Diritto e Procedura Civile
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 3151 - pubb. 01/08/2010
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Cassazione Sez. Un. Civili, 16 Ottobre 2008, n. 25246. Est. Settimj.
Impugnazioni civili - Appello - Domande - Non riproposte (decadenza) - Soccombenza in primo grado sulla sola questione di giurisdizione espressamente respinta - Prospettazione in appello della medesima questione - Riproposizione ai sensi dell'art. 346 cod. proc. civ. - Sufficienza - Esclusione - Onere dell'appello incidentale - Sussistenza - Fondamento
Cosa giudicata civile - Effetti del giudicato (preclusioni) - Questione di giurisdizione decisa sfavorevolmente in primo grado - Modi di riproposizione in appello dalla parte vittoriosa nel merito - Appello incidentale - Necessità - Mera riproposizione ai sensi dell'art. 346 cod. proc. civ. - Esclusione - Fondamento
La parte risultata vittoriosa nel merito nel giudizio di primo grado, al fine di evitare la preclusione della questione di giurisdizione risolta in senso ad essa sfavorevole, è tenuta a proporre appello incidentale, non essendo sufficiente ad impedire la formazione del giudicato sul punto la mera riproposizione della questione, ai sensi dell'art. 346 cod. proc. civ., in sede di costituzione in appello, stante l'inapplicabilità del principio di rilevabilità d'ufficio nel caso di espressa decisione sulla giurisdizione e la non applicabilità dell'art. 346 cod. proc. civ. (riferibile, invece, a domande o eccezioni autonome sulle quali non vi sia stata decisione o non autonome e interne al capo di domande deciso) a domande o eccezioni autonome espressamente e motivatamente respinte, rispetto alle quali rileva la previsione dell'art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., per cui in assenza di puntuale impugnazione opera su di esse la presunzione di acquiescenza. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo - Primo Presidente -
Dott. CRISCUOLO Alessandro - Presidente di sezione -
Dott. MORELLI Mario Rosario - Consigliere -
Dott. SETTIMJ Giovanni - rel. Consigliere -
Dott. SALMÈ Giuseppe - Consigliere -
Dott. SALVAGO Salvatore - Consigliere -
Dott. DE MATTEIS Aldo - Consigliere -
Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere -
Dott. BENINI Stefano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE N. 6 DI PALERMO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE SANTO 2, presso lo studio dell'avvocato ROMEO FULVIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato NARBONE Salvatore, giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
MORANA GIOVANNI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GUIDO RENI 2, presso lo studio dell'avvocato DE GREGORIO Maddalena, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato BONFIGLIO AMEDEO, giusta delega in calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso la decisione n. 41/06 del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia Palermo, depositata il 13/02/06;
uditi gli avvocati Fulvio ROMEO, Maddalena DE GREGORIO;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio il 06/05/08 dal Consigliere Dott. Giovanni SETTIMJ;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso 18.04/3.5.02, il Dott. Giovanni Morana ha proposto innanzi al TAR di Palermo ricorso giurisdizionale contro l'Azienda Unità Sanitaria Locale N. 6 di quel capoluogo per l'annullamento del provvedimento 18.02.02 n. 357 - con il quale si era stabilito che la città di Palermo, pur suddivisa in cinque distretti sanitari ai fini dell'assistenza primaria, costituisse unico ambito territoriale ai fini della determinazione del rapporto ottimale tra medici convenzionati e pazienti - denunziandone l'immediata lesività dei propri interessi per il calo determinante dei pazienti ed assumendone l'illegittimità per violazione dell'art. 19 del regolamento d'esecuzione dell'Accordo Collettivo del 28.07.00 n. 270, violazione dell'art. 20, commi 2 e 3 dell'Accordo Collettivo dei medici convenzionati, nonché sviamento di potere per disparità di trattamento, illogicità manifesta e travisamento dei fatti. Costituendosi in quella sede, l'AUSL PA N. 6 ha eccepito, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo, e, nel merito, ha chiesto il rigetto del ricorso per mancata impugnazione dell'atto presupposto e, comunque, per l'insussistenza d'alcun atto lesivo degli interessi del ricorrente. Con decisione n. 1213/03 il TAR Sicilia, espressamente respingendo l'eccezione sollevata dalla AUSL, ha, in limine, affermato la propria giurisdizione D.Lgs. n. 80 del 1998, ex art. 33, mentre ha, poi, dichiarato inammissibile il ricorso del Morana per mancata impugnazione degli atti presupposti.
