Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19971 - pubb. 11/01/2018
Incompatibilità tra le funzioni di sindaco e professionista e violazione del dovere di diligenza
Cassazione civile, sez. I, 11 Luglio 2008, n. 19235. Est. Giusti.
Società di capitali - Collegio sindacale - Nomina - Cause di ineleggibilità - Rapporto di prestazione d'opera con la società - Nozione - Lavoro subordinato - Necessità - Esclusione - Carattere continuativo dell'attività professionale - Sufficienza - Conseguenze - Responsabilità degli amministratori per violazione del dovere di diligenza - Configurabilità
Società per azioni - Organi sociali - Amministratori - Responsabilità - Cumulo delle funzioni di sindaco e incaricato di rapporto professionale continuativo - Causa di decadenza - Sussistenza - Omessa vigilanza da parte degli amministratori - Responsabilità - Fondamento
Con riguardo alla causa di ineleggibilità per i sindaci delle società per azioni, prevista dall'art. 2399 cod. civ. (nel testo, applicabile "ratione temporis", anteriore al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) e relativa all'esistenza con la società medesima di un rapporto continuativo di prestazione d'opera retribuita, l'incompatibilità non sussiste soltanto in presenza di rapporti di lavoro subordinato, ma ogniqualvolta ricorra un legame con oggetto attività professionali rese anche nell'ambito di un rapporto di lavoro autonomo, a titolo oneroso e con carattere nè saltuario nè occasionale (nella specie tenuta dei libri contabili, in mansioni di consulenza ed assistenza fiscale, nell'espletamento di tutti gli adempimenti di natura fiscale e previdenziale); la grave situazione di irregolarità gestionale derivante dal doppio e contemporaneo esercizio delle funzioni di sindaco e professionista incaricato integra pertanto, a carico degli amministratori, la responsabilità di cui all'art. 2392 cod. civ., per violazione del dovere di diligenza, in relazione all'omessa vigilanza sull'operato del soggetto che anziché effettuare da una posizione di imparzialità il dovuto controllo sull'amministrazione, si sia reso autore e partecipe della stessa gestione da controllare. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISCUOLO Alessandro - Presidente
Dott. SALME' Giuseppe - Consigliere
Dott. TAVASSI Marina A. - Consigliere
Dott. SALVATO Luigi - Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
Svolgimento del processo
1. - La Società per azioni I S.L., con atto di citazione del dicembre 1995-gennaio 1996, propose azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci in carica negli anni 1991-1992, chiedendo il risarcimento dei danni subiti per effetto di una serie di operazioni irregolari emerse a seguito di un'ispezione condotta dalla Guardia di finanza - con riferimento agli esercizi 1991-1992 - in relazione ad inadempimenti fiscali che avevano comportato il pagamento di sanzioni, ed in conseguenza di distrazioni dalle casse sociali di somme di denaro.
L'azione venne proposta nei confronti di D. J. R. (che all'epoca dei fatti rivestiva la qualità di presidente del consiglio di amministrazione); dei consiglieri di amministrazione A. L., V. L. M., U. D., P. A., P. R., M. R. e C. C.; di P. R. M., erede di P. G., già presidente del collegio sindacale; di M. A., sindaco e commercialista della società; di M. G. ved. Po.; di Z. A. ved. P.
Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, tranne M. G. ved. Po., Z. A. ved. P. e M. A., quest'ultimo chiamato in manleva da tutti i convenuti costituiti.
2. - L'adito Tribunale di Milano, con sentenza depositata il 17 gennaio 2000, condannò i convenuti in solido al pagamento della somma di L. 195.325.960 (pari al danno provocato alla Società dalla omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e dalla conseguente impossibilità di considerare detraibili spese sostenute dalla Società), mentre condannò il solo D. J. all'ulteriore pagamento della somma di L. 20.573.823 (relativa al mancato recupero di spese di cui erano debitori tre soci, il cui importo era stato stornato dal consiglio di amministrazione sul presupposto che i soci avessero ceduto le proprie azioni al D. J., il quale avrebbe dovuto contabilizzare il ricavato della vendita a favore della Società) e il M. A. a quello di L. 77.957.655 (corrispondenti alle sanzioni determinate per gli anni 1991-1992 per il mancato versamento delle ritenute Irpef alla fonte e dei contributi previdenziali, adempimenti in relazione ai quali il M. A. aveva ricevuto le somme di denaro dalla Società, appropriandosene).
