Diritto e Procedura Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 337 - pubb. 01/07/2007

Anatocismo, ricalcolo del saldo e inibitoria alla banca

Tribunale Palermo, 24 Febbraio 2006. Est. Di Pisa.


Associazione dei consumatori – Anatocismo – Inibitoria al rifiuto del ricalcolo del saldo basato su clausola anatocistica – Rifiuto della banca di consegnare la documentazione al cliente – Illegittimità.



Qualora la banca neghi al cliente il ricalcolo del saldo del conto corrente espungendo la capitalizzazione trimestrale degli interessi a tutto il 30 giugno 2000, la banca stessa continua di fatto ad utilizzare la clausola illegittima della capitalizzazione, assoggettando un segmento del rapporto in essere tra le parti ad una unilaterale capitalizzazione degli interessi.
(Nel caso di specie, il Tribunale, accogliendo parte delle domande di una associazione di consumatori, ha ordinato alla banca di astenersi dal respingere le istanze avanzate da titolari di un rapporto di conto corrente finalizzate al ricalcolo della esposizione debitoria previa depurazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi al 30 giugno 2000).


 


omissis

r.g. n. 3237/2005

Svolgimento del processo

Con atto di citazione ritualmente notificato in data 4.3.2005 l'Adiconsum Associazione difesa consumatori e ambiente ONLUS, in persona del suo segretario generale Paolino Landi (d'ora in poi, per brevità, "Adiconsum") conveniva in giudizio dinanzi a questo Tribunale la Banca *** Società per Azioni (per brevità "Banca ***") esponendo che la banca convenuta, sino alla data di entrata in vigore della delibera CICR del 9.2.2000, si era avvalsa, nell'ambito dei rapporti di apertura di credito in conto corrente, di una clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi addebitati sui saldi risultati passivi, clausola da ritenere vessatoria e nulla nei contratti conclusi con i consumatori, come riconosciuto dai giudici di legittimità e, segnatamente, dalla pronunzia del Supremo Collegio a Sezioni Unite n. 21095 in data 4.11.2005.

Nell'evidenziare che l'istituto di credito convenuto aveva opposto il proprio rifiuto alle richieste, avanzate dai singoli consumatori, di restituzione delle somme percepite in virtù della applicazione della anzidetta clausola (nulla e vessatoria ex art. 1469 bis cod. civ.), osservava che tale rifiuto integrava gli estremi di un comportamento lesivo degli interessi dei consumatori e degli utenti ai sensi dell'art. 3 lett. a) l. 30 Luglio 1998 n. 281.

Lamentava, altresì, che il Banca *** aveva negato ai consumatori - sia in sede giudiziale che in sede stragiudiziale - l'accesso alla documentazione relativa ai loro conti correnti (e segnatamente agli estratti conto) antecedenti i dieci anni dalla richiesta e ciò sebbene tale documentazione esistesse e fosse stata conservata, sia pure su supporto informatico.

Tanto premesso chiedeva: a) dichiarare la natura vessatoria ai sensi degli artt.

1469 bis e segg. cod. civ. nonché la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista operanti prima dell'aprile 2000; b) inibire alla banca convenuta l'uso di tali clausole nei rapporti con i consumatori; c) dichiarare che il comportamento della banca, consistito nel rifiuto, da un lato, di dare corso alla restituzione delle somme percepite in ragione della menzionata clausola e, dall'altro, di consegnare la documentazione contabile relativa ai rapporti dì conto corrente, anche se anteriore al decennio dalla richiesta, costituiva violazione degli interessi dei consumatori ai sensi dell'art. 3, comma 1° lett. a) l. 281/1998; d) ordinarsi alla banca convenuta di cessare tale condotta e, conseguentemente, di restituire ai clienti consumatori le somme indebitamente percepite in virtù della applicazione di tale clausola nonché di consegnare agli istanti copia di tutta la documentazione bancaria relativa al rapporto contrattuale, anche se antecedente al decennio; e) adottare ogni altra misura idonea a correggere od eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate, come previsto dall'art 3 della legge cit.; f) ordinarsi la pubblicazione del provvedimento a spese della società convenuta su alcuni quotidiani nazionali come previsto dall'art. 1469 sexies comma terzo cod. civ. nonché dall'art. 3 lett. leg. cit.; g) ordinare alla convenuta di inviare ai propri clienti consumatori una missiva contenente indicazioni esplicative in ordine alle vessatorietà della richiamata clausola ed alla illiceità dei propri comportamenti; h) disporre, ai sensi dell'art. 3 comma 5 bis l. 30 Luglio 1998 n. 281, in ipotesi di inadempimento degli obblighi stabiliti nella sentenza, decorsi dieci giorni dalla pubblicazione della stessa, il pagamento da parte del Banca *** di una somma pari ad € 1.032,00 per ogni giorno di ritardo.

Si costituiva il Banca *** il quale rilevava, in primo luogo, la inammissibilità della richiesta di parte attrice atteso che le clausole in contestazione non erano più operanti, perché sostituite da quelle adottate in conformità alla citata delibera CICR del 9.2.2000.

Eccepiva, poi, la inammissibilità della istanza volta alla declaratoria della illegittimità della utilizzazione di detta clausola nonché del rifiuto opposto da essa convenuta di restituire le somme percepite sulla base di clausole anatocistiche vigenti anteriormente alla citata delibera, in quanto parte attrice mirava, in relazione ai fatti de quibus, ad un "accertamento giudiziale con portata generale ed astratta" non previsto dalla legislazione vigente. Precisava, in particolare, come il giudice "essendo indissolubilmente vincolato all'accertamento del singolo, specifico fatto storico, non è facilitato ad universalizzare il giudizio di liceità-illiceità formulato con riguardo a quest'ultimo".

