Diritto Civile
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22449 - pubb. 04/10/2019
Donazione indiretta e limiti alla prova testimoniale
Cassazione civile, sez. II, 18 Luglio 2019, n. 19400. Pres. Correnti. Est. Criscuolo.
Donazione indiretta - Differenze con la simulazione - Limiti probatori relativi al negozio tipico utilizzato - Applicabilità in tema di donazione indiretta - Esclusione - Fattispecie
La donazione indiretta è un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell'arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore; differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale - in materia di contratti e simulazione - che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza gravata che aveva ritenuto l'esistenza di donazioni indirette sulla base di prove presuntive). (massima ufficiale)
1. A.B. conveniva in giudizio i germani Sa.tI., S. e G. dinanzi al Tribunale di Venezia, deducendo che era deceduto il padre T.N. in data (*), e che questi aveva venduto ai convenuti alcuni immobili ad un prezzo notevolmente inferiore al reale valore di mercato, dando vita pertanto a delle donazioni indirette che chiedeva fossero poste in collazione nell'ambito del giudizio di divisione contestualmente proposto.
Nella resistenza dei convenuti Sa.tI. e G., essendo invece T.S. rimasto contumace, il Tribunale adito con la sentenza n. 82 del 15 gennaio 2007 rigettava la domanda ritenendo che l'attrice non aveva proposto anche domanda di simulazione delle presunte donazioni poste in essere dal padre, dovendosi in ogni caso escludere che fosse stato provato, nella prospettiva della realizzazione di negotia mixta cum donatione, l'esistenza dell'animus donandi da parte del genitore.
A seguito di appello proposto da A.B., alla quale subentrava l'erede B.S., la Corte d'Appello di Venezia con la sentenza n. 2581 del 17/11/2014, in riforma della decisione gravata, riteneva che effettivamente gli immobili di cui ai vari atti indicati in citazione erano stati oggetto di donazioni indirette da parte del de cuius in favore dei convenuti, sicchè, una volta posti in collazione, gli stessi convenuti erano tenuti al pagamento delle somme espressamente specificate in dispositivo al fine di perequare il valore della quota dell'attrice in ragione dell'entità delle donazioni ricevute dagli altri condividenti.
La Corte d'Appello rilevava che alla luce delle perizie svolte nei due gradi di giudizio, era emerso che il valore dei beni era notevolmente superiore a quello riportato negli atti di acquisto di cui alla domanda attorea, sicchè stante la clamorosa sproporzione, poteva reputarsi dimostrato l'animus donandi da parte del genitore, tenuto anche conto dei rapporti di parentela tra le parti e del fatto che alcune compravendite erano state redatte con l'assistenza dei testimoni.
Vi erano quindi elementi presuntivi gravi precisi e concordanti che portavano ad affermare la ricorrenza di donazioni indirette in relazione alla differenza tra il valore dichiarato ai fini della vendita e quello effettivo del bene.
Le donazioni andavano quindi poste in collazione, tendo conto del valore dei beni alla data di apertura della successione.
Per la cassazione di tale sentenza ricorrono T.G. e Sa.tI. sulla base di tre motivi.
B.S. resiste con controricorso.
T.S. non ha svolto difese in tale fase.
In prossimità dell'udienza Sa.tI. e T.G. hanno depositato memorie, essendo invece tardivo il deposito delle memorie da parte del contro ricorrente, il che impedisce che possano essere prese in esame.
2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 la nullità della sentenza e del procedimento in quanto emessa senza la partecipazione necessaria di tutti i litisconsorti.
Si deduce che la domanda proposta era comunque correlata ad una domanda di divisione ereditaria, alla quale sono tenuti a partecipare tutti i condividenti.
Nella fattispecie, come emerge da un certificato anagrafico prodotto in questa sede, il de cuius aveva cinque figli, ed in particolare, oltre ai quattro germani T. partecipi del giudizio, anche la figlia T.A., la quale non è mai stata chiamata a partecipare al giudizio.
Si assume altresì che, a seguito del decesso dell'attrice A.B., si era costituito per proseguire il giudizio il solo marito B.S., senza che fosse stata evocata in giudizio anche la figlia B.M., come si ricava anche in questo caso dalla certificazione anagrafica prodotta in sede di legittimità.
Il motivo deve essere disatteso.
Ed, infatti ancorchè risulti effettivamente principio pacifico quello secondo cui la verifica dell'integrità del contraddittorio debba avvenire d'ufficio, si è altresì da lungo tempo precisato (cfr. ex multis Cass. n. 2149/1978) che qualora, a seguito di morte di una parte, il processo venga proseguito da altro soggetto nella dedotta qualità di unico erede del defunto, spetta alla controparte, che eccepisca la non integrità del contraddittorio, per l'esistenza di altri coeredi, fornire la relativa prova (conf. Cass. n. 852/1985; Cass. n. 2774/1997; Cass. n. 5605/1990; Cass. n. 13571/2006).
