Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6453 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 17 Aprile 2003, n. 6169. Est. Rordorf.


Società - Di persone fisiche - Società in nome collettivo - In genere (nozione, caratteri, distinzione) - Norme applicabili - Socio - Legittimazione autonoma ad agire per far valere il divieto di concorrenza - Nonché per richiedere l'annullamento del contratto di liquidazione della quota stipulato dalla società con il socio uscente - Configurabilità - Esclusione - Assunzione in giudizio di posizione adesiva rispetto a quella spiegata dalla società - Ammissibilità.

Società - Di persone fisiche - Società in nome collettivo - Rapporti tra soci - Divieto di concorrenza - Art. 2301 - Applicabilità al socio receduto - Esclusione - Pattuizione diretta ad estendere la portata del divieto - Legittimità.



Il socio di una società in nome collettivo è privo di legittimazione autonoma a far accertare ed inibire l'attività concorrenziale con quella della società, svolta dal socio uscente nonché a richiedere l'annullamento del contratto stipulato tra la società e detto socio uscente in ordine alla liquidazione della quota, ma può assumere nel giudizio una posizione adesiva a quella della società. (massima ufficiale)

Il divieto di concorrenza previsto per il socio di società in nome collettivo dall'art. 2301 cod. civ. cessa naturalmente con il venir meno della qualità di socio; alle parti è tuttavia consentito pattuirne l'estensione anche nell'ipotesi di recesso del socio dalla società. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAGGIO Antonio - Presidente -
Dott. PROTO Vincenzo - Consigliere -
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Consigliere -
Dott. MORELLI Mario Rosario - Consigliere -
Dott. RORDORF Renato - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BONAMICO MARCO, in proprio e nella qualità di legale rappresentante pro tempore della Società "Capricorn" elettivamente domiciliato in ROMA VIA F.CONFALONIERI 5, presso l'avvocato LUIGI MANZI, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LUCIANA PETRELLA, giusta delega in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
CARELLA ELISABETTA, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato AZER CICOGNANI, giusta mandato a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 300/00 della Corte d'Appello di BOLOGNA, depositata il 17/03/00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/01/2003 dal Consigliere Dott. Renato RORDORF;
udito per il ricorrente l'Avvocato Coglitore per delega dell'Avvocato Manzi che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Elisabetta Maria CESQUI che ha concluso per il rigetto del ricorso;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il sig. Marco Bonamico, in proprio e quale legale rappresentante della S.n.c. Capricorn di Bonamico Marco & C. (in prosieguo indicata semplicemente come Capricorn), con atto notificato in data 11 ottobre 1995, citò in giudizio dinanzi al tribunale di Bologna la sig.ra Elisabetta Carella, che dell'anzidetta società era stata socia e che, nel febbraio di quello stesso anno, ne era poi receduta percependo la somma di L.. 20.000.000 quale liquidazione della sua quota. L'attore lamentò che la convenuta avesse immediatamente dopo intrapreso un'attività di concorrenza sleale nella medesima area geografica e nel medesimo settore - lo studio e la
commercializzazione di supporti plantari e scarpe ortopediche - in cui operava la società Capricorn (originariamente denominata Il Podologo Bologna), acquisendone precedenti collaboratori sociali e provocando un rilevante storno di clientela. Chiese quindi che fosse inibita alla convenuta la prosecuzione di detta attività e che ella fosse condannata al risarcimento dei danni; chiese altresì che fosse annullato per dolo il contratto con cui era stato regolato il recesso della sig.ra Carella dalla società.
Il tribunale, avendo ritenuto che sulla convenuta non incombesse alcun obbligo di astensione dalla concorrenza e che non fosse stato idoneamente provato un qualche suo sleale comportamento, respinse le domande di parte attrice.
Con sentenza emessa il 17 marzo 2000, la corte d'appello di Bologna, pronunciando sul gravame proposto dal sig. Bonamico nella duplice suindicata qualità, ha confermato - per la parte che qui interessa - la decisione di primo grado.