Rilevava, altresì, la liceità della condotta di essa convenuta rifiutatasi di dare corso "spontaneamente - cioè in assenza di un giudicato che, puntualmente caso per caso, accerti la illegittimità di tale condotta -" alla restituzione delle somme percepite in relazione alle clausole anatocistiche vigenti anteriormente alla sopra richiamata delibera atteso che si imponeva, per ogni singola fattispecie, una verifica in concreto della sussistenza dei presupporti del diritto alla ripetizione vantato dal singolo cliente e tenuto conto che la stessa, nell'esercizio del suo inviolabile diritto di difesa, costituzionalmente garantito, mirava a perseguire una revisione dell'orientamento giurisprudenziale attualmente vigente.

Deduceva, altresì, come doveva ritenersi del tutto inammissibile la richiesta finalizzata alla cessazione della condotta della banca, asseritamente ostruzionistica, di procedere alla restituzione delle somme percepite sia in considerazione del fatto che "un siffatto ordine di cessazione configurerebbe gli estremi di una inibitoria a contenuto positivo laddove, come è noto, la tutela inibitoria pone capo ad un non facere..." sia in ragione della circostanza che "suo tramite si finirebbe per dare fondamento a quel diritto al rimborso in capo ai singoli clienti che, viceversa, non può che essere oggetto di uno specifico accertamento caso per caso" nell'ambito di uno apposito giudizio avente petitum e causa petendi rigorosamente circoscritti.

Aggiungeva, infine, che non poteva trovare accoglimento la richiesta volta ad ottenere la consegna di tutta la documentazione bancaria, anche anteriore al decennio, atteso che la condotta di essa banca era conforme al dettato enunciato dall’art. 2200 cod. civ. nonché alla previsione contenuta nell'art.

119 ult. co; D.Lgs 385/1993 e che era contrario a buona fede nonché lesivo del diritto di difesa costringerla a "reperire, allestire e collazionare una documentazione di mole eccezionalmente ingènte che essa non è tenuta per legge a conservare e la fornisca ad una massa indistinta dei suoi possibili futuri contraddittori".

A seguito dello scambio di memorie di replica ex artt. 6 e 7 D.L.vo 17 Gennaio 2003, n.5, venivano depositate l'istanza di fissazione dell'udienza da parte dell'Adiconsum nonché memoria ex art. 10 D.L. citato da parte della convenuta.

Quindi il giudice relatore, con decreto in data 5.12.2005, rigettava le prove dedotte dall'attrice, rimettendo le parti dinanzi al collegio.

All'udienza collegiale del 24.2.2006, dopo la discussione orale, il Tribunale confermava il decreto del giudice relatore e poneva la causa in decisione, assegnando il termine di legge per il deposito della sentenza.

Motivi della decisione

Appare opportuno premettere alcune puntualizzazioni sulla natura delle domande avanzate dell'attrice al fine di una migliore comprensione delle eccezioni di parte convenuta.

Va osservato che l'Adiconsum, nel lamentare la illegittimità della condotta del Banca *** inerente l'utilizzo della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito nei rapporti di conto corrente stipulati con i consumatori, a suo dire pregiudizievole dei diritti di questi ultimi nonché la illiceità del comportamento di detto istituto bancario rifiutatosi di consentire l'accesso alla documentazione relativa ai conti correnti dei consumatori (e segnatamente agli estratti conto) antecedenti i dieci anni dalla richiesta e ciò sebbene tale documentazione fosse stata conservata dalla banca, ha avanzato le domande oggetto di causa sia ai sensi dell'art. 1469 sexies cod. civ. che ai sensi della L. 30 Luglio 1998, n. 231 (normative riproposte ed, in parte, sostituite con talune modifiche nell'ambito del recente D.L.vo 6 Settembre 2005 n. 206, c.d. Codice del Consumo).

Rileva il Tribunale che le c.d. azioni di interesse collettivo a contenuto inibitorio, di cui alle richiamate disposizioni, mirano, da un lato, a fare cessare le condotte illecite già in essere e dall'altro ad imporre all'autore della condotta lesiva degli interessi dei consumatori un obbligo di astensione per l'avvenire da comportamenti dei quali sia stata accertata l'antigiuridicità. E' chiaro, quindi, che il presupposto oggettivo delle azioni inibitorie ex art. 1469 sexies cod. civ. ed ex art. 3 L. 231/1998 è differente posto che l'inserimento di clausole vessatorie è soltanto uno dei possibili comportamenti lesivi dei diritti dei consumatori.

Al fine di comprendere la effettiva portata della tutela 'innominata' prevista dalla normativa da ultimo indicata [e riproposta, in modo sostanzialmente analogo, nell'ambito del menzionato Codice del Consumo, art. 140] deve, invero, muoversi dal contenuto dell'art. 1 della citata legge [oggi sostituito dall'art. 2 della normativa da ultimo indicata] ove si fa riferimento alla inderogabile esigenza di forte tutela nell'ambito di una amplissima gamma di settori fondamentali per i cittadini: salute, sicurezza e qualità dei prodotti, pubblicità commerciale, correttezza, equità e trasparenza nei rapporti commerciali inerenti beni e servizi privati, erogazione dei servizi pubblici secondo standards di qualità ed efficienza.

E' chiaro, quindi, l'intento della norma di introdurre e rafforzare strumenti di tutela collettiva per aumentare la proiezione dei diritti dei consumatori ed assicurare esigenze di tutela destinate, altrimenti, a rimanere insoddisfatte oltre che impedire che una pluralità indefinita di pretese risarcitorie finisca per paralizzare il sistema giudiziario, con la eventualità, peraltro, di giudizi contrastanti.

Fatte tali brevi considerazioni occorre esaminare la preliminare eccezione di inammissibilità della domanda di inibitoria, sollevata dalla banca convenuta la quale assume, in primo luogo, che la clausola relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito non sarebbe ad oggi più operante, perché sostituita da quella adottata in conformità alla citata delibera CICR del 9.2.2000 e, in particolare, che detta clausola non sarebbe "più utilizzata in alcun modo ed in alcun senso dal Banca ***".

