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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 06/03/2018 Scarica PDF
Reato di usura e legittima adozione dei Decreti ministeriali di rilevazione del TEGM
Alfonso Quintarelli, Avvocato in RomaSommario: Premessa. - 1. Le norme coinvolte. - 2. La norma penale in bianco. - 3. L’art. 2 della legge 108/1996 come norma sostanzialmente penale. - 4. I riferimenti dell’art. 2, comma 1 della legge 108/96 e dell’art. 644, comma 4, c.p., identificano costi diversi? - 5. Natura e tipologia del decreto di rilevazione del TEGM. - 6. Atto amministrativo illegittimo e disapplicazione da parte dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria.
Premessa
Poco più di un anno or sono, nella motivazione di una sentenza in tema di commissioni di massimo scoperto ed usura, che ha sollevato notevole eco, la Suprema Corte ebbe ad affermare, che «quand’anche le rilevazioni effettuate dalla Banca d’Italia dovessero considerarsi inficiate da un profilo di illegittimità per contrarietà alle norme primarie […] questo non potrebbe in alcun modo tradursi nella possibilità, per l'interprete, di prescindervi […] dovendosi allora ritenere radicalmente inapplicabile la disciplina antiusura per difetto dei tassi soglia rilevati dall’amministrazione»[2].
La tematica sollevata, evidentemente, va ben oltre la specifica e, ormai, “storica” (nel senso di risalente nel tempo, ma anche di questione confinata al passato, essendo stata chiusa per il futuro, a decorrere dal 1 gennaio 2010, data di attuazione delle previsioni dell'art. 2-bis del d.l. 28 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2) questione della inclusione o meno delle commissioni di massimo scoperto nel computo del TEG (tasso effettivo globale) dello specifico rapporto, stante la loro rilevazione come entità separata e conseguente esclusione dal computo del TEGM (tasso effettivo globale medio) rilevato dall’Autorità amministrativa, che era lo specifico oggetto portato all’attenzione dei Giudici.
La Suprema Corte, infatti, sostenendo che la eventuale illegittimità dei decreti ministeriali previsti dalla normativa sull’usura determina l’inapplicabilità della stessa, apre uno squarcio nel tessuto regolamentare del fenomeno usurario, con intrinseca capacità espansiva (per tutte si pensi alla questione degli interessi moratori), che riverbera pesantemente sulla tenuta del sistema sanzionatorio, sia per il passato, che per il presente e il futuro.
La questione è di non poco momento e, per la rilevanza che assume, merita certamente di essere ponderata, meditata e approfondita. La breve riflessione che segue si propone di contribuire a questa opera, cui, ci si augura, anche altri vorranno dedicarsi[3].
Ci riferiremo al solo decreto ministeriale di rilevazione del TEGM (art. 2, comma 1, legge 7 marzo 1996, n. 108), che concorre a determinare la fattispecie della c.d. “usura oggettiva” (art. 644 c.p., commi 1 e 3), lasciando in disparte l’altro decreto sulla determinazione delle categorie delle operazioni finanziarie, che, peraltro, solleva problematiche altrettanto gravi, solo in parte simili a quelle qui esposte, la cui trattazione, per questo, non è compatibile con i limiti del presente lavoro[4].
1. Le norme coinvolte
Il c.d. “tasso soglia”, finalizzato a riconoscere la c.d. “usura oggettiva”, è il portato di diverse previsioni normative e, segnatamente:
a) il terzo comma, primo periodo, dell’art. 644 c.p., nella formulazione introdotta dall’art. 1 della l. 7 marzo 1996, n. 108, per il quale «La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari»;
b) il primo comma dell’art. 2 della l. 7 marzo 1996 n. 108, per il quale «Il Ministro del Tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari […]» (TEGM);
c) il quarto comma dell’art. 2 della l. 7 marzo 1996, n. 108, per il quale «Il limite previsto dal terzo comma dell'articolo 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall'ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali: la differenza tra il limite e il tasso medio non può comunque essere superiore a otto punti percentuali» (“tasso soglia” propriamente detto)[5].
2. La norma penale in bianco
Il terzo comma, primo periodo, dell’art. 644 c.p., che rinvia all’art. 2 della legge 108 del 1996, qualifica l’art. 644 c.p. come norma penale in bianco, anzi, più precisamente, come norma penale parzialmente in bianco[6].
Questa fattispecie consiste in una diposizione che rinvia ad un elemento esterno alla legge, di solito una fonte di rango inferiore, per individuare o completare il precetto o le sanzioni ed è una figura giuridica che ha posto e pone molti gravi problemi di relazione e di compatibilità con l’art. 25 della Costituzione[7].
Senza addentrarci più del necessario nella complessa questione dei limiti della riserva di legge e relativa legittimità o illegittimità della norma penale in bianco (o parzialmente in bianco), osserviamo che il più accreditato e condivisibile approdo della giurisprudenza e della dottrina considera la riserva dell’art. 25 Cost. come «riserva tendenzialmente assoluta»[8], nel senso che la legge può rinviare alla fonte sublegislativa solo per la specificazione, sul piano “tecnico”, di singoli elementi del reato, che sono stati però già precisamente delineati dalla legge stessa[9].
Nel caso specifico, il rinvio alla fonte sublegislativa non è contenuto direttamente nell’art. 644 c.p., che invece rinvia ad altra disposizione di legge, ma in quest’ultima previsione, che, sola, contiene il rinvio all’atto amministrativo necessario per determinare uno degli elementi essenziali della fattispecie criminale, ovvero «il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari».
L’indagine sul contenuto della norma (norme) della legislazione primaria, per verificare se siano o meno individuati in modo preciso e completo gli elementi del reato, con delega all’atto amministrativo della sola la loro specificazione tecnica, deve essere effettuata, pertanto, non tanto sull’art. 644 c.p., quanto sul comma 1 dell’art. 2 della l. 108/96.
Il primo e secondo comma dell’art. 644 c.p., infatti, si limitano a punire chi percepisce interessi, utilità, vantaggi, compensi “usurari”, senza però qualificare e descrivere in alcun modo in cosa consista l’aggettivo “usurari”. E’, poi, il terzo comma, primo periodo, che scioglie e risolve questo interrogativo, rinviando ad altra legge, che «stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari» e, quindi, all’art. 2 della legge 108 del 1996. E’ unicamente quest’ultima norma che prevede: a) le modalità di rilevazione e determinazione del «tasso effettivo globale medio» (TEGM), rinviando, a sua volta, ad un atto amministrativo per l’esecuzione tecnica (comma 1); b) i criteri di individuazione delle “categorie omogenee” delle operazioni creditizie, rinviando ad altro atto amministrativo per la loro concreta perimetrazione (comma 2); c) la regola per ritrarre dal TEGM il c.d. “tasso soglia” (comma 4).
Il comma 4 dell’art. 644 c.p., invece, individua e specifica l’altro elemento che concorre a individuare la condotta incriminata, ovvero il tasso concretamente previsto in una specifica operazione finanziaria: «per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito».
3. L’art. 2 della l. 108/1996 come norma sostanzialmente penale
Di fronte al descritto impianto normativo sovviene necessariamente il quesito sulla natura dell’art. 2 della l. 108/1996, ovvero se possa anch’esso qualificarsi come norma penale, al pari di quella che lo contempla e richiama, oppure no.
Un primo ovvio ma non banale rilievo: la disposizione è norma di legge e, come tale, è dello stesso rango e si pone sullo stesso piano dell’art. 644 c.p. Di poi non è seriamente dubitabile che l’art. 2 della l. 108/1996 altro non è che lo svolgimento diffuso del primo periodo del comma 3 dell’art. 644 c.p., che, per discutibile tecnica legislativa, è stato trasfuso in diversa norma e non mantenuto nell’alveo suo proprio. Ma, se il disposto dell’art. 2 della l. 108/1996 è norma di pari rango dell’art. 644 c.p. e se esso si risolve nello svolgimento esteso del primo periodo del comma 3 dell’art. 644 c.p., formando con quest’ultimo un’unica regola, dobbiamo necessariamente concludere che anche il menzionato art. 2 l. 108/1996 ha natura penale, a nulla rilevando che il suo contenuto non sia stato scritto in luogo della prima (pleonastica) frase del comma 3 dell’art. 644 c.p.[10]. Infatti, se con tecnica interpolativa, in luogo dell’attuale prima frase del comma 3 dell’art. 644 c.p., scriviamo i commi 1, 2 e 4 dell’art. 2 della legge 102/1996, ci avvediamo immediatamente che la regola codicistica, se perde in concisione, guadagna però in chiarezza e completezza e, soprattutto, contiene previsioni tutte compatibili con la sua natura penale[11].