3. - La Corte di Milano - pronunciando sull'appello principale di A. L., V. L. M., U. D., P. R., M. R. e C. C. e sugli appelli incidentali, proposti separatamente, della Società I S.L., di P. R. M. e di D. J. R. - con sentenza depositata in cancelleria il 10 dicembre 2002, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha così provveduto: (a) ha determinato i danni derivati alla Società dall'inosservanza dei doveri di amministratori e sindaci in carica negli esercizi 1991-1992 in complessivi Euro 346.063,80, equivalenti a L. 670.072.873 (pari alla somma di L. 195.325.960; L. 77.975.655; L. 5.721.875 - quest'ultima derivante dal mancato pagamento degli oneri da corrispondere al Comune di Azzate in relazione alla domanda di condono edilizio presentata dagli amministratori ai sensi della L. 28 febbraio 1985, n. 47; L. 20.573.823; e L. 370.475.560 - importo, quest'ultimo, per il danno sottostante alla contabilizzazione a carico della Società di fatture per prestazioni inesistenti; (b) ha condannato amministratori e sindaci, in via solidale fra loro, a risarcire i danni cagionati alla Società, fino alla concorrenza della quota per ciascuno determinata, e per l'effetto ha condannato il D. J. a pagare alla Società l'intera somma complessiva di Euro 346.063,80 ed ha stabilito la quota fino a concorrenza della quale sono tenuti al risarcimento verso la Società ognuno degli altri amministratori e sindaci in solido fra loro nella misura che segue: a carico solidale di M. A., A. L., V. L. M., U. D., P. R. e P. R. M., Euro 335.438,30; a carico di M. R., Euro 217.979,10, a carico di C. C., Euro 156.313,90; (c) ha condannato tutti gli amministratori e i sindaci, in solido fra loro, a pagare alla Società, sulle somme liquidate a titolo di risarcimento dei danni, la rivalutazione monetaria e gli interessi legali; (d) ha condannato tutti gli amministratori e i sindaci, in via solidale fra loro, al risarcimento del danno derivato alla Società in relazione ai tributi e agli altri oneri connessi di cui alle cartelle esattoriali prodotte in giudizio dalla Società come documenti contrassegnati con i nn. 159, 160 e 161, danno da liquidarsi in separato giudizio; (e) ha condannato tutti gli amministratori e i sindaci, in via solidale tra loro, a rifondere alla Società le spese del processo; (f) ha dichiarato il M. A. tenuto a garantire e manievare il D. J. e perciò a rifondergli tutto quanto il medesimo è stato dichiarato tenuto a sua volta a risarcire e corrispondere alla Società per il danno (quantificato in L. 195.325.960) derivato dall'indetraibilità di spese sociali conseguente alla omessa presentazione della denuncia dei redditi dell'anno 1991, nonché per il danno derivato dal mancato pagamento delle ritenute alla fonte e di contributi, con le pene per le corrispondenti violazioni, a causa dell'appropriazione della somma di complessive L. 77.975.655, alla condizione dell'esecuzione del pagamento del relativo debito risarcitorio da parte del D. J. alla Società; (g) ha confermato la liquidazione dei danni nella misura stabilita dal Tribunale nei confronti delle parti contumaci M. G. ved. Po. e Z. A. ved. P.
3.1. - Per quanto qui ancora rileva, la Corte territoriale ha ritenuto osservata la condizione prevista dall'art. 2393 cod. civ. - delibera dell'assemblea - per la promozione dell'azione di responsabilità contro gli amministratori e i sindaci.
Premesso che dal verbale dell'assemblea del 7 maggio 1995, data lettura dell'art. 2393 cod. civ., risulta che era stata approvata a maggioranza (voti a favore 239, nessuno contrario, astenuti 7) la "nuova delibera sugli stessi argomenti già trattati dall'assemblea del 17 aprile 1994, compresa l'azione di responsabilità da promuovere nei confronti di quegli amministratori e sindaci già in carica negli esercizi 1991 e 1992 che il C.d.A. individuerà", la Corte d'appello ha escluso che la deliberazione assembleare sia giuridicamente inesistente o sia equiparabile ad una specie di mandato in bianco, indicativo della volontà di rimettere al mero arbitrio degli amministratori il promovimento dell'azione.