Sul punto va precisato che sebbene parte attrice faccia riferimento alla illiceità della clausola de qua "prima dell'aprile del 2000", poiché l'art. 7 della delibera CICR stabilisce, per i contratti stipulati prima dell'entrata in vigore della delibera, che le condizioni pattuite devono essere adeguate alle disposizioni contenute nella delibera entro il 30/6/00, il problema riguarda la sorte dei contratti stipulati prima della delibera CICR e per il periodo fino al 30 giugno 2000.

Ne discende che, stante il richiamato alla citata delibera, la domanda attorea va riferita alla data da ultimo indicata, a prescindere dall'erroneo richiamo all'aprile 2000.

Ciò premesso va evidenziato che l'istituto di credito convenuto ha, in particolare, eccepito che ".....Nel caso di specie non si vede come di utilizzazione della clausola possa sensatamente parlarsi, posto che il rapporto tra la banca ed il cliente è ormai esaurito e la pretesa restitutoria avanzata da quest'ultimo trova la sua origine non nel contratto (il cui disciplinare ospitava la clausola de qua) ma in una diversa fonte dell'obbligazione, cioè il pagamento del presunto indebito, cioè delle somme corrisposte in ragione della regola di capitalizzazione trimestrale degli interessi. In altri termini, è evidente che una cosa è che la banca continui ad applicare ad un rapporto sorto prima che intervenisse la modifica imposta dalla delibera CICR, ma ancora in corso al momento della entrata in vigore di quest'ultima, la clausola nella sua versione originaria, proseguendo a capitalizzare trimestralmente gli interessi attivi ma non quelli passivi; cosa ben diversa è che la banca, chiusosi il rapporto di conto corrente, si astenga dal restituire spontaneamente le somme di cui il cliente esige la restituzione, nel presupposto (tutto da dimostrare) che la clausola anatocistica fosse vessatoria, giacché qui la banca non sta ovviamente utilizzando quella clausola - non la sta utilizzando per la semplice ragione che è venuto meno il rapporto in vista della costituzione e della regolamentazione del quale il contratto fu stipulato - ma piuttosto sta adottando un comportamento che [......] è solo prodromico all'esercizio del sacro ed inviolabile diritto di difesa".

La superiore eccezione, ad avviso di questo Collegio, non coglie nel segno.

Deve evidenziarsi, innanzitutto, che secondo quanto si desume dal tenore delle difese dell'Adiconsum nonché sulla scorta di ciò che si evince dalla documentazione versata in atti (v. in particolare, note del BDS in data 11.1.2005 ed in data 20.5.2005 prodotte da parte attrice) - e secondo quanto, peraltro, può ritenersi incontroverso (v. memoria del Banca *** dep. il 26.9.2005) - la questione relativa alla capitalizzazione trimestrale, ante delibera citata, attiene sia a rapporti di conto corrente già cessati sia a rapporti di conto corrente a tutt'oggi vigenti ed operanti.

Con riferimento a tali rapporti è innegabile che la sola modifica della clausola afferente la capitalizzazione periodica degli interessi a decorrere dall'1.7.2000 non ha determinato la cessazione del rapporto contrattuale e la creazione di un nuovo contratto, con la conseguenza che, in ipotesi di rapporti stipulati prima dell'entrata in vigore della citata delibera, non cessati alla data odierna, ci si trova in presenza di clausole ancora capaci di dispiegare effetti, inerenti rapporti di durata non esauriti.

Relativamente a detti contratti non può, invero, dubitarsi che laddove la banca convenuta provveda a calcolare il saldo, mantenendo fermo il computo di interessi a debito frutto della capitalizzazione trimestrale (sino a tutto il 30.6.2000) continua, di fatto, ad 'applicare' nel rapporto con il consumatore detta clausola ritenendola legittima, non rispondendo al vero l'affermazione della convenuta secondo cui la stessa non sarebbe utilizzata "in alcun modo ed in alcun senso".

Non può, invero, non convenirsi con quanti hanno sostenuto che è irrilevante, ai fini della verifica della vessatorietà e della applicazione dei rimedi di cui alla citate disposizioni normative, la circostanza che il professionista abbia modificato lo schema regolamentare uniforme allorquando si verifica, in concreto, "la permanenza degli effetti degli schemi adottati in precedenza".

Secondo quanto si desume chiaramente dal tenore della normativa sopra richiamata le censure all'operato del professionista non riguardano unicamente il momento genetico della inserzione della clausola [dovendosi ritenere che l'inserimento della clausola, vessatoria è solamente, come detto, uno dei possibili comportamenti pregiudizievoli per i diritti dei consumatori], ma anche l'effettivo 'utilizzo' delle condizioni, prescindendosi, quindi, dalle modificazioni sopravvenute.

Nel caso di specie e indubitabile che il Banca ***, nel negare il ricalcolo del saldo del conto corrente espungendo la capitalizzazione trimestrale, continua ad avvalersi della detta clausola, sicché "un segmento del rapporto in essere fra le parti" è assoggettato in concreto a tale previsione negoziale in quanto la banca, di fatto, effettua ancora - sia pure limitatamente ad una parte del rapporto - una unilaterale capitalizzazione degli interessi.

Non può, quindi, ragionevolmente affermarsi, come sostenuto dalla banca convenuta, che "anche i rapporti contrattuali in itinere ed adeguati al nuovo regime di reciprocità devono ritenersi, per quel che attiene alla vigenza della vecchia clausola di capitalizzazione trimestrale, esauriti".

Posto che sono rimasti invariati tutti gli altri elementi del contratto di conto corrente, il rapporto originario non è stato 'chiuso', sussiste un unico 'saldo contabile' [che scaturisce dal raffronto di 'tutte' le partite di 'dare' ed 'avere' maturate durante la 'integrale' vigenza dell'intero rapporto], appare illogico parlare di un rapporto contrattuale che possa ritenersi "esaurito" [sia pure in parte].

In relazione a detti rapporti deve, pertanto, ritenersi pienamente legittima la richiesta dell'Adiconsum finalizzata alla verifica della vessatorietà della clausola suddetta e, quindi dell'antigiuridicità della condotta della banca che continua a tenerne conto nel computo del saldo, trattandosi, quindi, di clausola che continua a dispiegare la propria piena efficacia operativa.

