Diritto Bancario e Finanziario
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22805 - pubb. 11/01/2019
Cessione in blocco e interpretazione degli effetti in relazione a singoli elementi
Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 07 Agosto 2004, n. 15317. Pres. Sciarelli. Est. De Luca.
Cessione di tutte le attività e passività della banca posta in liquidazione coatta amministrativa – Cessione di singoli elementi – Ammissibilità
La cessione di tutte le attività e passività della banca posta in liquidazione coatta amministrativa non comporta di per sé cessione dell'intera azienda, ben potendo gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ancorché ceduti in blocco ad un unico soggetto che acquista le attività e si accolla le passività), essere considerati in senso atomistico, in quanto riferibili ad un organismo ormai non più funzionante, con la conseguenza - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine la sentenza n. 9174 del 1997) - che, in presenza di un atto di cessione delle attività e delle passività di una banca in liquidazione coatta amministrativa, spetta al giudice di merito verificare in concreto, in base all'interpretazione della volontà negoziale desumibile dalle clausole contrattuali e da ogni altra circostanza di fatto (secondo i criteri dettati dagli art. 1362 ss. c.c.), se sia stata posta in essere la cessione dell'azienda, oggetto dell'attività produttiva dell'impresa di credito posta in liquidazione coatta amministrativa, oppure se sia stata attuata una semplice liquidazione finale degli elementi patrimoniali senza aIcun legame funzionale tra i medesimi. (massima ufficiale)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill. mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Guglielmo SCIARELLI - Presidente -
Dott. Michele DE LUCA - Rel. Consigliere -
Dott. Luciano VIGOLO - Consigliere -
Dott. Giovanni MAZZARELLA - Consigliere -
Dott. Attilio CELENTANO - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
Con la sentenza ora denunciata, la Corte d'appello di Catania confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede in data 24 novembre 1999, che aveva rigettato le domande proposte da A.C., dipendente della Sicilcassa S.p.a., contro Banco di Sicilia - Divisione Sicilcassa (ora Banco di Sicilia S.p.a., in seguito a fusione per incorporazione), cessionaria di attività e passività della stessa Sicilcassa S.p.a. (ai sensi dell'art. 90 decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385) con atto del 6 settembre 1997 - per ottenere il riconoscimento (quantomeno parziale) del periodo di sospensione cautelare, a seguito di provvedimento giudiziario restrittivo della libertà personale (ai sensi dell'art. 112 CCNL di settore), nell'anzianità di servizio (di venticinque anni) richiesta per l'accesso al pensionamento anticipato (ai sensi dell'accordo 30 settembre 1996 tra Sicilcassa S.p.a. ed organizzazioni sindacali), nonché la corresponsione di emolumenti (mensilità aggiuntive ed aumenti contrattuali, quantomeno in ragione della metà), maturati nello stesso periodo e prima della cessione (dal gennaio 1995 al maggio 1997), coi relativi accessori - essenzialmente sulla base dei rilievi seguenti;
- "la fonte collettiva é chiara nel ricollegare al provvedimento di sospensione (e, cioé, ad un atto che determina la quiescenza dei reciproci obblighi contrattuali) la interruzione della anzianità di servizio e nel condizionare la permanenza di tale evento agli esiti del procedimento penale e alle connesse valutazioni del datore di lavoro";
- "il cessionario risponde comunque delle sole passività risultanti dallo stato passivo" (ai sensi del comma 2 dell'articolo 90 decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385).
