminare del patrimonio netto». Tuttavia, si precisa anche che il «riferimento all’ultimo bilancio approvato è tecnicamente possibile esclusivamente per l’indicatore di patrimonio netto e per gli indici di settore, mentre il calcolo del DSCR si basa necessariamente su dati di tipo previsionale che devono essere predisposti con cadenze più frequenti. Occorre in particolare che il controllo degli indicatori di crisi sia più frequente qualora le condizioni economiche, finanziarie o patrimoniali dell’impresa siano tali da renderlo necessario».
[33] Cfr. guiotto, I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, cit., p. 415
[34] Cfr. guiotto, I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, cit., p. 415; id. ranalli, Le misure di allerta. Dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, cit., p. 126.
[35] In tal senso v. rossi, Dalla crisi tipica ex cci alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, cit. che così si esprime «D’altra parte, il fatto che la crisi tipica ex CCI, nella migliore delle ipotesi, sia in sé prossima (più che “probabile”) insolvenza ovvero, forse più correttamente, sia già insolvenza prospettica, risulta anche dall’art. 13 CCI che, tra gli “indicatori della crisi”, al di là di indici che attenta dottrina ritiene ben poco attendibili, evoca “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi”, ovvero ciò che già oggi, anche a proposito di azione revocatoria fallimentare, costituisce indice sintomatico di un vero e proprio stato d’insolvenza»; seppur con sfumature diverse v. anche nardecchia, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., pp. 8-9.
[36] Come è stato opportunamente osservato la gravità dell’evento «dipende molto dal termine contrattuale medio ponderato dei pagamenti…Se il termine medio contrattuale fosse di 30 giorni, il volume dei relativi debiti non scaduti sarebbe circa pari a quello afferente ad un dodicesimo degli acquisti; se viceversa esso fosse di 120 giorni, il volume dei debiti non scaduti crescerebbe a quello di un terzo degli acquisti. Nel primo caso la violazione per oltre centoventi giorni del termine di pagamento dovrebbe riguardare almeno un dodicesimo degli acquisti, nel secondo caso addirittura un terzo degli stessi», così ranalli, Le misure di allerta. Dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, cit., p. 126.
[37] Si tratta, come è noto, delle esposizioni debitorie nei confronti dell’Agenzia delle entrate, dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’agente della riscossione che superano i seguenti limiti: a) per l’Agenzia delle entrate, quando l’ammontare totale del debito scaduto e non versato per l’imposta sul valore aggiunto, risultante dalla comunicazione della liquidazione periodica di cui all’articolo 21-bis del decreto-legge 31 maggio 2010, n.78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, sia pari ad almeno il 30 per cento dei volume d’affari del medesimo periodo e non inferiore a euro 25.000 per volume d’affari risultante dalla dichiarazione modello IVA relativa all’anno precedente fino a 2.000.000 di euro, non inferiore a euro 50.000 per volume d’affari risultante dalla dichiarazione modello IVA relativa all’anno precedente fino a 10.000.000 di euro, non inferiore a euro 100.000, per volume d’affari risultante dalla dichiarazione modello IVA relativa all’anno precedente oltre 10.000.000 di euro; b) per l’Istituto nazionale della previdenza sociale, quando il debitore è in ritardo di oltre sei mesi nel versamento di contributi previdenziali di ammontare superiore alla metà di quelli dovuti nell’anno precedente e superiore alla soglia di euro 50.000; c) per l’agente della riscossione, quando la sommatoria dei crediti affidati per la riscossione dopo la data di entrata in vigore del presente codice, autodichiarati o definitivamente accertati e scaduti da oltre novanta giorni superi, per le imprese individuali, la soglia di euro 500.000 e, per le imprese collettive, la soglia di euro 1.000.000
[38] Cfr. Documento, § 3.2.2,
[39] Lo schema di «decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive a norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 2019, n. 20, al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, recante “codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”», all’art. 1, comma 1 lett. a), sostituisce le parole “difficoltà economico-finanziaria” con “squilibrio economico-finanziario”.
[40] Cfr. leuzzi, Indicizzazione della crisi d’impresa e ruolo degli organi di controllo: note a margine del nuovo sistema, in www.ilcaso.it, 28 ottobre 2019, p.7.
[41] ranalli, Le misure di allerta. Dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, cit., p. 38.