Rimane, pertanto, irrilevante la circostanza che la suddetta clausola non è più inserita nei "nuovi" moduli contrattuali distribuiti dalla banca convenuta alla clientela dei consumatori.

Osserva, peraltro, il Tribunale che anche con riferimento ai rapporti di conto corrente, stipulati prima dell'entrata in vigore della delibera e, ad oggi, estinti, posto che è incontroverso che la banca convenuta paralizza ogni richiesta (restitutoria o, comunque, di ricalcolo del saldo al fine di procedere al pagamento della somma effettivamente dovuta) del consumatore muovendo dal [solo] presupposto della piena validità ed efficacia della clausola de qua, appaiono ammissibili le domande oggi proposte.

Pur dovendosi ritenere che il diritto al risarcimento rimane un diritto individuale, imputabile a ciascuno dei consumatori danneggiati dalla condotta plurioffensiva dichiarata contra legem [secondo quanto appresso chiarito] la previsione di cui alla richiamata norma circa il diritto dei consumatori alla garanzia della "correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi", diritto tutelabile ad opera della associazioni dei consumatori che possono chiedere, ai sensi del citato art. 3, l'inibizione di "comportamenti lesivi' degli interessi dei consumatori" nonché "l'adozione di misure idonee a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate", induce a ritenere che possa certamente procedersi in questa sede alla valutazione della liceità del comportamento sopra fermato posto in essere dalla banca convenuta.

Diversamente opinando si finirebbe, ad avviso di questo Tribunale, per vanificare la portata della suindicata legge nonché le finalità della stessa. Una simile conclusione - e, quindi, l'esigenza di una lettura delle disposizioni de quibus in una ottica di ampia tutela dei diritti dei consumatori, con esclusione di ogni interpretazione restrittiva - appare del resto suffragata dall'esigenza di applicare la richiamata normativa in armonia con la ratio ispiratrice della direttiva di riferimento 98/27/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori).

Quest'ultima, muovendo dal presupposto che i meccanismi esistenti sia a livello nazionale che a livello comunitario "non sempre consentono di porre termine tempestivamente alle violazioni che ledono gli interessi collettivi dei consumatori" e nella prospettiva di una ampia e piena tutela dei diritti di questi ultimi oggetto delle direttive ivi espressamente richiamate, ha stabilito che gli Stati membri adottino sistemi al fine di "ordinare con debita sollecitudine.....la cessazione o l'interdizione di qualsiasi violazione", quest'ultima intesa come "qualsiasi atto contrario alle disposizioni delle direttive riportate in allegato".

Prima di passare all'esame delle problematiche afferenti la natura (vessatoria o meno) della suddetta clausola - come detto ancora oggi applicata dalla banca - nonché la [dedotta] antigiuridicità della condotta della banca convenuta nei confronti dei propri clienti-consumatori, occorre soffermarsi sugli ulteriori profili di 'inammissibilità' rilevati dal Banca ***.

Assume la società convenuta che sarebbe "del tutto inconcepibile......un accertamento giudiziale con portata generale ed astratta della legittimità di una condotta che, per essere iscritta dentro la concreta dimensione del fatto, può essere oggetto unicamente di una valutazione puntuale. Solo al legislatore è consentito di immaginare stregue astratte di comportamento di cui predicare la liceità/illiceità erga omnes; il giudice, di contro, essendo indissolubilmente vincolato all'accertamento del singolo, specifico fatto storico, non è facultato ad universalizzare il giudizio liceità/illiceità formulato con riguardo a quest'ultimo", precisando, altresì, come "il rifiuto della banca di rimborsare spontaneamente le somme percette sulla base della clausola c.d. anatocistica, costituendo prima facie un atto prodromico all'esercizio del diritto di difesa...potrà essere colpito da una valutazione di segno opposto solo se e quando il giudice del caso concreto dovesse constatare l'avvenuto perfezionamento del diritto alla ripetizione".

La convenuta ha, altresì, sottolineato come la normativa sopra richiamata non consentirebbe in ogni caso né l'adozione di pronunzie di mero accertamento né la possibilità di emettere statuizioni di condanna ad un comportamento positivo atteso che "come è noto la tutela inibitoria pone capo ad un non facere".

Anche tali obiezioni, secondo questo Tribunale, non appaiono condivisibili.

Occorre sottolineare, invero, come la tutela inibitoria collettiva, per sua natura, laddove mira ad assicurare, come detto, in generale "correttezza, equità e trasparenza nei rapporti commerciali inerenti beni e servizi privati" implica una valutazione necessariamente riguardante i rapporti e, quindi, i diritti di una molteplicità di soggetti e ciò a prescindere da tutti i possibili specifici profili inerenti il singolo rapporto negoziale.

In quest'ottica appare fuorviante il richiamo operato dalla convenuta al "sacro ed inviolabile diritto di difesa" (art. 24 Cost.), atteso che ogni valutazione in ordine alla sussistenza di atti e comportamenti della banca convenuta lesivi dei diritti dei consumatori da effettuare nel presente giudizio instaurato ai sensi del richiamato art. 3, non preclude certamente alla banca di opporre, in futuro, ai clienti o ex clienti tutte le eccezioni inerenti i singoli rapporti di conto corrente al fine di paralizzare le relative istanze, secondo quanto appresso chiarito.

In ordine alla tipologia dei rimedi richiesti è evidente che le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni sono 'atipiche ed innominate' e nessun criterio certo è fornito dalla legge per la sicura individuazione del loro contenuto, garantendosi la possibilità al giudice di adottare una pronunzia avente il contenuto che più si attagli alla specifica situazione dedotta in giudizio (analoghe considerazioni vanno del resto formulate con riferimento al richiamato art. 140 del Codice del Consumo, che ha abrogato la richiamata legge, riproponendone i medesimi principi e la medesima terminologia).

