Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6387 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 10 Settembre 2004, n. 18243. Est. Petitti.


Società - Di persone fisiche - Società semplice - Scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio - Recesso del socio - Società con due soli soci - Dissidio tra gli stessi determinato da grave inadempimento di uno dei due - Rimedi - Recesso del socio adempiente o esclusione di quello inadempiente - Ammissibilità - Scioglimento della società ex art. 2272 n. 2 cod. civ. - Condizioni - Accertamento del giudice di merito riguardo alla giusta causa di recesso o all'idoneità del dissidio a rendere impossibile la persistenza della società - Necessità.



Nelle società di persone composte da due soli soci, il dissidio tra questi imputabile al comportamento di uno dei due gravemente inadempiente agli obblighi contrattuali ovvero ai doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto societario, rileva come giusta causa di recesso del socio adempiente o, in alternativa, di esclusione del socio inadempiente, ma non può costituire causa di scioglimento della società ai sensi dell'art. 2272, n. 2, cod. civ., giacchè detto dissidio non è tale da rendere "impossibile" il conseguimento dell'oggetto sociale, essendo eliminabile mediante uno dei due rimedi predetti. Ne consegue che, allorquando uno dei due soci receda dalla società adducendo quale giusta causa l'insanabile dissidio imputabile all'altro socio, l'accertamento giudiziario dell'imputabilità o meno del dissidio, e conseguentemente della sussistenza o meno di una giusta causa di recesso, non può ritenersi precluso, giacchè tale dissidio non può costituire di per sè causa di scioglimento della società, e il giudice di merito non può ritenere irrilevanti gli accertamenti inerenti alla sussistenza della dedotta giusta causa di recesso ovvero alla idoneità del dissidio (se non imputabile ad alcuno) a rendere impossibile il perseguimento dei fini sociali. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. CAPPUCCIO Giammarco - Consigliere -
Dott. CELENTANO Walter - Consigliere -
Dott. RORDORF Renato - Consigliere -
Dott. PETITTI Stefano - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
FEDI GRAZIANO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA OFANTO 18 presso l'avvocato GUIDO LIUZZI che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale per Notaio Antonio Abbate di Grosseto rep. 23932 del 9/1/2004;
- ricorrente -
contro
TOZZI GINO;
- intimato -
e sul 2^ ricorso n. 16380/01 proposto da:
TOZZI GINO, elettivamente domiciliato in ROMA viale 76 ANGELICO 36/B, presso l'avvocato MASSIMO SCARDIGLI, rappresentato e difeso dall'avvocato NUNZIO VENINATA, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
FEDI GRAZIANO;
- intimato -
avverso la sentenza n. 1463/00 della Corte d'Appello di FIRENZE, depositata il 05/08/00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/01/2004 dal Consigliere Dott. Stefano PETITTI;
udito per il ricorrente principale, l'Avvocato LIUZZI, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/01/2004 dal Consigliere Dott. Stefano PETITTI;
udito per il ricorrente principale, l'Avvocato Liuzzi, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata l'8 giugno 1992 Tozzi Gino conveniva avanti al Tribunale di Grosseto Fedi Graziano, suo unico socio della società in nome collettivo denominata S.G.L.E.S., Costruzioni meccaniche di Fedi e Tozzi, chiedendo dichiararsi l'illegittimità, e quindi l'inefficacia, del recesso dalla società comunicatogli dal Fedi con raccomandata del 4 novembre 1991, da valere a decorrere dal 31 dicembre 1991. Lamentava in particolare l'insussistenza di una giusta causa di recesso, genericamente indicata dal recedente in un non meglio precisato comportamento dell'altro socio, che, avendo scosso la fiducia fino ad allora goduta, avrebbe fatto venir meno ogni ragione di convenienza nella prosecuzione del rapporto. Si doleva, inoltre, che il recesso del socio avesse di fatto paralizzato l'attività della società, la cui amministrazione era stabilita a firma congiunta, costringendo esso attore a richiedere un provvedimento cautelare, ex art. 700 cod. proc. civ., per potere continuare da solo la gestione dell'azienda, e gli avesse arrecato danni valutabili in lite 50.000.000, di cui chiedeva il risarcimento. Il Fedi resisteva alla domanda, assumendo che il Tozzi avrebbe manifestato acquiescenza al recesso muovendosi alla lite dopo circa sette mesi dalla comunicazione, e, comunque, spiegava in corso di causa di essere receduto perché la gestione della società era ormai divenuta fonte di continui dissidi tra i due soci, anche in presenza di terzi, dissidi giunti una volta perfino alla colluttazione fisica, per cui non era più utile ne' possibile continuare ad operare assieme.