La corte, infatti, ha reputato che ne' le risultanze acquisite agli atti ne' la prova testimoniale dedotta fossero idonee a dimostrare l'esistenza di un particolare animus nocendi nel comportamento tenuto dalla sig.ra Carella, dopo il suo recesso dalla società precedentemente costituita con il sig. Bonamico, e che l'attività concorrenziale da lei svolta - in sè legittima - non fosse perciò caratterizzata da slealtà, ne' potesse dunque giustificare l'annullamento degli accordi stipulati con la controparte in occasione del recesso. Donde il rigetto delle domande tutte proposte dall'attore, peraltro sfornite di prova adeguata anche in ordine al quantum debeatur.
Contro tale sentenza il sig. Bonamico e la società Capricorn ricorrono ora in cassazione, deducendo quattro motivi di doglianza, illustrati anche con successiva memoria.
Resiste con controricorso la sig.ra Carella.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. In via preliminare è necessaria una precisazione sui limiti della legittimazione del sig. Bonamico a partecipare in proprio al presente giudizio.
Si tratta di una precisazione necessaria, giacché la verifica della legittimazione deve esser compiuta d'ufficio anche in cassazione, quantunque nei precedenti gradi del giudizio non se ne sia discusso. Non può dirsi infatti formato un giudicato implicito sul punto, essendosi la corte d'appello limitata a decidere la causa nel merito, ed avendo l'impugnazione di tale decisione impedito anche l'eventuale formazione del giudicato sulla questione pregiudiziale di legittimazione (in proposito cfr., tra le altre, Cass. 6 novembre 2001, n. 13695; e 19 marzo 2001).
La legittimazione del sig. Bonamico in proprio, nel caso di specie, certamente difetta in ordine alle domande volte a far accertare ed inibire la concorrenza asseritamene illegittima posta in essere dalla sig.ra Carella, giacché tali domande postulano, appunto, un rapporto concorrenziale: che è però ipotizzabile solo nei confronti della società Capricorn, e non anche personalmente nei riguardi del sig.
Bonamico, il quale non afferma di svolgere in proprio la relativa attività commerciale. Ovvio dunque che il medesimo sig. Bonamico sia privo anche della legittimazione a richiedere i danni conseguenti all'asserita illegittima concorrenza. Egli neppure sarebbe autonomamente legittimato in relazione alla domanda di annullamento del "contratto inter partes del 06.02.1995" (punto 3 delle conclusioni di merito dell'appellante, riportate nell'epigrafe della sentenza qui impugnata). Il contratto in questione, a quanto è dato intendere dalla narrativa esposta nel ricorso, è infatti l'accordo raggiunto tra le parti in ordine alla quota di liquidazione spettante alla socia che recedeva dalla società. Ma la liquidazione della quota di una società di persone in favore del socio receduto o escluso, ovvero degli eredi del socio defunto, integra un'obbligazione non degli altri soci, bensì della società (onde la relativa domanda, ai sensi dell'art. 2266 c.c., va proposta nei confronti della società medesima, quale soggetto passivamente legittimato, senza che vi sia necessità di evocare in giudizio anche gli altri soci: Cass., sez. un. 26 aprile 2000, n. 291).
Quanto appena osservato non esclude, però, che anche tali altri soci, in quanto tenuti in solido all'adempimento delle obbligazioni sociali, possano avere un interesse a contrastare la pretesa azionata dal socio receduto nei confronti della società. Ne consegue che essi possono assumere in giudizio unicamente una posizione adesiva a quella della società medesima, che resta la principale obbligata.
In questa luce, ed entro tali limiti, la partecipazione personale del sig. Bonamico al giudizio in corso dev'essere quindi considerata ammissibile, ed anche nel presente grado di legittimità gli va perciò riconosciuta la legittimazione ad affiancare in proprio la società da lui rappresentata.
