Diritto dei Mercati Finanziari
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1201 - pubb. 04/05/2008
Inibitoria ex art. 140 codice consumo e anatocismo
Tribunale Palermo, 20 Febbraio 2008. Pres., est. Di Pisa.
Azione inibitoria ex art. 140 codice del consumo – Associazioni dei consumatori – Ambito di applicazione e contenuto – Cessazione della condotta lesiva – Obbligo di astensione da comportamenti antigiuridici – Clausola di capitalizzazione degli interessi – Ricalcalo della esposizione debitoria previa depurazione della capitalizzazione trimestrale.
Sebbene l’art. 37 del codice del consumo faccia riferimento sia alle azioni promosse dalle associazioni dei consumatori sia a quelle promosse dalle associazioni dei professionisti e dalle camere di commercio, esso si applica soltanto alle azioni promosse da questi secondi soggetti, posto che i primi ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 140. Con la conseguenza, sul piano applicativo, che le azioni così promosse da tali soggetti saranno diverse sia per l’ambito soggettivo sia per quello oggettivo. Le associazioni dei consumatori (quali l’Adiconsum) sono legittimate ad agire a tutela dei diritti e degli interessi collettivi, solo in quanto iscritte nell’elenco di cui all’art 137 e secondo le modalità di cui all’art. 140 il quale, a differenza dell’art. 37, oltre all’azione inibitoria ed accanto alla pubblicazione del provvedimento, prevede l’adozione di misure correttive idonee ad eliminare e correggere gli effetti dannosi delle violazioni accertate. Pertanto, le c.d. azioni di interesse collettivo a contenuto inibitorio, di cui alle richiamate disposizioni, mirano, da un lato, a fare cessare le condotte illecite già in essere e dall’altro ad imporre all’autore della condotta lesiva degli interessi dei consumatori un obbligo di astensione per l’avvenire da comportamenti dei quali sia stata accertata l’antigiuridicità. (Nella specie, il tribunale ha ordinato alla banca convenuta di astenersi dal respingere le istanze avanzate da titolari di rapporto di conto corrente (consumatori) finalizzate al ricalcolo della esposizione debitoria previa depurazione della capitalizzazione trimestrale ovvero quelle dirette alla ripetizione di somme corrisposte in eccedenza in virtù della applicata capitalizzazione trimestrale a debito). (Franco Benassi) (riproduzione riservata)
Segnalazione dell'Avv. Alessandro Palmigiano
omissis
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato in data 20.6.2006 l’ Adiconsum Associazione difesa consumatori e ambiente ONLUS, in persona del suo segretario generale Paolino Landi (d’ora in poi, per brevità, “Adiconsum”) conveniva in giudizio dinanzi a questo Tribunale la Banca ** S.p.A. esponendo che la banca convenuta, sino alla data di entrata in vigore della delibera CICR del 9.2.2000, si era avvalsa, nell’ ambito dei rapporti di apertura di credito in conto corrente, di una clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi addebitati sui saldi risultati passivi, clausola da ritenere nulla e vessatoria nei contratti conclusi con i consumatori, come riconosciuto dai giudici di legittimità e, segnatamente, dalla pronunzia del Supremo Collegio a Sezioni Unite n. 21095 in data 4.11.2005.
Nell’evidenziare che l’istituto di credito convenuto aveva opposto il proprio rifiuto alle richieste, avanzate dai singoli consumatori, di restituzione delle somme percepite in virtù della applicazione della anzidetta clausola (nulla e vessatoria ex artt. 2 nonché 33 e segg. del Codice del Consumo) osservava che tale rifiuto integrava gli estremi di un comportamento lesivo degli interessi dei consumatori e degli utenti ai sensi del richiamato codice.
Tanto premesso chiedeva:
a) dichiarare la natura vessatoria ai sensi degli 33 e segg. cod. cons. nonché la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista operanti sino al 30 giugno 2000;
b) inibire alla banca convenuta l’ uso di tali clausole nei rapporti con i consumatori ;
c) dichiarare che il comportamento della banca, consistito nel rifiuto di dare corso alla restituzione delle somme percepite in ragione della menzionata clausola, costituiva violazione degli interessi dei consumatori ai sensi dell’ art. 140 codice citato;
d) adottare ogni misura idonea a correggere od eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate;
e) ordinarsi la pubblicazione del provvedimento, a spese della società convenuta, su alcuni quotidiani nazionali come previsto dagli artt. 37 e 140 leg.cit.;
f) disporre, ai sensi dell’ art. 140 cit. in ipotesi di inadempimento degli obblighi stabiliti nella emittenda sentenza, decorsi dieci giorni dalla pubblicazione della stessa, il pagamento da parte della Banca ** di una somma sino ad € 1.032,00 per ogni giorno di ritardo.
Si costituiva la Banca ** S.p.A. la quale rilevava, in primo luogo, la inammissibilità della richiesta di parte attrice atteso che le clausole in contestazione non erano più operanti da anni, perché sostituite da quelle adottate in conformità alla citata delibera CICR del 9.2.2000.
Eccepiva, poi, la inammissibilità della istanza volta alla declaratoria della illegittimità della utilizzazione di detta clausola nonchè del rifiuto opposto da essa convenuta di restituire le somme percepite sulla base di clausole anatocistiche vigenti anteriormente alla citata delibera, in quanto parte attrice mirava, in relazione ai fatti de quibus, ad una pronunzia “generale e generica” non prevista dalla legislazione vigente.
Precisava, in particolare, come la iniziativa di parte attrice mirava ad inibire alla società convenuta non la cessazione di un comportamento lesivo degli interessi dei consumatori, ma il suo inviolabile diritto di difesa, costituzionalmente garantito.