Avverso tale pronunzia il Morana ha proposto impugnazione resistita dalla AUSL.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, con decisione n. 41 del 13.7.06, ha accolto l'originario ricorso, escludendo che la causa petendi posta a base della domanda necessariamente comportasse la contestuale impugnazione anche di atti presupposti, ed, in riforma della decisione del TAR, ha annullato l'atto impugnato, statuendo che l'AUSL, nel pubblicare le nuove zone carenti, dovesse far rispettare il rapporto ottimale anche nei distretti.
La decisione del CGARS è impugnata per cassazione dalla AUSL con ricorso affidato a due motivi, nei quali preliminarmente deduce il difetto di giurisdizione dell'A.G.A. ed, ex art. 111 Cost., la violazione del decreto assessoriale sanità 11.4.01 n. 34388 e del D.P.R. n. 270 del 2000, artt. 19 e 20, richiamati nella Delib. Direttore Generale AUSL n. 679 del 2001.
Il Morana si è costituito resistendo al ricorso.
Il consigliere nominato ex art. 377 c.p.c., ha avviato procedimento ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., con relazione nella quale ha rilevato l'inammissibilità d'entrambi i motivi del ricorso osservando: quanto al primo, che sull'eccezione di difetto di giurisdizione dell'A.G.A., già prospettata innanzi al TAR e da questo disattesa, s'era formato il giudicato interno, per non essere stata impugnata incidentalmente innanzi al CGARS la decisione di primo grado al riguardo; quanto al secondo, che all'esame ostava la natura delle censure, attinenti a pretesi errori in indicando ed in procedendo, laddove l'art. 111 Cost., comma 3, attribuisce alle SS.UU. della Corte di Cassazione solo un potere di sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo circoscritto all'osservanza dei limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali.
La relazione è stata comunicata al Procuratore Generale, che nulla ha avuto da osservare sulle ragioni e sulle conclusioni espostevi, ed alle parti, che hanno entrambe depositato memorie ed illustrato le rispettive ragioni all'odierna Camera di consiglio.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con la prodotta memoria la ricorrente si sofferma, in particolare, nel sostenere, a suffragio del primo motivo, che, in quanto parte vittoriosa nel giudizio di primo grado, non fosse tenuta ad impugnare incidentalmente la decisione negativa del TAR sull'eccezione di difetto di giurisdizione, ch'ella aveva sollevata in primo grado, ma solo a riproporre l'eccezione stessa, ciò che aveva fatto con la comparsa di costituzione.
Devesi premettere che la questione così sollevata e portata all'esame di queste SS.UU. attiene alla sola impugnazione nel secondo grado di merito e non nel giudizio di legittimità, per il quale essa non si pone, dacché, come è stato ripetutamente evidenziato dalla costante giurisprudenza di questa Corte generalmente condivisa dalla dottrina, nell'ipotesi in cui la sentenza impugnata abbia, sia pure implicitamente, risolto in senso sfavorevole alla parte vittoriosa una questione preliminare o pregiudiziale, il ricorso per cassazione dell'avversario impone a detta parte, qualora intenda ottenere un riesame della Corte sulla questione stessa, di proporre ricorso incidentale, in considerazione della struttura del giudizio di legittimità, il quale non è soggetto alla disciplina dettata, per l'appello, dall'art. 346 c.p.c., con la conseguenza che l'onere dell'impugnazione gravante sull'intimato va riferito non solo alla soccombenza pratica ma anche a quella teorica, e non può essere assolto con la sola riproposizione della questione con il controricorso, ma è necessario il ricorso incidentale per sottoporre alla Corte medesima la questione pregiudiziale o preliminare disattesa dal giudice di appello che, quelle respinte, abbia deciso la controversia nel merito (e pluribus: Cass. 19.8.04 n. 16284, 8.1.03 n. 100, 13.4.02 n. 5357, 17.6.96 n. 5529, 12.4.84 n. 23 77 ed ulteriori richiami ivi).