Avverso la sentenza d'appello, A.C. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
L'intimata Banco di Sicilia S.p.a. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo - denunciando "violazione e falsa applicazione dell'articolo 112 CCNL del personale degli istituti di credito", nonché vizio di motivazione - A.C. censura la sentenza impugnata - per avere negato la computabilità del periodo di sospensione cautelare (di cui all'articolo 112 CCNL del personale degli istituti di credito, cit.) nella anzianità di servizio (di venticinque anni) richiesta per l'accesso al pensionamento anticipato (ai sensi dell'accordo 30 settembre 1996 tra Sicilcassa S.p.a. ed organizzazioni sindacali) - sebbene, da un lato, l'assegno per lo stesso periodo di sospensione cautelare sia erogato direttamente al dipendente, sia commisurato alla "normale retribuzione" (in ragione del 50%), sia soggetto a contribuzione previdenziale ed al regime fiscale, sia imputabile a retribuzione in caso di reintegra e va restituito in caso di condanna e, dall'altro, lo stesso periodo di sospensione cautelare é conteggiato ai fini pensionistici, nel pubblico impiego, é retribuito integralmente secondo altro contratto collettivo (CCNL Assicredito, applicato dal Banco di Sicilia all'attuale ricorrente), con assoggettamento della retribuzione ai contributi previdenziali, la negazione del prepensionamento determinerebbe un danno insanabile, anche in presenza di assoluzione piena, "la destituzione in seguito a condanna penale non é conseguenza ineludibile e automatica nell'articolo 112 CCNL", l'anzianità necessaria per il prepensionamento può essere conteggiata "a qualsiasi titolo" (a norma dell'accordo 30 settembre 1996 tra Sicilcassa S.p.a. ed organizzazioni sindacali, cit.) e, nella specie, si tratta di "un trasferimento d'azienda abilmente realizzato in modo da evitare le dannose conseguenze che derivano dall'articolo 2112 c.c. su i rapporti di lavoro e su altre passività".
Il primo motivo di ricorso non é fondato.
1.2. Invero i contratti collettivi di diritto comune non recano norme di diritto - la cui violazione sia deducibile in sede di legittimità (ai sensi dell'art. 360, n.3, c.p.c.) - ma clausole contrattuali (vedi, per tutte, Cass. n. 13309, 9899/2003, 10914/2000,11141/91).
Coerentemente, l'interpretazione degli stessi contratti é accertamento di fatto riservato al giudice del merito - secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 12309, 12160, 12152, 12076, 11883, 11051, 9899/2003, 16802, 16384, 16136, 15355, 14593, 14311, 14119, 13969, 13697, 12573, 11619, 11123, 9764, 8839, 8715, 7451, 7085, 5368, 5011, 3089, 3000, 1366, 975, 237, 124, 18/2002, 14487, 14349, 14099,14005, 13182, 11539, 11347, 3906/2001) - e, come tale, può essere denunciata, in sede di legittimità, soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (art. 1362 ss. cc., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.) oppure per vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.), con l'onere per il ricorrente, tuttavia, di indicare specificamente il punto ed il modo in cui l'interpretazione si discosti dai canoni di ermeneutica o la motivazione relativa risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, non potendosi, invece limitarsi a contrapporre - inammissibilmente - interpretazioni o argomentazioni alternative - o, comunque, diverse - rispetto a quelle proposte dal giudice di merito ed investite dal sindacato di legittimità, esclusivamente, sotto i profili prospettati.
I canoni legali di ermeneutica contrattuale (art.1362 - 1371 c.c.), poi, sono governati da un principio di gerarchia - desumibile dal sistema delle stesse regole in forza del quale - secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 9899, 9163/2003, 4680/2002, 9636/2001, 4671/2000, 13351, 8584/99, 4815, 4811, 1940/98, 5715/97, 5893, 2372/96, 4563/95, 3963/93) - i canoni strettamente interpretativi (art. 1362 - 1365 c.c.) prevalgono su quelli interpretativi-integrativi (art. 1366-1371 c.c.) - quale va considerato anche il principio dell'interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.), sebbene questo rappresenti un punto di sutura tra i due gruppi di canoni - e ne escludono la concreta operatività, quando l'applicazione degli stessi canoni strettamente interpretativi risulti, da sola, sufficiente per rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti.
Nell'ambito dei canoni strettamente interpretativi (art. 1362 - 1365 c.c., cit.), poi, risulta prioritario il canone fondato sul significato letterale delle parole di cui all'art. 1362,1° comma c.c.), con la conseguenza che - quando quest'ultimo canone risulti sufficiente - l'operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente, quanto definitivamente, conclusa.