Deduceva, altresì, come doveva ritenersi del tutto inammissibile la richiesta finalizzata alla declaratoria di illegittimità ed inibizione del rifiuto che la società opponeva alle richieste di restituzione delle somme percepite a titolo di capitalizzazione degli interessi a debito atteso che il codice del consumo non consentiva pronunzie dichiarative e di mero accertamento.
Aggiungeva, infine, che l’ accoglimento della richiesta inibitoria formulata dalla banca sarebbe equivalsa ad una pronunzia di condanna (non prevista) a restituire, a semplice richiesta, le somme percepite dai clienti .
A seguito dello scambio di memorie di replica ex artt. 6 e 7 D.L.vo 17 Gennaio 2003, n.5, venivano depositate l’ istanza di fissazione dell’ udienza da parte dell’ Adiconsum nonchè memoria ex art. 10 D.L. citato da parte della convenuta.
Quindi il giudice relatore, con decreto in data 29.12.2006, rigettava le prove dedotte dall’ attrice, rimettendo le parti dinanzi al collegio.
All’ udienza collegiale del 26.10.2006, dopo la discussione orale, il Tribunale confermava il decreto del giudice relatore e poneva la causa in decisione, assegnando il termine di legge per il deposito della sentenza.
Motivi della decisione
Va premesso che questo Tribunale ritiene di dovere riconfermare i principi già espressi nella sentenza 29 Maggio 2006 (Adiconsum c/ Banco di Sicilia S.p.A.), pronunziata in analoga controversia.
Appare, quindi, opportuno effettuare alcune considerazioni sulla natura delle domande avanzate dall’ attrice al fine di una migliore comprensione delle eccezioni di parte convenuta.
Va osservato che l’Adiconsum, nel lamentare la illegittimità della condotta della Banca **, inerente l’utilizzo della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito nei rapporti di conto corrente stipulati con i consumatori, a suo dire pregiudizievole dei diritti di questi ultimi, ha avanzato le domande oggetto di causa, per come espressamente indicato in atto di citazione, sia ai sensi dell’ art. 37 che ai sensi dell’ art. 140 D.L.vo 6 Settembre 2005 n. 206, c.d. Codice del Consumo.
A tal proposito va chiarito che l’art. 37 rubricato “azione inibitoria” in materia di clausole vessatorie, statuisce al primo comma che: “le associazioni dei consumatori, di cui all’art. 137, le associazioni rappresentative dei professionisti e le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, possono convenire in giudizio il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzano, o che raccomandano l’utilizzo di condizioni generali di contratto e richiedere al giudice competente che inibisca l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusività ai sensi del presente titolo”.
L’ultimo comma prevede, poi, che “per quanto non previsto dal presente articolo, alle azioni inibitorie esercitate dalle associazioni dei consumatori di cui al comma 1 si applicano del disposizioni dell’art. 140”.
La norma in esame distingue quindi, al fine di individuare la loro legittimazione ad agire in giudizio, le associazioni dei consumatori dalle associazioni dei professionisti e dalle camere di commercio: per le prime, infatti, fa riferimento all’art. 137, mentre per le seconde, si riferisce genericamente al criterio della rappresentatività.
L’art. 137 individua, sulla base di rigidi criteri normativamente stabiliti, l’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti certamente rappresentative a livello nazionale e come tali legittimate ad agire ai sensi dell’art. 139 del Codice del Consumo e con le modalità di cui all’art. 140 del medesimo.
Orbene se si analizza l’ultimo comma dell’art 37, poiché esso stabilisce che all’azione delle associazioni dei consumatori si applicano le disposizioni dell’art. 140 per quanto non previsto dall’art. 37 medesimo (e poiché l’art. 140 ha un ambito più esteso dell’art. 37) appare evidente che l’azione delle associazioni dei consumatori in materia di clausole vessatorie (quale quella in esame) si svolgerà a norma dell’art. 140 e non a norma dell’art. 37.
Tant’è vero che esplicitamente il comma 10 dell’art. 140 stabilisce che “ per le associazioni di cui all’art. 139 l’azione inibitoria prevista dall’art. 37 in materia di clausole vessatorie nei contratti stipulati con i consumatori, si esercita ai sensi del presente articolo.”
In sostanza, quindi, sebbene l’art. 37 faccia riferimento sia alle azioni promosse dalle associazioni dei consumatori sia a quelle promosse dalle associazioni dei professionisti e dalle camere di commercio esso si applica soltanto alle azioni promosse da questi secondi soggetti, posto che i primi ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 140.
Con la conseguenza sul piano applicativo che le azioni così promosse da tali soggetti saranno diverse sia per l’ambito soggettivo sia per quello oggettivo.
Le associazioni dei consumatori (quali l’Adiconsum) sono legittimate ad agire a tutela dei diritti e degli interessi collettivi, solo in quanto iscritte nell’elenco di cui all’art 137 e secondo le modalità di cui all’art. 140 il quale, a differenza dell’art. 37, oltre all’azione inibitoria ed accanto alla pubblicazione del provvedimento, prevede l’adozione di misure correttive idonee ad eliminare e correggere gli effetti dannosi delle violazioni accertate.
Rileva, quindi, il Tribunale le c.d. azioni di interesse collettivo a contenuto inibitorio, di cui alle richiamate disposizioni, mirano, da un lato, a fare cessare le condotte illecite già in essere e dall’ altro ad imporre all’ autore della condotta lesiva degli interessi dei consumatori un obbligo di astensione per l’ avvenire da comportamenti dei quali sia stata accertata l’ antigiuridicità.