2. Ciò premesso, si può senz'altro passare all'esame delle censure mosse nel ricorso alla sentenza impugnata, la prima delle quali è volta a sostenere che la corte d'appello avrebbe dovuto fare applicazione, nella specie, dei principi desumibili dall'art. 2557 c.c. e, pertanto, considerare illegittima l'attività intrapresa dalla socia receduta dalla società in diretta concorrenza con la società medesima, indipendentemente dall'accertamento di uno specifico animus nocendi.
Ma se anche l'accertamento dell'animus nocendi davvero fosse occorso, si sarebbe dovuto tener conto che la relativa prova può essere raggiunta solo in via presuntiva: il che - si sostiene nel secondo motivo di ricorso - avrebbe dovuto indurre la corte territoriale ad ammettere le prove orali dedotte proprio al fine di lumeggiare quegli aspetti oggettivi della denunciata attività concorrenziale dai quali sarebbe stato lecito desumere l'esistenza del requisito soggettivo di cui si discute.
Neppure sarebbe poi condivisibile - si osserva nel terzo motivo di ricorso - l'affermazione della corte territoriale in ordine alla mancata prova del quantum debeatur. Tale prova bene avrebbe potuto essere sostituita da una valutazione equitativa del danno sofferto dalla società in conseguenza dell'illegittima concorrenza operata dall'ex socia; ed in ogni caso il negativo rilievo della corte avrebbe potuto riguardare solo la domanda di risarcimento, non certo anche quelle di accertamento e di inibitoria della sleale concorrenza.
Da ultimo, il ricorso censura la decisione con cui la corte territoriale, come mera conseguenza del mancato accertamento dell'attività di concorrenza sleale imputabile all'ex socia, ha rigettato anche la domanda di annullamento per dolo del contratto riguardante le modalità di recesso della sig.ra Carella dalla società. Già il fatto che la sig.ra Carella all'atto del recesso avesse taciuto la propria intenzione di svolgere attività concorrenziale (non importa se sleale) integrerebbe invece - a parere del ricorrente - gli estremi del dolo.
3. Nessuna di tali censure coglie nel segno.
Una corretta impostazione del tema in discussione richiede anzitutto che si tengano distinte due ipotesi in sè ben diverse: quella della violazione del divieto di concorrenza e quella della concorrenza sleale.
È chiaro che, nel primo caso, l'illiceità della condotta imputata a chi violi quel divieto sta nel fatto stesso di svolgere un'attività concorrenziale non consentita. Prescinde, quindi, da qualsiasi ricerca di una specifica intenzionalità nociva e dipende dalla mera violazione del divieto, legale o convenzionale: onde da essa si genera una responsabilità di natura contrattuale. Nel secondo caso, viceversa, l'attività può essere in sè del tutto lecita, ma è il modo del suo svolgimento che la rende sleale, e dunque illegittima, generandosi da essa una forma di responsabilità assimilabile a quella aquiliana. Si tratta, quindi, di ipotesi diverse, cui corrispondono azioni diverse.
L'azione proposta nel presente giudizio, come si evince già dall'espresso tenore delle domande riportate nell'epigrafe della sentenza impugnata, appare riconducibile alla seconda delle due ipotesi sopra considerate: si prospetta, cioè, come una domanda di accertamento di concorrenza sleale, con le richieste inibitorie e di condanna che ne conseguono.