La conseguenza che dobbiamo trarre, quindi, è che l’art. 2 (commi 1, 2, 4) della l. 108/1996 è norma penale, come tale soggetta al principio di legalità dettato dall’art. 25 della Costituzione, in tutte le sue declinazioni.
4. I riferimenti dell’art. 2, comma 1, della legge 108/96 e dell’art. 644, comma 4, c.p., identificano costi diversi?
Ci si deve ora chiedere se la stessa espressione «commissioni, [di] remunerazioni a qualsiasi titolo e [delle] spese, escluse quelle per imposte e tasse», che si rinviene tanto nel comma 1, dell’art. 2 della l. 108/1996, quanto nel comma 4 dell’art. 644 c.p., assuma, nei due casi, lo stesso, oppure diverso significato.
In proposito, anzitutto, è ovvio il rilievo che gli elementi delle due identiche proposizioni (commissioni, remunerazioni, spese, tasse) si riferiscono, e non può essere diversamente, alle singole concrete operazioni finanziare, perché non è dato immaginare quali altre entità potrebbero contemplare. L’unica differenza è che, in un caso la rilevazione resta compiuta in se stessa, mentre nell’altro la medesima rilevazione confluisce in un più ampio paniere, con tutte le altre eguali rilevazioni provenienti da tutti gli ulteriori singoli contratti, che per caratteristiche siano riferibili alla medesima categoria omogenea, concorrendo con esse a formare un risultato generale e, quindi, una media (ponderata) e corretta con il tasso ufficiale di sconto (oggi tasso di rifinanziamento BCE). In altre parole, da una parte il TEG rimane da solo, dall’altra trova la compagnia di tutti gli altri TEG delle operazioni simili alla sua e con essi si media: stessa la base ma diversi i risultati, a ragione del diverso utilizzo a valle della rilevazione dei dati acquisiti.
Naturalmente l’utilizzo successivo dei medesimi dati di base per la costruzione di un risultato finanziario, particolare in un caso, più generale nell’altro, non modifica né riverbera in alcun modo sull’identità sostanziale degli stessi, così come connotata dalle due disposizioni, allo stesso modo per cui è irrilevante, per l’identificazione degli elementi di base, computare quante mele ha prodotto un albero, sia per valorizzare il risultato in sé, che per usarlo, sommandolo alle produzioni di tutti gli altri alberi del campo, al fine di stabilire quale è la produttività totale del frutteto e, poi, dividendolo per gli alberi, quale è la produttività media degli alberi: qualsiasi operazione si voglia fare le mele restano sempre le mele. La conclusione non cambia se nel campo vi siano frutteti di mele, di pere, di pesche e si voglia operare con tutte e tre i tipi di frutta, perché, comunque, sempre mele, pere e pesche restano, anche se sommiamo, ponderiamo e mediamo[12].
A favore di questa conclusione depongono, oltre l’elemento testuale della chiara sovrapponibilità letterale delle due proposizioni e l’elemento fattuale della ineludibile unicità dell’unità semplice dalla quale quei dati sono da ricavare, anche l’essere entrambe le previsioni contenute nella medesima norma penale (se pur articolata) e, comunque, nello stesso contesto normativo, talché non si trova ragione logica per supporre che il legislatore, nello stesso contesto materiale, topografico e temporale, abbia utilizzato due volte la stessa proposizione attribuendole però latitudini diverse, considerato anche, che nella norma (norme) non vi è alcun indice che faccia sospettare che una delle due espressioni debba considerarsi di lettura vincolante, mentre l’altra di lettura discrezionale, non potendo riconoscersi questa funzione, sic et simpliciter, al solo rinvio, in uno solo dei due casi, all’atto amministrativo. In disparte, per ora (ma si legga appena sotto), la trattazione di quale tipo sia l’atto amministrativo contemplato dalla norma, qui è sufficiente evidenziare che questo rinvio è ragionevolmente e ampiamente giustificato esclusivamente dalla complessità dell’operazione, che pur riferendosi alle stesse spese, non è più confinata ad un unico rapporto, ma riguarda milioni di rapporti, da mediare tra loro nelle categorie in cui sono suddivisi: è solo un problema di quantità e complessità dell’applicazione matematica, che in nulla modifica e può modificare gli elementi semplici che il legislatore ha individuato come costi da comprendere (e da escludere) quali elementi di base della rilevazione, che sono gli stessi per il TEG e per il TEGM.
La esposta conclusione non è in nulla inficiata, sia dalla eventualità che determinati costi siano presenti solo in alcune operazioni, sia dalla eventualità che costi generalmente applicati non siano presenti in particolari rapporti: per tali evenienze, infatti, soccorre lo strumento meramente tecnico della “ponderazione”[13]. Infine, questa opzione interpretativa è del tutto coerente con la ratio della norma criminale, che contempla la c.d. “usura oggettiva”, da riconoscersi, non in una generale regolazione del mercato del credito o, ancor meno, in una funzione “calmieratrice” di quel mercato, ma nel più limitato, ma altrettanto rilevante, scopo di reprimere il mercato illegale del credito[14], che viene identificato, de residuo, nel supero del limes della media dei costi applicati nel mercato legale: per delimitare questo confine ultimo è logico che si abbia riguardo al “globale” dei costi legittimi, senza esclusione alcuna, perché solo così si evita che segmenti del mercato lecito siano indebitamente attratti nei rigori della legge e, quindi, si puniscano solo i comportamenti effettivamente criminali, che si concretizzano nell’ottenimento di corrispettivi eccedenti la media di tutti i costi del mercato lecito, corretta con le previsioni di legge (tasso di sconto e 4° comma dell’art. 2 della legge 108/1996).
5. Natura e tipologia del decreto di rilevazione del TEGM
Come detto, per i limiti del presente contributo, ci riferiamo al solo decreto di rilevazione dei TEGM. Inoltre non tratteremo e parleremo direttamente, come viene usualmente fatto, delle Istruzioni della Banca d’Italia, perché esse non sono l’atto amministrativo contemplato dalla legge, ma un elemento del procedimento amministrativo, che conduce all’adozione del decreto ministeriale voluto dalla norma.
Questa natura di elemento (se pur rilevante) del procedimento amministrativo e non di provvedimento finale, la si ricava dalla legge stessa, la quale delega l’adozione dell’atto al Ministero del Tesoro (oggi Ministero dell’Economia e delle Finanze) «sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano Cambi», dove il «sentiti» rivela immediatamente che la Banca d’Italia è chiamata unicamente a fornire il suo contributo al procedimento di formazione del decreto ministeriale: contributo necessario perché voluto dalla legge, ma pur sempre contributo.
In disparte è da considerare l’attività istruttoria procedimentale di rilevazione ed elaborazione dei dati, che la Banca d’Italia svolge, non per essere stata lei designata dalla legge, ma su richiesta del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in considerazione del generale principio di buon andamento dell’amministrazione, che impone alle autorità pubbliche di collaborare, talché, quando una amministrazione non è autonomamente in grado di svolgere, in tutto o in parte, una attività preparatoria necessaria per addivenire all’emanazione di un atto rientrante nel proprio compito istituzionale, non essendo dotata di idonee e/o sufficienti conoscenze, strutture e/o risorse, può chiedere di essere coadiuvata da una diversa amministrazione, che, invece, quelle conoscenze, strutture e/o risorse possiede, la quale ultima può, anzi deve, nei limiti in cui ciò non influisca negativamente sulla sua attività istituzionale, affiancarla nello svolgimento di quella fase del procedimento.