[42] Il Free Cash Flow Operativo (FCFO) misura la liquidità generata o assorbita dalla gestione operativa. La formula di calcolo (metodo indiretto) è la seguente:
+ Ebit (Earning Before Interests And Taxes)
- Imposte sul risultato operativo
= Nopat (Net Operating Profit After Tax)
+ Ammortamenti
+ Svalutazioni, accantonamenti ed altri costi non monetari
= Autofinanziamento netto
+/- Variazione del Capitale circolante netto commerciale (CCNc)
- Variazione dei fondi
= Flusso di cassa operativo corrente (FCOC)
+/- Investimenti / Disinvestimenti riferibili all'area operativa
= Free cash flow operativo (FCFO)
Il flusso di cassa rappresenta il collegamento fra la dimensione economica (costi e ricavi) e quella patrimoniale (Attivo, Passivo e PN), dal momento che permette di stabilire una relazione tra il risultato economico e le risorse impiegate per il suo conseguimento. Occorre fare riferimento in particolare a due grandezze: il COIN, che rappresenta il capitale investito nella gestione operativa e l’EBIT (earning before interests and taxes) che misura il margine operativo netto. Il free cash flow operativo si origina dal confronto fra il risultato economico e la variazione dello stock in due periodi consecutivi. Per dirla meglio, l’Ebit misura la capacità dell’impresa di autofinanziarsi e il free cash flow operativo il valore che si ottiene correggendo tale autofinanziamento con l’effetto esercitato dalla variazione della gestione circolante e strutturale (investimenti).
[43] Per un inquadramento sistematico dell’approccio alla pianificazione e alla programmazione nella scienza aziendale si veda, in luogo di altri, caramiello, Programmi e piani aziendali. Introduzione allo studio della funzione di programmazione, Milano, 1993.
[44] Secondo Assonime, circolare 19/2019, con una lettura al contrario che è pero utile a chiarire il processo di formazione del piano «La responsabilità degli amministratori in ordine al contenuto del piano e agli strumenti giuridici per attuarlo può in teoria derivare: a) da un processo decisionale non idoneo; b) dalla non coerenza del piano e dello strumento di realizzazione con i presupposti in base ai quali essi sono stati redatti; c) dall’infondatezza o dall’irragionevolezza dei presupposti posti alla base del piano e dello strumento», p. 63.
[45] Lo schema di calcolo secondo il metodo indiretto, è riportato all’appendice A del princio OIC10 e riproduce, sostanzialmente, quanto già indicato in nota 43.
[46] OIC 10, §§ 29 e 30: Il flusso finanziario derivante dall’attività operativa è determinato con il metodo indiretto, mediante il quale l’utile (o la perdita) dell’esercizio, oppure l’utile (o la perdita) prima delle imposte, è rettificato per tenere conto di:
- elementi di natura non monetaria, ossia poste contabili che non hanno richiesto
- esborso/incasso di disponibilità liquide nel corso dell’esercizio e che non hanno avuto contropartita nel capitale circolante netto; alcuni esempi sono: ammortamenti di immobilizzazioni, accantonamenti ai fondi rischi e oneri, accantonamenti per trattamento di fine rapporto, svalutazioni per perdite durevoli di valore; utili non distribuiti relativi a partecipazioni in società collegate valutate con il metodo del patrimonio netto;
- variazioni del capitale circolante netto connesse ai costi o ricavi dell’attività operativa. Alcuni esempi sono: variazioni di rimanenze, variazioni di crediti verso clienti e di debiti verso fornitori, variazioni di ratei e risconti attivi/passivi. Le variazioni del capitale circolante netto rappresentano gli scostamenti rispetto ai saldi dell’esercizio precedente;
- operazioni i cui effetti sono ricompresi tra i flussi derivanti dall’attività di investimento e finanziamento. Ad esempio: le plusvalenze o minusvalenze derivanti dalla cessione di attività.
Tali rettifiche hanno lo scopo di trasformare i componenti positivi e negativi di reddito in incassi e pagamenti (cioè in variazioni di disponibilità liquide).
[47] OIC 10 §§ da 32 a 37: I flussi finanziari dell’attività di investimento comprendono i flussi che derivano dall’acquisto e dalla vendita delle immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie e delle attività finanziarie non immobilizzate.
In via esemplificativa, i flussi finanziari generati o assorbiti dall’attività di investimento derivano da:
- acquisti o vendite di fabbricati, impianti, attrezzature o altre immobilizzazioni materiali (incluse le immobilizzazioni materiali di costruzione interna);
- acquisti o vendite di immobilizzazioni immateriali, quali ad esempio i brevetti, i marchi, le concessioni; questi pagamenti comprendono anche quelli relativi agli oneri pluriennali capitalizzati;
- acquisizioni o cessioni di partecipazioni in imprese controllate e collegate;
- acquisizioni o cessioni di altre partecipazioni;
- acquisizioni o cessioni di altri titoli, inclusi titoli di Stato e obbligazioni;
- erogazioni di anticipazioni e prestiti fatti a terzi e incassi per il loro rimborso.
I flussi finanziari derivanti dall’acquisto di immobilizzazioni sono distintamente presentati nell’attività di investimento, per l’uscita effettivamente sostenuta nell’esercizio, pari al complessivo prezzo di acquisto rettificato dalla variazione dei debiti verso fornitori di immobilizzazioni; ciò al fine di evidenziare in modo unitario le risorse finanziarie assorbite dall’operazione di acquisto.