Stando così le cose, appare subito evidente come non giovi al ricorrente il richiamo alla disposizione dettata dall'art. 2557 c.c., ne' in via diretta ne' sotto il profilo di una possibile applicazione analogica. Quella norma, infatti, configura e disciplina una specifica ipotesi di divieto di concorrenza, ponendo tale divieto a carico di chi abbia alienato ad altri una propria azienda ed è quindi tenuto ad astenersi per almeno cinque anni dallo svolgimento di un'attività d'impresa che, per oggetto, ubicazione o altre circostanze, sia idonea a sviare la clientela dell'azienda ceduta. La specificazione delle modalità di svolgimento dell'attività d'impresa vietata non deve trarre in inganno, giacché il legislatore ha inteso qui contemplare non già un'ipotesi di concorrenza sleale, bensì di concorrenza vietata. Quella specificazione sta solo a significare che il divieto non si estende a qualsiasi attività imprenditoriale l'alienante voglia intraprendere nel quinquennio, ma solo a quelle attività che siano oggettivamente idonee a realizzare l'effetto specifico della concorrenza: ossia lo sviamento della clientela in favore del concorrente. Perché questo è propriamente ciò che la norma in esame mira ad evitare: che l'alienante possa di fatto riappropriarsi di quei valori commerciali di avviamento dell'azienda, essenzialmente costituiti dalla clientela, che con l'atto di cessione devono invece intendersi trasferiti secondo buona fede in capo a chi di quella stessa azienda ha acquisito la titolarità. Non solo, peraltro, la previsione del citato art. 2557 appare, dal punto di vista giuridico, estranea al tema della concorrenza sleale - e presuppone una causa petendi diversa da quella posta a base della domanda proposta nel presente giudizio - ma essa configura una situazione comunque non riconducibile a quella che di fatto è stata dedotta in causa. Altro è, infatti, la cessione di un'azienda dal precedente titolare ad un diverso soggetto, che perciò di quella medesima azienda, con tutti i valori materiali ed immateriali da cui essa è composta, divenga a propria volta titolare; altro è il recesso di un socio da una società personale, la quale continua ad esistere come autonomo centro di imputazione giuridica cui sotto ogni profilo è riferita la titolarità dell'azienda. È vero che la più recente giurisprudenza di questa corte ha negato carattere di eccezionalità al divieto stabilito dal citato art. 2557, ammettendone l'applicazione anche in caso di cessione delle quote della società titolare dell'azienda, quando ciò produca sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nella conduzione della struttura aziendale (Cass. 20 gennaio 1997, n. 549;
16 febbraio 1998, n. 1643; 24 luglio 2000, n. 9682). Ma, nel caso di recesso del socio, non si determina alcun trasferimento, diretto ne' indiretto, della titolarità dell'azienda e non vi sarebbe quindi ragione per porre a carico del socio receduto un generale divieto di concorrenza analogo a quello che la legge pone a carico dell'alienante dell'azienda (e non rileva, a tal fine, se il recesso provochi il venir meno della pluralità dei soci, non derivandone comunque l'immediata estinzione del soggetto societario ne', comunque, una situazione in qualche modo assimilabile ad un trasferimento di azienda).
Vero è, invece, che il divieto di concorrenza previsto per il socio di società collettive dall'art. 2301 c.c. cessa naturalmente con il venir meno della qualità di socio; e solo una diversa e specifica pattuizione tra le parti - che nessuno afferma essere però intervenuta nel presente caso - potrebbe giustificarne l'ulteriore vigenza quando il socio abbia cessato di esser tale. La rilevanza dell'avviamento dell'azienda sociale e l'incidenza su di esso dell'apporto del socio uscente sono, del resto, tra gli elementi che naturalmente concorrono a determinare la misura della liquidazione della quota spettante al socio che recede, ed è semmai in quel contesto che è dunque presumibile le parti tengano conto di un tale aspetto.
3.1. I rilievi ora svolti consentono di licenziare senz'altro il primo motivo di ricorso.
Quanto agli altri, è sufficiente osservare che la censura concernente la mancata ammissione di mezzi di prova destinati a dimostrare le modalità scorrette con cui la ex socia avrebbe svolto la successiva attività concorrenziale non si accompagna all'indicazione dei capitoli di prova non ammessi (tale non potendosi considerare la generica formulazione di circostanze di fatto che si intendevano provare, riportata alla pag. 4 del ricorso, priva di ogni precisa indicazione dell'atto in cui il capitolato sarebbe stato dedotto e del nominativo dei testi che avrebbero dovuto essere esaminati). Ed, invece, il ricorrente il quale in sede di legittimità denunci la mancata ammissione in appello di una prova testimoniale, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare e quindi della prova stessa:
giacché tale controllo, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, deve poter essere compiuto dalla Corte di Cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (cfr., ex multis, Cass. 10 ottobre 2000, n. 13483; e 9 maggio 2000, n. 5876).