Alla causa veniva riunita quella iniziata dal Fedi contro il Tozzi per il conseguimento della liquidazione della quota sociale. Il Tribunale, con sentenza del 3 ottobre 1996, dichiarava la legittimità del recesso del Fedi e condannava il Tozzi, quale socio della S.G.L.E.S. Costruzioni Meccaniche, a pagare al Fedi la somma di lire 352.000.000, oltre agl'interessi legali dall'1 luglio 1992 e alle spese processuali. Riteneva, in sostanza, il Tribunale, "che nelle società a base personale, e segnatamente in quelle composte da due soli soci, il dissidio insanabile fra gli stessi, non imputabile esclusivamente al socio che intende recedere, costituisce giusta causa ai sensi dell'art. 2285, secondo comma cod. civ." Su appello del Tozzi, la Corte di appello di Firenze, in riforma della sentenza del Tribunale di Grosseto, dichiarava illegittimo e inefficace il recesso operato da Fedi Graziano dalla SIGLES s.n.c. e condannava conseguentemente lo stesso al risarcimento in favore di Tozzi Gino dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, con compensazione integrale delle spese di entrambi i gradi del giudizio. La questione se il dissidio insanabile, costituente nella società composta da soli due soci oggettivo impedimento al conseguimento dell'oggetto sociale, sia da inquadrare fra le cause di recesso del socio per giusta causa, a norma dell'art. 2285 cod. civ. - come ritenuto dalla sentenza impugnata - o fra le cause di scioglimento della società, previste dall'art. 2272 cod. civ., con conseguente illegittimità e inefficacia del recesso, doveva essere risolto, ad avviso del giudice del gravame, conformemente a quanto affermato in sede di legittimità (Cass., n. 3779 del 1983; Cass., n. 134 del 1987; Cass., n. 6410 del 1996), nel senso che in una società composta da due soci, quando il dissidio fra gli stessi risulti insanabile e si rifletta sulla gestione dell'impresa al punto da rendere impossibile il conseguimento dell'oggetto sociale, si verifica, ai sensi dell'art. 2272, n. 3 (recte: n. 2), cod. civ., non un motivo di recesso del socio bensì una causa di scioglimento della società. Soluzione, questa, che si fonda sul principio che lo scioglimento può essere impedito attraverso la domanda, anche eventualmente proposta in via riconvenzionale, di estromissione del socio al cui comportamento risulti addebitatale lo stato di dissidio, mentre non sarebbe ammissibile la soluzione opposta, cioè la conservazione della società attraverso il recesso del socio incolpevole.
Il contrasto insanabile fra i soci di una società personale, benché non espressamente previsto dall'art. 2272 cod. civ. fra le cause di scioglimento della società, è stato da sempre considerato, ricorda la Corte di appello, come una delle possibili ipotesi rientranti nell'astratta previsione d'impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale di cui al n. 2 di tale norma, specificamente quando l'entità del contrasto è tale da rappresentare un ostacolo insormontabile al funzionamento della società. Esso si colloca normativamente fra le cause di scioglimento della società, e in questa sua collocazione rimane distinto dalla diversa causa di scioglimento prevista dal n. 4 dello stesso articolo, che riguarda invece il venir meno del requisito della pluralità dei soci. Se la possibilità di ripristinare entro un dato termine la struttura societaria fosse stata prevista per ogni ipotesi ulteriore rispetto alla perdita del requisito della pluralità, l'art. 2272 cod. civ. sarebbe stato congegnato diversamente. Da questa distinzione discende che la possibilità d'impedire lo scioglimento attraverso la tempestiva ricostituzione della pluralità dei soci è estranea allo scioglimento derivante da una situazione di contrasto insanabile. Nè si potrebbe opporre la possibilità di utilizzare il fatto impeditivo del conseguimento dell'oggetto sociale ambivalentemente come causa di scioglimento della società e come (giusta) causa di recesso unilaterale del socio. L'alternativa che si offre al socio per superare la situazione conflittuale è soltanto fra lo scioglimento della società e la estromissione del socio eventualmente colpevole: soluzione, questa seconda, che si accorda ad un principio di giustizia, qual'è quello d'impedire che l'inadempimento del socio riottoso possa imporre inevitabilmente la fine della società, precludendo al socio incolpevole la possibilità di ricostituire la pluralità dei soci.