Ciò posto, la tesi sostenuta dalla resistente non merita d'essere condivisa, in quanto si basa su di una controversa giurisprudenza tralaticia che, sebbene anche recentemente ribadita (Cass. SS.UU. 19.2.07 n. 3717 e riferimenti ivi a Cass. SS.UU. 6.9.90 n. 9197 ed a Cass. SS.UU. n. 100/1993, rectius n. 1005 del 27.1.93 -n.d.e.-), presta acritica adesione a quei precedenti, anch' essi per lo più riproduttivi d'anteriori massime, che non tengono conto ne' delle decisioni di segno contrario (e pluribus, Cass. SS.UU. 22.12.00 n. 1327 in caso analogo al presente, 3.2.95 n. 1311, 10.12.84 n. 6477, 9.3.82 n. 1502, 5.11.81 n. 5823, 10.11.76 n. 4114, 28.4.76 n. 1506, alle quali si sono conformate altre pronunzie, del pari recenti, quali Cass. SS.UU. 10.3.05 n. 5207 e, da ultimo, Cass. SS.UU. 8.4.08 n. 9038), ne' della diversa opinione motivatamente difforme espressa in dottrina da più parti e sotto vari profili.
Lo stesso Consiglio di Stato - d'una decisione del quale si discute in questa sede - ha ripetutamente evidenziato che le questioni pregiudiziali espressamente esaminate e decise dal giudice di primo grado debbono formare oggetto d'appello principale od incidentale e non di semplice riproposizione con memoria, diversamente formandosi su di esse il giudicato (Cons. St. Sz. 6^, 22.10.02 n. 5813, 30.9.98 n. 1326, Sz. 5^, 7.4.95 n. 521, 24.11.92 n. 1387, Sz. 6^, 26.10.92 n. 815, Sz. 5^, 19.4.91 n. 604, 1.2.89 n. 81, Sz. 6^ 8.10.85 n. 415, Sz. 4^, 16.12.80 n. 1214), mentre la semplice riproposizione ad opera della parte appellata è consentita in ordine alle sole questioni assorbite o non decise (da ultimo, Cons. St. Sz. 6^ 7.6.05 n. 2911 e 2938, 23.11.04 n. 7667, Sz. 4^, 23.12.98 n. 570).
Milita, in effetti, avverso la tesi sostenuta dalla resistente e da una parte della giurisprudenza e della dottrina, una pluralità di considerazioni.
A partire dall'inapplicabilità del principio della rilevabilità d'ufficio del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del processo, pur a volte invocato da quanti sostengono che al riguardo non possa, per ciò, formarsi giudicato alcuno: è, per contro, costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte che tale principio possa trovare piena applicazione solo ove sulla giurisdizione non esista una precedente statuizione (oppure se la lite non sia già passata al vaglio delle Sezioni Unite); quando, invece, l'anzidetta statuizione sia intervenuta, il principio medesimo va coordinato con il sistema delle impugnazioni e delle relative preclusioni, che determina la formazione progressiva del giudicato, posto a salvaguardia dell'ordinato svolgimento del processo, nel senso che, qualora una delle parti abbia sollevato la questione in primo grado ma non abbia, poi, ritualmente espresso le proprie doglianze contro la decisione giudiziale sfavorevole emessa sul punto, questa passa in giudicato e preclude ogni ulteriore contestazione, onde i giudici delle successive fasi processuali potranno conoscere della questione di giurisdizione soltanto se vi sia stata impugnazione al riguardo (o se sia stata "riproposta con l'impugnazione", espressione equivoca della quale in seguito), essendo tenuti, diversamente, ad applicare il disposto dell'art. 329 c.p.c., ed a rilevare la formazione del giudicato interno sulla questione stessa (e pluribus: Cass. SS.UU. 27.4.05 n. 8692, 8.8.03 n. 12002, 6.7.98 n. 6559, 17.6.96 n. 5529, 4.1.95 n. 94, 9.2.90 n. 942, 1.3.88 n. 2193, 12.4.84 n. 2377, 14.10.82 n. 5317, 4.1.80 n. 4, 8.8.79 n. 4630, 28.4.76 n. 1506).
A seguire, contrastano la tesi in esame considerazioni che derivano, in particolare, dall'esame del tenore letterale dell'art. 346 c.p.c. (disposizione la cui esegesi non può prescindere da un coerente coordinamento con il complesso delle altre pertinenti e connesse disposizioni della normativa processuale civilistica, in applicazione del comunemente accolto insegnamento di Celso per cui incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita, indicare vel respondere: D. 1, 3, 24).