Al fine di comprendere la effettiva portata della tutela ‘innominata’ prevista dalla normativa dall’art. 140 richiamato deve, invero, muoversi dal contenuto dell’ art. 2 cod. cons. ove si fa riferimento alla inderogabile esigenza di forte tutela nell’ambito di una amplissima gamma di settori fondamentali per i cittadini: salute, sicurezza e qualità dei prodotti, pubblicità commerciale, correttezza, equità e trasparenza nei rapporti commerciali inerenti beni e servizi privati, erogazione dei servizi pubblici secondo standards di qualità ed efficienza.
E’ chiaro, quindi, l’intento della norma in esame di rafforzare strumenti di tutela collettiva per aumentare la protezione dei diritti dei consumatori ed assicurare esigenze di tutela destinate, altrimenti, a rimanere insoddisfatte oltre che impedire che una pluralità indefinita di pretese risarcitorie finisca per paralizzare il sistema giudiziario, con la eventualità, peraltro, di giudizi contrastanti (e ciò analogamente a quanto in precedenza statuito dall’ art. 3 della L. 30 Luglio 1998, n. 231, normativa confluita nel suddetto codice).
Fatte tali brevi considerazioni occorre esaminare la preliminare eccezione di inammissibililtà della domanda di inibitoria, sollevata dalla banca convenuta la quale assume, in primo luogo, che la clausola relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito non sarebbe ad oggi più operante in quanto sostituita da quella adottata in conformità alla citata delibera CICR del 9.2.2000 e, in particolare, che detta clausola non esiste più da tempo nei rapporti fra le parti sicchè non avrebbe alcun senso inibire l’ uso di una clausola non più utilizzata in alcun modo.
Ritiene il Tribunale di dovere ribadire sul punto le considerazioni già espresse nella richiamata sentenza 29 Maggio 2006.
Deve osservarsi, innanzitutto, che secondo quanto si desume dal tenore delle difese dell’ Adiconsum - e secondo quanto, peraltro, può ritenersi incontroverso (ciò anche alla luce del dettato dell’ art. 10 co.3 D.L.vo n.5/2003) - la questione relativa alla capitalizzazione trimestrale, ante delibera citata, attiene sia a rapporti di conto corrente già cessati sia a rapporti di conto corrente a tutt’oggi vigenti ed operanti.
Con riferimento a tali rapporti è innegabile che la sola modifica della clausola afferente la capitalizzazione periodica degli interessi a decorrere dall’ 1.7.2000 non ha determinato la cessazione del rapporto contrattuale e la creazione di un nuovo contratto, con la conseguenza che, in ipotesi di rapporti stipulati prima dell’entrata in vigore della citata delibera, non cessati alla data odierna, ci si trova in presenza di clausole ancora capaci di dispiegare effetti, inerenti rapporti di durata non esauriti .
Relativamente a detti contratti non può, invero, dubitarsi che laddove la banca convenuta provveda a calcolare il saldo, mantenendo fermo il computo di interessi a debito frutto della capitalizzazione trimestrale (sino a tutto il 30.6.2000) continua, di fatto, ad ‘applicare’ nel rapporto con il consumatore detta clausola ritenendola legittima, non rispondendo al vero l’ affermazione della convenuta secondo cui la stessa non sarebbe ‘utilizzata’ in alcun modo
Non può, invero, non convenirsi con quanti hanno sostenuto che è irrilevante, ai fini della verifica della vessatorietà e della applicazione dei rimedi di cui alla citate disposizioni normative, la circostanza che il professionista abbia modificato lo schema regolamentare uniforme allorquando si verifica, in concreto, “la pemanenza degli effetti degli schemi adottati in precedenza”.
Secondo quanto si desume chiaramente dal tenore della normativa sopra richiamata le censure all’ operato del professionista non riguardano unicamente il momento genetico della inserzione della clausola [dovendosi ritenere che l’ inserimento della clausola vessatoria è solamente, come detto, uno dei possibili comportamenti pregiudizievoli per i diritti dei consumatori], ma anche l’ effettivo ‘utilizzo’ delle condizioni, prescindendosi, quindi, dalle modificazioni sopravvenute.
La norma parla, infatti, in generale espressamente della possibilità di inibire la condotta volta ad “utilizzare” la clausola lesiva dei diritti dei consumatori
Nel caso di specie è indubitabile che la Banca **, nel negare (condotta che è pacificamente posta in essere dalla stessa) il ricalcolo del saldo del conto corrente espungendo la capitalizzazione trimestrale, continua ad avvalersi della detta clausola, sicchè un segmento del rapporto in essere fra le parti è assoggettato in concreto a tale previsione negoziale in quanto la banca, di fatto, effettua ancora – sia pure limitatamente ad una parte del rapporto – una unilaterale capitalizzazione degli interessi.
Non può, quindi, ragionevolmente affermarsi come sostenuto dalla banca convenuta che andrebbero tenuti distinti i profili relativi alla “vigenza” ed alla “applicazione” della clausola, non rinvenendosi alcuna distinzione in tale senso nella normativa citata.
Posto che sono rimasti invariati tutti gli altri elementi del contratto di conto corrente, il rapporto originario non è stato ‘chiuso’, sussiste un unico ‘saldo contabile’ [che scaturisce dal raffronto di ‘tutte’ le partite di ‘dare’ ed ‘avere’ maturate durante la ‘integrale’ vigenza dell’ intero rapporto], appare illogico parlare di un rapporto contrattuale che possa ritenersi “esaurito” [sia pure in parte].
In relazione a detti rapporti deve, pertanto, ritenersi pienamente legittima la richiesta dell’ Adiconsum finalizzata alla verifica della vessatorietà della clausola suddetta e, quindi, dell’ antigiuridicità della condotta della banca che continua a tenerne conto nel computo del saldo, trattandosi, quindi, di clausola che continua a dispiegare la propria piena efficacia operativa.