Il secondo motivo si appalesa, pertanto, inammissibile. 3.2. Altrettanto è a dirsi del terzo motivo, che investe un punto della decisione impugnata sfornito di autonoma rilevanza decisoria. Una volta escluso, infatti, il diritto della società Capricorn al risarcimento del danno lamentato, è superfluo discutere della prova e dei criteri di liquidazione di esso.
3.3. Neppure è accoglibile, infine, il quarto motivo di ricorso, concernente il preteso dolo da cui sarebbero stati affetti gli accordi raggiunti tra le parti in occasione del recesso dalla società della sig.ra Carella.
Premesso che il dolo non inficerebbe certo l'atto di recesso in quanto tale, ma semmai le conseguenti pattuizioni tra le parti aventi ad oggetto la liquidazione della quota in favore della socia receduta, si deve rilevare come la stessa formulazione della doglianza - anche in rapporto a quanto indicato nell'impugnata sentenza circa il corrispondente motivo d'appello a suo tempo formulato nei confronti della decisione di primo grado - non consente di comprendere con sufficiente chiarezza quali siano le circostanze di fatto che la corte territoriale avrebbe omesso di considerare, ed il cui esame, viceversa, a parere del ricorrente, avrebbe potuto condurre all'accertamento del denunciato vizio del volere.
Il ricorso, in effetti, pur formalmente denunciando la violazione di articoli del codice in tema di annullamento per dolo dei contratti, non identifica un qualche errore di diritto in cui la corte territoriale sarebbe incorsa nell'interpretare o applicare dette norme. La critica investe unicamente la valutazione del giudice di merito circa l'insufficienza della prova di comportamenti in tal senso rilevanti. Ma, sotto questo profilo, sarebbe stato onere del ricorrente non solo sostenere che "la complessità del ragionamento (della corte d'appello) non convince", ma enunciare in modo chiaro e specifico quali specifici elementi di fatto il giudice di merito avrebbe omesso di considerare, dove e quando essi erano stati dedotti o provati dalla parte interessata, e per qual ragione li si sarebbe dovuti considerare decisivi ai fini dell'accoglimento della domanda.
Dalla sentenza di secondo grado si desume soltanto, invece, che il tribunale aveva rigettato la domanda in questione avendo escluso che, al momento del recesso, la sig.ra Carella avesse celato la propria intenzione di svolgere poi attività concorrente con quella della società. L'appellante aveva lamentato che non nella semplice reticenza sul punto della controparte era consistito il dolo, bensì nella specifica intenzione di sottrarre alla società clientela e potenzialità di sviluppo. La corte d'appello ne ha correttamente dedotto che l'appellante, anche sotto questo profilo, intendesse dare rilievo non già al tipo di attività che la sig.ra Carella aveva deciso di svolgere, ed al fatto che ne avesse taciuto l'intenzione al momento del recesso, bensì al modo in cui quell'attività era stata in concreto da lei programmata e poi attuata. Ed ha perciò concluso che, difettando la prova di una concorrenza poi davvero slealmente svolta, cadeva anche il presupposto per ipotizzare la prefigurazione di un siffatto dolo. Tale ragionamento non è di per sè illogico ne' contraddittorio, nè può dunque essere scalfito dalle contrarie considerazioni svolte in punto di mero fatto dal ricorrente.
4. Il ricorso dev'essere pertanto rigettato.
Ne consegue la condanna dei ricorrenti in solido a rimborsare le spese del giudizio di legittimità sostenute dalla controparte, che si liquidano in euro 2.000,00 (duemila) per onorari e 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori secondo legge.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 2.000,00 (duemila) per onorari e 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori secondo legge.
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2003.
Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2003