Sulla scorta delle considerazioni sopra formulate, al fine di non vanificare la portata della normativa sopra richiamata e stante la prevista possibilità di adottare tutte "le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate", ben può ammettersi la adottabilità di pronunzie dichiarative e di mero accertamento, dovendosi convenire con quanti hanno sostenuto che le misure idonee "sono tutte quelle misure in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei consumatori ed in grado di realizzare appieno il comando inibitorio, sia esso di contenuto negativo o positivo, a seconda delle esigenze concrete di tutela".

La ratio della legge n. 281 cit. è, del resto, quella di costituire un "passo avanti" nella disciplina dei consumatori e degli utenti.

La stessa mira ad aggiungere forme di tutela, ad ampliare la c.d. consumer protection, per cui sarebbe interpretazione contraria alla detta finalità quella che mira a limitare fortemente i possibili contenuti della inibitoria e non ammette pronunzie dichiarative.

In questa prospettiva non può, pervero, non ammettersi la possibilità di adottare misure implicanti l'obbligo di eliminare gli effetti della condotta lesiva e, quindi, anche una prestazione di fare.

Sebbene il concetto stesso di inibitoria richiama un ordine di non fare, vale a dire una condotta a contenuto negativo, è innegabile che ogni qualvolta la violazione dei diritti dei consumatori si sostanzi in un comportamento emissivo l'unica possibile forma di inibitoria è proprio quella consistente nella imposizione di un facere e del resto "da un punto di vista teorico anche l'inibitoria positiva potrebbe sempre essere rovesciata in una inibitoria negativa. Il che è quanto dire che il giudice invece di ordinare un determinato comportamento atto a fare cessare l'illecito potrebbe ordinare la cessazione dell'illecito tout court. In altri termini, sempre in linea puramente teorica, si potrebbe affermare che tutte le inibitorie positive potrebbero risolversi in altrettante inibitorie negative".

A questo punto occorre esaminare la questione relativa al carattere vessatorio e meno della clausola "applicata" dal Banca *** in forza la quale è stabilito che "i rapporti di dare ed avere vengono regolati, in via normale, annualmente al 31 dicembre portando in conto gli interessi.....I conti che risultano anche saltuariamente debitori vengono regolati, in via normale, trimestralmente e cioè a fine marzo, giugno e dicembre di ogni anno, applicando agli interessi ed alle competenze di chiusura valuta data di regolamento del conto".

In ordine al meccanismo della capitalizzazione trimestrale di detti interessi a debito (o anatocismo, cioè quell'operazione di "conversione degli interessi in debito di capitale allo scopo di provocare la decorrenza di nuovi interessi sulla somma per tale titolo dovuta" - così in dottrina -), applicata pacificamente dalla banca convenuta sui contratti di conto corrente [stipulati prima dell'entrata in vigore della delibera citata], va precisato che la Corte di Cassazione con la pronunzia 16 Marzo 1999, n. 2734, con improvviso revirement, ha escluso la esistenza di un uso normativo in deroga al divieto, affermando che "la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata, su un uso negoziale, ma non su una vera e propria norma consuetudinaria, è nulla in quanto anteriore alla scadenza degli interessi".

Alcuni mesi dopo l'avvento di detta giurisprudenza fortemente innovativa, è intervenuta una modifica legislativa, vale a dire l'art. 25 3° co. D.L. n. 342/99 (di modifica dell'art. 120 TU Bancario, che ha stabilito che le clausole anatocistiche, previste nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del CICR di cui al II comma dell'art. 120, sono valide ed efficaci fino a tale data), disposizione che è stata espunta dall'ordinamento in forza della sentenza n° 425/2000 della Corte Costituzionale.

Il Giudice delle leggi ha dichiarato l'art. 25 III comma illegittimo "nella parte in cui stabilisce che le clausole riguardanti la produzione di interessi su interessi maturati, contenuti nei contratti stipulati anteriormente alla delibera del CICR, relativa alle modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, siano valide ed efficaci fino a tale data e che, dopo di essa, debbono essere adeguate - a pena di inefficacia da farsi valere solo dal cliente - al disposto della menzionata delibera, con le modalità ed i tempi ivi previsti".

Sul punto va precisato che lo stesso intervento del legislatore, finalizzato a 'regolarizzare' i suindicati rapporti quanto al meccanismo della capitalizzazione, ha avuto come dato di partenza la chiara consapevolezza invalidità di detta clausola ante delibera CICR.

Invero l'art. 120 TU Bancario, come modificato dall'art. 25 D.L.gvo 342/99, ha attribuito al CICR il potere di stabilire le modalità ed i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria.

Con l'emanazione della relativa deliberazione (in data 9.2.00, pubblicata nella G.U. 22 febbraio 2000), deve oggi ritenersi certa la legittimità della capitalizzazione degli interessi pattuita mediante apposite clausole contenute nei contratti bancari.

Quindi, la disciplina introdotta dal CICR vale per: - i contratti bancari stipulati dopo la data di entrata in vigore della delibera del CICR 9/2/00; - contratti stipulati prima dell'entrata in vigore della delibera, ma con l'adeguamento con effetto dal 1° luglio 2000: l'art. 7 della delibera CICR stabilisce che le condizioni pattuite devono essere adeguate alle disposizioni contenute nella delibera, come detto, entro il 30/6/00.

E' rimasto, quindi, il problema della sorte dei contratti stipulati prima della delibera CICR e per il periodo fino al 30 giugno 2000, problema questo che riguarda i contratti di conto corrente stipulati dai consumatori in relazione ai quali l'Adiconsum ha promosso l'odierno contenzioso.

Sulla capitalizzazione degli interessi a debito, in precedenza, l'orientamento consolidato della Suprema Corte, fin dalla sentenza 6631/81, era nel senso che "....nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare ed avere, l'anatocismo trova generale applicazione in quanto sia le banche e sia i clienti chiedono e riconoscono come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull'originario importo versato ma anche sugli interessi da questo prodotti e ciò a prescindere dai requisiti richiesti dall'art. 1283 c.c".