Le Istruzioni, quindi, nell’ambito della normativa sull’usura, si pongono come elementi del procedimento amministrativo, che, stante la concomitante attività esecutiva svolta dalla Banca d’Italia per delega del Ministero dell’Economia e delle Finanze, si collocano a metà strada tra lo strumento tecnico procedimentale ed il parere previsto dalla legge, parere da considerarsi comunque mai vincolante per il Ministero[15]. Ovviamente, senza bisogno di soffermarci più di tanto sul punto, l’eventuale vizio del procedimento (id est: Istruzioni e conseguenti rilevazioni) riverbera come vizio del provvedimento finale.
Per parte sua, l’atto amministrativo conclusivo, ovvero il decreto ministeriale di rilevazione del TEGM, previsto nel primo comma dell’art. 2 della l. 108/1996, non ha rilevanza e scopo autonomi, ma, come detto, è destinato ad essere parte, come elemento determinante per la costruzione del termine di paragone, di una fattispecie legislativa finalizzata alla qualificazione di un determinato TEG come usurario o non usurario.
L’attività amministrativa, di cui l’atto è destinato ad essere espressione, non implica alcuna “valutazione” e ponderazione di interessi, né, alla stregua di essi, alcuna possibilità di scelta in ordine all’agire (discrezionalità amministrativa piena): la scelta del comportamento da tenere in relazione agli interessi pubblici è stata eseguita a priori e in modo vincolante dal legislatore.
L’Amministrazione non è neanche chiamata a “valutare” fatti e circostanze suscettibili di vario apprezzamento alla stregua delle conoscenze e regole tecniche e scientifiche (discrezionalità amministrativa tecnica). L’operato dell’amministrazione, come manifestato dalla norma che lo prevede, si risolve nel mero compito di “rilevare” («rileva») e, quindi, in una esecutiva attività di documentazione, in relazione alla quale gli esiti matematici richiesti dalla legge (TEGM) sono da ottenere con l’acquisizione di fatti anch’essi previsti dalla legge e verificabili in modo indubbio, in virtù di conoscenze e di strumenti tecnici di sicura acquisizione, senza possibilità di giudizio e valutazione dei fatti stessi (“accertamento tecnico”).
Nel disegno della legge l’attività materiale di rilevazione è estrinsecata, delineata e costretta entro gli elementi da essa stessa esplicitati, così da essere esente da qualsiasi discrezionalità, posto che quest’ultima si manifesta unicamente quando sia da operare una “selezione” e che ciò è necessario solo quando le rilevazioni sono svolte su un “campione rappresentativo” e non anche quando lo sono sull’intero universum da valutare (ovvero l’intero delle unità statistiche le cui caratteristiche sono oggetto di interesse). Quest’ultimo caso è quello che ci interessa, perché la legge non prevede rilevazioni “a campione”, ma la rilevazione “globale” dei costi da mediare, per cui non è concepibile, prima che possibile, qualsiasi attività di “selezione” e, quindi, è esclusa in radice qualsiasi scelta discrezionale dell’operatore. Agendo sull’universum e applicando le buone regole di organizzazione delle categorie e ponderazione dei dati raccolti, non si verifica alcun “inquinamento” o “alterazione” del risultato, che essendo sviluppato su una base omnicomprensiva e totale, è pienamente rappresentativo dell’effettivo costo medio “globale” voluto dalla legge. Inquinamento e alterazione del risultato, invece, sarebbero stati immanenti se si fossero assunti altri termini di riferimento, quale, ad esempio, quello indefinito, sfuggente e opinabile del “costo normale”[16], la cui identificazione implica una precomprensione intrisa di valutazioni, condizionate da soggettive convinzioni, che conduce inevitabilmente a discrezionali scelte di merito per ragguagliare, a quella soggettiva definizione di “normalità”, gli elementi contenuti nell’unico universo dei costi, al fine di stabilire, appunto, se un costo del mercato legale debba considerarsi “normale” o “anormale”, “generale” o “particolare”, uti singuli o uti universi[17]. Orbene, come si è visto, la norma penale ha ovviato in nuce a tale rischio, evidentemente incompatibile con una materia che è pervasa da inalienabili valori costituzionali.
La norma delegante, quindi, indica con precisione e senza incertezze, sia il risultato tecnico da acquisire («tasso effettivo globale medio»), che gli elementi da utilizzare per conseguirlo («commissioni, [di] remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferite ad anno»): nessuna opzione valutativa è richiesta, essendo sufficiente la rilevazione di tutti gli oneri per “commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese” e l’applicazione su di essi di consolidate conoscenze di ordine tecnico (matematico-statistico), senza alcuna possibilità di scelte discrezionali, per ottenere i «valori medi […] corretti in ragione delle eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto»; quest’ultima correzione è l’unica consentita all’amministrazione e si pone a valle della rilevazione, mentre, è da osservare, nessuna simile previsione di possibili correttivi è prevista a monte della stessa.
Il descritto vincolo imposto all’attività amministrativa, di poi, deve ritenersi tanto più cogente e inderogabile, in quanto contenuto, come sopra si è visto, in una norma penale “in bianco”, talché l’attività della pubblica amministrazione trova il suo confine ultimo nell’ambito di cognizioni strettamente tecniche, che, sul piano della discrezionalità, si connotano come minus rispetto alla discrezionalità amministrativa piena e come plus rispetto alla sopra identificata e illustrata fattispecie (minore) dell’accertamento tecnico, la quale ultima, quindi, è da ritenere senz’altro idonea ad integrare la norma penale.
Questo tipo di atto amministrativo, naturalmente, non può mai definirsi “provvedimento amministrativo”, perché non prevede, né produce o nega unilateralmente, modificazioni giuridiche nella sfera di terzi e, tantomeno, “atto normativo”, perché non introduce nell’ordinamento precetti aventi carattere innovativo e/o volti a disciplinare in astratto una determinata materia.
L’accertamento tecnico si colloca tra gli “altri atti amministrativi”[18] e, segnatamente, tra gli “atti ricognitivi” che «presuppongono un procedimento di verificazione (costituito da un’operazione o da una serie di operazioni dirette all’apprendimento) e consistono in dichiarazioni di scienza relative a fatti constatati»[19].
Riconoscere alla pubblica amministrazione un potere discrezionale tale da spingersi sino al vaglio di quale degli elementi enunciati nella legge delegante debba considerarsi e includersi e quale non considerarsi ed escludersi per formare i singoli TEG da cumulare e mediare per ritrarre il TEGM, significa delineare una attività di ponderazione e valutazione, che travalica la mera applicazione di cognizioni tecniche e si connota come vera e propria discrezionalità di merito, idonea a incidere e modificare le scelte del legislatore primario, con conseguente altissimo rischio di incostituzionalità della previsione legislativa[20].
Peraltro, essendo insegnamento acquisito della Corte Costituzionale, che l’interprete, trovandosi di fronte a diverse possibili opzioni cognitive, tra le quali alcune certamente conformi alla Carta, mentre altre a rischio di incostituzionalità, deve optare necessariamente per l’interpretazione costituzionalmente orientata[21], è evidente che l’unica lettura che si pone senz’altro al riparo da qualsiasi rilievo di legittimità costituzionale è quella, che considerata la stringente indicazione dei costi contenuta nella legge, nega l’esistenza di alcuna discrezionalità valutativa dell’amministrazione, anche solo “tecnica”[22].
A queste stesse conclusioni, nella sostanza, è pervenuta la Suprema Corte di Cassazione, chiamata a decidere sul rispetto dell’art. 25 Cost. da parte della norma penale in bianco che sanziona l’usura[23].
L’approdo appena raggiunto deve tener conto del rilievo secondo cui l’espressione «commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese», che si rinviene nella regola del TEG riferibile allo specifico rapporto sottoposto a vaglio di usura (comma 4 dell’art. 644 c.p.), avrebbe una intrinseca capacità espansiva e omnicomprensiva, tale da richiedere che nel calcolo siano inclusi tutti i costi comunque contemplati «[…] come corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità» (art. 644, comma 1, c.p.) o, se si vuole, «[…] collegate alla erogazione del credito» (art. 644, comma 4, c.p.)[24].