In questa impostazione interpretativa, dunque, il recesso del socio incolpevole, che ordinariamente trova nell'inadempimento altrui la sua giusta causa, non può sovrapponi allo scioglimento della società quando questa è composta da due soli soci, come non lo potrebbe, del resto, in qualsiasi altra ipotesi, anche non dipendente da colpa, da indisponibilità di uno dei due soci, come, ad esempio, in una ipotesi di sopravvenuto impedimento fisico, particolarmente decisivo in quelle società che si valgono della collaborazione fattiva dei singoli componenti. Da qui la irrilevanza, ad avviso della Corte di appello, della ricerca della responsabilità dello stato di dissidio fra i due soci e dell'affermazione, alquanto defilata nella sentenza di primo grado, ma fatta propria e conclamata dalla difesa dell'appellato, della totale addebitabilità del dissidio al comportamento prevaricatore e arrogante dell'appellante. Per la cassazione di tale sentenza, Fedi Graziano propone ricorso affidato ad un unico motivo, cui resiste Tozzi Gino, il quale propone altresì ricorso incidentale sulla base di un motivo concernente le spese di lite.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico motivo del ricorso principale, Fedi Graziano deduce il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 2272 e 2285 cod. civ. e delle norme di diritto che disciplinano le società di persone, nonché insufficienza e contraddittorietà della motivazione.
Nel ritenere che il dissidio insanabile costituirebbe, nella società composta da soli due soci, oggettivo impedimento al conseguimento dell'oggetto sociale, la Corte di appello non avrebbe verificato se il dissidio aveva caratteristiche tali da impedire il conseguimento dell'oggetto sociale, rifiutando ogni indagine sulla responsabilità del dissidio stesso, assumendone l'irrilevanza, e non avrebbe quindi individuato la vera giusta causa del recesso del Fedi, esattamente descritta, invece, dal Tribunale di Grosseto. La giusta causa del recesso, infatti, non era rappresentata, dal dissidio in sè, ma dalla violazione da parte del socio Tozzi dei doveri di fedeltà, diligenza, lealtà e correttezza reciproca, inerenti alla natura fiduciaria del rapporto sottostante. E, con la violazione di tali doveri, riassumibili nel generale dovere di buona fede, il Tozzi avrebbe fatto venire meno l'elemento fiduciario, indispensabile nelle società a base personale, generando discordia, cui il Fedi ha reagito tramite il recesso. Sarebbe, dunque, stato rilevante ricercare i motivi del dissidio e la responsabilità dello stesso. In proposito, il ricorrente richiama alcune pronunce di questa Corte nelle quali, riconducendosi la discordia tra i soci al concetto di giusta causa ai fini del recesso ex art. 2285 cod. civ., si afferma che la stessa discordia fra i soci come giusta causa di recesso di uno di essi deve trarre origine dal comportamento degli altri soci che faccia ragionevolmente venir meno nel recedente la fiducia in essi riposta. Indirizzo, questo, che mostrerebbe una particolare sensibilità circa le sorti dell'impresa, le origini e l'imputabilità dei conflitti, giungendo ad un'interpretazione restrittiva dell'art. 2272 cod. civ. proprio in nome della tutela dell'impresa. Dall'impianto del Codice Civile, infatti, sarebbe lecito enucleare un sicuro favor verso la conservazione del contratto sociale e dell'impresa, che legittima il ricorso al recesso, quale strumento di tutela, anziché allo scioglimento della società. Per tale ragione, dunque, il giudice del gravame avrebbe errato nel ritenere, sul presupposto che lo scioglimento della società, quando è composta da due soli soci, prevale sul recesso del socio incolpevole, irrilevante l'indagine sulla natura e sulle cause del dissidio.