Secondo i giudici del gravame, il riferimento ad un'azione di responsabilità "da promuovere" ha il preciso significato della indicazione della doverosità dell'iniziativa per gli amministratori.
I destinatari dell'azione non erano poi indeterminati, perché erano indicati in relazione alle funzioni e alle mansioni effettivamente esercitate, sicché il loro nominativo era agevolmente individuabile in relazione al periodo di gestione esattamente indicato, che rendeva quindi determinabile in modo certo ed incontestabile gli organi sociali contro cui l'azione era stata autorizzata, considerate le formalità di deposito e di iscrizione nel registro delle imprese cui sono soggetti gli atti delle società di capitali, resi conoscibili erga omnes.
Quanto alla censura di mancata determinazione, nella delibera autorizzativa, dei fatti di responsabilità addebitati, la Corte d'appello - dopo aver premesso che, in diritto societario, la violazione di norma di legge, anche di carattere imperativo, comporta la mera annullabilità della delibera; che, "dato che il corretto esercizio del diritto di voto è previsto dalla legge solo in funzione dell'interesse individuale dei soci, se anche si ravvisasse un caso di abuso o di eccesso di potere, la deliberazione che avesse autorizzato l'azione di responsabilità sociale a norma dell'art. 2393 cod. civ. senza specificarne espressamente le ragioni sarebbe meramente annullabile, e non affetta da nullità"; e che nella specie nessuna impugnazione era stata proposta nei termini di cui all'art. 2377 cod. civ. - ha ritenuto che i requisiti della determinazione della cosa oggetto della domanda e dell'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda stessa con le relative conclusioni devono essere riferiti, non alla delibera autorizzativa, che si limita a rimuovere un limite alla capacità processuale e di agire dei nuovi amministratori, bensì al contenuto dell'atto di citazione.
In ogni caso - precisa la sentenza impugnata - la questione della necessità della deliberazione assembleare vale soltanto per l'azione tipica di responsabilità sociale di natura contrattuale. Ma la Società attrice ha agito contro amministratori e sindaci non soltanto per far valere l'inadempimento di obbligazioni tipicamente inerenti alle funzioni sociali loro conferite, ma anche per chiedere il risarcimento del danno provocato da atti di dissipazione del patrimonio, quali quelli cagionati dall'addebito di spese estranee all'attività sociale o riferite ad operazioni inesistenti. Questa violazione integra un illecito extracontrattuale e l'azione esula dall'ambito di applicazione della norma di cui all'art. 2393 cod. civ. e non necessita di alcuna preventiva autorizzazione assembleare.
3.2. - Secondo la Corte ambrosiana, la portata del dovere generale di vigilanza di tutti gli amministratori sul complessivo andamento della gestione era determinabile in relazione al carattere professionale dell'attività costituente l'oggetto sociale della I S.L.: trattandosi di Società che esercitava attività di impresa commerciale, ogni amministratore doveva essere informato dell'esigenza che la struttura si dovesse adeguare alle prescrizioni di legge che ne disciplinano obblighi e attività. Rientrava, quindi, nell'obbligo di diligenza professionale cui era tenuto ogni amministratore sorvegliare che le procedure seguite dalla struttura fossero adeguate e conformi alle prescrizioni vigenti nella materia.
3.3. - Quanto agli addebiti di natura tributaria, in particolare all'indetraibilità di spese sociali conseguente alla tardiva presentazione della denuncia dei redditi dell'anno 1991, secondo i giudici del gravame - che, così come i primi giudici, hanno liquidato il danno in L. 195.325.960 - non vale ad esonerare gli amministratori dalla conseguente responsabilità la circostanza che il consiglio avesse incaricato il rag. M. A. di compiere gli adempimenti necessari. Colui che assume l'ufficio di amministratore, essendo tenuto ad una diligenza qualificata e professionale ai sensi dell'art. 2392 cod. civ. e art. 1176 c.c., comma 2, non può essere esonerato dall'obbligo di vigilare affinché gli adempimenti contabili imposti dalle norme civilistiche e fiscali siano regolarmente e tempestivamente osservati. Tale obbligo di vigilanza generale riguarda il controllo di un adempimento fondamentale della gestione sociale, il cui difetto rende manifesta la irregolarità della amministrazione e sulla cui obbligatorietà inderogabile non può sussistere incertezza alcuna, quale che si ai la competenza specifica dei singoli amministratori.