Quando ci si pone in questa ottica appare veramente arduo negare pari forza espansiva agli stessi elementi di costo dell’operazione finanziaria indicati dalla legge per la determinazione del TEGM (art. 644, comma 3, c.p. e art. 2, comma 1, l. 108/1996). Come si è visto la negazione non è soccorsa dalla discrezionalità, che la legge limita alla minima consentita dell’accertamento tecnico. Altrettanto poco convincenti e problematici sono i richiami alla diversa funzione del TEGM di «indicatore fisiologico medio del mercato»[25] e del TEG di «costo del credito […] che attiene alla singola operazione»[26]. Infatti, questi riferimenti finalistici, ovviamente emendati dei piegamenti lessicali del termine legislativo “medio” in “fisiologico”[27], possono, forse, essere utili dal punto di vista descrittivo, ma nulla aggiungono a quello comprensivo, perché, di loro, non giustificano la conclusione che, pur di fronte al medesimo chiaro dettato legislativo, l’indicatore medio (dei costi) del mercato, diversamente dal costo del singolo contratto, sarebbe correttamente determinato escludendo dai singoli contratti che formano la sua base di rilevazione quegli stessi costi, che, invece, sono considerati nella osservazione uti singuli dei medesimi contratti, quasi che ci si trovi di fronte ad un Giano, girato da un lato per uno scopo (TEG) e dall’altro per altro scopo (TEGM), che si presenta, però, non con la stessa, ma con diverse facce.
Inoltre, negare la pari forza espansiva del riferimento ai costi in entrambe le norme per la costruzione dei due indici, espone alle seguenti ulteriori aporie:
a) posto che l’espressione letterale del comma 4 dell’art. 644 c.p. per la formazione del TEG («commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e [delle] spese, escluse imposte e tasse») è del tutto identica e sovrapponibile a quella del comma 1 dell’art. 2 della l. 108/1996, che si occupa della formazione del TEGM («commissioni, [di] remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse»), senza scomodare principi interpretativi (in claris non fit interpretatio), che suonano desueti in tempi di plurimi “formanti”, non ci pare dubbio, comunque, che non si rinviene alcuna convincente ragione per sostenere che il medesimo legislatore, nell’unico contesto normativo (usura) e nello stesso strumento legislativo (l. 108/1996), abbia abdicato al generalmente accolto principio di omogeneità tra elementi in comparazione[28] e abbia invece voluto attribuire alla medesima proposizione, utilizzata per formare i due elementi da comparare, nell’un caso un esclusivo effetto espansivo e omnicomprensivo e nell’altro un contrario effetto potenzialmente restrittivo, collegato a scelte dell’amministrazione[29];
b) posto che per il rinvio del primo periodo del comma 3 dell’art. 644 c.p. al comma 1 dell’art. 2 della l. 108/1996 le due norme si integrano in una unica (complessa) norma penale, l’esercizio del potere discrezionale del Ministero delegato per ridurre le voci di costo al fine della formazione del TEGM, comporterebbe un ampliamento in malam partem della fattispecie criminale ad opera della Pubblica Amministrazione, con concreti e rilevanti rischi di incostituzionalità per collisione della norma delegante con il principio di legalità e di riserva di legge dell’art. 25 Cost.[30].
Tirando le fila di questa parte del nostro ragionamento, riteniamo che si debba tenere ferma la conclusione che l’indicatore del TEGM deve essere formato con tutti i costi legittimi (ovviamente sono esclusi quelli usurari) del mercato legale (e non alcuni si ed altri no) applicati ai singoli contratti sussunti nelle rispettive categorie di operazioni finanziarie. Nulla aggiunge e nulla toglie a questa convinzione il richiamo che un Autore ha voluto operare alla elegante distinzione concettuale tra contratto ed operazione economica, perché anche nell’ottica dell’operazione, se si pone lo sguardo sulla completezza dei costi da rilevare, la conclusione non cambia, anzi potrebbe (dovrebbe) portare alla considerazione di più costi, anziché meno costi[31].
6. Atto Amministrativo illegittimo e disapplicazione da parte dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria
Nella prospettiva qui sostenuta non si pone alcuna questione di costituzionalità del precetto penale. Resta aperta, però, la questione degli altri strumenti approntati dall’ordinamento per reagire all’atto amministrativo eventualmente affetto da vizi di legittimità.
Proseguendo nel percorso intrapreso, consideriamo l’evenienza che l’illegittimità dell’atto amministrativo sia dovuta ad una non consentita scelta discrezionale in ordine a quali costi considerare e quali no nella determinazione del TEGM, con esclusione di alcuni: esempio emblematico, ma se ne potrebbero scegliere molti altri per il passato, il presente e, temiamo, anche per il futuro[32], è senz’altro quello delle commissioni di massimo scoperto, di cui si è occupata la Suprema Corte con la decisione menzionata in limine del presente scritto. La questione è nota e, riportata ai suoi termini essenziali, si risolve nella mancata considerazione, da parte dei decreti ministeriali che rilevavano il TEGM e adottati sino al 2009, del costo costituito dalla c.m.s.; il medesimo costo, invece, veniva e viene computato per determinare il TEG del singolo contratto, talché, si dice, vi è inammissibile squilibrio tra i due elementi in comparazione.
Orbene, dati per acquisiti i presupposti che il giudice ordinario ha i medesimi poteri di sindacato di legittimità che spettano al giudice amministrativo e che «il sindacato di legittimità del Giudice amministrativo sui provvedimenti […] comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento»[33] e traendo le necessarie conseguenze dal ragionamento che siamo venuti svolgendo, un atto amministrativo di tal fatta: a) avrebbe invaso abusivamente la sfera del potere legislativo, determinando una espansione della fattispecie incriminatrice; b) avrebbe deviato, per la medesima ragione, dalle finalità per cui il potere è stato attribuito; c) avrebbe violato la norma di legge che delega l’Amministrazione alla sua adozione. Si riconoscono i tre vizi di incompetenza, eccesso di potere (sub specie di straripamento di potere), violazione di legge.
Sempre restando all’esempio assunto, saremmo di fronte all’impossibilità di impugnare l’atto amministrativo (gli atti amministrativi) avanti la giustizia amministrativa perché il termine (i termini) per farlo è ormai consumato. Come noto, ciò non impedisce all’ordinamento di reagire, perché quando l’atto amministrativo illegittimo è invocato o, comunque, da utilizzare in un caso controverso davanti all’Autorità Giudiziaria Ordinaria, sovvengono gli articoli 4 e 5 dell’Allegato E del Regio Decreto 20 marzo 1865, n. 2248.
In proposito si conviene con l’osservazione che anche in questa specifica materia dell’usura è da ritenere «innegabile il riconoscimento in astratto al giudice ordinario di disapplicare il provvedimento amministrativo […] anche riguardo ai decreti ministeriali di che trattasi […]»[34], per cui si deve concludere che il Giudice Ordinario dovrebbe essere tenuto a disapplicare quei decreti ministeriali, con conseguente impossibilità di riconoscere la fattispecie criminale dell’art. 644 per difetto dell’elemento di comparazione fornito dal TEGM[35].
La soluzione, pur avanzata, che il giudice, previa parziale disapplicazione dell’atto amministrativo nella parte in cui abbia omesso di considerare una determinata spesa, proceda a rideterminare autonomamente il TEGM, attingendo a rilevazioni della stessa spesa comunque ritraibili dai decreti ministeriali ed effettuando le conseguenti operazioni matematiche di raccordo[36], pare di ardua e problematica adozione, sol che si consideri che potrebbe così configurarsi la creazione di una norma penale del caso concreto di natura pretoria, in aperta violazione dell’art. 25 Cost.. Nell’ambito civile, dove questo impedimento non sussiste, forse la soluzione sarebbe ipotizzabile, se non altro per il pregio di scongiurare gli esiti totalmente demolitori che conseguirebbero alla disapplicazione tout court.
Concludendo, deve notarsi che per questa problematica, ma, forse, più in generale, in questa materia, come purtroppo anche in innumerevoli altre, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore, che dipanasse, o aiutasse a dipanare, le incertezze che oltre venti anni di storia hanno fatto emergere, sempreché, però, egli sia avvertito, con Marco Aurelio, che «questi due principi bisogna avere sempre pronti: l'uno, compiere unicamente quelle azioni che i principi dell'arte di re e di legislatore possono suggerire per il benessere dell'umanità, l'altro, cambiare idea, se c'è qualcuno capace di correggerti e di distoglierti»[37].