Rimane, pertanto, irrilevante la circostanza che la suddetta clausola non è più inserita nei “nuovi” moduli contrattuali distribuiti dalla banca convenuta alla clientela dei consumatori.
Osserva, peraltro, il Tribunale che anche con riferimento ai rapporti di conto corrente, stipulati prima dell’entrata in vigore della delibera e, ad oggi, estinti, posto che è comprovato (in quanto incontestato ai sensi del citato art.10) che la banca convenuta paralizza ogni richiesta restitutoria o, comunque, di ricalcolo del saldo al fine di procedere al pagamento della somma effettivamente dovuta del consumatore muovendo dal [solo] presupposto della piena validità ed efficacia della clausola de qua, appaiono ammissibili le domande oggi proposte.
Pur dovendosi ritenere che il diritto al risarcimento, sulla base della normativa ad oggi vigente, rimane un diritto individuale, imputabile a ciascuno dei consumatori danneggiati dalla condotta plurioffensiva dichiarata contra legem, la previsione di cui al Codice del Consumo circa il diritto dei consumatori alla garanzia della “correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi”, diritto tutelabile ad opera della associazioni dei consumatori che possono chiedere, ai sensi de citato art. 140, l’ inibizione di “comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori” nonché “l’ adozione di misure idonee a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate”, induce a ritenere che possa certamente procedersi in questa sede alla valutazione della liceità del comportamento sopra cennato posto in essere dalla banca convenuta.
Diversamente opinando si finirebbe, ad avviso di questo Tribunale, per vanificare la portata della suindicata legge nonché le finalità della stessa.
Una simile conclusione – e, quindi, l’esigenza di una lettura delle disposizioni de quibus in una ottica di ampia tutela dei diritti dei consumatori, con esclusione di ogni interpretazione restrittiva – appare del resto suffragata dall’ esigenza di applicare la richiamata normativa in armonia con la ratio ispiratrice della direttiva 98/27/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori).
Quest’ ultima, muovendo dal presupposto che i meccanismi esistenti sia a livello nazionale che a livello comunitario “non sempre consentono di porre termine tempestivamente alle violazioni che ledono gli interessi collettivi dei consumatori” e nella prospettiva di una ampia e piena tutela dei diritti di questi ultimi oggetto delle direttive ivi espressamente richiamate, ha stabilito che gli Stati membri adottino sistemi al fine di “ordinare con debita sollecitudine ….. la cessazione o l’interdizione di qualsiasi violazione”, quest’ultima intesa come “qualsiasi atto contrario alle disposizioni delle direttive riportate in allegato”.
Prima di passare all’ esame delle problematiche afferenti la natura (vessatoria o meno) della suddetta clausola - come detto ancora oggi applicata dalla banca - nonché la [dedotta] antigiuridictà della condotta della banca convenuta nei confronti dei propri clienti-consumatori, occorre soffermarsi sugli ulteriori profili di ‘inammissibilità’ rilevati dalla Banca **.
Assume la società convenuta che “l’ iniziativa giudiziaria avversaria si pone l’ ulteriore (immeritevole) obiettivo di ‘preconfezionare’ al di fuori del necessario ed indispensabile giudizio fra le parti concrete del rapporto bancario una pronunzia che, sub specie di generale ordine inibitorio e ripristinatorio di asserite situazioni illegittime, impedisca alla Banca esponente lo svolgimento delle sue più che legittime (e costituzionalmente garantite) facoltà e diritti di difesa, finendo per ordinare alla medesima banca di ‘accogliere’, al di fuori del contraddittorio giurisdizionale, le domande rivolte dalla sua clientela al rimborso di pretese somme pagate a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori”.
La convenuta ha, altresì, sottolineato come la normativa sopra richiamata non consentirebbe, in ogni caso, nè l’ adozione di pronunzie di mero accertamento né la possibilità di emettere statuizioni di condanna ad un comportamento positivo atteso che la tutela inibitoria pone capo ad un “non facere” (richiamando, in tale senso alcuni precedenti di giudici di merito).
Anche tali obiezioni, come già sottolineato nella citata pronunzia, non appaiono condivisibili.
Occorre sottolineare, invero, come la tutela inibitoria collettiva, per sua natura, laddove mira ad assicurare, come detto, in generale “correttezza, equità e trasparenza nei rapporti commerciali inerenti beni e servizi privati” implica una valutazione necessariamente riguardante i rapporti e, quindi, i diritti di una molteplicità di soggetti e ciò a prescindere da tutti i possibili specifici profili inerenti il singolo rapporto negoziale.
In quest’ottica appare fuorviante il richiamo operato dalla convenuta al “all’ inviolabile diritto di difesa” (art. 24 Cost.), atteso che ogni valutazione in ordine alla sussistenza di atti e comportamenti della banca convenuta lesivi dei diritti dei consumatori da effettuare nel presente giudizio instaurato ai sensi del richiamato art. 140, non preclude certamente alla banca di opporre, in futuro, ai clienti o ex clienti tutte le eccezioni inerenti i singoli rapporti di conto corrente al fine di paralizzare le relative istanze, secondo quanto appresso chiarito.
Non può del resto sottacersi che il professionista convenuto in giudizio dalla associazione dei consumatori al fine di inibire l’utilizzazione di una clausola ovvero vietare condotte antigiuridiche asseritamente lesive dei diritti dei consumatori ha sicuramente la possibilità di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa nel processo collettivo.