Fino al 1999, in definitiva, il quadro normativo di riferimento era rappresentato dall'art. 1283 c.c.; tale norma, di carattere imperativo e di natura eccezionale, consente l'anatocismo solo in presenza di determinate condizioni: - deve trattarsi di interessi scaduti da almeno sei mesi, - occorre la proposizione di una domanda giudiziale o la stipulazione di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi.

Indi, la Cassazione dal '99 (v. sentenza sopra citata), con impostazione che ha continuato a muoversi esclusivamente nel solco della disposto di cui all'art.

1283 c.c., si è soffermata sulla natura della prassi in virtù della quale nei contratti di conto corrente bancario era inserita la clausola della capitalizzazione trimestrale, sostenendo che tale prassi, tale 'consuetudine', non è connotata dai caratteri idonei a far configurare un uso normativo - come aveva detto la precedente giurisprudenza - rimanendo essa confinata nei più ristretti limiti dell'uso negoziale, non suscettibile di assumere rilievo nell'ottica del citato art. 1283.

Ancora, ha precisato che l'esistenza di una vera e propria consuetudine legittimante la prassi della capitalizzazione trimestrale non è mai stata accertata dalla commissione speciale permanente presso il ministero dell'industria, ai sensi del d.leg.c.p.s, n. 152 del 1947, e che gli accertamenti - da parte di alcune camere di commercio provinciali - di usi locali conformi alle norme bancarie uniformi predisposte dall'ABI sono tutti successivi al 1952, sicché, avendo preso effetto le n.b.u. proprio dal 1.1.1952, deve escludersi che queste attestino l'esistenza di usi locali preesistenti, e deve, piuttosto, presumersi che l'accertamento dell'uso locale sia null'altro che il rilievo di prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI: prassi cui non può riconoscersi efficacia di fonte di diritto obiettivo se non altro per l'evidente difetto dell'elemento soggettivo dell'opinio iuris ac necessitatis, giacché dalla comune esperienza emerge che l'inserimento delle clausole di capitalizzazione trimestrale è acconsentito da parte dei clienti non in quanto tali clausole siano ritenute conformi a norme già esistenti, ma solo in quanto sono comprese nei moduli predisposti dalle banche e non suscettibili di negoziazione individuale. Inoltre, ha ritenuto che l'art. 1283 c.c. avrebbe carattere imperativo, e che le norme che dettano una disciplina diversa - si tratta delle norme in materia di conto corrente ordinario che consentono l'anatocismo senza i limiti del 1283 c.c. - non possono applicarsi al conto corrente bancario, stante la specialità della disciplina che lo caratterizza.

Tale nuovo arresto del Supremo Collegio è stato, poi, costantemente, chiaramente ed univocamente confermato, dalle successive sentenze nn.

12507/1999, 6263/2001, 1281/2002, 4490/2002, 4498/2002, 8442/2002, 17338/2002, 2593/2003, 12222/2003, 13739/2003, fino alla recente Cassazione SS.UU. Civili 7 ottobre - 4 novembre 2004 n° 21095.

Quest'ultima pronuncia, in particolare, si è soffermata sulla "insuperabile valenza retroattiva dell'accertamento di nullità delle clausole anatocistiche", di cui si è mostrato subito ben consapevole anche il legislatore il quale ha dettato, nel comma 3 dell'art. 25 del già citato d.lgs. 342/1999, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo art. 25.

Norma, come detto, poi espunta dall'ordinamento, perché dichiarata incostituzionale, nella parte relativa alla cd. "sanatoria del pregresso", (ma) che ha confermato la necessità della capitalizzazione paritetica degli interessi tra cliente e Istituto di credito, introducendo (cfr. nuovo testo dell'art. 120 T.U.

bancario) il criterio generale secondo il quale nelle operazioni in conto corrente deve essere assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio dagli interessi sia debitori sia creditori, con l'eliminazione di quella dissimmetria nella produzione degli interessi anatocistici, la cui ingiustizia ha palesemente ispirato il più recente indirizzo della Cassazione.

Con la pronunzia a Sezioni Unite citata, la Suprema Corte ha ricordato che "dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all'inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l'opinio juris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente".

Pertanto, esclusa l'esistenza di un uso normativo bancario, la clausola di anatocismo trimestrale previsto dalle condizioni di apertura di credito in conto corrente di che trattasi si manifesta in aperto contrasto con le prescrizioni imperative dell'art. 1283 c.c.

Orbene la valutazione della vessatorietà della detta clausola nonché della antigiuridicità della condotta del Banca *** in ordine alla applicazione della medesima non può prescindere dal superiore quadro.

Tutti gli interventi normativi e le recenti pronunzie giurisprudenziali del Supremo Collegio (sotto questo profilo non bisogna trascurare la funzione nomofilattica della Cassazione, specie in relazione alle pronunzie a Sezioni Unite) degli ultimi sette/otto anni muovono da un dato certo: la illiceità di una capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito operata in via unilaterale dalla banca in senso a sé favorevole.

Non può, del resto, negarsi che trattasi di clausola, espressione del prepotere contrattuale delle banche, la quale determina un forte squilibrio a danno del contraente debole, quale è tipicamente il cliente privato della banca costretto ad aderire, in difetto di reali alternative, alle condizioni economiche unilateralmente predisposte ed applicate da tutti gli istituti del credito. Come è stato osservato la capitalizzazione trimestrale, applicata dalla banca a senso unico, fa si che il finanziamento sia gravato, in aggiunta al dichiarato corrispettivo del servizio (e cioè gli interessi al tasso convenzionalmente pattuito), di un ulteriore costo a fronte del quale non si prevede alcuna contropartita, costo che, come si evince dal tenore della citata clausola grava sul cliente-consumatore anche in ipotesi di saldi solo "saltuariamente" debitori (previsione quest'ultima certamente assai pregiudizievole ed insidiosa per il cliente).

Mentre rientra nella fisiologia del rapporto contrattuale di conto corrente bancario la discrepanza fra tassi attivi e passivi sicché certamente ciò non implicata alcun profilo di vessatorietà, diversa cosa e la imposizione da parte della banca di un meccanismo contrattuale con cui si autoattribuisce (indiscriminatamente nei rapporti con tutti i clienti) una posizione di certo vantaggio che non trova corrispondenza, in quanto tale, in alcuna specifica controprestazione.