[1] Questo scritto è stato predisposto per il Convegno «Usura Bancaria: a vent’anni dall’introduzione del presidio di legge», promosso dall’ASSOCTU e tenutosi a Roma il 7 – 8 Novembre 2017 ed a Milano il 9 – 10 Novembre 2017.
[2] Cass. civ. 22.06.2016, n. 12965, che ha affrontato la questione della separata rilevazione delle commissioni di massimo scoperto, fino al 2009, da parte dei decreti ministeriali trimestrali di rilevazione del TEGM, traendone la conseguenza che «prima del 1 gennaio 2010, allo scopo di valutare il superamento del tasso soglia nel periodo rilevante, non deve tenersi conto delle c.m.s. applicate dalla banca»; conforme, senza però affrontare lo specifico tema qui trattato, Cass. civ. 03.11.2016, n. 22270. La decisione si pone in consapevole contrasto con precedenti decisioni della Cassazione Penale (Cass. pen. 12 febbraio 2010, n. 12028, Cass. pen. 14 maggio 2010, n. 28743, Cass. pen. 23 novembre 2011, n. 46669) ed ha creato un vivace dibattito, talché la stessa prima sezione civile della Suprema Corte, a distanza di un anno, con ordinanza del 20.06.2017, n. 15188, ha rimesso al primo Presidente, per la rimessione alle Sezioni Unite, la «questione di massima di particolare importanza» concernente la rilevanza usuraria della c.m.s., senza, peraltro, affrontare la problematica della legittima adozione dei decreti ministeriali previsti dalla normativa sull’usura.
[3] Il tema è stato trattato, a quanto ci consta: con riguardo agli interessi moratori da U. Salanitro, Usura e interessi moratori, in Banca Borsa Titoli di Credito, 2015, 6, 740 ss. (in particolare pp. 757-758, con riferimenti); con carattere generale da V.Farina, Sindacato e disapplicazione dei decreti ministeriali in tema di usura e rilevanza dell’operazione economica, in Banca Borsa Titoli di Credito, 2016, 4, 445–480, con riferimenti. In giurisprudenza: Tribunale civile di Reggio Emilia 04.12.2014, reperibile in www.IlCaso.it; Tribunale civile di Reggio Emilia 24.03.2015, reperibile in www.Almaiura.it; Tribunale civile di Rimini 24.07.2015 (con motivazione diffusa), reperibile in www.IlCaso.it; Tribunale civile di Verona 27.10.2015, reperibile in www.IlCaso.it; Tribunale civile di Torino 27.04.2016, n. 14932 (en passant), reperibile in www.IlCaso.it; Tribunale civile di Napoli Nord 19.09.2016, reperibile in www.IlCaso.it. Con riferimento alla disapplicazione delle Istruzioni della Banca d’Italia per contrarietà alla norma primaria relativa al calcolo del TEG, Tribunale civile di Torino 14.05.2015, reperibile in www.IlCaso.it; con riguardo alla disapplicazione dell’art. 3 dei d.m. di rilevazione dei TEGM per contrarietà alla norma primaria relativa al calcolo del TEG (art. 644, comma 4, c.p.), Tribunale civile di Torino 15.07.2017, reperibile in www.IlCaso.it.
[4] L’argomento è considerato en passant da R. Marcelli, Usura Bancaria: ad un ventennio dalla legge un impietoso bilancio, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 4, 2017, supplemento, 111, nota 112; con specifico riguardo alla introduzione della categoria dello scoperto senza affidamento, A.A.Dolmetta, Alle soglie dell’usura: tra apertura, sconfinamento e “scoperti senza affidamento”, in www.IlCaso.it.
[5] La formulazione dell’ultimo periodo del comma 4 dell’art. 2 della legge 108 del 1996 è stata sostituito dall’art. 8, comma 5, lettera d) del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, l. 12 luglio 2011, n. 106. L’originaria versione prevedeva che il limite usurario si determinasse aumentando della metà il tasso medio dell’ultima rilevazione pubblicata. Non menzioniamo, perché non strettamente necessari al lavoro, ma abbiamo ben presenti, sia il secondo comma dell’art. 2 della l. 7 marzo 1996 n. 108, per il quale «La classificazione delle operazioni per categorie omogenee, tenuto conto della natura, dell'oggetto, dell'importo, della durata, dei rischi e delle garanzie è effettuata annualmente con decreto del Ministro del Tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano dei cambi e pubblicata senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale»; sia l’art. 1, comma 1, del decreto legge 29 dicembre 2000 n. 394, convertito in legge 27 febbraio 2001, n. 24, concernente l’interpretazione autentica degli articoli 644 c.p. e 1815 cod. civ., che dispone «Ai fini dell'applicazione dell'articolo 644 del codice penale e dell'articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento».
[6] Cass. pen. 19.12.2011, n. 46669; conformi Cass. pen. 16.10.2007, n. 43829; Cass. pen. 16.05.2006, n. 19107; Cass. pen. 22.02.2000, n. 3905. In dottrina: V. Manes, L'eterointegrazione della fattispecie penale mediante fonti subordinate, tra riserva "politica" e specificazione "tecnica", in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1, 84 ss.; B. Santacroce, La nuova disciplina penale dell’usura: analisi della fattispecie base e difficoltà applicative, in Cass. pen., 1997, 1529 ss.
[7] Come è noto l’art. 25 Cost., comma 2 («Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso») fonda il principio di legalità nel diritto penale, il quale «implica che le singole regole di condotta, nonché le sanzioni contemplate in caso di loro violazione, siano specificate dalla fonte legislativa, con caratteri di generalità e astrattezza, anteriormente alla realizzazione del fatto. Il precetto e la relativa sanzione debbono essere conoscibili dai destinatari grazie a una pubblicità adeguata (art. 73, 3° comma, Cost.). Inoltre l’espressione linguistica che li prevede deve essere precisa ed esente da intrinseci vizi logici. Il principio di legalità assume, in relazione agli articolati aspetti di garanzia che ne costituiscono la ratio, quattro dimensioni distinte: anzitutto si presenta come riserva di legge, che descrive il monopolio del Parlamento nazionale sulla normazione penale; in secondo luogo, come irretroattività della norma penale più sfavorevole all’autore; in terzo luogo, come precisione e pregnanza del precetto e della sanzione (determinatezza), sotto il duplice profilo della precisa individuazione di tutti gli elementi costitutivi e della corrispondenza tra il fatto tipico e una esperienza di vita concretamente verificabile; in quarto luogo, come tassatività, sotto il duplice profilo del divieto per il giudice di estendere analogicamente il precetto e la sanzione prevista dalla legge e dell’obbligo per il legislatore di evitare clausole che facoltizzino l’analogia» (M. Ronco, Il principio di legalità, in Commentario sistematico al codice penale, vol. I, La legge penale, diretto da Ronco, Bologna, 2010, aggiornamento marzo 2017, 1 e s.,). Questa ricostruzione ermeneutica trova conferma in Corte cost. 14.06.1990, n. 282; Corte cost. 11.07.1991, n. 333; Corte cost. 28.06.2002, n. 295; che, occupandosi, appunto, della delimitazione dei rapporti tra legge penale e fonti subordinate alla medesima, affermano che è giurisprudenza costante della Corte «il ritenere che il principio di legalità in materia penale è soddisfatto, sotto il profilo della riserva di legge (art. 25, secondo comma, Cost.) allorquando la legge determina con sufficiente specificazione il fatto cui è riferita la sanzione penale. In corrispondenza della ratio garantista della riserva è infatti necessario che la legge consenta di distinguere tra la sfera del lecito e quella dell’illecito, fornendo a tal fine un’indicazione normativa sufficiente ad orientare la condotta dei consociati (cfr. sentenza di questa Corte n. 364 del 1988)».
[8] G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale – Parte generale -, quarta edizione, Milano, 2012, 55 s.