Pensare che gli sia lecito e che, anzi, gli sia costituzionalmente garantito di nuovamente tornare a difendere il proprio operato (sotto detti profili) in una molteplicità di giudizi promossi individualmente dai singoli consumatori appare davvero eccessivo sotto qualunque punto di vista (in relazione alle finalità delle azioni collettive) e soprattutto perché il principio di economia processuale ne uscirebbe indebitamente stravolto.
In ordine alla tipologia dei rimedi richiesti è evidente che le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni sono ‘atipiche ed innominate’ e nessun criterio certo è fornito dalla legge per la sicura individuazione del loro contenuto, garantendosi la possibilità al giudice di adottare una pronunzia avente il contenuto che più si attagli alla specifica situazione dedotta in giudizio.
Sulla scorta delle considerazioni sopra formulate, al fine di non vanificare la portata della normativa sopra richiamata e stante la prevista possibilità di adottare tutte “le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate”, ben può ammettersi la adottabilità di pronunzie dichiarative e di mero accertamento, dovendosi convenire con quanti hanno sostenuto che le misure idonee “sono tutte quelle misure in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei consumatori ed in grado di realizzare appieno il comando inibitorio, sia esso di contenuto negativo o positivo, a seconda delle esigenze concrete di tutela”.
La ratio della legge n. 281/98 cit. prima e del codice del consumo oggi è, del resto, quella di costituire un “passo avanti” nella disciplina dei consumatori e degli utenti.
Tale normativa mira ad aggiungere forme di tutela, ad ampliare la c.d. consumer protection, per cui sarebbe interpretazione contraria alla detta finalità quella che mira a limitare fortemente i possibili contenuti della inibitoria e non ammette pronunzie dichiarative (come sostenutosi nelle pronunzie di merito richiamate da parte convenuta).
In questa prospettiva non può, pervero, non ammettersi la possibilità di adottare misure implicanti l’ obbligo di eliminare gli effetti della condotta lesiva e, quindi, anche una prestazione di fare.
Sebbene il concetto stesso di inibitoria richiama un ordine di non fare vale a dire una condotta a contenuto negativo è innegabile che ogni qualvolta la violazione dei diritti dei consumatori si sostanzi in una comportamento omissivo l’ unica possibile forma di inibitoria è proprio quella consistente nella imposizione di un facere e del resto “da un punto di vista teorico anche l’ inibitoria positiva potrebbe sempre essere rovesciata in una inibitoria negativa. Il che è quanto dire che il giudice invece di ordinare un determinato comportamento atto a fare cessare l’ illecito potrebbe ordinare la cessazione dell’ illecito tout court. In altri termini, sempre in linea puramente teorica, si potrebbe affermare che tutte le inibitorie positive potrebbero risolversi in altrettante inibitorie negative”.
Una simile lettura della norma appare del resto giustificata anche in relazione ai principi fissati dalla giurisprudenza comunitaria in materia di tutela dei consumatori.
La Corte di Giustizia delle Comunità Europee (sentenza 26 Ottobre 2006, causa C-168/05; Mostaza Claro c. Centro Movil Milenium SL) ha avuto modo di sottolineare come “Secondo una costante giurisprudenza, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, spetta all’ ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato Membro stabilire le modalità procedurali per garantire la salvaguardia dei diritti di cui i soggetti godono ai sensi dell’ ordinamento comunitario in forza del principio dell’ autonomia processuale degli stati membri a condizione tuttavia che tali modalità … non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’ esercizio dei diritti conferiti dall’ ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)”.
E’ proprio nell’ ottica di garantire la piena efficacia ed operatività della tutela inibitoria apprestata dall’ ordinamento interno (e, quindi, la “effettività” della stessa) che si impone una interpretazione della norma ad ampio respiro e sganciata da parametri restrittivi ancorati ad una visione eccessivamente formalistica della detta disposizione che finirebbe per vanificare la portata fortemente innovativa della stessa rispetto alle generali e tradizionali categorie conosciute nell’ ambito del nostro sistema giuridico.
Come sottolineato dall’ Adiconsum la stessa Corte di Cassazione, in materia di tutela inibitoria ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori (ove si fa riferimento all’ ordine di “cessazione del comportamento illegittimo” e di “rimozione degli effetti” delle accertate violazioni dei diritti dei lavoratori), ha individuato in modo assai ampio la nozione di rimedi inibitori esperibili.
Il Supremo Collegio ha, infatti, evidenziato come “In realtà quando l' illecito può continuare o ripetersi nel futuro, l'unica reazione efficace è costituita solo dall'azione inibitoria: un'azione diretta ad ottenere non la condanna del convenuto al risarcimento del danno che ha causato, ma l'ordine del giudice rivolto alla parte soccombente di inibire la continuazione della condotta illecita (come si esprime l'art. 2599 del c.c.) o di cessazione del fatto lesivo (come negli artt. 7 e 10 del c.c.). L'ordine può avere come contenuto un non fare (inibitoria negativa nei casi di illecito commissivo espressamente prevista dal legislatore in varie norme come gli articoli 7, 10, 949, 1079 e 2599 cod. civ.) o anche un fare (inibitoria positiva, nei casi di illecito omissivo, non espressamente prevista dal legislatore, ma applicata dalla giurisprudenza in tema di immissioni, art. 844 cod. civ.), di modificazioni della ditta (art. 2564 cod. civ.), di diritto di autore (art. 156 della legge 22 aprile 1941, n. 633) e, in generale, di provvedimenti di urgenza (art. 700 cod. proc. civ.).L'emanazione dell'ordine da parte del giudice non costituisce una mera ripetizione di ciò che è già prescritto dalla legge, ma produce effetti di carattere civile e penale” (Cass. 5295 del 12.6.1997).