Di nessun rilievo è, secondo la Corte d'appello, il richiamo alla L. 11 ottobre 1995, n. 423, posto che l'art. 1 di detta Legge si limita a prevedere che la riscossione delle soprattasse e delle pene pecuniarie previste dalle leggi d'imposta in caso di omesso, ritardato od insufficiente versamento è sospesa nei confronti del contribuente e del sostituto d'imposta qualora la violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, di dottori commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, avvocati, notai ed altri professionisti, iscritti nei relativi albi, in dipendenza del loro mandato professionale.
La Corte di merito ha ravvisato nel comportamento degli amministratori un ulteriore elemento di negligenza che ne aggrava la responsabilità. L'incarico di tenuta della contabilità sociale ed i compiti di consulenza ed assistenza fiscale, come pure gli adempimenti ed i versamenti di natura fiscale e previdenziale erano stati affidati dal consiglio di amministrazione (in esito alla riunione del 22 giugno 1991), sulla base di un contratto d'opera a titolo oneroso, al rag. M. A., che era anche uno dei tre sindaci nominati dall'assemblea dei soci con la deliberazione del 12 maggio 1991. Tutti gli amministratori avevano così concorso a generare una situazione di grave irregolarità gestionale, considerato che la disposizione prevista dall'art. 2399 cod. civ. stabilisce lei decadenza dall'ufficio di sindaco per coloro che sono legati alla società da un rapporto continuativo di prestazione d'opera retribuita. Contravvenendo ai loro doveri, gli amministratori non avevano intrapreso alcuna iniziativa per porre rimedio a tale grave violazione.
In definitiva, per liberarsi dalla responsabilità loro addebitata, sarebbe spettato agli amministratori fornire la prova di essersi tempestivamente attivati facendo con diligenza tutto il possibile per impedire l'inadempimento del rag. M. A., ovvero che, nonostante l'opera di vigilanza e controllo, gli effetti della cattiva ed infedele gestione del mandato non sarebbero stati, nemmeno in parte, rimediabili.
3.4. - Tra i motivi di appello incidentale della Società I S.L. accolti dalla Corte territoriale vi è anche quello relativo alla condanna al risarcimento dei danni corrispondenti al mancato pagamento delle ritenute alla fonte e dei contributi, nonché alle pene per le relative violazioni, per complessive L. 77.975.655.
Sotto quest'ultimo profilo, il Tribunale aveva ritenuto che il danno conseguente risalisse direttamente al comportamento posto in essere dal M. A., avendo questi ricevuto il danaro dalla Società ed avendo omesso di versarlo all'erario e agli istituti previdenziali, ed aveva conseguentemente accolto la domanda soltanto nei confronti del M. A. e non nei confronti degli altri amministratori e sindaci, sulla base della considerazione che non vi era la prova che tutti o alcuni di essi fossero a conoscenza dell'attività illecita posta in essere dal medesimo.
Viceversa, la Corte del gravame ha osservato che, poiché gli adempimenti degli obblighi tributari erano curati da uno dei componenti del collegio sindacale, sulla base delle condizioni del contratto d'opera a titolo oneroso stipulato tra la Società, rappresentata dal D. J., e lo stesso M. A., tutti gli amministratori avevano generato una situazione di grave irregolarità gestionale; e siccome la professionalità dell'ufficio imponeva a tutti gli amministratori di osservare una diligenza qualificata, nessuno di essi avrebbe potuto comunque esimersi dal vigilare sull'operato di colui che, anziché effettuare, da una posizione di imparzialità, il dovuto controllo sull'amministrazione della Società, si era reso, infedelmente, autore e partecipe della stessa gestione da controllare.
3.5. - La Corte d'appello ha altresì accolto la domanda di condanna per il danno, per un importo di L. 370.475.560, sottostante alla contabilizzazione a carico della Società di fatture per prestazioni inesistenti emesse dalla s.r.l. N., dalla ditta I. di Ca. Ni., dalla I.T.C.M. e dalla ditta T.