Solo all'esito della corretta applicazione dei canoni strettamente interpretativi (art. 1362 - 1365, cit.) - e di quello letterale, che ne risulta prioritario (di cui all'art. 1362, 1° comma, c.c.) - compete, poi, al giudice di merito ogni opzione ermeneutica, nonché l'accertamento circa la (eventuale) insufficienza degli stessi canoni - e la conseguente necessità di ricorrere, in via sussidiaria, agli altri (di cui agli art. 1362, 2° comma - 1365 e, gradatamente, 1366 - 1371 c.c., cit.) - per identificare, nel caso concreto, la comune intenzione delle parti.
1.3. Peraltro la denuncia di un vizio di motivazione in fatto - (compresa quella) che sorregge l'interpretazione di un contratto collettivo di diritto comune - nella sentenza, impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c.), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione delle fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo l'orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e n. 16213, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001, 14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, né, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 n. 5 c.p.c.) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito a una determinata soluzione della questione esaminata; invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384, 2° comma, c.p.c.) né, quindi, di scegliere la motivazione più convincente - tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente - ma deve limitarsi a verificare se - motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto - siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente - vizi che, per quanto si é detto, siano deducibili in sede di legittimità.
Lungi dal denunciare vizi deducibili, per quanto si é detto, in sede di legittimità - nella interpretazione della disciplina collettiva in materia e nella motiv azione che la sorregge - il ricorrente sembra proporne - motivatamente, quanto inammissibilmente - una interpretazione diversa.
A prescindere dalle superiori considerazioni e conclusioni - peraltro assorbenti - interpretazione della disciplina collettiva, proposta dalla sentenza impugnata, e motivazione che la sorregge - sinteticamente riferite in narrativa - non presentano, comunque, alcuno dei vizi, che - per quanto si é detto - sono deducibili in sede di legittimità.
Infatti la sentenza impugnata - come é stato ricordato in narrativa - riposa sul rilievo che "la fonte collettiva é chiara nel ricollegare al provvedimento di sospensione (e, cioé, ad un atto che determina la quiescenza dei reciproci obblighi contrattuali) la interruzione della anzianità di servizio e nel condizionare la permanenza di tale evento agli esiti del procedimento penale e alle connesse valutazioni del datore di lavoro" (sulla stessa sospensione cautelare, vedi Cass. n. 2517 del 1996).
Tanto basta per rigettare il primo motivo di ricorso.
Parimenti infondato, tuttavia, é il secondo motivo.
2.1. Con il secondo motivo - denunciando "violazione e falsa applicazione dell'articolo 112 CCNL del personale degli istituti di credito", degli articoli "6, comma 1° e 2. comma 5°, accordo di cessione del 6/9/97" e di disposizioni di legge (art. 1344, 1414, 2112 c.c., 90, comma 2, decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, 47, comma 5, legge n. 428/90, 1 decreto legge n. 292/97 , 75 RDL n. 375/36), nonché vizio di motivazione - il ricorrente censura la sentenza impugnata - per avergli negato il diritto alla corresponsione di emolumenti (mensilità aggiuntive ed aumenti contrattuali, sia pur in ragione della metà), maturati nello stesso periodo di sospensione cautelare e prima della cessione (dal gennaio 1995 al maggio 1997), coi relativi accessori - sebbene non risulti controversa la spettanza di quegli emolumenti e, peraltro, sia configurabile, nella specie, un trasferimento d'azienda (ai sensi e per gli effetti dell'art. 2112 c.c.) e, di conseguenza, non sia applicabile la disposizione (art. 90, comma 2, decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385,cit.) - che limita la responsabilità del cessionario alle "sole passività risultanti dallo stato passivo" - ai crediti di lavoro del dipendente del cedente che, come nella specie, passino alle dipendenze del cessionario.
Anche il secondo motivo di ricorso é infondato.
2.2. Invero la disposizione (articolo 90 - intitolato Liquidazione dell'attivo - del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) sancisce testualmente:
"1.I commissari liquidatori hanno tutti i poteri occorrenti per realizzare l'attivo.