A questo punto occorre esaminare la questione relativa alla carattere vessatorio e meno della clausola “applicata” dalla Banca ** in forza la quale è stabilito che “I conti che risultano anche saltuariamente debitori vengono chiusi contabilmente” con “capitalizzazione trimestrale” (v. modulistica in atti).
In ordine al meccanismo della capitalizzazione trimestrale di detti interessi a debito (o anatocismo, cioè quell’operazione di “conversione degli interessi in debito di capitale allo scopo di provocare la decorrenza di nuovi interessi sulla somma per tale titolo dovuta” - così in dottrina -), applicata pacificamente dalla banca convenuta sui contratti di conto corrente [stipulati prima dell’entrata in vigore della delibera citata], va precisato che la Corte di Cassazione con la pronunzia 16 Marzo 1999, n. 2734, con improvviso revirement, ha escluso la esistenza di un uso normativo in deroga al divieto, affermando che “la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata, su un uso negoziale, ma non su una vera e propria norma consuetudinaria, è nulla in quanto anteriore alla scadenza degli interessi”.
Alcuni mesi dopo l’ avvento di detta giurisprudenza fortemente innovativa, è intervenuta una modifica legislativa, vale ad dire l’art. 25 3° co. D.L. n. 342/99 (di modifica dell’art. 120 TU Bancario, che ha stabilito che le clausole anatocistiche, previste nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del CICR di cui al II comma dell’art. 120, sono valide ed efficaci fino a tale data), disposizione che è stata espunta dall’ordinamento in forza della sentenza n° 425/2000 della Corte Costituzionale.
Il Giudice delle leggi ha dichiarato l’art. 25 III comma illegittimo “nella parte in cui stabilisce che le clausole riguardanti la produzione di interessi su interessi maturati, contenuti nei contratti stipulati anteriormente alla delibera del CICR, relativa alle modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, siano valide ed efficaci fino a tale data e che, dopo di essa, debbono essere adeguate - a pena di inefficacia da farsi valere solo dal cliente - al disposto della menzionata delibera, con le modalità ed i tempi ivi previsti”.
Sul punto va precisato che lo stesso intervento del legislatore, finalizzato a ‘regolarizzare’ i suindicati rapporti quanto al meccanismo della capitalizzazione, ha avuto come dato di partenza la chiara consapevolezza invalidità di detta clausola ante delibera CICR.
Invero l’art. 120 TU Bancario, come modificato dall’art. 25 D.Lgvo 342/99, ha attribuito al CICR il potere di stabilire le modalità ed i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria.
Con l’emanazione della relativa deliberazione (in data 9.2.00, pubblicata nella G.U. 22 febbraio 2000), deve oggi ritenersi certa la legittimità della capitalizzazione degli interessi pattuita mediante apposite clausole contenute nei contratti bancari.
Quindi, la disciplina introdotta dal CICR vale per : - i contratti bancari stipulati dopo la data di entrata in vigore della delibera del CICR 9/2/00; - contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della delibera, ma con l’adeguamento con effetto dal 1° luglio 2000: l’art. 7 della delibera CICR stabilisce che le condizioni pattuite devono essere adeguate alle disposizioni contenute nella delibera, come detto, entro il 30/6/00.
E’ rimasto, quindi, il problema della sorte dei contratti stipulati prima della delibera CICR e per il periodo fino al 30 giugno 2000, problema questo che riguarda i contratti di conto corrente stipulati dai consumatori in relazione ai quali l’ Adiconsum ha promosso l’ odierno contenzioso.
Sulla capitalizzazione degli interessi a debito, in precedenza, l’orientamento consolidato della Suprema Corte, fin dalla sentenza 6631/81, era nel senso che “....nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare ed avere, l’anatocismo trova generale applicazione in quanto sia le banche e sia i clienti chiedono e riconoscono come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo versato ma anche sugli interessi da questo prodotti e ciò a prescindere dai requisiti richiesti dall’art. 1283 cc”.
Fino al 1999, in definitiva, il quadro normativo di riferimento era rappresentato dall’art. 1283 cc.; tale norma, di carattere imperativo e di natura eccezionale, consente l’anatocismo solo in presenza di determinate condizioni: - deve trattarsi di interessi scaduti da almeno sei mesi; - occorre la proposizione di una domanda giudiziale o la stipulazione di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi.
Indi, la Cassazione dal ’99 (v. sentenza sopra citata), con impostazione che ha continuato a muoversi esclusivamente nel solco della disposto di cui all’art. 1283 c.c., si è soffermata sulla natura della prassi in virtù della quale nei contratti di conto corrente bancario era inserita la clausola della capitalizzazione trimestrale, sostenendo che tale prassi, tale ‘consuetudine’, non è connotata dai caratteri idonei a far configurare un uso normativo - come aveva detto la precedente giurisprudenza - rimanendo essa confinata nei più ristretti limiti dell’uso negoziale, non suscettibile di assumere rilievo nell’ottica del citato art. 1283.
Ancora, ha precisato che l’esistenza di una vera e propria consuetudine legittimante la prassi della capitalizzazione trimestrale non è mai stata accertata dalla commissione speciale permanente presso il ministero dell’industria, ai sensi del d.leg.c.p.s. n. 152 del 1947, e che gli accertamenti – da parte di alcune camere di commercio provinciali - di usi locali conformi alle norme bancarie uniformi predisposte dall’ABI sono tutti successivi al 1952, sicché, avendo preso effetto le n.b.u. proprio dal 1°.1.1952, deve escludersi che queste attestino l’esistenza di usi locali preesistenti, e deve, piuttosto, presumersi che l’accertamento dell’uso locale sia null’altro che il rilievo di prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte dall’ABI: prassi cui non può riconoscersi efficacia di fonte di diritto obiettivo se non altro per l’evidente difetto dell’elemento soggettivo dell’opinio iuris ac necessitatis, giacché dalla comune esperienza emerge che l’inserimento delle clausole di capitalizzazione trimestrale è acconsentito da parte dei clienti non in quanto tali clausole siano ritenute conformi a norme già esistenti, ma solo in quanto sono comprese nei moduli predisposti dalle banche e non suscettibili di negoziazione individuale. Inoltre, ha ritenuto che l’art. 1283 c.c. avrebbe carattere imperativo, e che le norme che dettano una disciplina diversa - si tratta delle norme in materia di conto corrente ordinario che consentono l’anatocismo senza i limiti del 1283 c.c. - non possono applicarsi al conto corrente bancario, stante la specialità della disciplina che lo caratterizza.