Del resto, questa Corte, osserva il ricorrente, ha affermato (Cass., n. 6410 del 1996) la prevalenza della risoluzione del vincolo particolare sulla contemporanea presenza della causa di scioglimento sociale; ha escluso la presenza di un dissidio "insanabile" se il contrasto "sia stato determinato da gravi inadempienze di un socio, potendo in tal caso essere eliminato dall'esclusione del socio inadempiente"; ha ammesso lo scioglimento per impossibilità di conseguire l'oggetto sociale solo se l'andamento negativo dell'impresa renda "obiettivamente" inutile ed improduttiva la permanenza del vincolo associativo. E il giudice di primo grado aveva svolto una simile indagine, indagine del tutto omessa dal giudice di appello. Tale indagine, invece, sarebbe stata necessaria proprio in considerazione del fatto che le parti non si limitano, con il contratto di società, a destinare beni o servizi all'esercizio di una attività economica, ma conferiscono beni o servizi "per l'esercizio in comune di una attività economica", assumono cioè un'obbligazione ulteriore rispetto al conferimento, che è quella di collaborazione. Se un socio impedisce all'altro di collaborare e di prendere effettivamente parte alla vita della società, escludendolo da ogni iniziativa di rilievo, tale comportamento illegittimo di "emarginazione" si traduce quindi in una violazione degli obblighi contrattuali alla quale l'altro socio può giustificatamente reagire avvalendosi a tale scopo della facoltà di recesso ex art. 228S cod. civ.. E l'attività istruttoria, svolta nel giudizio di primo grado, ed ignorata in quello di secondo grado, aveva confermato le prevaricazioni operate dal Tozzi in danno del Fedi. Laddove la discordia derivi, come nel caso de quo, dalla violazione degli obblighi contrattuali e legali, quali il dovere di consentire e favorire la collaborazione reciproca (soprattutto se le quote dei soci sono di pari valore), in questo caso allora il dissidio costituisce una giusta causa che legittima il socio al recesso ex art. 2285 cod. civ..
Inoltre, perché il dissidio insanabile tra i soci possa operare come causa di scioglimento della società è indispensabile che lo stesso dissidio determini un ostacolo allo svolgimento delle attività sociali, tale da impedire il raggiungimento dell'oggetto sociale. Solo in questo caso, infatti, si potrebbe parlare di sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale, come causa di scioglimento della società, mentre non lo sarebbe se, nonostante la discordia, l'attività sociale prosegue: in questo caso, infatti, il dissidio tra i soci costituisce giusta causa di recesso. E, nel caso di specie, nonostante il dissidio tra i due soci circa il modo di gestire clienti e fornitori, curare le forniture e seguire il lavoro, l'attività della S.I.G.L.E.S. era regolarmente proseguita; il dissidio tra i due soci non aveva determinato, quindi, quella paralisi dell'attività sociale, che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, è la sola in grado di attribuire alla discordia la forza per operare come causa per lo scioglimento della società; e tuttavia il comportamento illegittimo del Tozzi aveva causato la graduale e crescente "marginalizzazione" del socio Fedi, trovatosi, di fatto, escluso dalle scelte aziendali, nonostante la sua posizione formalmente paritaria.
Inoltre, il Tozzi non aveva contestato subito l'efficacia del recesso operato dal Fedi - la prima contestazione, infatti, era stata mossa soltanto dopo cinque mesi, quando ormai era prossima la scadenza dei sei mesi per la liquidazione della quota sociale in favore del socio receduto -, e la Corte di Appello di Firenze non avrebbe colto l'estrema contraddittorietà della sua difesa. Questi, infatti, in un primo momento, si era opposto al recesso del Fedi, negando la sussistenza di una giusta causa e chiedendo, quindi, la declaratoria di inefficacia di tale atto, allo scopo di far ritornare il socio receduto nella compagine sociale perché vi riprendesse la propria opera; soltanto dopo l'esito del giudizio di primo grado, il Tozzi ha invece sostenuto, quale unico motivo d'impugnazione, che il dissidio insanabile tra i soci dovesse configurare non una giusta causa di recesso, bensì una causa di scioglimento della società, senza, peraltro, affrontare l'aspetto relativo alla addebitabilità delle cause del dissidio ed alla sua concreta capacità di impedire il conseguimento dell'oggetto sociale. E tale indagine era necessaria, in quanto l'art. 2285 cod. civ. pone una deroga espressa al principio generale sancito nell'art. 1372 cod. civ., secondo il quale il contratto non può essere sciolto che per mutuo consenso, rappresentata proprio dalla facoltà di recesso, giacché la legge riconosce al socio, in presenza di determinate condizioni, la facoltà di sciogliere unilateralmente e limitatamente alla sola sua posizione il rapporto sociale, trovando tale facoltà giustificazione nell'esigenza di tutela della libertà individuale, ivi compresa anche la libertà dell'iniziativa economica, pure nel suo aspetto negativo come libertà di rinunciare all'esercizio, in comune con altre parti, di una già intrapresa attività economica, che non può essere esclusa in caso di discordia tra i soci.