[9] Cass. pen. 18.03.2003, n. 20148, in Cass. pen., 2004, 2876, che afferma: «A proposito, infatti, della pretesa violazione dell'art. 25 della Carta fondamentale, è agevole osservare come la giurisprudenza della Corte costituzionale, sia da tempo costante nell'affermare che, nella delimitazione dei rapporti tra legge penale e fonti subordinate, il principio di legalità sancito dall'indicato parametro può ritenersi soddisfatto allorquando la legge determini con sufficiente specificazione il fatto cui è riferita la sanzione penale, senza che ciò determini la preclusione all'impiego di norme di diverso rango ad effetti integrativi della configurazione strutturale della fattispecie. Cosi, ben può la legge fissare limiti e criteri analitici e circoscritti al punto da rappresentare vincoli sufficienti a restringere la discrezionalità della pubblica amministrazione nell'ambito di una valutazione strettamente tecnica e, come tale, da ritenersi idonea a concorrere, nel pieno rispetto del principio della riserva di legge in materia penale, alla precisazione del contenuto della norma incriminatrice (cfr., ex plurimis, Corte cost., sentenza n. 333 del 1991)».
[10] Vedi sopra nota 2. D’altra parte, una volta definito l’art. 644 c.p. come norma penale (parzialmente) in bianco non è possibile opinare diversamente, perché questa fattispecie si configura solo quando la legge penale rinvia ad una regola di grado inferiore nella gerarchia delle fonti e non anche quando il rinvio è ad altra disposizione avente la stessa natura e la stessa forza di legge, come avviene nel caso dell’art. 644, comma 3, primo periodo, c.p.. Nello stesso senso della conclusione qui accolta cfr. F.Bomba, La riforma del delitto di usura e questioni di diritto intertemporale, nota a Cass. pen. 19.12.2011, n. 46669, in Archivio Penale, 2012, 3, 1129 ss.. L’Autore critica «la qualificazione che viene data» [dalla sentenza – N.d.A.] alla l. 7 marzo 1996, n. 108 (dal titolo, “Disposizioni in materia di usura”) quale «fonte diversa da quella penale, con carattere di temporaneità» e, riferendosi all’art. 2, comma 4, l. 108/1996, con argomento estensibile, però, a tutto l’art 2, sostiene, condivisibilmente, che la norma «a ben vedere, definisce il precetto e, soprattutto, non presenta alcun “carattere di temporaneità»: la norma descrive un meccanismo di predeterminazione legale che guida l’interprete nella definizione degli “interessi usurari” e, quel che più conta, tale meccanismo è contenuto in una fonte del diritto primaria, indifferente a variabili di tipo temporale o economico. La disposizione in esame, quindi, ben può essere qualificata come norma “definitoria”: partecipa della stessa natura della norma del codice penale e, attesa la sua precipua funzione, integra la parte della disposizione che la richiama.
[11] Il testo apparirebbe come segue
644. Usura.
«Chiunque, fuori dei casi previsti dall'articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000.
Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario.
Il Ministro del tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dall'Ufficio italiano dei cambi e dalla Banca d'Italia ai sensi degli artt. 106 e 107 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura. I valori medi derivanti da tale rilevazione, corretti in ragione delle eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferimento, sono pubblicati senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale.
La classificazione delle operazioni per categorie omogenee, tenuto conto della natura, dell'oggetto, dell'importo, della durata, dei rischi e delle garanzie è effettuata annualmente con decreto del Ministro del tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano dei cambi e pubblicata senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale.
Il limite (previsto dal terzo comma dell'articolo 644 del codice penale), oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall'ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali.
Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria.
Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito»
[12] Mi avventuro in terreno a me poco cognito, per rappresentare, con semplicistica approssimazione (che, spero, sarà perdonata), la relazione tra i due valori:
TEG = (I + O) x 36.500 oppure:TEG = I + O TEGM = nTEG
NUMERI C * T n
dove: I= interessi; O= tutti gli oneri riferibili al singolo rapporto; C= capitale; T= tempo; n=somma di tutti i TEG rilevati nella categoria omogenea.
Come evidente, sia nel TEG che nel TEGM, gli elementi fondanti sono sempre i medesimi interessi ed oneri.
[13] La “ponderazione” dei dati campionari consiste nell’assegnare a ciascuna unità di analisi un peso diverso da 1, ovvero come se fosse stata campionata più di una volta. Si ricorre alla ponderazione quando alcune tipologie delle unità considerate risultino sovrastimati o sottostimati nel campione, rispetto alla popolazione di riferimento
[14] Mentre scrivevamo queste righe è intervenuta la sentenza delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte n. 24675 del 19.10.2017, che si è pronunciata (in senso negativo) sulla annosa questione della configurabilità della c.d. “usura sopravvenuta”, affermando, tra l’altro, che «Una parte della dottrina attribuisce alla legge n. 108 una ratio calmieratrice del mercato del credito, che imporrebbe il rispetto in ogni caso del tasso soglia al momento del pagamento degli interessi. Va però osservato che la ratio delle nuove disposizioni sull'usura consiste invece nell'efficace contrasto di tale fenomeno, come si legge nella relazione illustrativa del disegno di legge e come ha affermato anche la Corte costituzionale nella sentenza sopra richiamata […]». Il riferimento è alla sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 25.02.2002, che si è pronunciata per la legittimità dell’art. 1, comma 1, del decreto legge 29 dicembre 2000 n. 394, convertito in legge 27 febbraio 2001, n. 24, concernente l’interpretazione autentica degli articoli 644 c.p. e 1815 c.c., nella quale si legge «la ratio della legge n. 108 del 1996, quale risulta con chiarezza dai lavori preparatori, è quella di contrastare nella maniera più incisiva il fenomeno usurario. Siffatta finalità é stata essenzialmente perseguita, per ciò che interessa il presente giudizio, da un lato rendendo più agevole l’accertamento del reato, attraverso l’individuazione di un tasso obiettivamente usurario e la trasformazione dell’approfittamento dello stato di bisogno, di difficile prova, da elemento costitutivo del reato a circostanza aggravante, dall’altro inasprendo le sanzioni penali e civili connesse alla condotta illecita (artt. 1 e 4 della legge)». La questione del bene protetto dal reato di usura (e, quindi, il suo scopo) è risalente più che la sua introduzione nel nostro ordinamento ad opera del R.D. 19/10/1930, n. 1398, c.d. “Codice Rocco”; il previgente codice penale, R.D. 30 giugno 1889, entrato in vigore il 1° gennaio 1890, c.d. Codice Zanardelli, il primo dello stato unitario, infatti, non prevedeva il reato di usura. Le vicende della qualificazione dell’usura, dapprima come comportamento penalmente lecito e, quindi, come reato e il dibattito intorno a queste qualifiche, che si collocano tra la fine del XIX secolo e i primi tre decenni del XX secolo, sono ben compendiati (con riferimenti) da B. Guglielmetti, voce Usura, in Dizionario di Criminologia, a cura di Florian – Niceforo – Pende, Milano, 1943, 1033 – 1036 (che abbiamo consultato, dietro indicazione e con la cortese disponibilità della Prof.ssa Gemma Marotta, nella Biblioteca Archivio Michele Marotta, tenuta in Roma dalla Associazione Culturale 361°). Qui è sufficiente segnalare, che secondo l’Autore, la scelta del Codice Zanardelli, ricondotta al profilo giuridico-politico, si giustifica con i «principi dell’economia liberale, di cui erano infarciti i codici in parola» – id est: codice civile e codice penali anteriori a quelli vigenti N.d.A.- (p. 1034); la scelta del Codice Rocco, invece, è da ricondurre «allo stato corporativo […] che ha come scopo principale la difesa dell’economia nazionale», e, in questa prospettiva, si è «intuito il danno che questa forma di attività individuale poteva portare non tanto al singolo individuo, quanto alla collettività in genere» per «una ragione di morale sociale, inerente alla probità delle contrattazioni» (pp. 1034 e 1035). Le riportate argomentazioni ben lumeggiano e plasticamente esprimono l’idea di Stato etico, dirigista ed interventista, ancora imperante al tempo, che tante gravi conseguenze ha determinato.