Gli amministratori - si legge, conclusivamente sul punto, nella sentenza impugnata - sono venuti meno all'onere di indicare e dimostrare quale sia stata in concreto l'effettiva destinazione delle attribuzioni patrimoniali e dei pagamenti contestati, né hanno chiarito, per i singoli aspetti controversi e per tutti gli atti sospetti, il titolo negoziale che può avere generato una efficace e valida obbligazione della Società.
La Corte territoriale, alla luce dell'esame e della valutazione delle risultanze processuali, ha osservato che la distrazione a proprio favore, da parte degli amministratori di società per azioni, di somme appartenenti alla Società costituisce comportamento contrario al dovere degli amministratori di conservazione del patrimonio sociale, dal quale consegue la responsabilità ex art. 2392 cod. civ.
3.6. - Quanto alla responsabilità dei sindaci, la Corte d'appello ha rilevato che essi, avendo trascurato di far ricorso alle iniziative più opportune e doverose per fare cessare la imprudente ed illegittima situazione di incompatibilità, non avrebbero potuto incautamente confidare in una presunzione di diligenza del M. A., posto che costui, già accettando un incarico non compatibile con l'incarico di sindaco, aveva mostrato di non tenere in nessun conto l'osservanza dei limiti e degli adempimenti di legge. I sindaci, semmai, avrebbero dovuto agire con ancora più scrupolo ed attenzione nella vigilanza cui erano tenuti nell'esercizio del loro ufficio, per evitare che la subordinazione economica del M. A. alla Società si ripercuotesse sulla diligenza degli adempimenti dell'organo di controllo.
Se i sindaci avessero adeguatamente vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica, l'illegittimo comportamento del rag. M. A. e degli amministratori e il danno che ne è derivato sarebbero stati evitati.
Né alcun rilievo avrebbe la circostanza, prospettata da P. R. M., della regolate tenuta dei libri contabili. Difatti, i danni provocati al patrimonio sociale derivano da irregolarità di gestione sostanziali e da inadempienti degli obblighi di legge che si pongono con efficacia causale autonoma rispetto alla regolarità formale della contabilità, posto che l'eventuale adozione delle formalità prescritte per la tenuta dei libri contabili non ha rispecchiato in concreto una gestione e un'amministrazione qualificate da regolarità anche sostanziale, essendo ciascuno degli episodi di cattiva gestione riscontrati nella condotta di amministratori e sindaci della Società I S.L. indice di condotte negligenti ed imprudenti in sé dannose.
4. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello ha interposto ricorso D. J. R., sulla base di quattro motivi.
Hanno resistito, con separati atti di controricorso, la Società I S.L. e P. R. M.
Quest'ultima, a sua volta, ha proposto ricorso incidentale, affidato ad un motivo, ed ha chiesto che preliminarmente ed in via pregiudiziale sia dichiarata "l'inammissibilità e/o l'improcedibilità del ricorso alla stessa notificato in data 26 gennaio 2004 nella sua asserita e non provata qualità di erede legittima della defunta signora Z. A. ved. P.".
Motivi della decisione
1. - Preliminarmente, il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ., essendo entrambe le impugnazioni relative alla stessa sentenza.
2. - Sempre in via preliminare, deve essere dichiarato inammissibile il ricorso notificato in data 26 gennaio 2004 da D. J. R. a P. R. M. nella qualità di erede legittima di Z. A. ved. P.
Dagli atti prodotti dalla controricorrente risulta infatti che P. R. M., che ha partecipato al giudizio di merito quale coerede di P. G. (già presidente del collegio sindacale della Società I S.L.), è figlia legittima di quest'ultimo e di F. L., essendo nata in costanza del primo matrimonio contratto dal P. G. con la F. L. in data 29 ottobre 1942, i cui effetti civili sono stati dichiarati cessati dal Tribunale di Palermo con sentenza in data 24 ottobre 1972.
Z. A. è, invece, la seconda moglie del P. G. ed è, invece, la seconda moglie del P. G. ed è per questo motivo che la stessa, all'atto del decesso del P. G., risultava erede del de cuius al pari della figlia di quest'ultimo. Nessuna relazione di parentela intercorre tra Z. A. e P. R. M., alla quale, pertanto, non poteva essere notificato il ricorso per cassazione quale erede legittima di Z. A. ved. P.
