CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 01/04/2020 Scarica PDF
Le discipline dell'insolvenza e della crisi d'impresa ai tempi della pandemia da COVID-19. Impressioni e spunti di riflessione
Riccardo Della Santina, Dottore Commercialista, Professore a contrattoSommario: 1. Premessa. - 2. Insolvenza e crisi - 3. Cosa fare allora?
1. Premessa.
È di recente pubblicazione, su questa rivista, un interessante articolo, ad opera di autorevole dottrina, nel quale si affronta la questione, divenuta oggi centrale, della tenuta della disciplina dell’insolvenza e della crisi, sia vigente che, ancor più, di prossima applicazione[1], nel periodo di «economia di guerra» in cui la pandemia da Covid – 19, ha precipitato non solo l’Italia, ma il mondo intero[2].
Il lavoro prende spunto dalla dichiarazione rilasciata dal ceril - conference on european restructuring and insolvency law - 2020-1 «COVID-19 urges legislators to adapt insolvency legislation», nella quale si esprime preoccupazione sulla «capacità della legislazione vigente in materia di insolvenza in Europa di fornire risposte adeguate alla situazione estremamente difficile in cui molte società potrebbero trovarsi nella crisi COVID-19».
Con le brevi riflessioni che seguono, si intende apportare un ulteriore, seppur modesto, contributo alla discussione che, è presumibile, si animerà intorno all’esigenza di rendere quanto più efficiente possibile la disciplina dell’insolvenza e della crisi nell’inedita situazione di crollo dell’economica globale che stiamo affrontando, ma con caveat di fondo: il tempo per intervenire è poco, anzi è pressoché finito e si è fatta l’ora delle decisioni.
La strategia di contrasto alla diffusione del virus Covid-19, in mancanza di altri presidi, quali ad esempio il vaccino, ha imposto alle autorità competenti (regioni, governo e parlamento) l’assunzione di una serie di provvedimenti, via via sempre più stringenti, volti al contenimento dei rapporti sociali, culminati con il noto d.p.c.m. del 22 marzo 2020 che ha stabilito il blocco di tutte le attività economiche non ritenute essenziali ed il lockdown, quasi assoluto, dell’intera popolazione[3].
L’effetto immediato di tali provvedimenti, stimato dal ministero dell’economia e delle finanze, è stato la (temporanea) chiusura del 50,60% delle imprese (circa 2 milioni e 250 mila) con oltre 5,7 milioni di lavoratori dipendenti interessati[4].
Sul piano delle previsioni economiche, un autorevole istituto di ricerca, Prometeia, ha diffuso, recentemente, un report in cui stima una riduzione del PIL per il 2020 del 6,5 %, ovvero equivalente alla recessione dell’intero biennio 2008-2009[5]. Lo studio, che assume come ipotesi uno scenario in cui, a partire dal mese di maggio, vengano rimossi in modo selettivo e graduale i blocchi alle attività economiche e sia progressivamente allentata la strategia di lockdown, disaggrega anche il dato medio della contrazione del PIL per singoli settori, evidenziando differenze molto ampie: dal -10% del manifatturiero al -27% dei servizi legati al turismo, fino al – 16% dei servizi di trasporto. Ma ciò che più allarma, è la previsione secondo cui l’Italia, nel 2022, (e quindi a due anni di distanza dallo shock) avrà un PIL al di sotto di oltre due punti percentuali rispetto al 2019. Ecco perché, in precedenza, si è parlato di uno scenario da «economia di guerra».
Per le imprese, ma, più in generale, per l’intero sistema economico produttivo, includendo quindi, per esempio, anche il mondo professionale, l’effetto immediato, causato dal blocco, è rappresentato dall’improvviso arresto dei flussi di cassa (sudden stop cash flow). È evidente infatti che, la sopraggiunta impossibilità di proseguire l’attività economica, determina l’interruzione del ciclo attivo dell’impresa (produzione-fatturazione-incasso crediti) e, in conseguenza, si interrompe il flusso di cassa destinato ad alimentare il ciclo finanziario. La situazione è peraltro aggravata dalla considerazione che, anche il portafoglio dei crediti verso i clienti, che ogni impresa deteneva in stock prima del lockdown, e con scadenza nei mesi successivi, verosimilmente non si trasformerà in liquidità nei tempi previsti, in quanto i clienti, che sono a loro volta imprese, hanno gli stessi problemi di carenza (melius assenza) di liquidità, e quindi rinvieranno i pagamenti dei loro fornitori.
