CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 02/04/2020 Scarica PDF
La forza maggiore nel giudizio sull'insolvenza
Giuseppe Limitone, Presidente della sezione procedure concorsuali presso il Tribunale di Vicenza(Un auspicio: “Non si dà luogo alla dichiarazione di fallimento quando l’insolvenza è determinata da forza maggiore.” Art. 5, co. 3, R.D. 16 marzo 1942, n. 267)
La stragrande maggioranza delle imprese è attualmente e improvvisamente investita dagli effetti economici di una situazione di emergenza sanitaria riconducibile al concetto di evento assolutamente ed oggettivamente non prevedibile e di carattere generale, le cui ricadute sono essenzialmente due: l’interruzione repentina del cash flow generato dall’attività d’impresa e la difficoltà, se non l’impossibilità, di prevedere i flussi di cassa futuri.
In altri termini, siamo solo all’inizio di una imprevista fase economico-finanziaria caratterizzata dall’estrema difficoltà per l’imprenditore di far fronte ai propri obblighi, in primis i pagamenti. Da qui il rischio che nelle prossime settimane fiocchino iniziative giudiziarie di varia natura: decreti ingiuntivi, esecuzioni, ricorsi per sequestro, ma soprattutto istanze di fallimento.
Il nostro sistema giudiziario rischia di essere intasato nei prossimi mesi da queste iniziative. Ma con quali risultati concreti in termini strettamente economici per i singoli creditori e per l’intero sistema?
Ora, l’ormai avviato dibattito sulla moratoria generalizzata dei pagamenti, anche in relazione al rischio di fallimento delle imprese, dovrebbe essere portato dal piano strettamente giuridico all’attenta valutazione politica. Ben venga quindi un intervento legislativo nel senso di una moratoria generalizzata - non limitata ai soli rapporti con le banche - con piani di rimborso dilazionati nel tempo e, ove occorra, con il sostegno dello Stato. Si tratterebbe comunque di valutare rigorosamente, in estrema sintesi, su quali basi e con quali procedure accedere a questa moratoria.
Aggiungerei però qualche considerazione sul piano del diritto fallimentare, anche in considerazione dell’ormai probabile rinvio dell’entrata in vigore della nota riforma (si sa di un emendamento al decreto cura Italia di aprile, che farebbe slittare di 12 mesi l’entrata in vigore del Codice della Crisi).
L’attuale formulazione dell’art. 5, comma II, della Legge Fallimentare fornisce una chiave di lettura del concetto di insolvenza che forse potrebbe essere utilizzata in questa situazione al fine di scongiurare una moria di imprese. Il presupposto della dichiarazione di fallimento consiste infatti nell’incapacità del debitore di adempiere “regolarmente” alle proprie obbligazioni. Ebbene, è proprio dalla constatazione dell’attuale stato eccezionale che i Giudici fallimentari potranno cogliere elementi utili a discernere le situazioni di insolvenza necessitate dall’attuale contingenza rispetto a quelle determinatesi in condizioni “regolari” per l’appunto.
Si potrebbe tuttavia pensare anche ad una rivisitazione della norma in questione, escludendo la dichiarazione di fallimento ove l’inadempimento alle proprie obbligazioni sia stato determinato da causa di forza maggiore ovvero comunque da elementi che, in quanto straordinari e imprevedibili, determinano una oggettiva incapacità di provvedere.
Tale soluzione è tanto più necessaria soprattutto quando queste situazioni coinvolgano, come accade oggi, l’intero sistema economico nazionale e internazionale.
Certo che in queste situazioni non si possono “ibernare” le aziende lasciandole del tutto ferme, senza dichiarazione di fallimento, in attesa che il mercato riparta. Chi non paga, seppur tutelato, farebbe mancare la necessaria liquidità alle altre aziende con il rischio elevato di un default generalizzato. Dovrebbe quindi trovare più ampio spazio nell’iniziativa legislativa il ricorso all’iniezione immediata di liquidità a favore delle aziende (anche attraverso l’utilizzo, ad esempio, di strumenti di credito assimilabili ad una cambiale obbligatoriamente anticipata dalle banche e garantita dallo Stato).
L’auspicata modifica/integrazione dell’art. 5 della Legge Fallimentare potrebbe quindi- in questa fase - innestarsi in un più ampio contesto normativo a tutela delle imprese - caratterizzato anche dagli interventi sopra descritti - quale tassello di un più ampio intervento che miri anche ad evitare iniziative repentine che possano portare già nei prossimi mesi a innumerevoli pronunce giudiziarie di fallimento.
Si tratta, in ogni caso, di comprendere che non può essere affidato ai soli tribunali il compito di valutare l’insolvenza del singolo debitore, inadempiente a causa dell’emergenza coronavirus, con i tradizionali parametri, intesi come incapacità di adempiere regolarmente e stop, altrimenti sarà una carneficina di imprese, col rischio peraltro di ingenerare una difformità di orientamenti giurisprudenziali del tutto inefficiente in un’ottica di sistema Paese.
Qui la questione non è più se il singolo debitore sia o meno insolvente, ben sapendo che la giurisprudenza esclude tradizionalmente (per ritenere l’insolvenza) la rilevanza dei motivi per cui il debitore non paga, ma perché il sistema imprese non sia in grado di onorare i propri impegni finanziari in questa disastrosa e generalizzata occorrenza.