2. I commissari, con il parere favorevole del comitato di sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d'Italia, possono cedere le attività e le passività, l'azienda, rami d'azienda nonché beni e rapporti giuridici individuabili in blocco. La cessione può avvenire in qualsiasi stadio della procedura, anche prima del deposito dello stato passivo; il cessionario risponde comunque delle sole passività risultanti dallo stato passivo. Si applicano le disposizioni dell'art. 58, commi 2, 3 e 4, anche quando il cessionario non sia una banca(......)".
Ne risulta, per quel che qui interessa, che la cessione di tutte le attività e passività della banca posta in liquidazione coatta amministrativa non comporta di per sé cessione dell'intera azienda, ben potendo gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ancorché ceduti in blocco ad un unico soggetto che acquista le attività e si accolla le passività), essere considerati in senso atomistico, in quanto riferibili ad un organismo ormai non più funzionante, con la conseguenza - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine la sentenza n. 9174 del 1997) - che, in presenza di un atto di cessione delle attività e delle passività di una banca in liquidazione coatta amministrativa, spetta al giudice di merito verificare in concreto, in base all'interpretazione della volontà negoziale desumibile dalle clausole contrattuali e da ogni altra circostanza di fatto (secondo i criteri dettati dagli art. 1362 ss. c.c.), se sia stata posta in essere la cessione dell'azienda, oggetto dell'attività produttiva dell'impresa di credito posta in liquidazione coatta amministrativa, oppure se sia stata attuata una semplice liquidazione finale degli elementi patrimoniali senza aIcun legame funzionale tra i medesimi.
Alla luce del principio di diritto enunciato, la sentenza impugnata - laddove accerta che, nella specie, é configurabile soltanto la cessione di tutte le attività e passività della banca (Sicilcassa S.p.a.) - non risulta investita dalla specifica denuncia di vizi - deducibili, in sede di legittimità - dello stesso accertamento di fatto e, segnatamente, della interpretazione, da parte del giudice di merito, del contratto di cessione, come di qualsiasi contratto (in tal senso, vedi, per tutte, Cass. n. 17248, 11193, 8411, 7548, 732/2003, 2074/2002, 12518/2001), al pari - per quanto si é detto - dei contratti collettivi di diritto comune.
Lungi dal denunciare vizi deducibili, appunto, in sede di legittimità - nell'accertamento di fatto prospettato e, segnatamente, nella interpretazione, da parte del giudice di merito, del contratto di cessione - il ricorrente, infatti, propone - motivatamente, quanto inammissibilmente - un diverso accertamento di fatto e, segnatamente una interpretazione dello stesso contratto parimenti diversa.
Coerente - con la disposizione nella soggetta materia (articolo 90 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, cit.) - risulta, quindi, la conclusione - alla quale la sentenza impugnata perviene, muovendo dall'accertamento di fatto prospettato - che "il cessionario risponde comunque delle sole passività risultanti dallo stato passivo".
Tanto basta per rigettare - come é stato anticipato - il secondo motivo di ricorso.
Parimenti infondato risulta, tuttavia, anche il terzo motivo.
3.1. Con il terzo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 90 e 91 c.p.c.) - il ricorrente censura, infatti, la sentenza impugnata per averlo condannato a rifondere le spese del giudizio d'appello.
Anche il terzo motivo di ricorso - come é stato anticipato - risulta infondato.
3.2. lnvero il sindacato di legittimità, in materia di spese giudiziali, trova ingresso - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 11763/2003, 14023, 4201/2002,12295/2001, 8532/2000) - nella sola ipotesi in cui il giudice di merito abbia violato il principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.), ponendo le spese a carico della parte risultata totalmente vittoriosa.
Ora Ia sentenza impugnata - che ha posto le spese processuali a carico dell'attuale ricorrente, in base, proprio, al principio della soccombenza (art. 91 c.p.c ) - si uniforma all'enunciato principio di diritto e non merita, quindi, le censure del ricorrente.
Pertanto anche il terzo motivo di ricorso - come é stato anticipato - deve essere rigettato.
4. Il ricorso, pertanto, deve essere integralmente rigettato.
Le spese del presente giudizio di cassazione seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in euro 28,00 oltre euro 2.000 (duemila) per onorario.
Così deciso in Roma, il 12 maggio 2004.
Depositata in cancelleria il 7 AGO. 2004