Va anche aggiunto che, in questa contingenza, il cd. approccio «forward looking», utile in situazioni ordinarie a stimare l’evoluzione futura della gestione e, per questa via, i flussi che saranno generati in un ragionevole arco temporale (per esempio i sei mesi successivi), si trasforma, da modello di programmazione aziendale, in un esercizio divinatorio. Le variabili in grado di influenzare le assunzioni da porre a base del piano d’impresa, infatti, non solo sfuggono a qualsiasi pretesa attività di controllo, ma sono in gran parte ignote: tempi, modalità e velocità di uscita dal lockdown.
Lo scenario che ci troviamo di fronte è, pertanto, quello di una platea di imprese che, prima dello shock, si trovavano in una situazione di «normalità», intesa sia come capacità di fare fronte regolarmente ai propri impegni, sia come assenza di particolari trigger event in pregiudizio alla continuità, e che invece, subito dopo, si ritrovano (temporaneamente?) incapaci di adempiere alle obbligazioni e incerte nel presupposto della continuità.
Non è difficile prevedere che, in assenza di adeguate misure, una grande quantità di imprese rischierebbe così il fallimento, con le gravi conseguenze che ne deriverebbero sul piano della tenuta complessiva del nostro sistema economico e sociale.
Ebbene, gli interventi necessari ad arginare la situazione, che si prospetta come la più difficile da affrontare dal dopoguerra ad oggi, dovrebbero essere certamente di natura finanziaria, ma anche di tipo ordinamentale, in modo da approntare un quadro normativo, chiaro e certo, che determini la temporanea protezione delle imprese (invero bisognerebbe parlare dei debitori in genere) dalle conseguenze degli inadempimenti causati da un evento assolutamente imprevedibile.
2. Insolvenza e crisi originate dalla pandemia.
L’insolvenza, tradizionalmente, viene definita come la condizione di impotenza patrimoniale del debitore nel soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni e trova, pertanto, la sua tipica manifestazione nell’inadempimento che, anche in assenza di altri fatti esteriori, è di per se ritenuto un sintomo sufficiente. Si prescinde cioè, nella valutazione dell’insolvenza, dalla presenza, per esempio, di un attivo patrimoniale che sia maggiore del passivo, ma che non sia liquidabile in tempi brevi e quindi, non consenta il pagamento dei debiti scaduti e di prossima scadenza.
Applicando tale criterio, alle PMI colpite dagli effetti collaterali della pandemia da Covid-19 è verosimile ritenere che la stragrande maggioranza di esse risulti positiva al test dell’insolvenza e che, in assenza di adeguate misure di salvaguardia, la prognosi per esse sia infausta.
Nell’articolo citato in premessa gli Autori, riprendendo una delle raccomandazioni contenute nella dichiarazione del ceril, propongono, tra l’altro, un intervento di «ibernazione» delle PMI che si avviano (o già sono) in una situazione di illiquidità.
Raccogliendo tale autorevole indicazione, quale spunto di ulteriore riflessione, ci si chiede perché, allora non pensare, addirittura, ad una disattivazione delle conseguenze dell’insolvenza che tragga origine diretta dagli effetti collaterali della pandemia (di seguito, per comodità di esposizione, indicata come disattivazione della clausola d’insolvenza).
Si potrebbe così stabilire che le imprese, che ad una data prossima allo shock (per esempio il 29 febbraio 2020) risultavano in bonis, non possano essere dichiarate fallite, allorché l’insolvenza sia sopraggiunta come conseguenza diretta dell’emergenza economica originata dalla pandemia. L’accertamento della duplice condizione (essere in bonis e nesso causale tra insolvenza sopraggiunta e gli effetti della pandemia) non pare d’altronde particolarmente complesso e potrebbe essere affidato ad un professionista provvisto dei requisiti previsti dall’art. 67, comma 3 lett. d) l.fall. (art. 2, comma 1 lett. o) del CCII). È evidente, infatti, che se l’impresa, alla data indicata, ha proceduto ad effettuare i pagamenti in scadenza secondo i canoni ordinari, e non risultava destinataria di atti pregiudizievoli di particolare rilevanza e/o significatività, non sarà difficile dedurne che: i) verosimilmente allora si trovava in bonis e che ii) ragionevolmente la sopravvenuta situazione di insolvenza sia direttamente causata dagli effetti economici della pandemia.