La Corte di Appello di Firenze non avrebbe quindi colto il significato del recesso a causa del difetto di indagine sulle cause del dissidio e sull'incidenza effettiva dello stesso sul conseguimento dell'oggetto sociale. E tale errore sarebbe ancora più marcato ove si consideri che quell'indagine non è stata compiuta nonostante il materiale raccolto nel primo grado del giudizio consentisse di svolgere agevolmente una simile ricerca. La Corte di Appello ha dato per scontato che vi fosse un dissidio insanabile tra i soci senza veri Scarne le cause e l'addebitabilità, affermando, anzi, in modo espresso l'assoluta irrilevanza di tale ricerca ai fini del giudizio. Inoltre, la Corte di Appello, ha dato per scontato, anche in tal caso senza alcuna indagine, che il disaccordo tra i soci fosse tale da causare l'impossibilità per la società di conseguire il suo oggetto sociale.
Il ricorso è fondato e merita pertanto accoglimento. La Corte di appello di Firenze è giunta, come si è visto, alla riforma della sentenza di primo grado sulla base del rilievo che, in linea di principio, la questione sottoposta alla sua cognizione postulasse esclusivamente la soluzione di un problema di diritto, a prescindere cioè da ogni rilevanza delle peculiarità della fattispecie dedotta in giudizio e delle risultanze degli accertamenti di fatto svolti nel giudizio di primo grado.
La Corte territoriale ha infatti osservato che la questione se il dissidio insanabile, costituente nella società composta da soli due soci oggettivo impedimento al conseguimento dell'oggetto sociale, sia da inquadrare fra le cause di recesso del socio per giusta causa, a norma dell'art. 2285 cod. civ. - come ritenuto dalla sentenza di primo grado - o fra le cause di scioglimento della società, previste dall'art. 2272 cod. civ., con conseguente illegittimità e inefficacia del recesso, doveva essere risolta, conformemente a quanto affermato in sede di legittimità (Cass., n. 3779 del 1983;
Cass., n. 134 del 1987; Cass., n. 6410 del 1996), nel senso che in una società composta da due soci, quando il dissidio fra gli stessi risulti insanabile e si rifletta sulla gestione dell'impresa al punto da rendere impossibile il conseguimento dell'oggetto sociale, si verifica, ai sensi dell'art. 2272, n. 3, cod. civ., non un motivo di recesso del socio bensì una causa di scioglimento della società. Soluzione, questa, che si fonda sul principio che lo scioglimento può essere impedito attraverso la domanda, anche eventualmente proposta in via riconvenzionale, di estromissione del socio al cui comportamento risulti addebitabile lo stato di dissidio, mentre non sarebbe ammissibile la soluzione opposta, cioè la conservazione della società attraverso il recesso del socio incolpevole. La soluzione accolta dalla Corte territoriale, però, non può essere condivisa, ne' nella sua assolutezza, ne' con riferimento alla particolarità della vicenda dedotta in giudizio. La soluzione fatta propria dal giudice di appello, infatti, sembra fondarsi sull'assunto secondo cui nella società di persone composta da due soli soci non sia neanche ipotizzarle il recesso per giusta causa, giacché l'eventuale imputabilità del dissidio insorto tra i soci, idoneo a determinare l'impossibilità di funzionamento della società, darebbe luogo ad una ipotesi di scioglimento, ai sensi dell'art. 2272, n. 2, cod. civ., mentre la eventuale imputabilità del dissidio ad uno soltanto dei soci potrebbe integrare solo gli estremi per la domanda di esclusione del socio inadempiente o al quale comunque il socio non inadempiente ritiene debba essere imputata la responsabilità della impossibilità del perseguimento dell'oggetto sociale quale conseguenza del dissidio insanabile.