Nella qual disposizione, anzi tutto, devesi ritenere sia fatto riferimento alle domande ed alle eccezioni cui possa essere riconosciuto carattere d'autonomia rispetto alle altre domande ed eccezioni proposte e sollevate nel giudizio, id est che siano tali da dar luogo ad un esame separato e ad una decisione dotata d'una propria portata precettiva e basata su ragioni necessariamente distinte ed indipendenti rispetto alle ragioni giustificatrici delle decisioni rese sulle dette altre domande ed eccezioni; diversamente, come desumibile anche dal disposto dei due commi dell'art. 336 c.p.c., una loro disciplina separata e specifica, con l'espressa previsione dell'onere di riproposizione, pena la presunzione di rinunzia, non sarebbe stata necessaria, in quanto sarebbero rimaste regolate dalla disciplina dettata da quest'ultima norma, id est seguirebbero la sorte delle domande e delle eccezioni rispetto alle quali esse fossero risultate collegate da un qualsivoglia nesso logico di consequenzialità-dipendenza.
In proposito, quale che sia la posizione che si voglia assumer in ordine alla vexata quaestio del significato da attribuire alla locuzione "parte di sentenza" contenuta nell'art. 329 c.p.c., comma 2 e art. 336 c.p.c. - ogni singola questione; od ogni domanda sostanziale; o piuttosto, come sembra preferibile, ogni singola statuizione risolutiva d'una questione controversa avente una propria individualità ed autonomia sì da dar luogo ad un decisum del tutto indipendente da quelli resi sulle altre questioni, cui debba riconoscersi carattere imperativo - non può che prendersi atto dell'opinione, ampiamente accolta in dottrina ed in giurisprudenza (per quest'ultima vedasi già la fondamentale Cass. SS.UU. 28.4.76 n. 1506) secondo la quale la decisione sulla questione di giurisdizione, sia in senso negativo eppertanto conclusiva del giudizio, sia in senso positivo eppertanto introduttiva alle ulteriori decisioni sulle altre questioni (pregiudiziali o di merito), da luogo ad una pronunzia di carattere autonomo nel senso indicato e ciò anche sulla scorta del diritto positivo.
Tale autonomia si ricava, anzi tutto, dal fatto che, sebbene si ponga sempre in funzione dell'esame del merito della lite, è la questione di giurisdizione a condizionare le altre e non viceversa, dacché l'esame della contestazione in ordine al potere decisorio del giudice, in quanto carente di giurisdizione, non può essere condizionato al risultato della lite inerente al merito; tant'è che nel giudizio di legittimità, in deroga al principio della valutabilità dei motivi del ricorso incidentale condizionato solo ed a seguito della ritenuta possibilità d'accoglimento d'uno o più dei motivi del ricorso principale, al motivo del ricorso incidentale condizionato afferente la giurisdizione va attribuito - peraltro al pari degli altri motivi su questioni pregiudiziali ma anche preliminari, il che è significativo anche ai fini della problematica generale in argomento - carattere prioritario nell'ordine di trattazione (Cass. 28.8.04 n. 17192, 9.9.04 n. 18169, 19.5.03 n. 7762, 23.5.01 n. 212).
Autonomia che è, comunque, anche testualmente desumibile dall'art. 382 c.p.c., che contiene la previsione d'un'apposita statuizione sulla giurisdizione; dall'art. 187 c.p.c., che consente al giudice istruttore di rimettere le parti al collegio per la decisione delle questioni idonee di per sè sole a definire il giudizio, ove trattisi tanto di questioni preliminari di merito, quanto di questioni attinenti, appunto, alla giurisdizione, o alla competenza, o ad altre pregiudiziali di contenuto processuale; dall'art. 279 c.p.c., n. 4, che, a seguito della detta rimessione, prevede, poi, la decisione di tali questioni non mediante ordinanza, ma con sentenza, pur ove in tale occasione il collegio non definisca il giudizio ed adotti, con separata ordinanza, distinte determinazioni per l'ulteriore istruzione della causa; ancora, dall'art. 276 c.p.c., che espressamente ravvisa un oggetto di distinte attività e funzione decisorie nella soluzione delle questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio.
Se ne è correttamente desunto che il contenuto specificamente decisorio di una sentenza può ben essere costituito anche dalla risoluzione di questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, che da luogo ad autonome parti di sentenza, alle quali va riconosciuto, per ciò, il carattere dell'imperatività, eventualmente tali da esaurire del tutto il contenuto della sentenza stessa, sia che trattisi di decisione definitiva, sia che trattisi di decisione non definitiva, nel qual ultimo caso le parti, malgrado la prosecuzione del giudizio, hanno, ex art. 340 c.p.c., il preciso onere di proporre appello immediato, o riserva d'appello, pena il passaggio in giudicato e l'immutabilità di tale decisione nel prosieguo della controversia.