I ricorrenti, solo in sede di legittimità assumono che vi siano altri coeredi della defunta attrice, così che appare evidente che nel giudizio di appello non venne in alcun modo sollevata la questione relativa all'effettiva integrità del contraddittorio, della cui prova, per quanto visto, era comunque onerata la parte eccipiente (mancando peraltro anche la prova che la figlia dell'attrice abbia poi effettivamente accettato l'eredità materna).
Quanto alla deduzione sollevata con il motivo in esame relativa sia alla situazione originaria dei condividenti che alla posizione dei successori della originaria parte attrice, e suffragata con la produzione di due certificati di stato di famiglia, allegati solo in sede di legittimità, vale richiamare l'altrettanto pacifico orientamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 17581/2007) a mente del quale il difetto di integrità del contraddittorio per omessa citazione di alcuni litisconsorti necessari può essere dedotto per la prima volta anche nel giudizio di cassazione, ma alla duplice condizione che gli elementi posti a fondamento emergano, con ogni evidenza, dagli atti già ritualmente acquisiti nel giudizio di merito (poichè nel giudizio di cassazione sono vietati lo svolgimento di ulteriori attività e l'acquisizione di nuove prove) e che sulla questione non si sia formato il giudicato (la S.C. ha affermato il principio - in un giudizio avente ad oggetto, tra l'altro, la pretesa inesistenza di una servitù a favore di un fondo sul quale era costituito un diritto di usufrutto - in relazione all'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'usufruttuario, poichè dagli atti del giudizio non risultavano nè la prova dell'esistenza del diritto in questione nè quella dell'esistenza in vita dell'usufruttuario, considerato che tale diritto si estingue con la morte del titolare la Suprema Corte ha anche escluso l'ammissibilità ai sensi dell'art. 372 c.p.c. della documentazione con cui il ricorrente avrebbe voluto dare detta prova; conf. Cass. n. 21256/2017). In senso conforme si veda anche Cass. n. 26388/2008, secondo cui il difetto di integrità del contraddittorio per omessa citazione di litisconsorti necessari può essere rilevato d'ufficio, per la prima volta, anche dal giudice di legittimità, alla duplice condizione che gli elementi che rivelano la necessità del contraddittorio emergano, con ogni evidenza, dagli atti già ritualmente acquisiti nel giudizio di merito e che sulla questione non si sia formato il giudicato (vedi altresì Cass. 27521/2011; Cass. n. 3024/2012 che espressamente ribadisce la necessità di poter tenere conto solo degli atti già ritualmente acquisiti nel giudizio di merito, in quanto le ipotesi di nullità della sentenza che consentono, ai sensi dell'art. 372 c.p.c., di acquisire mezzi di prova precostituiti in sede di legittimità sono limitate a quelle derivanti da vizi propri dell'atto per mancanza dei suoi requisiti essenziali di sostanza e di forma, con esclusione delle nullità originate da vizi del processo).
Attesa quindi l'impossibilità per i ricorrenti di potersi avvalere della previsione di cui all'art. 372 c.p.c. per documentare l'esistenza di altri eventuali coeredi, il motivo deve essere disatteso.
Va peraltro rilevato che nelle memorie ex art. 378 c.p.c. i ricorrenti hanno dedotto che in realtà la certificazione anagrafica attestante l'esistenza di altri coeredi sarebbe stata prodotta dalla controparte che tuttavia non ha depositato in questa sede la propria produzione di merito, ed a tal fine hanno altresì prodotto copia di tale certificato.
Trattasi però di allegazione del tutto inammissibile ex art. 372 c.p.c., e che denota in ogni caso l'inammissibilità del motivo ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto in ricorso non vi è alcuna indicazione, in contrasto con il dettato di tale norma, dell'esistenza tra i documenti prodotti in sede di merito, anche del certificato in esame, essendo quindi carente anche ogni allegazione di carattere tipografico circa l'individuazione della sede ove il documento sarebbe stato riscontrabile (anche in relazione alla produzione avvenuta con le memorie, non risulta nemmeno allegato il foliario della produzione di parte dalla quale si potrebbe evincere l'effettiva introduzione del documento già in sede di merito) ed in quale fase fosse stato prodotto.
Tali considerazioni danno altresì contezza dell'infondatezza della doglianza di cui alla parte finale del ricorso con la quale si lamenta la violazione delle norme in tema di successione legittima, per essersi proceduto alla divisione tenendo conto solo di quattro figli e non del numero effettivo dei discendenti del de cuius.
3. Il secondo motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e precisamente la circostanza che l'immobile acquistato da T.G. con atto del 28/9/1988 era stato alienato dal tutore del de cuius, su autorizzazione del Tribunale, e sulla base di una perizia di stima.
La circostanza era stata più volte evidenziata in sede di merito e, ove se ne fosse tenuto conto, la stessa si sarebbe rivelata decisiva, escludendo la ricorrenza della donazione indiretta.
Anche tale motivo deve essere disatteso, dovendosi escludere che la circostanza (che effettivamente la sentenza gravata non mostra di avere considerato) abbia il carattere di decisività, tale da influire sull'esito della decisione, permettendo di pervenire ad una soluzione diversa da quella del giudice di merito.