Un simile ordine di argomentazioni, peraltro, non trova riscontro nelle disposizioni che regolano il recesso del socio. L'art. 2285 cod. civ., infatti, sotto la rubrica "recesso del socio", dispone, al comma primo, che "ogni socio può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci", e, al comma secondo, che " può inoltre recedere nei casi previsti dal contratto sociale ovvero quando sussista una giusta causa"; infine, al terzo comma, stabilisce che "nei casi previsti nel primo comma il recesso deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi". Nessuna limitazione è dunque prevista per l'ipotesi in cui la società di persone sia composta da due soli soci, sicché, anche in tale caso, deve ritenersi che, ove sussista una giusta causa, ovviamente imputabile all'altro socio, quello non inadempiente possa recedere. Quanto alla giusta causa, deve qui ricordarsi che questa Corte ha chiarito che "in tema di rapporti societari, l'indagine in tema di giusta causa di recesso (art. 2285 10 cod. civ.) va necessariamente ricondotta (cosi come per i rapporti di lavoro, di mandato, di apertura di credito e per tutti quelli cui la legge attribuisca particolari effetti al concetto di "giusta causa") alla altrui violazione di obblighi contrattuali, ovvero alla violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto sottostante, con la conseguenza che il recesso di un socio di una società di persone può ritenersi determinato da giusta causa solo quando esso costituisca legittima reazione ad un comportamento degli altri soci obiettivamente, ragionevolmente e irreparabilmente pregiudizievole del rapporto fiduciario esistente tra le parti del rapporto societario" (Cass., 14 febbraio 2000, n. 1602).
La conclusione che la disciplina del recesso per giusta causa trova applicazione nella sua interezza anche nelle società di persone composte da due soli soci, non essendo positivamente prevista alcuna limitazione in tal senso, trova conforto nella diversa disciplina stabilita per l'esclusione del socio. L'art. 2286 cod. civ., infatti, individua le ipotesi in cui può avere luogo l'esclusione del socio, prevedendo, per quel che rileva nel presente giudizio, che questa può avvenire "per gravi inadempienze delle obbligazioni" che derivano dalla legge o dal contratto sociale". Diversi sono però gli effetti della esclusione del socio nel caso di società con una pluralità di soci o di una società composta da due soli soci. L'art. 2287 cod. civ., nel prevedere che l'esclusione del socio è deliberata a maggioranza dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da escludere, ed ha effetto decorsi trenta giorni dalla data della comunicazione al socio escluso - termine entro il quale quest'ultimo può fare opposizione al tribunale, che può sospendere l'esecuzione -, dispone che "se la società si compone di due soci, l'esclusione di uno di essi è pronunciata dal tribunale, su domanda dell'altro".
Da tale esplicita previsione si desume che recesso del socio per giusta causa ed esclusione del socio inadempiente sono istituti che, pur trovando entrambi fondamento in violazioni del rapporto fiduciario che deve ispirare il normale svolgimento della vita societaria, operano, nelle società composte da due soli soci, su piani differenti. Mentre, infatti, l'operatività del recesso è subordinata, in tali società, esclusivamente alla comunicazione del socio e si verifica con la mera comunicazione ("la dichiarazione di recesso del socio per giusta causa è negozio unilaterale recettizio, la cui perfezione e la cui idoneità a produrre si raggiungono col venire a conoscenza degli altri soci, sicché il recesso ha effetto immediato e la sentenza che accerta l'esistenza della giusta causa è dichiarativa con efficacia ex nunc": Cass., 6 dicembre 1965, n. 186;