Ciò stante, non sembra logico sostenere che la medesima autonoma decisione sull'eccezione pregiudiziale o preliminare comporti l'onere dell'impugnazione specifica ove adottata con sentenza non definitiva, o con sentenza che definisce il giudizio in funzione della detta sola eccezione pregiudiziale o preliminare, e non lo comporti, per contro, ove costituisca una delle più parti, o pronunzie dotate d'autonoma rilevanza, nelle quali può articolarsi una sentenza definitiva che pronunzi anche sul merito sostanziale o processuale; al riguardo, la opinione dottrinaria che ravvisa, per l'ipotesi della sentenza non definitiva, una deroga normativa alla regola generale della riproponibilità in luogo dell'impugnabilità non fornisce, tuttavia, di tale assunta deroga, apprezzabili ragioni giustificative. Tornando all'esame del tenore letterale dell'art. 346 c.p.c., devesi ancora considerare come con l'espressione "non accolte" il legislatore - cui va riconosciuta un'adeguata precisione terminologica, non essendo ancora invalso, all'epoca di redazione della norma, l'uso di endiadi per esprimere un concetto negativo già utilmente definito da un appropriato vocabolo - abbia evidentemente inteso, avendola utilizzata in luogo dei termini "rigettate" o "respinte", fare riferimento a situazioni diverse da quella costituita da un'espressa pronunzia negativa sulla domanda o sull'eccezione, e ritenuto, piuttosto, di regolare quelle diverse ipotesi decisionali nelle quali il mancato accoglimento non si coniuga con un'espressa reiezione ma con la pretermessa valutazione delle domande e delle eccezioni considerate, quali l'omessa pronunzia o la pronunzia, implicita od esplicita, d'assorbimento; anche perché, ove si fosse fatto effettivo riferimento a domande "respinte", la norma si porrebbe in contrasto con il principio della soccombenza e con le regole sull'introduzione del processo di gravame, per le quali la riproposizione in secondo grado delle domande e delle eccezioni autonome rigettate in primo richiede la forma del gravame principale o incidentale.
Per il vero, anche l'interpretazione per la quale con la locuzione "non accolte" il legislatore avrebbe inteso fare riferimento alle domande ed eccezioni pretermesse od assorbite è stata assoggettata a critica da quella parte della dottrina che è pervenuta alla conclusione di considerare il riferimento stesso fatto non alla domanda giudiziale nel suo complesso, quanto piuttosto alle varie possibili articolazioni di essa, alle ragioni o motivi sui quali si basa, piuttosto che al suo insieme in sè e per sè considerato. In ogni caso, come ritenuto da autorevole dottrina e da numerose pronunzie di questa Corte, in presenza d'una domanda o d'un'eccezione autonome espressamente e motivatamente respinte, l'attività processuale della parte interessata ad ottenere una difforme statuizione al riguardo non può considerarsi disciplinata dall'art. 346 c.p.c., che consente la semplice riproposizione della domanda o dell'eccezione - pur autonome ma sulle quali non siasi avuta una decisione o, seguendo diversa teoria, non autonome ed interne al capo di domanda deciso - bensì deve ritenersi disciplinata dall'art. 329 c.p.c., comma 2, per il quale, coerentemente con il principio della soccombenza, le decisioni autonome sfavorevoli contenute nella sentenza debbono formare oggetto di puntuale impugnazione, principale od incidentale, ad opera della parte interessata, pena la presunzione d'acquiescenza.
Il che, d'altronde, è coerente con la natura del giudizio d'appello, configurato nell'attuale ordinamento non quale iudicium novum ma quale revisio prioris instantiae, e con la consequenziale previsione della specificità dei motivi d'impugnazione, per la quale si richiede che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono, onde alla parte volitiva dell'appello deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, se pure nei limiti consentiti dalla correlazione con la motivazione della sentenza impugnata.
In vero, a fronte della motivata reiezione d'una domanda o d'un'eccezione autonome, non sarebbe conforme ai menzionati criteri informatori della revisio proris instantiae in appello consentire alla parte interessata di limitarsi a riproporre l'una o l'altra, così come svolte nel giudizio di primo grado, esonerandola dall'onere di prendere in esame la motivazione di rigetto, specificamente resa al riguardo dal giudice a quo, e di svolgere su di essa adeguata critica.