[15] P.Bontempi, Diritto Bancario, terza edizione, Milano, 2009, 56, dove si dice che le “Istruzioni” della Banca d’Italia possono qualificarsi come «provvedimenti amministrativi generali […] a carattere precettivo destinati a tutti i soggetti sottoposti all’attività di vigilanza, la cui mancata osservanza però (a differenza dei regolamenti) non influisce sulla validità degli atti compiuti dai destinatari della vigilanza, ma determina l’applicazione di sanzioni amministrative»; in generale sugli atti della Banca d’Italia: B.G. Mattarella, Il potere normativo della Banca d’Italia, in Osservatorio sulle fonti 1996, a cura De Siervo, Torino, 1996, 227-246.
[16] In tal senso Tribunale Civile di Torino, 13 settembre 2017 – G.U. Dott. Enrico Astuni – in www.dirittobancario.it (giurisprudenza).
[17] Questa discrezionalità pura è palese nella definizione di «valore medio» come «concetto che teoricamente si definisce in funzione della finalità economica perseguita, che nel caso in esame è data dal tasso che ricomprende tutti i costi che normalmente, ordinariamente e fisiologicamente vengono sopportati nell'erogazione del credito, previsti nell’ambito di predefinite categorie omogenee» (R. Marcelli, Usura Bancaria: ad un ventennio dalla legge un impietoso bilancio, cit., 82). In questo passaggio si apprezza emblematicamente la apodittica “torsione verbale” dei termini e concetti di “globale” e “medio” contenuti nella legge, nei diversi termini e concetti di “normale”, “ordinario”, “fisiologico”, attraverso cui si vuole accredita la sussistenza di una pretesa e ampia discrezionalità tecnica dell’Amministrazione. Sul punto infra note 20 e 22.
[18] La bibliografia sull’attività, sugli atti e sul procedimento amministrativo è imponente, per cui ci sia consentito limitarci al rinvio a A. Sandulli, Diritto Amministrativo, XIII edizione, vol 1, Napoli, 1982, 513 – 655.
[19] A.Sandulli, op. cit., 563. E’ a ragione della descritta natura di atto amministrativo del decreto TEGM che la Suprema Corte ritiene non applicabile al rito civile il principio iura novit curia e, pertanto, sostiene che deve essere provato mediante la produzione in giudizio da parte di chi vuole avvalersene (Cass. civ. 14.04.2016, n. 7374; Cass. civ. 26 giugno 2001, n. 8742; in generale, sulla necessità di produzione in giudizio degli atti amministrativi, Cass. civ, sez. un. 29.04.2009, n. 9941).
[20] V. Farina, op. cit., 453, ritiene che il vaglio, da parte dell’amministrazione, degli elementi di costo indicati dalla legge, rientri nell’ambito della discrezionalità tecnica. L’Autore trae questa convinzione dall’aver precedentemente riconosciuto l’esistenza di discrezionalità tecnica per l’adozione del decreto di classificazione delle operazioni per categorie, talché afferma <<se è pur vero che la previsione di legge citata»(art. 2, co. 1, l. 108/1996 per la rilevazione del TEGM – N.d.A.) «indica specifiche componenti che devono concorrere a tale determinazione (commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse) non pare potersi revocare in dubbio che ricorra analoga discrezionalità tecnica in capo al Ministero». Il postulato non è convincente, perché si omette di svolgere la necessaria operazione ermeneutica sulla specifica previsione normativa, optando per la traslazione, per così dire, per relationem, da una regola all’altra, delle caratteristiche dell’agire dell’Amministrazione. Scelta interpretativa particolarmente delicata in una materia tanto delicata, perché, anche ammettendo che gli elementi (natura, oggetto, importo, durata dei rischi e garanzie) previsti dalla legge per il decreto di classificazione delle operazioni (art. 2, comma 2, l. 108/1996) si risolvano in definizioni, che pur essendo chiare e precise, non sono, però, totalmente “stringenti”, talché richiedono l’esplicazione, da parte dell’amministrazione, di una scelta tecnica per “creare” le categorie, questo approdo, conseguito per questa determinata previsione normativa, non può essere traslato tout court all’altra previsione, che prevede il decreto TEGM, ma deve essere confermato o falsificato valutando autonomamente quest’ultima norma (art. 2, comma 1, l. 108/1996), anche e soprattutto considerando la diversa formulazione degli elementi in essa contemplati (commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse imposte e tasse). Proseguendo su questo percorso ci si avvede che nel secondo caso, a differenza del primo, le indicazioni del legislatore non si risolvono in categorie astratte, ma si riferiscono a costi identificati concretamente, con stringente precisione e puntualità. Da un fugace cenno («se è pur vero che la previsione di legge citata indica specifiche componenti che devono concorrere a tale determinazione») si intuisce che l’Autore ha sentore della diversità esistente tra le due fattispecie, ma, poi, non ne trae le necessarie conseguenze in punto, quantomeno, di adeguata argomentazione delle sue conclusioni, lasciando così, nel lettore, l’impressione di una postulazione tautologica e di una “sovrainterpretazione” (cfr. Betzu, Interpretazione e sovrainterpretazione dei diritti costituzionali nel cyberspazio, in Rivista telematica giuridica dell’associazione dei costituzionalisti, 2012, 47, 3).
[21] L’onere ed il dovere dei giudici di ricercare una interpretazione costituzionalmente adeguata emerge, per la prima volta, dalla sentenza del Corte Costituzionale del 27 luglio 1989, n. 456, dove si afferma che «Quando [...] il dubbio di compatibilità con i principi costituzionali cada su una norma ricavata per interpretazione da un testo di legge è indispensabile che il giudice a quo prospetti a questa Corte l'impossibilità di una lettura adeguata ai detti principi; oppure che lamenti l'esistenza di una costante lettura della disposizione denunziata in senso contrario alla Costituzione (cosiddetta "norma vivente"). Altrimenti tutto si riduce ad una richiesta di parere alla Corte Costituzionale, incompatibile con la funzione istituzionale di questo Collegio (cfr. la sentenza n.123 del 1970)».
[22] Tribunale Civile di Torino 13.09.2017, cit., sostiene: «[…] l’autorità amministrativa ha la funzione di fotografare l’andamento dei tassi medi di mercato, (praticati dal sistema bancario-finanziario e distinti per classi omogenee di operazioni), ossia di fare una rilevazione statistica del costo medio (TEGM). Come ogni rilevazione statistica tale fotografia richiede una metodologia di selezione e organizzazione dei dati. La facoltà di selezione dei dati, rispetto alla quale appare indiscusso che Banca d’Italia eserciti discrezionalità tecnica, implica anche quella di escludere certe operazioni creditizie o certi costi inerenti che, per loro caratteristiche, appaiano statisticamente non significativi oppure non idonei a fornire una rappresentazione fedele del costo medio (normale) del credito. […] tratto comune delle operazioni non rilevate è un elemento di specialità non generalizzabile (crediti “difficili”, agevolati, in valuta forte) tale da inquinare la serie dei dati rilevati, alterando con prognosi ex ante la rappresentazione del normale costo del credito. Su queste premesse,appare evidente la ragione per cui gli interessi di mora e la penale di estinzione anticipata sono stati e sono tuttora esclusi dalla rilevazione del TEGM nei finanziamenti a rimborso graduale. […] il costo normale del credito (TEGM) non può essere inquinato da una voce pertinente al momento patologico del contratto». E’ evidente che il cardine su cui si impernia tutto il ragionamento è la trasposizione lessicale della espressione «tasso effettivo globale medio”»(TEGM) nella espressione «costo normale» del credito. Sennonché, in disparte dalla elementare osservazione che la legge parla di «tasso effettivo globale medio» e non di “tasso effettivo normale medio”, come pur avrebbe potuto, si percepisce immediatamente che i due termini non sono sovrapponibili o fungibili, posto che per «globale» si intende «preso nella sua totalità, considerato nell’insieme, complessivo», mentre con “normale” si intende «abituale, comune, consueto, nella norma, ordinario, regolare, solito, usuale». Orbene, una cosa è il “totale”, diversa cosa è “l’ordinario” (le definizioni dei termini qui utilizzate sono tratte dal vocabolario Treccani). L’espressione della norma, invero, delinea una struttura omnicomprensiva della rilevazione dei costi, che, ponderati e mediati, genereranno i diversi TEGM per ognuna delle “categorie”, le quali, con il miglior dettaglio possibile e utile, tenuto conto degli elementi distintivi contenuti nella legge, devono unire gli omologhi e distinguere i diversi (ed anche “fisiologia” e “patologia”; operazioni di nicchia del mercato corporate e operazioni di larga diffusione nel mercato retail, e così via). A non dissimile conclusione si giunge se si volesse collegare la qualificazione “normale” alla operazione di “media” dei dati globali, posto che per media si deve intendere «il valore intermedio tra i valori di quantità della stessa specie» e non ciò che “ordinariamente” viene addebitato come onere. Non sfugge certo che altra cosa è sostenere che per i finanziamenti di 100 euro è “usuale” l’interesse del 3%, altra è stabilire la media degli interessi effettivamente applicati ai detti finanziamenti: per quest’ultimo fine, infatti, si dovrà tenere conto di tutti i tassi, anche di quelli “non usuali” perché superiori o inferiori al 3%. L’esempio rende plasticamente il significato dell’espressione legislativa “tasso effettivo globale medio”, dove l’aggettivo “globale”, che appena dopo si declina come «comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse» (l’usuraio non è sostituto d’imposta), rinvia proprio alla media di tutti gli oneri, nessuno escluso, “normali” o “anormali”, “frequenti” o “marginali” che siano, essendo solo necessario e sufficiente che si tratti di oneri addebitati nel mercato legale del credito: si ottiene così l’onere “globale” medio (non “normale”) del credito legittimo (TEGM), che è anche il suo confine ultimo e, nel sillogismo della norma, assume la veste di “premessa maggiore” da comparare con la “premessa minore” (id est: TEG), per ottenere la “deduzione” (id est: usuraio – non usurario).