I flussi finanziari derivanti dalla vendita di immobilizzazioni sono distintamente presentati nell’attività di investimento, per l’entrata effettivamente incassata nell’esercizio pari al cd. prezzo di realizzo (cioè il valore netto contabile aumentato della plusvalenza o ridotto dalla minusvalenza) rettificato dalla variazione dei crediti verso clienti per immobilizzazioni; ciò alfine di evidenziare in modo unitario la fonte di risorse finanziarie generate dall’operazione di vendita.
Considerato che nel conto economico è rilevata la plusvalenza o minusvalenza rispetto al valore contabile netto dell’immobilizzazione, la società rettifica l’utile/perdita dell’esercizio nell’attività operativa per il valore della plus/minusvalenza.
La società presenta distintamente i principali incassi o pagamenti derivanti all’attività di investimento, distinguendoli a seconda delle diverse classi di immobilizzazioni (immateriali, materiali e finanziarie), indicando separatamente le attività finanziarie non immobilizzate.
[48] Con la precisazione che nel calcolo del patrimonio netto sono escluse, la “Riserva per operazioni di copertura dei flussi finanziari attesi” e le altre riserve specifiche derivanti dagli IFRS quali riserve di fair value, riserve attuariali, riserva stock option, ecc., cfr. Documento § 3.3.
[49] Un’ampia rassegna delle posizioni in campo in de matteis, L’allerta nel disegno di legge delega n. 3671-bis, in Dir.fall., 2017, par. 1.
[50] Così stanghellini, Il codice della crisi d’impresa: una primissima lettura (con qualche critica), in Corr.giur., 2019, 453.
[51] Prévention e detéction sono le finalità che nella legislazione d’oltralpe sono assegnate alle procédures d’alerte. Sul punto per una visione d’assieme seppur sintetica, si veda chaput, Le droit franeasis de la sauvegarde des enterprises, in Tratt. Dir. Fall. e proc. concors., diretto da vassalli – luiso – gabrielli, V, Torino, 2014, p. 174 ss.
[52] Cfr. cataldo, La soggezione dell’impresa in crisi al regime di allerta e composizione assistita, in Fallimento, 2016, 1022.
[53] «In altri termini: una migliore disciplina della crisi può si favorire, o evitare di intralciare, la ricerca di soluzioni che assicurino in tutto o in parte la conservazione dell’impresa, ma le condizioni perché la conservazione dell’impresa sia possibile, e l’efficacia e celerità delle soluzioni perseguite, dipenderanno anche, se non anzitutto, da fattori di politica economico-sociale, e dall’esistenza di margini che consentano l’effettiva destinazione di risorse in funzione di obiettivi di questa specie», così cataldo, La soggezione dell’impresa in crisi al regime di allerta e composizione assistita, cit., p. 1026.
[54] Un’indagine condotta su sedici tribunali e pubblicata da ferro, ruggiero, di carlo, Concordato preventivo, concordato fallimentare e accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2012, p. 28 aveva già rivelato: (i) che il 94% delle imprese depositano il ricorso per concordato preventivo dopo avere già avuto la notifica del ricorso per fallimento; (ii) che nell’85% dei casi l’attività d’impresa è già cessata prima della presentazione del ricorso o è, comunque, previsto dal piano che cessi all’esito della procedura; (iii) che circa l’80% delle proposte prevedono la mera cessione dei beni ai creditori in funzione della loro (aleatoria) liquidazione.
[55] La scelta della maggior parte dei Paesi comunitari prevede invece un sistema di natura volontaria. La stessa DIRETTIVA 2019/1023 DEL 20 GIUGNO avente ad oggetto IL PREVENTIVE RESTRUCTURING FRAMEWORK «prevede un obbligo generico di adottare strumenti di allerta precoce, senza introdurre vincoli precisi», sul punto si veda diffusamente panzani, Il preventive restructuring framework nella direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze, cit.
[56]«Forse è improvvido che lo Stato giochi una scommessa», così barachini, Le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, in Crisi d’impresa e insolvenza, a cura di calvosa, Pisa, 2016, p. 51.
[57] Come è stato acutamente osservato «La credibilità dell’OCRI nei confronti dei creditori e degli altri stakeholder è essenziale per il successo delle trattative. Il ruolo dell’OCRI deve infatti essere nel contempo propulsivo, di vaglio critico e di mediazione tra le parti, requisiti gli ultimi due che discendono dall’indipendenza del collegio degli esperti e da un approccio agnostico e non di parte. L’OCRI è credibile solo se dimostra di avere svolto un effettivo vaglio critico delle azioni che il debitore intende attuare; lo è molto meno se il piano è un suo prodotto, in quanto esso risentirebbe di una conoscenza comunque sommaria dell’impresa da parte dell’estensore e non sarebbe veramente interiorizzato e fatto proprio dal debitore che dovrà eseguirlo», così ranalli, Le misure di allerta ed il correttivo: un dettaglio che rischia di fare naufragare uno strumento sulla carta efficace, in www.ilfallimentarista.it del 13 gennaio 2019.
[58] ranalli, Le misure di allerta ed il correttivo: un dettaglio che rischia di fare naufragare uno strumento sulla carta efficace, cit.
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