Tale nuovo arresto del Supremo Collegio è stato, poi, costantemente, chiaramente ed univocamente confermato, dalle successive sentenze nn. 12507/1999, 6263/2001, 1281/2002, 4490/2002, 4498/2002, 8442/2002, 17338/2002; 2593/2003, 12222/2003, 13739/2003, fino alla richiamata Cassazione SS.UU. Civili 7 ottobre - 4 novembre 2004 n° 21095.
Quest’ultima pronuncia, in particolare, si è soffermata sulla “insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche”, di cui si è mostrato subito ben consapevole anche il legislatore il quale ha dettato, nel comma 3 dell’art. 25 del già citato d.lgs. 342/1999, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo art. 25. Norma, come detto, poi espunta dall’ordinamento, perché dichiarata incostituzionale, nella parte relativa alla cd. “sanatoria del pregresso”, (ma) che ha confermato la necessità della capitalizzazione paritetica degli interessi tra cliente e Istituto di credito, introducendo (cfr. nuovo testo dell’art. 120 T.U bancario) il criterio generale secondo il quale nelle operazioni in conto corrente deve essere assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, con l’eliminazione di quella dissimmetria nella produzione degli interessi anatocistici, la cui ingiustizia ha palesemente ispirato il più recente indirizzo della Cassazione.
Con la pronunzia a Sezioni Unite citata, la Suprema Corte ha ricordato che "dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all' inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente".
Pertanto, esclusa l’esistenza di un uso normativo bancario, la clausola di anatocismo trimestrale previsto dalle condizioni di apertura di credito in conto corrente di che trattasi si manifesta in aperto contrasto con le prescrizioni imperative dell’art. 1283 c.c.
Orbene la valutazione della vessatorietà della detta clausola nonché della antigiuridicità della condotta della Banca ** in ordine alla applicazione della medesima non può prescindere dalla superiore quadro.
Tutti gli interventi normativi e le recenti pronunzie giurisprudenziali del Supremo Collegio (sotto questo profilo non bisogna trascurare la funzione nomofilattica della Cassazione, specie in relazione alle pronunzie a Sezioni Unite ) degli ultimi otto/nove anni muovono da un dato certo : la illiceità di una capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito operata in via unilaterale dalla banca in senso a sé favorevole.
Non può, del resto, negarsi che trattasi di clausola, espressione del prepotere contrattuale delle banche, la quale determina un forte squilibrio a danno del contraente debole, quale è tipicamente il cliente privato della banca costretto ad aderire, in difetto di reali alternative, alle condizioni economiche unilateralmente predisposte ed applicate da tutti gli istituti dei credito.
Come è stato osservato la capitalizzazione trimestrale, applicata dalla banca a senso unico, fa sì che il finanziamento sia gravato, in aggiunta al dichiarato corrispettivo del servizio (e cioè gli interessi al tasso convenzionalmente pattuito), di un ulteriore costo a fronte del quale non si prevede alcuna contropartita, costo che, come si evince dal tenore della citata clausola grava sul cliente-consumatore anche in ipotesi di saldi solo “saltuariamente” debitori (previsione quest’ ultima certamente assai pregiudizievole ed insidiosa per il cliente) .
Mentre rientra nella fisiologia del rapporto contrattuale di conto corrente bancario la discrepanza fra tassi attivi e passivi sicchè certamente ciò non implicata alcun profilo di vessatorietà, diversa cosa è la imposizione da parte della banca di un meccanismo contrattuale con cui si autoattribuisce (indiscriminatamente nei rapporti con tutti i clienti) una posizione di certo vantaggio che non trova corrispondenza, in quanto tale, in alcuna specifica controprestazione.
Lo ‘sbilanciamento’ che per tale via viene a concretizzarsi lungi dal contemperare gli interessi della parti, rappresenta una chiara esplicazione del potere ‘normativo’ del soggetto ‘forte’ il quale viene ad imporre alla controparte, in modo tutt’altro che chiaro un costo aggiuntivo al servizio reso.
La vessatorietà della detta clausola, quanto allo squilibrio, appare del resto confermata dalla stessa previsione contenuta nell’ art. 120 del T.U. Bancario e dalla successiva delibera CICR sopra citata la quale ha ammesso la capitalizzazione trimestrale solamente a condizione di reciprocità.
Va, pertanto, dichiarata la vessatorietà della clausola – a tutt’ oggi operante nei rapporti in itinere, intercorrenti con l’ istituto convenuto, sorti anteriormente alla citata delibera – con la quale la banca convenuta applica ai clienti-consumatori, nei rapporti di conto corrente bancario, la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito, e ciò sino al 30.6.2000.