L’attestazione rilasciata dal professionista potrebbe, pertanto, essere prodotta dall’impresa, convenuta in un eventuale giudizio per la dichiarazione di fallimento, e costituire, fatti salvi i necessari controlli del tribunale sulla sua congruità e logicità, una causa di improcedibilità alla dichiarazione di fallimento. Naturalmente la disapplicazione della clausola dell’insolvenza dovrebbe avere un limite temporale e, eventualmente essere limitata anche sul piano soggettivo (per esempio non invocabile dalle imprese alle quali i provvedimenti governativi non hanno imposto lo stop dell’attività).
Un siffatta previsione potrebbe comportare più vantaggi: evitare un massivo ricorso, in via di prevenzione, al tribunale, necessario invece nel caso di strumenti di protezione anticipata; lasciare la libertà ai creditori di instaurare un giudizio per la dichiarazione di fallimento del proprio debitore; consentire il controllo giudiziale sulla effettiva esistenza delle condizioni necessarie per poter disapplicare la clausola dell’insolvenza.
In tempi relativamente recenti[6], la disciplina concorsuale ha conosciuto oltre all’insolvenza, la crisi, termine che qualifica una delle condizioni oggettive di accesso del debitore alle procedure diverse dal fallimento. Come noto, il termine «crisi» è rimasto, in vigenza dell’attuale legge fallimentare, privo di una definizione positiva, salvo la precisazione presto introdotta nell’art. 160 l.fall., per cui il rapporto tra crisi ed insolvenza era da intendersi come di genus at species. Ai fini che qui interessano, tuttavia, la crisi, essendo prevista dalla legge fallimentare come una condizione oggettiva di accesso ad una procedura a cui il debitore può volontariamente ricorrere, non presenta profili di particolare criticità, ovvero non richiede che sia disinnescata in funzione della protezione delle imprese travolte dalla pandemia economica originata dal Covid-19.
Lo scenario cambia completamente però, se ci proiettiamo nel futuro prossimo, ovvero dopo che sarà entrato in vigore il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII).
Il CCII introduce, infatti, una definizione positiva di crisi (cfr. art. 2, comma 1 lett. a) che costituisce la condizione di accesso alla procedura di allerta non volontaria.
Se facciamo riferimento al documento elaborato dal CNDCEC, in esecuzione della delega contenuta nell’art. 13, comma 2 CCII, è di immediata intuizione che le imprese, travolte dall’emergenza economica, vedrebbero allertarsi, verosimilmente, l’intero sistema degli indicatori e degli indici. Da qui le segnalazioni e l’avvio del procedimento avanti l’OCRI con le conseguenze che ne potrebbero derivare.
Va subito detto che il legislatore, consapevole dell’insopportabile tasso di mortalità delle imprese che si sarebbe riscontrato quale effetto indesiderato dell’applicazione delle «procedure di allerta» in tempi di «economia di guerra», con il d.l. 2 marzo 2020, n. 9, art. 11, ha differito al 15 febbraio 2021 l’obbligo delle segnalazioni di cui agli artt. 14 e 15 del CCII.
Ci si chiede tuttavia, se ciò possa essere ritenuto sufficiente al fine di disinnescare le insidie che la disciplina dell’allerta non volontaria comunque nasconde.
La risposta pare non essere rassicurante. Vediamo perché.
Va infatti evidenziato che, con la modifica intervenuta all’art. 2477 c.c.[7], che ha previsto nuovi limiti per la nomina, si è enormemente ampliata la platea delle imprese obbligate a dotarsi dell’organo di controllo[8]. È ragionevole pertanto ritenere che, l’organo di controllo, una volta nominato, anche in assenza dell’obbligo della segnalazione, differito al febbraio 2021, svolga un’opera di moral suasion nei confronti degli amministratori delle imprese «sotto pandemia» affinché essi procedano «almeno» alla presentazione delle istanze per la composizione assistita ex art. 19 CCII. Ciò, se non altro, per cercare di attenuare le proprie responsabilità che l’inerzia comporterebbe. Il differimento dell’obbligo delle segnalazioni determina, infatti, anche l’inapplicabilità della causa di esenzione dalle responsabilità per l’organo di controllo, prevista dal comma terzo dell’art. 14 del CCII. Si aggiunga poi che, l’art. 37 CCI, consente anche all’organo di controllo di presentare la domanda di aperura della liquidazione giudiziale: ovvero a mali estremi, estremi rimedi! Infine, l’art. 22 CCII, nel caso in cui il tentativo di composizione assistita abbia esito negativo, e non sia seguito da una domanda di accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, prevede la segnalazione da parte dell’OCRI al pubblico ministero affinché valuti la presenza dello stato d’insolvenza.