Mentre appare indubitabile che, ove tale critica venga svolta, la relativa deduzione, qual che ne sia la modalità, finisca per avere la sostanza dell'impugnazione e come tale debba essere valutata e ciò, proprio in quanto proveniente dall'appellato ed avente ad oggetto questioni del tutto autonome rispetto a quelle oggetto dell'impugnazione principale, soprattutto in funzione delle condizioni di forma e di tempo della sua ammissibilità. Parte della dottrina ha, altresì, evidenziato come la genericità dell'espressione "riproposte" consenta un'interpretazione della norma nel senso che il legislatore non abbia inteso escludere tout court l'impugnazione, bensì configurare la "riproposizione" in guisa che possa aver luogo tanto mediante specifica impugnazione, quanto mediante la riformulazione delle difese già svolte in primo grado (riformulazione che deve, peraltro, essere specifica; del che in seguito, nell'esame della seconda ragione d'inammissibilità del motivo di ricorso de quo), onde la scelta conseguente a tale alternativa è ricollegata, ancora una volta, all'oggetto della decisione, dovendosi prendere in considerazione la necessità dell'impugnazione nell'ipotesi di decisione negativa, espressa e motivata, su di una domanda od un' eccezione autonome e, viceversa, la rinnovazione delle precedenti difese nella diversa ipotesi di una domanda od un'eccezione non decise in quanto pretermesse o ritenute assorbite.
Dell'incertezza che ingenera l'espressione "riproposte", ove non correttamente interpretata, costituiscono evidente manifestazione le numerose sentenze per le quali una specifica decisione negativa su questioni pregiudiziali o preliminari osta all'esame delle stesse in sede di gravame, anche officioso se del caso, ove non siano state "riproposte con l'impugnazione" dalla "parte interessata", laddove una corretta definizione, ove si fosse seguita la tesi qui contestata, avrebbe richiesto l'uso del termine "impugnate" ove si fosse fatto riferimento alla parte soccombente e del termine "riproposte" ove il riferimento fosse stato alla parte vittoriosa; la lettura dei relativi testi integrali, dai quali soltanto possono desumersi quale posizione processuale sia stata esaminata (se della parte vittoriosa appellata o della soccombente appellante) e quali siano state le concrete applicazioni del principio risultante dalla massima, sembra emergere, in prevalenza, una sostanziale applicazione del criterio interpretativo da ultimo evidenziato. Ed, in effetti, la "riproposizione" delle domande e delle eccezioni autonome "non accolte", una volta che ai detti termini sia stato attribuito il significato loro proprio quale desumibile dalla esegesi della normativa esaminata, assume necessariamente il carattere dell'impugnazione, dacché la parte interessata, insistendo sulle dette domande od eccezioni, non chiede affatto una conferma della sentenza di primo grado, id est il solo rigetto dell'avverso gravame eppertanto il mantenimento della decisione impugnata nei medesimi termini con i quali è stata adottata, bensì una radicale riforma della stessa, basata sulla riconsiderazione di questioni del tutto autonome e distinte rispetto a quelle in base alle quali la decisione ha avuto luogo; il che distingue tale situazione da quella in cui la parte interessata, nel chiedere il rigetto del gravame e quindi la conferma della sentenza impugnata, riprospetta questioni connesse alla questione decisa, pur disattese dal giudice a quo ma ritenute utili e rilevanti al fine di mantenere ferma detta decisione. Nella "parte interessata", peraltro, in relazione alle domande ed eccezioni autonome delle quali si tratta, non può non ravvisarsi anche quella vittoriosa nel merito ma soccombente quanto alle une od alle altre: particolarmente, ove trattisi di domande distinte ed autonome gradatamente o disgiuntamente proposte, delle quali sia stata accolta la subordinata in luogo della principale o solo l'una e non anche l'altra; come pure ove siano state disattese eccezioni litis ingressum impedientes, ostative ex se a qualsiasi decisione da parte degli aditi ordine giudiziario in genere o singolo giudice in specie, oppure all'introduzione del giudizio.
Ciò in quanto il principio contenuto nell'art. 100 c.p.c. - a norma del quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario averne interesse - si applica anche al giudizio d'impugnazione e l'interesse ad impugnare una sentenza, od un capo di essa, si ricollega ad una soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio, intesa, in senso sostanziale e non formale, quale statuizione sfavorevole; onde l'interesse ad impugnare una pronunzia sorge ogni qualvolta si verifichi tale soccombenza, anche soltanto parziale, id est quando una delle parti in causa abbia visto non accolte integralmente le proprie domande od eccezioni così come formulate, ove caratterizzate da quell'autonoma individualità, nei sensi in precedenza evidenziati, che attribuisce loro l'effetto d'interagire sul processo in via immediata ed anticipata rispetto a qualsiasi altro oggetto di decisione.