[23] Cass. Pen. 18.03.2003, n. 20148, cit., dove si legge «il legislatore si è fatto carico di introdurre e delineare una rigida “griglia” di previsioni e di principi, affidando alla normativa secondaria null’altro che il compito di “registrazione” ed elaborazione tecnica di risultanze, al di fuori di qualsiasi margine di discrezionalità […]; il procedimento per la determinazione dei tassi soglia analiticamente descritto dal legislatore della riforma, esclude, per puntualità di riferimenti, qualsiasi elusione del principio di riserva di legge in materia penale, nulla essendo lasciato a scelte di opportunità o a valutazioni non fondate su rigorosi criteri tecnici: al contrario, è proprio la linea di "obiettivizzazione" del fatto tipico che ora caratterizza la figura descritta dall'art. 644 cod. pen. a rendere la fattispecie senz'altro esente da quelle perplessità di insufficiente determinatezza che, in passato, erano state adombrate al suo riguardo. Stabilisce, infatti, l'art. 2 della legge n. 108 del 1996 che, ogni trimestre, il Ministro del Tesoro, avvalendosi della Banca d'Italia e dell'Ufficio italiano dei cambi, rileva il tasso effettivo globale medio degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari, iscritti negli elenchi di cui agli artt. 106 e 107 del d. lgs. n. 385 del 1993, nel corso del trimestre precedente, per operazioni della stessa natura e ne dispone la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale […] il dettaglio dei criteri stabilito dalla legge è dunque tale da rendere la fonte non legislativa un atto meramente ricognitivo, destinato a "fotografare" l'andamento dei tassi finanziari distinti per classi omogenee di operazioni, secondo parametri di certezza ed obiettività, e con l'intervento degli organi istituzionalmente deputati a compiere siffatte registrazioni. Ne deriva, pertanto, la piena rispondenza del sistema al principio di stretta legalità sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., e, di conseguenza, palesemente infondati si rivelano anche i dubbi di legittimità costituzionale che il ricorrente ha formulato con riferimento all'art. 3 della medesima Carta, sul rilievo - per quel che si è detto, addirittura da ribaltare - che la riforma avrebbe fatto venir meno la "dimensione offensiva reale" del delitto di usura».
[24] Per tutti R. Marcelli, Usura Bancaria: ad un ventennio dalla legge un impietoso bilancio, cit..
[25] Tribunale Civile di Torino, 31 ottobre 2014, reperibile in www.IlCaso.it.
[26] V. Farina, op. cit., p. 467.
[27] Per la critica del piegamento verbale costo/interesse medio in “normale” o “fisiologico”, si veda più sopra nel testo e note 16, 17, 20 e 22.
[28] «La norma la quale regola tutte le mie deduzioni è il cosiddetto principio degli omogenei. Questo grande principio è la base fondamentale di tutta la natura, intellettuale, morale e fisica; è il più generale di tutt’i principi filosofici; e tutti gli altri, non esclusa la gran legge dell’attrazione neutoniana, non sono che derivazioni di esso. Il principio degli omogenei può essere enunziato così nella sua massima generalità “nell’analisi di un tutto o di due qualunque esseri la comparazione non può cadere che sopra due elementi omogenei”. Epperò in due triangoli non sono paragonabili gli angoli agli angoli, i lati a’ lati e la superficie di uno a quella dell’altro. E quando diciamo che i vegetabili e gli animali sono esseri viventi, gli esseri di questi due regni della natura si paragonano nel solo elemento omogeneo ch’è la vita. […] Laonde io giustifico la mia proposizione cioè che il principio degli omogenei è la base fondamentale di tutta la natura intellettuale morale e fisica; che anzi quello che tutti gli altri comprende in se stesso». De Luca (Ferdinando; Serracapriola -Foggia- 13 agosto 1783 - Napoli 9 agosto 1869 –Matematico-), Nota del Socio Ordinario comunicata alla Reale Accademia delle Scienze nella sua tornata del dì 5 luglio 1942, in Il Progresso delle Scienze Lettere e Arti, Anno XX, Volume XXX, Quaderno 60, Napoli, 1841, 197 ss., reperibile in internet – Ebook Gratis - https:www//books.google.it)
[29] Sul punto vedi sopra, diffusamente, i paragrafi 4) e 5).
[30] Per la necessità che l’interprete, nel dubbio, si attenga all’opzione ermeneutica certamente conforme a costituzione cfr. sopra nota 21.
[31] V. Farina, op. cit., p. 468 ss..
[32] Si veda, ad es., sulle spese di assicurazione collegate all’erogazione dei mutui, Cass. civ. 5 aprile 2017, n. 8806.
[33] Cass. civ., sez. un. 20.01.2014, n. 1013, con l’ulteriore corollario che «quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità […] detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità Garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini». Nel nostro caso, peraltro, per quanto sopra detto, non si apprezzano margini di opinabilità. Si veda anche, ex multis, Tar Toscana, sez. 1, 08.08.2015, n. 1028, reperibile in www.lexitalia.it/a/2015/60263, per il quale «sussiste la pienezza del sindacato sulle valutazioni tecniche dell’Amministrazione, potendo il Giudice effettuare un sindacato pieno ed intrinseco sulle valutazioni tecnico-discrezionali, che debbono ormai ritenersi pacificamente censurabili sotto il profilo dell’attendibilità, intesa come corretta scelta delle regole tecniche da impiegare ed esattezza del procedimento applicativo seguito».
[34] V. Farina, op. cit., 450–452.
[35] G.Mantovano, Usura e Commissione di Massimo Scoperto: profili di indeterminatezza della fattispecie, nota a sentenza del GUP del Tribunale Penale di Lecce del 12.04.2008, n. 158, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 3, 1551 ss., in particolare 1567 ss..
[36] Quanto alle c.m.s.: per l’utilizzo del dato autonomo contenuto nei decreti aumentato di ½, cfr. Tribunale Civile di Reggio Emilia, 23 luglio 2015, reperibile in www.IlCaso.it; per il sostanziale utilizzo della circolare Banca d’Italia n. 12, del 2 dicembre 2005, cfr. Cass. civ. 22.06.2016, n. 12965, cit.. Quanto agli interessi moratori, per l’utilizzo della media del 2,10%, riveniente dalla rilevazione condotta dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Italiano Cambi della maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento e inclusa nell’art. 3, comma 4, dei Decreti Ministeriali, a decorrere da quello del 25 marzo 2003, cfr. Tribunale Civile di Padova, 13 gennaio 2016, reperibile in www.IlCaso.it.
[37] Marco Aurelio, Pensieri, IV, 12, a cura di Cassanmagnago, Milano, 2008.
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