Lo 'sbilanciamento' che per tale via viene a concretizzarsi lungi dal contemperare gli interessi della parti, rappresenta una chiara esplicazione del potere 'normativo' del soggetto 'forte' il quale viene ad imporre alla controparte, in modo tutt'altro che chiaro un costo aggiuntivo al servizio reso.

La vessatorietà della detta clausola, quanto allo squilibrio, appare del resto confermata dalla stessa previsione contenuta nell'art. 120 del T.U. Bancario e Con la pronunzia a Sezioni Unite citata, la Suprema Corte ha ricordato che "dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all'inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l'opinio juris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente".

Pertanto, esclusa l'esistenza di un uso normativo bancario, la clausola di anatocismo trimestrale previsto dalle condizioni di apertura di credito in conto corrente di che trattasi si manifesta in aperto contrasto con le prescrizioni imperative dell'art. 1283 c.c.

Orbene la valutazione della vessatorietà della detta clausola nonché della antigiuridicità della condotta del Banca *** in ordine alla applicazione della medesima non può prescindere dal superiore quadro.

Tutti gli interventi normativi e le recenti pronunzie giurisprudenziali del Supremo Collegio (sotto questo profilo non bisogna trascurare la funzione nomofilattica della Cassazione, specie in relazione alle pronunzie a Sezioni Unite) degli ultimi sette/otto anni muovono da un dato certo: la illiceità di una capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito operata in via unilaterale dalla banca in senso a sé favorevole.

Non può, del resto, negarsi che trattasi di clausola, espressione del prepotere contrattuale delle banche, la quale determina un forte squilibrio a danno del contraente debole, quale è tipicamente il cliente privato della banca costretto ad aderire, in difetto di reali alternative, alle condizioni economiche unilateralmente predisposte ed applicate da tutti gli istituti del credito. Come è stato osservato la capitalizzazione trimestrale, applicata dalla banca a senso unico, fa si che il finanziamento sia gravato, in aggiunta al dichiarato corrispettivo del servizio (e cioè gli interessi al tasso convenzionalmente pattuito), di un ulteriore costo a fronte del quale non si prevede alcuna contropartita, costo che, come si evince dal tenore della citata clausola grava sul cliente-consumatore anche in ipotesi di saldi solo "saltuariamente" debitori (previsione quest'ultima certamente assai pregiudizievole ed insidiosa per il cliente).

Mentre rientra nella fisiologia del rapporto contrattuale di conto corrente bancario la discrepanza fra tassi attivi e passivi sicché certamente ciò non implicata alcun profilo di vessatorietà, diversa cosa e la imposizione da parte della banca di un meccanismo contrattuale con cui si autoattribuisce (indiscriminatamente nei rapporti con tutti i clienti) una posizione di certo vantaggio che non trova corrispondenza, in quanto tale, in alcuna specifica controprestazione.

Lo 'sbilanciamento' che per tale via viene a concretizzarsi lungi dal contemperare gli interessi della parti, rappresenta una chiara esplicazione del potere 'normativo' del soggetto 'forte' il quale viene ad imporre alla controparte, in modo tutt'altro che chiaro un costo aggiuntivo al servizio reso.

La vessatorietà della detta clausola, quanto allo squilibrio, appare del resto confermata dalla stessa previsione contenuta nell'art. 120 del T.U. Bancario e risarcimento del danno collettiva, come confermato dalla circostanza che la stessa è stata solamente 'ipotizzata' nell'ambito di disegni dei legge di modifica.

A tal proposito va, in particolare, segnalato il d.d.l. 3058/S/XIV, in forza del quale stato proposto di aggiungere, dopo il comma 6 dell'art. 3 L. 30 luglio 1998, n. 281, il seguente: "6 bis. Le associazioni dei consumatori e degli utenti, di cui al comma 1, le associazioni dei professionisti e le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura possono altresì richiedere al tribunale del luogo ove ha la residenza o la sede il convenuto la condanna al risarcimento dei danni e la restituzione di somme dovute direttamente ai singoli consumatori o utenti interessati, in conseguenza di atti illeciti plurioffensivi commessi nell'ambito di rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità previste dall'articolo 1342 del codice civile, ivi compresi quelli in materia di credito al consumo, rapporti bancari e assicurativi, strumenti finanziari, servizi di investimento e gestione collettiva del risparmio, sempre che ledano i diritti di una pluralità di consumatori o di utenti. La legittimazione di cui al periodo precedente è esclusa nei settori in cui siano previste procedure di conciliazione o arbitrali per la risoluzione delle medesime controversie innanzi ad autorità amministrative indipendenti".

Conseguentemente deve essere respinta la domanda attorea diretta alla Condanna della banca convenuta alla restituzione ai singoli clienti consumatori delle somme indebitamente percepite in virtù della applicazione della menzionata clausola.

L'Adiconsum ha, poi, affermato la illiceità della condotta della banca, asseritamente assai lesiva dei diritti dei consumatori, rifiutatasi di consegnare la documentazione in suo possesso relativa ai conti correnti (e segnatamente agli estratti conto) antecedenti i dieci anni dalla richiesta.

Osserva il Tribunale che appare privo di pregio l'operato richiamo alle norme di cui al D.L.vo 30 Giugno 2003, n. 196 (c.d. Codice della Privacy), ove si evidenzi che, nella fattispecie in esame, trova applicazione la normativa speciale fissata dall'art. 119 del T.U. n. 385/1993 il quale prevede, al punto quattro, il diritto del cliente ad ottenere "copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni nonché il principio generale posto dall'art. 2220 c.c., in tema di obbligo della tenuta delle scritture contabili [per dieci anni] da parte dell'imprenditore, disposizioni correlate al generale termine di prescrizione decennale ordinaria.