Non senza considerare che, come è stato evidenziato in dottrina, "l'esigenza dell'appello incidentale si giustifica non solo con la soccombenza rispetto alla singola eccezione, cui può corrispondere un interesse che trascende i limiti del giudizio in corso, ma anche con il fatto che solo in apparenza essa è virtuale, potendo assai facilmente diventare pratica e concreta nel momento in cui il giudice si persuada della fondatezza dei motivi addotti con l'appello principale contro la sentenza di primo grado, e ritenga conseguentemente errato l'accoglimento dell'altra eccezione". Quanto, poi, in particolare, all'interesse del convenuto che sollevi l'eccezione di difetto di giurisdizione, devesi considerare come esso abbia valenza aprioristica, in quanto tutelato dall'ordinamento anche a livello costituzionale ex art. 25, comma 1, inteso com'è a che la controversia sia risolta dal giudice naturale precostituito per legge, id est quello cui detta parte ritiene debba essere devoluta la cognizione della controversia stessa, ed ovvi riflessi pratici sulla situazione processuale e sostanziale del convenuto ove appunto - come nella specie - il giudice di secondo grado disattenda le ragioni di reiezione della domanda attorea ritenute dal primo giudice ed accolga la domanda stessa.
In definitiva, non essendo stata espressamente impugnata con appello incidentale la decisione sulla giurisdizione adottata dal giudice di primo grado, la questione al riguardo non può formare oggetto di trattazione in sede di legittimità, essendosi sulla stessa formato il giudicato, onde il primo motivo del ricorso va dichiarato inammissibile.
Conclusione alla quale si perverrebbe, comunque, anche per altre autonome ragioni, come può brevemente accennarsi per completezza di motivazione.
La ricorrente, nel sostenere, come si è visto, la non necessarietà dell'impugnazione incidentale, afferma - tra l'altro solo tardivamente in memoria, non nel ricorso - d'aver ritualmente riproposto in sede di gravame la questione di giurisdizione. Sta di fatto, però, che all'esame degli atti, consentito a questa Corte in materia di giurisdizione, la pretesa riproposizione risulta del tutto generica - e la parte stessa ne da atto con la memoria laddove afferma che aveva "richiamato espressamente il contenuto delle difese di primo grado riproponendo dunque, sia pure de relato, la questione di giurisdizione" - mentre per la sua ritualità ed idoneità allo scopo, ai sensi dell'art. 346 c.p.c., si richiede ch'essa sia proposta con chiarezza e precisione sufficienti, pur nella libertà della forma, a rendere inequivocamente intelligibile alla controparte ed al giudicante la volontà di riaprire la discussione sulla questione e di sollecitare una decisione su di essa e sulle ragioni poste a suo fondamento, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice (e pluribus, Cass. 14.12.05 n. 27570, 5.8.04 n. 15003, 20.7.04 n. 13401, 19.11.96 n. 10119, 30.5.96 n. 5028).
Tant'è che di tale riproposizione la sentenza qui impugnata non fa cenno alcuno; ma allora la questione, per essere suscettibile d'esame e non incorrere nella sanzione d'inammissibilità in quanto afferente a thema decidendum non prospettato ne' valutato, giusta quanto risultante dalla sentenza medesima, nel giudizio definito dal giudice a quo, doveva essere introdotta, anzi tutto, con censura d'omessa pronunzia.
Peraltro, come ripetutamente evidenziato da questa Corte, l'omessa pronunzia, quale vizio della sentenza, deve esser fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell'art. 112 c.p.c., e non già con la denunzia della violazione di norme di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3, ovvero del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto tali ultime censure presuppongono che il giudice di merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare, o non giustificando adeguatamente, la decisione al riguardo resa; d'altra parte, solo la corretta deduzione della doglianza ex art. 112 c.p.c., trattandosi di violazione di una norma processuale, può consentire al giudice di legittimità l'esame degli atti del giudizio al fine di verificare l'effettiva deduzione come motivo d'appello della censura avverso la decisione del primo giudice la cui mancata considerazione da parte del giudice di secondo grado è dedotta come motivo di gravame nel ricorso per cassazione (e pluribus, Cass. 4.6.07 n. 12952, 27.1.06 n. 1755, 26.1.06 n. 1701, 26.7.04 n. 14003).
Modalità di proposizione, quelle delineate, che parte ricorrente non ha seguito.
Anche per le ulteriori esposte ragioni il primo motivo di ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile.