Ecco perché, il solo differimento dell’obbligo delle segnalazioni di cui agli artt. 14 e 15 CCII, non appare misura sufficiente a disinnescare gli effetti potenzialmente letali che l’uso a regime della procedura di allerta potrebbe determinare.
3. Cosa fare allora?
Il titolo assegnato a quest’ultimo paragrafo non deve apparire presuntuoso: non c’è infatti alcuna volontà di somministrare verità non conosciute o rispondere con soluzioni dogmatiche a questioni forse mai affrontate dal dopoguerra ad oggi. C’è piuttosto il tentativo di esorcizzare lo stato di ansia e di sgomento che la mancanza di prospettiva, provoca nell’animo umano.
Fatta questa doverosa premessa, sull’ipotesi di inserire nell’ordinamento una causa di non procedibilità alla dichiarazione di fallimento, che protegga le imprese «infettate» dal Covid-19 si è già detto.
Qualche riflessione in più merita, invece, il tema degli interventi necessari ad eliminare gli effetti del «fuoco amico» che sarebbero conseguenti all’applicazione indiscriminata, in questa fase di economia di guerra, della disciplina delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi; e la riflessione dovrebbe, forse più propriamente, allargarsi all’ipotesi di un rinvio tout court dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, altrimenti previsto per il prossimo 14 agosto.
A favore di tale soluzione riteniamo depongano, al di là di ogni valutazione sul merito della riforma, motivi di opportunità: diversamente si verificherebbe, infatti, un’avversa «congiunzione astrale» per cui, per gli operatori del diritto della crisi, alla difficoltà di fronteggiare la più grave emergenza economica vissuta dopo la ricostruzione post bellica, si sommerebbe la difficoltà di dover utilizzare una strumentazione giuridica completamente nuova e quindi «sconosciuta» nella sua pratica applicazione. Sarebbe, sia concessa la metafora, come se, ai medici di un pronto soccorso in un ospedale da campo, fosse imposto di operare abbandonando i tradizionali strumenti chirurgici per utilizzare la robotica, senza avere consentito loro di fare il training necessario.
Sempre rimanendo sul piano della necessità degli interventi a protezione delle imprese colpite dal Covid-19, si pone poi la duplice questione della stabilità dei contratti pendenti al momento dello shock e della protezione delle imprese dalle azioni esecutive.
La situazione allo stato si presenta composita e piuttosto disorganica.
Il d.l. «Cura Italia»[9] infatti, a favore delle microimprese e delle piccole e medie imprese - come definite dalla Raccomandazione della Commissione europea n. 2003/361/CE del 6 maggio 2003 – all’art. 56, comma 2 ha previsto le seguenti misure: i) la proroga fino al 30 settembre 2020, dei contratti di finanziamento erogati nelle varie forme (aperture di credito, anticipi fatture, bullet ecc.), e quindi la disposizione risponde all’esigenza sia di stabilizzare i contratti de quibus, sia differire la scadenza dei relativi crediti; ii) la moratoria, sempre fino al 30 settembre 2020, delle rate in scadenza dei mutui, prestiti, leasing ecc.
Per quanto riguarda i crediti erariali, diversi da quelli affidati all’agente della riscossione (al di là della mini proroga dal 16 al 20 marzo 2020, art. 60 «Cura Italia»), e fatto salvo le sospensioni dei versamenti variamente disciplinate a secondo dei soggetti beneficiari (cfr. artt. 61 e 62 «Cura Italia»), ad oggi non è prevista alcuna misura generalizzata di moratoria. Per i carichi iscritti a ruolo vale, invece, la sospensione dei pagamenti prevista dall’art. 68 «Decreto Italia», che opera fino al 31 maggio 2020 (il pagamento delle somme è poi previsto in un’unica soluzione entro il 30 giugno 2020). Va infine evidenziato che l’art. 67 «Cura Italia»sospende fino al 31 maggio 2020l’attività di riscossione, ivi compresi gli atti esecutivi e cautelari[10].
Questo è il panorama, fatto salvo errori od omissioni, che offre, ad una prima lettura, l’attuale produzione legislativa, da cui emerge, con chiarezza, l’assenza di una previsione generalizzata, sia in tema di protezione dalle azioni esecutive, che di stabilizzazione contrattuale. Manca, cioè, una disposizione che preveda una moratoria generale dei crediti con scadenza successiva allo shock, e valida per un arco temporale da stabilire, e una disciplina che stabilisca che, l’inadempimento all’obbligo dei pagamenti successivo allo shock e originato dalla pandemia da Covid-19, non costituisce causa di risoluzione dei contratti pendenti (questione particolarmente sentita, per esempio, a proposito dei contratti di locazione di immobili commerciali e/o strumentali)[11].