Ed, invero, la sentenza d'appello ha ritenuto che gli elementi sintomatici, dai quali risalire all'esistenza dell'animus donandi, fossero da rinvenire nell'evidente sproporzione tra il valore dei beni dichiarato in contratto ed il reale valore venale nonchè nello stretto rapporto di parentela che induceva a ritenere che la sproporzione fosse voluta e finalizzata a consentire l'arricchimento degli acquirenti per la parte del valore non corrispondente al prezzo versato.
Tale elemento di sproporzione è stato riscontrato all'esito delle consulenze esperite anche nella vendita compiuta da parte del tutore, sicchè la circostanza che il Tribunale abbia reputato di autorizzare la vendita, verosimilmente sulla base di una perizia di stima rivelatasi ex post non corrispondente al reale valore di mercato, non preclude la possibilità di ravvisare una liberalità indiretta anche per tale atto.
Quanto invece alla circostanza che l'atto sia stato compiuto dal tutore, ferma restando la regola posta dall'art. 774 c.c., secondo cui non può donare chi non ha la capacità di disporre dei propri beni, va evidenziato che l'art. 777 c.c. regolamenta le ipotesi in cui le donazioni siano compiute dai rappresentanti degli incapaci.
Ebbene, mentre il comma 1 prevede espressamente che il tutore non possa fare donazioni (espressione questa che parte della dottrina ritiene di limitare alle sole donazioni formali), il comma 2 consente in maniera più ampia, e nel rispetto delle forme abilitative richieste, il compimento di liberalità (espressione questa che appare idonea ad estendersi anche alle donazioni indirette) in occasione di nozze ed a favore dei discendenti dell'interdetto e dell'inabilitato.
La norma risulta quindi confermare l'astratta possibilità che anche delle donazioni indirette siano poste in essere da parte del rappresentante di persone incapaci, essendone espressamente prevista la validità per le ipotesi di cui al comma 2.
Ove però si ritenga che il divieto di cui all'art. 777 c.c., comma 1 si estenda anche alle donazioni indirette, la conseguenza sarebbe quella della nullità della donazione (alla luce dell'opinione della dottrina prevalente), con la conseguenza che, una volta ribadita la verifica in fatto degli elementi idonei a connotare la realizzazione di un negotium mixtum cum donatione, l'effetto della declaratoria di nullità sarebbe comunque quello di riportare il bene donato tra quelli caduti in successione, con effetti del tutto analoghi, dal punto di vista economico a quello derivante dall'operatività della collazione, restando quindi esclusa la possibilità di sottrarre l'acquisto alle pretese della coerede non donataria, conclusione questa che consente di affermare la carenza di decisività della circostanza di cui si denuncia l'omessa disamina.
4. Il terzo motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione degli artt. 1414 e ss. c.c. nonchè degli artt. 112 e 113 c.p.c. e artt. 2722, 2724, 2725 e 737 c.c. Assumono i ricorrenti che correttamente il Tribunale aveva disatteso la domanda attorea evidenziando che l'attrice non aveva proposto la domanda di simulazione delle donazioni.
Nella fattispecie la corretta applicazione delle norme in tema di simulazione avrebbe imposto all'attrice di dover provare la simulazione e senza potersi avvalere di presunzioni.
Poichè la dante causa del controricorrente aveva agito nella qualità di erede del defunto padre, senza avanzare altresì domanda di riduzione, la prova della simulazione andava fornita necessariamente con la controdichiarazione, essendo quindi erronea la soluzione dei giudici di appello che hanno riscontrato l'esistenza della donazione indiretta avvalendosi della prova presuntiva.
Anche tale motivo deve essere disatteso.
Osserva il Collegio che secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 6723/1982) nel negotium mixtum cum donatione, che deve rivestire la forma non della donazione ma dello schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, la causa del contratto è onerosa, ma il negozio commutativo adottato viene dai contraenti posto in essere per raggiungere in via indiretta, attraverso la voluta sproporzione delle prestazioni corrispettive, una finalità diversa ed ulteriore rispetto a quella di scambio, consistente nell'arricchimento, per mero spirito di liberalità di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò venendo il negozio posto in essere a realizzare una donazione indiretta (art. 809 c.c.). Tale negozio indiretto si realizza nella vendita ad un prezzo inferiore a quello effettivo che si distingue dal negozio simulato nel quale il contratto apparente non corrisponde alla reale volontà delle parti, le quali, sotto forma di contratto oneroso, intendono invece stipulare un contratto gratuito, per cui la dichiarazione concernente il prezzo non corrisponde alla realtà.
Ne deriva pertanto che proprio per la differente prospettazione della vicenda negoziale che appare da ricondurre al più ampio genus delle liberalità non donative, vale la regola secondo cui (Cass. n. 1986/2016) poichè in tal caso l'attribuzione gratuita viene attuata, quale effetto indiretto, con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti, non non si applicano i limiti alla prova testimoniale - in materia di contratti e simulazione - che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo (conf. Cass. n. 4015/2004; Cass. n. 502/2003).
5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, nulla invece dovendosi disporre quanto all'intimato che non ha svolto attività difensiva in questa sede.
6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge;
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2019.