Con il secondo motivo di doglianza, la ricorrente-denunzia "... la violazione e falsa applicazione delle disposizioni contenute nel Decreto Assessoriale Sanità n. 34388 del 2001, nonché delle disposizioni del D.P.R. n. 270 del 2000, ex art. 19, commi 3 e 4 e art. 20, consacrate e presupposte alla Delib. AUSL n. 6 n. 67912001, lì dove intende individuare il rapporto ottimale medico/assistiti in riferimento ai cinque distretti su Palermo e non all'intera città di Palermo quale unico ambito, in ogni caso asserendo la illegittima pubblicazione delle zone carenti da parte dell'AUSL 6, senza tenere conto del trasferimento dei medici più anziani, al fine di compensarli con l'onere di apertura dello studio medico a carico del neo inserito. La sentenza in questione si palesa illegittima facendo rilevare innanzitutto che si pronuncia sull'applicazione di norme da parte dell'Azienda con conseguente attribuzione di Zone carenti, senza che il Morana abbia mai impugnato ne' i singoli decreti regionali annuali, ne' le singole pubblicazioni di zone carenti su Palermo da parte dell'Assessorato alla Sanità della Regione Siciliana, con ciò prestando da sempre acquiescenza alla localizzazione dei medici di medicina generale nell'unico ambito di Palermo città. Inoltre la decisione va censurata per sua palese illegittimità, sotto il profilo che non v'è nessun divieto da parte della succitata normativa nella individuazione di Palermo città, quale unico ambito territoriale per l'allocazione dei medici di medicina generale. Una diversa interpretazione delle sopra citate disposizioni nazionali e regionali viene sicuramente a porsi in insanabile contrasto non solo con le norme summentovate ma soprattutto con il principi generali di diritto sanitario in sintonia con i valori cardine espressi dalla Carta Costituzionale nel senso che una diversa allocazione del rapporto ottimale medico/assistiti, basata sulla ripartizione degli studi medici rispetto i cinque distretti di Palermo e non secondo l'unico ambito territoriale di Palermo città, viene gravemente a menomare non solo la libertà di scelta del medico di aprire il suo studio nel punto che preferisce di Palermo, ma anche e soprattutto la libertà di scelta del medico operata da ciascun assistito del SSN, sulla base del proprio rapporto di fiducia, con l'assurda conseguenza che una diversa allocazione del rapporto ottimale medico/assistiti tenendo conto della di divisione di Palermo in n. 5 distretti sanitari, obbliga i cittadini a rivolgersi non più al proprio medico di fiducia ma al medico esclusivamente che insiste nello stesso ambito distrettuale. Ed ancora, a conferma di quanto precede, si deve far presente che l'Azienda, in ossequio alla L. n. 328 del 2000, ha individuato Palermo città quale unico ambito territoriale per l'assistenza socio-sanitaria. Stando al dictum della sentenza, una diversa visione del rapporto ottimale medico assistiti, come ritenuta dal Morana, arriva all'aberrazione, sempre illegittima in quanto non scritta e non consacrata in nessuna norma, di favorire i medici più anziani, rispetto i più giovani, nella localizzazione nei loro distretti".
Neppure il secondo motivo - del quale si è riportato il testo integrale onde meglio se ne possano rilevare i contenuti - può trovare accoglimento, per le ragioni già svolte nella relazione ex art. 380 bis c.p.c., che il Collegio, in difetto di apprezzabili contestazioni nella memoria di parte ricorrente, ritiene di condividere.
La proposta censura, infatti, sotto i vari prospettati profili, è anch'essa inammissibile, dacché questa Suprema Corte non è giudice dell'impugnazione sovraordinato rispetto al giudice amministrativo, avendole l'art. 111 Cost., comma 3, attribuito solo un potere di sindacato sulle decisioni del giudice stesso circoscritto all'osservanza dei limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali, e da tale sindacato esulano, all'evidenza, le questioni de quibus, la disamina delle quali implicherebbe un non consentito controllo su pretesi errores in iudicando ed in procedendo, id est sul concreto esercizio della funzione giurisdizionale nell'accertamento e nella qualificazione giuridica dei fatti nonché sull'applicazione delle pertinenti normative.
Entrambi gli esaminati motivi risultando inammissibili, il ricorso va, dunque, respinto rimanendo confermata, per l'inammissibilità del primo, la giurisdizione del giudice amministrativo dichiarata nel giudizio di merito.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
LA CORTE
pronunziando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e condanna la ricorrente alle spese che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 5.000,00 per onorari oltre ad accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 maggio 2008. Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2008