In difetto di alcuna deroga contenuta nella citata normativa sulla privacy e stante il diritto dell'imprenditore bancario a non conservare la documentazione contabile ultradecennale nonché l'obbligo dello stesso - previsto dalla specifica disciplina in materia - di consegnare gli estratti conto relativi all'ultimo decennio deve escludersi che la condotta della banca convenuta, lamentata dall'Adiconsum, possa ritenersi illegittima.

Sarebbe del resto contrario a buona fede imporre alla banca - la quale, peraltro, provvede all'invio periodico degli estratti conto che il cliente è 'tenuto' a conservare - di preservare, in modo integrale e completo, oltre il decennio tutta la documentazione afferente i singoli rapporti di conto corrente con i clienti-consumatori atteso che si finirebbe per obbligare la banca a conservare potenzialmente 'all’infinito' una massa 'indeterminata' di dati, costringendo la stessa ad una attività dispendiosa quanto inutile anche perché contraria ai diritti/doveri sanciti dalle dette norme.

Nell'ambito del rapporto contrattuale, ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio (vedi Cass. 3775/1994), interesse della banca che sarebbe certamente pregiudicato dalla imposizione, indiscriminata, di un obbligo di mantenere dati in proprio possesso senza alcun limite temporale ed, anzi, oltre un limite fissato ex lege.

Conseguentemente deve escludersi che una simile condotta della banca, vale a dire il rifiuto della stessa di conservare e consegnare la documentazione contabile oltre il decennio dalla richiesta, possa essere qualificata come antigiuridica e vessatoria.

In accoglimento della specifica istanza avanzata dall'Adiconsum ai sensi dall'art. 1469 sexies comma terzo cod.civ. nonché dall'art. 3 lett. a) l. 30 Luglio 1998 n. 281, al fine di meglio assicurare una tutela dei diritti dei consumatori pregiudicati dalla applicazione della detta clausola vessatoria da parte del Banca *** attraverso una ampia diffusione della odierna decisione, deve essere disposta la pubblicazione di un breve estratto della presente sentenza (contenente la indicazione degli estremi della controversia, dell'organo giudicante, delle parti e del dispositivo) per una sola volta sui quotidiani "Il Corriere della Sera" ed "Il Giornale di ***" a cura e spese della banca convenuta.

Tale pubblicazione appare sufficiente a garantire i diritti dei consumatori, dovendosi, conseguentemente, rigettare la richiesta attorea finalizzata ad ordinare alla convenuta di inviare ai propri clienti consumatori una missiva contente indicazioni esplicative in ordine alle vessatorietà della richiamata clausola ed alla illiceità dei propri comportamenti nonché la assai generica richiesta diretta ad "adottare ogni altra misura idonea a correggere od eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate".

Va, infine, disposto, ai sensi dell'art. 3 comma 5 bis l. 30 Luglio 1998 n. 281, in ipotesi di inadempimento degli obblighi stabiliti nella presente sentenza - e, segnatamente, nel caso in cui il Banca *** continuasse a respingere (espressamente per iscritto ovvero a seguito di inerzia protrattasi oltre il termine di gg. 60 dalla ricezione della richiesta scritta) le istanze avanzate da titolari (o ex titolari) di rapporto di conto corrente (consumatori) finalizzate al ricalcolo della esposizione debitoria previa depurazione della capitalizzazione trimestrale al 30.6.2000 ovvero quelle dirette alla ripetizione di somme corrisposte in eccedenza in virtù della applicata capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito sino a detta data, esclusivamente in ragione della piena validità ed efficacia della menzionata clausola e qualora non abbia alcuna [diversa] "eccezione", inerente il singolo rapporto di conto corrente bancario, opponibile al cliente-consumatore, decorsi centoventi giorni dalla pubblicazione della presente sentenza, il pagamento da parte del Banca *** di una somma pari ad € 516,00 per ogni giorno di ritardo, da versare "all'entrata del bilancio dello Stato".

Tenuto conto dell'esito complessivo della lite e della natura delle questioni trattate sussistono giusti motivi per compensare per 1/3 le spese di lite, mentre la restante quota dei 2/3 - liquidata in euro 4.150,61 di cui euro 234,61 per spese vive ed euro 666,00 per diritti, oltre iva e cpa e rimborso per spese generali ai sensi della vigente TF - va posta a carico del Banca *** prevalentemente soccombente.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunziando, disattesa ogni altra domanda ed eccezione, così provvede: a) dichiara la vessatorietà della clausola con la quale il Banca *** applica, ai rapporti di conto corrente bancario intercorrenti con i clienticonsumatori, la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito, e ciò sino al 30.6.2000;

b) ordina al Banca *** di astenersi dal respingere le istanze avanzate da titolari di rapporto di conto corrente (consumatori) finalizzate al ricalcolo della esposizione debitoria previa depurazione della capitalizzazione trimestrale al 30.6.2000 ovvero quelle dirette alla ripetizione di somme corrisposte in eccedenza in virtù della applicata capitalizzazione trimestrale a debito sino a detta data, esclusivamente in ragione della piena validità ed efficacia della menzionata clausola e qualora non abbia alcuna [diversa] eccezione, inerente il singolo rapporto di conto corrente bancario, opponibile al clienteconsumatore;

c) dispone la pubblicazione di un breve estratto della presente sentenza (contenente la indicazione degli estremi della controversia, dell'organo giudicante, delle parti e del dispositivo) per una sola volta sui quotidiani "Il Corriere della Sera" ed "Il Giornale di ***" a cura e spese della banca convenuta;

d) dispone, ai sensi dell'art. 3 comma 5 bis l. 30 Luglio 1998 n. 281, in ipotesi di inadempimento degli obblighi stabiliti nella presente sentenza, come precisati nella parte motiva, decorsi centoventi giorni dalla pubblicazione della stessa, il pagamento da parte del Banca *** di una somma pari ad € 516,00 per ogni giorno di ritardo, da versare "all'entrata del bilancio dello Stato";

e) dichiara compensate per 1/3 le spese di lite e pone la restante quota dei 2/3 - liquidata in euro 4.150,61 oltre iva e cpa e rimborso per spese generali ai sensi della vigente TF a carico del Banca ***.