Anche in questi casi si potrebbe intervenire con misure legislative, certamente di durata limitata, che consentano all’impresa di attestare la propria condizione di «contagiata dagli effetti economici del Covid-19» tramite la relazione di un professionista, provvisto dei requisiti previsti dall’art. 67, comma 3 lett. d) l.fall. L’attestazione dovrebbe poi essere pubblicata nel registro delle imprese e avrebbe l’effetto protettivo – sia per quanto riguarda gli atti esecutivi, che la stabilizzazione dei contratti pendenti - fin dalla sua pubblicazione, fatta salva la facoltà per il creditore, o per il terzo contraente, di chiedere al tribunale (verosimilmente fallimentare) la revoca della protezione in caso di accertamento negativo delle condizioni previste (magari si potrebbe prevedere anche un sistema di sanzioni/o disincentivi per contrastare l’uso opportunistico dello strumento).
Tale soluzione, qui naturalmente sotto forma di non più che una semplice idea, avrebbe il vantaggio di non «ingolfare» i tribunali, ma di lasciare ai creditori e ai terzi contraenti, il controllo di prima istanza sulla sussistenza delle condizioni necessarie per usufruire della protezione, prevedendo, solo in seconda istanza, il controllo giudiziale.
Non rimane che attendete fiduciosi i provvedimenti che il legislatore adotterà… contando nella Sua lungimiranza.
[1] Il riferimento è al d. lgs. Del 12 gennaio 2109, n. 14.
[2] Cfr. corno – panzani, I prevedibili effetti del coronavirus sulla disciplina delle procedure concorsuali, www.ilcaso.it, 25 marzo 2020.
[3] Ci si riferisce (con specifico riferimento ai provvedimenti di carattere sanitario) ai decreti legge del 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito nella legge 5 marzo 2020, n. 13), del 2 marzo 2020, n. 9, del 8 marzo 2020, n. 11 e del 25 marzo 2020, n. 19; e ai d.p.c.m. del 25 febbraio e del 1, 4, 8, 9, 11 e 22 marzo.
[4] Fonte: Il sole 24 ore, 26 marzo 2020.
[5] Cfr. prometeia, Rapporto previsione marzo 2020, consultabile su www.prometeia.it
[6] Il termine «crisi» è stato introdotto con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in l. 14 maggio 2005 n. 80, che ha modificato l’art. 160 l.fall., prevedendo quale condizione di accesso al concordato preventivo la crisi.
[7] Modifica introdotta dall’art. 379 CCI e poi ulteriormente modificata dall’art. 2-bis d.l. 18 aprile 2019, n. 32, conv. in l. 14 giugno 2019, n. 55.
[8] Deve evidenziarsi che il d.l. 30 dicembre 2019, n. 162, conv. in l. 28 febbraio 2020, n. 8, con l’art. 8, comma 6 -sexies dispone che «All’articolo 379, comma 3, primo periodo, del codice delle crisi d’impresa e dell’insolvenza, di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, le parole: «entro nove mesi dalla predetta data» sono sostituite dalle seguenti: «entro la data di approvazione dei bilanci relativi all’esercizio 2019, stabilita ai sensi dell’articolo 2364, secondo comma, del codice civile». Va altresì detto che l’art. 106 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 stabilisce il termine per la convocazione dell’assemblea per l’approvazione del bilancio in deroga all’art. 2478-bis in 180 gg.
[9] Ci si riferisce al d.l. 17 marzo 2020, n. 18
[11] Il d.l. «Cura Italia» all’art. 83 comma 2, ha sospeso sino al 15 aprile 2020 i termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali, tra cui sono compresi i termini per la proposizione dei procedimenti esecutivi. Tuttavia si tratta di una misura limitata nel tempo e quindi da non ritenersi sufficiente ai fini della protezione delle imprese dagli atti esecutivi. Ancora il d.l. «Cura Italia» all’art. 91 detta disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici. In particolare dispone che «Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti». La norma non prevede però la sospensione o la proroga dei termini contrattuali, ma ipotizza una limitazione o riduzione della responsabilità i cui contenuti non sono ben definiti e presuppongono l’intervento del giudice. Si tratta quindi di un intervento insufficiente ai fini di cui qui si discorre.
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