Sulla scorta delle precedenti considerazioni non può, poi, sottacersi che l’ operato della banca la quale, in relazione a tale rinnovato quadro normativo e giurisprudenziale e del carattere certamente vessatorio di detta clausola, a seguito di apposita istanza scritta del cliente (o ex cliente) – consumatore si rifiuti costantemente di ricalcolare il saldo del conto ancora operante ovvero, con riferimento a contratti esauritisi, di restituire le somme incassate in forza della illegittima capitalizzazione degli interessi a debito, ponendo in essere tale comportamento solo ed esclusivamente nel presupposto della piena validità ed efficacia della detta clausola, costituisce una condotta antigiuridica lesiva dei diritti dei consumatori.
Va chiarito in questa sede, al fine di sgombrare il campo dalle contestazioni formulate sul punto dalla Banca **, che con la odierna pronunzia non si vuole né si potrebbe escludere il diritto della banca di paralizzare simili istanze sulla base di “eccezioni” afferenti le singole posizioni ed i singoli rapporti (quali, ad esempio, eccezioni di: prescrizione, giudicato, compensazione, carenza di legittimazione attiva e/o passiva) ma si mira a valutare, criticamente, la condotta della banca che respinge dette richieste muovendo solamente dalla affermazione della liceità del proprio operato in ordine alla applicazione della suddetta clausola, ritenuta pienamente valida.
E’ sufficiente, al tal proposto, ribadire come possa ritenersi incontroverso che ad oggi la banca convenuta continua paralizzare le istanze dei clienti-consumatori inerenti l’ applicazione dell’ anatocismo sempre e comunque, ed anche in assenza di specifiche eccezioni opponibili al correntista.
Conseguentemente, stante l’accertata illiceità della condotta, va fatto divieto alla Banca ** di respingere le istanze avanzate da titolari di rapporto di conto corrente (consumatori) finalizzate al ricalcolo della esposizione debitoria previa depurazione della capitalizzazione trimestrale al 30.6.2000 ovvero quelle dirette alla ripetizione di somme corrisposte in eccedenza in virtù della applicata capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito sino a detta data, esclusivamente in ragione della piena validità ed efficacia della menzionata clausola e qualora non abbia alcuna [diversa] eccezione, inerente il singolo rapporto di conto corrente bancario, opponibile al cliente-consumatore.
In accoglimento della specifica istanza avanzata dall’ Adconsum ai sensi dall’ art. 140 citato, al fine di meglio assicurare un tutela dei diritti dei consumatori pregiudicati dalla applicazione della detta clausola vessatoria da parte della Banca **, attraverso una ampia diffusione della odierna decisione, deve essere disposta la pubblicazione di un breve estratto della presente sentenza (contenente la indicazione degli estremi della controversia, dell’ organo giudicante, delle parti e del dispositivo) per una sola volta sui quotidiani “Il Corriere della Sera” ed “Il Giornale di Sicilia” a cura e spese della banca convenuta.
Tale pubblicazione appare sufficiente a garantire i diritti dei consumatori, dovendosi, conseguentemente, rigettare la richiesta attorea finalizzata ad ordinare alla convenuta di inviare ai propri clienti consumatori una missiva contente indicazioni esplicative in ordine alle vessatorietà della richiamata clausola ed alla illiceità dei propri comportamenti nonché la richiesta diretta ad adottare ogni altra misura idonea a correggere od eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate.
Va, infine, disposto, ai sensi dell’ art. 140 7° co, in ipotesi di inadempimento degli obblighi stabiliti nella presente sentenza, decorsi sessanta giorni dalla pubblicazione della stessa, il pagamento da parte della Banca ** di una somma pari ad € 516,00 per ogni giorno di ritardo.
In applicazione del principio della soccombenza le spese di lite - liquidate in favore di parte attrice in complessivi euro 6.226,00 di cui euro 350,00 per spese vive ed euro 1.000,00 per diritti, oltre iva e cpa e rimborso per spese generali ai sensi della vigente TF - vanno poste a carico della banca convenuta.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunziando, disattesa ogni altra domanda ed eccezione, così provvede:
a) dichiara la vessatorietà della clausola con la quale la Banca ** S.p.A. applica, ai rapporti di conto corrente bancario intercorrenti con i clienti-consumatori, la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito, e ciò sino al 30.6.2000;
b) ordina alla Banca ** S.p.A. di astenersi dal respingere le istanze avanzate da titolari di rapporto di conto corrente (consumatori) finalizzate al ricalcolo della esposizione debitoria previa depurazione della capitalizzazione trimestrale al 30.6.2000 ovvero quelle dirette alla ripetizione di somme corrisposte in eccedenza in virtù della applicata capitalizzazione trimestrale a debito sino a detta data, esclusivamente in ragione della piena validità ed efficacia della menzionata clausola e qualora non abbia alcuna [diversa] eccezione, inerente il singolo rapporto di conto corrente bancario, opponibile al cliente-consumatore;
c) dispone la pubblicazione di un breve estratto della presente sentenza (contenente la indicazione degli estremi della controversia, dell’ organo giudicante, delle parti e del dispositivo) per una sola volta sui quotidiani “Il Corriere della Sera” ed “Il Giornale di Sicilia” a cura e spese della banca convenuta, con formato di dimensioni non inferiori a cm. 20 X cm. 30;
d) dispone, ai sensi dell’ art. 140 co. 7 D.L.vo 6 Settembre 2005 n. 206, in ipotesi di inadempimento degli obblighi stabiliti nella presente sentenza, decorsi sessanta giorni dalla pubblicazione della stessa, il pagamento da parte della Banca ** S.p.A. di una somma pari ad € 516,00 per ogni giorno di ritardo;
e) condanna la banca convenuta al pagamento delle spese processuali liquidate in favore dell’ Adiconsum in euro 6.266,00 oltre iva e cpa e rimborso per spese generali ai sensi della vigente TF.
Cosi deciso in ** nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile del Tribunale in data 26 Ottobre 2007
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