Si dovrà trattare cioè non di un giudizio del singolo tribunale sul singolo imprenditore, che rischia di concludersi con la dichiarazione di fallimento del debitore (sia pur forzatamente) inadempiente, ma di una valutazione politica, che si traduca in atto legislativo, con cui si dia rilievo all’esimente della forza maggiore emergenza coronavirus per escludere l’insolvenza; senza così avvantaggiare soggetti non meritevoli, restando comunque ai giudici la possibilità di “stanare” coloro che tentino di far pretestuosamente ricorso alla causa di forza maggiore per evitare il fallimento.
Ove ciò non fosse, occorrerebbe che i tribunali avessero questo coraggio e utilizzassero il concetto di forza maggiore, che una giurisprudenza assai risalente (Cass. 21 novembre 1986 n. 6856) considera come esimente dell’insolvenza, qualora sia dimostrato il nesso causale tra il factum principis e lo stato di insolvenza, che nel caso dei giorni del coronavirus sarebbe in re ipsa.
Un intervento legislativo che miri a cogliere il senso appena indicato resta comunque la soluzione senz’altro preferibile, e ciò proprio per la sua generalità, capace di rivolgersi a tutto il sistema e per l’uniformità di applicazione che è in grado di produrre in tutto il territorio nazionale, così inserendosi in un disegno più ampio e completo di sostegno alle imprese che preveda anche altri interventi quali la moratoria generalizzata dei pagamenti e l’iniezione immediata di liquidità a favore delle aziende.
L’auspicato intervento legislativo, oltre a costituire un’adeguata e dovuta risposta all’odierna incolpevole emergenza, risponderebbe anche ad una filosofia che è già patrimonio giuridico dei nostri tempi e del moderno approccio normativo al tema dell’insolvenza, che si condensa nell’istituto dell’esdebitazione, che costituisce il beneficio concesso dallo Stato al debitore incolpevole, vittima di una congiuntura improvvisa e imprevedibile (c.d. shock esogeno) che lo abbia portato allo stato di insolvenza senza averla causata con il suo comportamento.
Questa filosofia anima non solo la legislazione che dal 2006 a seguire ha caratterizzato la disciplina delle procedure concorsuali c.d. maggiori (fallimento e concordato fallimentare, concordato preventivo), che si concludono appunto con l’esdebitazione dell’imprenditore che abbia tenuto un contegno (procedurale e sostanziale) corretto, ma anche la più recente disciplina del sovraindebitamento (legge. n. 3/2012), che prevede l’esdebitazione per il piccolo imprenditore o per il professionista o il consumatore che sia divenuto insolvente per un’evenienza incolpevole (si pensi al caso del malato ludopatico o di chi abbia perso il lavoro o subito un infortunio o una malattia, o più semplicemente per l’incapacità sopravvenuta di far fronte ai debiti per l’aumentato costo della vita a fronte del ristagno delle retribuzioni o ancora, peggio, per essere incappato nello stritolio dell’usura).
La filosofia del perdono del debito risponde peraltro ad un’esigenza avvertita sia a livello europeo che mondiale, ben evidenziata (per quanto riguarda l’Europa) dalla raccomandazione della Commissione europea del 12 marzo 2014, la quale prevede espressamente che sia concessa una seconda possibilità (second chance) all’imprenditore (e al non imprenditore) incolpevole, e quindi la concreta possibilità della ripartenza (fresh start) proprio attraverso l’istituto dell’esdebitazione, che assume così un ruolo centrale in tutte le procedure concorsuali.
Istituto che trova larga applicazione sia negli Stati Uniti (si pensi ai Chapters 7 - liquidation - 11 - reorganization - e 13 - rehabilitation - del Bankruptcy act), sia, per restare più vicino a noi, in Germania, dove l’esdebitazione è concessa a circa 100.000 persone all’anno.
La larghezza di applicazioni dell’istituto in Paesi in cui non impera certo il cattolicesimo perdonista buonista di ispirazione socialista (per stare alle - ingiustificate - maggiori critiche rivolte all’esdebitazione), bensì il calvinismo protestante, secondo cui la ricchezza e il benessere generato dal lavoro sono il segno della grazia divina, anzi il lavoro in sé acquista il valore di una vocazione religiosa: è Dio che ci chiama a esso; è quindi il Beruf, il lavoro e il successo che ne consegue, ad assicurare il calvinista che «Dio è con lui», che egli è l'eletto, il predestinato, mentre il povero è colui che per i peccati commessi è escluso dalla grazia di Dio, ebbene, ciò fa dubitare che l’esdebitazione possa rispondere al canone della solidarietà (basti infatti pensare che negli USA non esiste ancora una sanità pubblica, né una previdenza pubblica, e quel poco che ha fatto l’Obama care vorrebbe essere ora smontato, anche se si vedono tutti i contraccolpi dovuti al coronavirus), quanto piuttosto a quello dell’utilità, quindi non socialismo, ma capitalismo.
Una nave a remi che durante il viaggio perda solo alcuni dei suoi rematori, che cadono in mare per loro inettitudine, può disinteressarsi di loro e continuare a velocità sostanzialmente invariata verso il suo obiettivo (il benessere dei suoi occupanti), ma una nave che perda in mare molti dei suoi rematori perde velocità e tutti rallentano (o compromettono) lo scopo del raggiungimento dell’obiettivo (il benessere di tutti), per cui è interesse dell’intero equipaggio fermarsi a raccogliere i naufraghi e recuperarli alla forza motrice del mezzo comune, ci sarà un momentaneo stop per questo, ma poi la marcia riprenderà più veloce per tutti.
Ecco perché l’esdebitazione, il perdono dei debiti, non è (solo) un atto di perdono che fa bene a chi lo riceve, ma è soprattutto un atto di convenienza (di utilità) per tutti quelli che hanno interesse a (continuare a) stare bene.
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