e perché si produca tale effetto non è necessaria alcuna accettazione da parte degli altri soci, persino nell'ipotesi in cui la società sia composta di due sole persone: Cass., 3 gennaio 1962, n. 2; analogamente, Cass., 10 giugno 1999, n. 5732), la richiesta di esclusione del socio inadempiente produce effetto solo dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che l'esclusione disponga ("nel caso di società di persone composta di due soci, l'esclusione di uno di essi può essere pronunciata esclusivamente dal tribunale, su domanda dell'altro, ai sensi dell'art. 2287 cod. civ., applicabile anche alle società in nome collettivo": Cass., 3 dicembre 1984, n. 6302; in senso analogo, v. anche Cass., 11 giugno 1986, n. 3863). Appare dunque evidente come l'iniziativa del socio di recedere in presenza di un comportamento inadempiente dell'altro socio non sia surrogabile dalla possibilità di chiedere l'esclusione del medesimo socio inadempiente: nel primo caso, invero, la società può continuare ad esistere, se nel termine di sei mesi dalla comunicazione del recesso venga ricostituita la pluralità dei soci;
nel secondo caso, la società continua a godere del requisito della pluralità dei soci fintante che non venga dichiarata l'esclusione del socio inadempiente dal tribunale con sentenza passata in giudicato. Si tratta di due modalità di fronteggiare l'inadempimento di uno dei due soci dagli effetti diversi e che presuppongono una diversa volontà del socio non inadempiente. Nel primo caso, operando il recesso, egli intende risolvere il proprio rapporto con la società, e questa può continuare ad operare se nel termine di sei mesi dalla comunicazione venga ricostituita la pluralità dei soci;
nel secondo caso, il socio non inadempiente intende escludere dalla società il socio inadempiente ed eventualmente evitare lo scioglimento, ricostituendo la pluralità dei soci nei sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che dichiari l'esclusione. Sono due diverse espressioni della libertà di iniziativa economica della quale il socio gode, l'una di carattere negativo, nel senso che l'opzione del socio è quella di dismettere la propria partecipazione all'esercizio di attività economica in forma societaria, ottenendo la liquidazione della propria quota, che dovrà necessariamente avvenire per equivalente (art. 2289 cod. civ.); l'altra di carattere positivo, attraverso la quale il socio manifesta la propria opzione per la prosecuzione dell'attività societaria, quantomeno fino alla pronuncia della sentenza che accolga la domanda di esclusione dell'altro socio, salva la facoltà di procedere alla ricostituzione della pluralità dei soci.
Nè può escludersi l'eventualità che recesso ed esclusione concorrano, nel qual caso, come affermato da Cass., 13 gennaio 1987, n. 134, ove sia pendente il giudizio volto ad ottenere l'esclusione del socio, questi può esercitare il proprio diritto di recesso, così determinando lo scioglimento del rapporto dal momento in cui la sua dichiarazione perviene a conoscenza del destinatario in via prevalente rispetto alla successiva sentenza che ne pronunci l'esclusione, di natura costitutiva, giacché nelle società di persone il principio secondo il quale, nel concorso di più cause di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, deve ritenersi operante quella che si verifica per prima trova applicazione anche nel caso di concorso fra recesso ed esclusione. Una volta chiarito che il recesso e l'esclusione sono istituti che operano su piani differenti e che la funzione del recesso è alternativa all'esclusione, occorre ulteriormente precisare che allorquando a giustificazione del recesso venga addotto un insanabile contrasto tra i due soci della società di persone - dissidio che, traducendosi nella impossibilità di conseguire l'oggetto sociale, integra, ai sensi dell'art. 2272, n. 2, cod. civ., un'ipotesi di scioglimento della società -analogamente, non può ritenersi che sia precluso il recesso da parte del socio che ritenga l'insanabile dissidio addebitabile all'altro socio. Recesso per giusta causa e scioglimento della società, invero, possono concorrere operando il primo sul piano soggettivo e, il secondo, sul piano oggettivo della impossibilità di funzionamento della società.
Questa Corte ha già riconosciuto che il dissidio tra i soci, benché non annoverato espressamente dall'art. 2272 cod. civ. tra le cause di scioglimento delle società personali, può assumere rilevanza a tal fine (Cass., 2 giugno 1983, n. 3779; Cass., 14 febbraio 1984, n. 1122; Cass., 13 gennaio 1987, n. 134; Cass., 15 luglio 1996, n. 6410). Perché tale situazione possa risolversi in quella generale contemplata dal n. 2 del citato art. 2272 è tuttavia necessario che il conflitto tra i soci sia tale da rendere "impossibile" il conseguimento dell'oggetto sociale (Cass., 2 giugno 1983, n. 3779, cit.). L'incidenza del dissidio sulla gestione dell'impresa deve cioè essere idonea a rendere obiettivamente non più conveniente la continuazione dell'attività sociale e conseguentemente inutile e improduttiva la permanenza del vincolo sociale (Cass., 21 luglio 1937, n. 4683). E perché si determini una situazione siffatta è peraltro necessario che il conflitto sia insanabile. E, come affermato da Cass., 15 luglio 1996, n. 6410 cit., tale non può essere considerato il conflitto causato da "gravi inadempienze" di uno dei soci, dal momento che in detta ipotesi i contrasti tra i soci possono essere eliminati estromettendo quello inadempiente a norma dell'art. 2286 cod. civ. Ma non può peraltro escludersi, per le ragioni normative e sistematiche sopra evidenziate, che il contrasto possa essere risolto, anche attraverso il recesso per giusta causa del socio non inadempiente, rappresentando anche tale manifestazione di volontà espressione della libertà di iniziativa economica. Ne consegue che, allorquando un socio di una società composta da due soli soci receda dalla società adducendo una giusta causa e sulla legittimità o meno del recesso sorga controversia tra i due soci, il giudice del merito, con accertamento di fatto, come tale insuscettibile di sindacato in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivato, è tenuto a verificare l'esistenza o meno della giusta causa, da intendersi nel senso sopra citato, e ad adottare i provvedimenti conseguenti all'esito dell'accertamento svolto. Ove poi a giustificazione del recesso venga addotto un insanabile dissidio imputabile all'altro socio, l'accertamento della imputabilità o meno del dissidio, e conseguentemente della sussistenza o meno di una giusta causa di recesso, non può ritenersi precluso, giacché, come rilevato, il dissidio insanabile tra soci non può, in tale ipotesi, costituire di per sè causa di scioglimento della società. Ciò che certamente deve escludersi è che, nell'una e nell'altra situazione, il giudice del merito possa ritenere irrilevanti gli accertamenti inerenti alla sussistenza della dedotta giusta causa di recesso ovvero alla idoneità del dissidio a rendere impossibile il perseguimento dei fini sociali. In questo senso, non è condivisibile la sentenza impugnata laddove, in presenza di una domanda di dichiarazione di inefficacia del recesso per giusta causa operato dal socio Fedi, ha condotto, in termini astratti e prescindendo dalla concreta fattispecie sottoposta al suo giudizio, la valutazione con riferimento alla diversa ipotesi del dissidio insanabile tra i due unici soci della società in nome collettivo, ritenendo del tutto irrilevante "la ricerca della responsabilità dello stato di dissidio fra i due soci", nonché l'affermazione contenuta nella sentenza di primo grado "della totale addebitabilità del dissidio al comportamento prevaricatore e arrogante dell'appellante (e cioè del Tozzi)", e omettendo altresì di spingere il proprio esame sulle caratteristiche del dissidio, con particolare riguardo alla idoneità di questo a rendere obiettivamente non più conveniente la continuazione dell'attività sociale e quindi inutile e improduttiva la permanenza del vincolo sociale.
Al contrario, un accertamento in fatto sarebbe stato necessario sia per valutare se effettivamente la dedotta causa di recesso avesse determinato o meno un insanabile dissidio tra soci, essendo consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui "nelle società di persone, lo scioglimento per insanabile dissidio tra i soci presuppone che la situazione di conflitto renda impossibile il raggiungimento dei fini sociali" (Cass., 22 agosto 2001, n. 11185; analogamente, v. Cass., 15 luglio 1996, n. 6410); sia per valutare se la situazione posta a fondamento del recesso per giusta causa fosse o meno sussistente nei termini rappresentati dal socio recedente, essendo tra le parti controversa proprio l'esistenza della giusta causa del recesso comunicato dal Fedi.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con conseguente assorbimento del ricorso incidentale, relativo esclusivamente al capo di sentenza concernente il regolamento delle spese dei due gradi di giudizio.
La sentenza impugnata deve quindi essere cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Firenze, la quale, alla luce dei principi di diritto sopra indicati, procederà ad accertare la fondatezza o meno della domanda di dichiarazione di inefficacia del recesso per giusta causa proposta dal Tozzi, verificando se sussistesse o meno la dedotta giusta causa di recesso e, nel caso in cui la situazione dedotta dovesse risultare quella di dissidio insanabile tra i soci, a verificare se il dissidio fosse o meno insanabile e, in quanto tale, idoneo a integrare la causa di scioglimento della società ai sensi dell'art. 2272, n. 2, cod. civ. Il giudice di rinvio procederà altresì al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale, assorbito quello incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Firenze, altra sezione.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2004.
Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2004