3. - Con il primo motivo del ricorso principale (violazione, errata interpretazione e falsa applicazione dell'art. 2379 cod. civ., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 violazione dell'art. 132 c.p.c., n. 4, art. 118 disp. att. cod. proc. civ. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5), si deduce che la conclusione della Corte d'appello in ordine alla delibera di autorizzazione al promovimento dell'azione di responsabilità sarebbe la conseguenza di una non corretta ed inammissibile interpretazione ed applicazione del disposto dell'art. 2379 cod. civ. e, per altro verso, di omesso esame, essendosi riduttivamente limitata la portata della censura svolta in sede di gravame all'asserita lamentela di semplice mancanza di "ragioni", ovvero di motivazione a supporto della delibera di autorizzazione assembleare.
In realtà, come emergerebbe dall'atto di appello, la nullità della delibera assembleare era stata prospettata per illiceità dell'oggetto, essendo stata omessa la previa informativa dell'assemblea circa i fatti asseritamente illeciti commessi dagli amministratori, con conseguente totale indeterminatezza dei fatti stessi.
Nella specie, la lettura del verbale di assemblea consentirebbe di evidenziare che il tutto si è risolto nel dare semplice lettura ai soci del disposto di cui all'art. 2393 cod. civ. e nel procedere alle operazioni di voto senza che l'assemblea fosse stata "minimamente ragguagliata, sia pure anche solo sommariamente e sinteticamente, in riferimento a cosa ovvero a quali malefatte degli amministratori in carica dal 1991 e 1992 si intendeva procedere", senza, perciò, discussione alcuna sul punto.
Ad avviso del ricorrente, "una Delibera, quale quella adottata dall'assemblea della I S.L. in data 7 maggio 1995, rappresenta solo un simulacro di Delibera e, soprattutto, con pare seriamente che le norme cogenti previste per una sua valida assunzione siano dettate a tutela di interessi di singoli (o quantomeno solo a tutela di interessi di singoli soci o di gruppi di soci)". Difatti, lo scopo primario della delibera assembleare in questione è quello di far sì che, autorizzando l'esercizio dell'azione di responsabilità, si realizzi anzitutto l'obiettivo "economico-pratico" di reintegrare il patrimonio sociale per il pregiudizio sofferto a cagione del cattivo operato degli amministratori, ossia il perseguimento di un interesse generale societario. Un minimo di sommaria informativa per i soci riuniti in assemblea risulterebbe essenziale ed irrinunciabile, e ciò proprio a tutela dell'interesse generale societario (di avere una buona e comunque positiva gestione della società).
La semplice mancanza di analitica elencazione degli addebiti nella delibera non sarebbe mai stata contestata dal D. J. il quale avrebbe piuttosto obiettato che occorreva che l'assemblea fosse informata, che esaminasse e prendesse coscienza, almeno sommariamente, degli estremi dei supposti addebiti per poi potersi determinare al meglio e, solo in tal caso, del tutto validamente.
Ad avviso del ricorrente, la delibera assunta dall'assemblea dei soci sarebbe radicalmente nulla, essendo stata adottata senza che l'assemblea stessa fosse stata informata (con conseguente discussione) intorno a fatti e a concreti addebiti mossi nei confronti degli amministratori poi convenuti in giudizio.
Nel caso di specie, non solo non vi sarebbe traccia alcuna della necessaria discussione prima di assumere la Delibera, ma, addirittura, difetterebbero l'indicazione e l'esposizione all'assemblea di concreti addebiti mossi agli amministratori.
3.1. - Il motivo è infondato.
Questa Corte (Sez. 1, 18 giugno 2005, n. 13169; Sez. 1, 11 novembre 2005, n. 21858) ha di recente statuito che, a differenza, che in altri casi di deliberazione societaria, la legge non richiede che la deliberazione con cui l'assemblea di una società per azioni autorizza l'esercizio dell'azione di responsabilità contro gli amministratori a norma dell'art. 2393 cod. civ. rechi una specifica motivazione volta ad illustrare le ragioni di tale scelta, restando ovviamente affatto impregiudicata la fondatezza degli addebiti mossi all'amministratore, destinati ad essere vagliati solo nella causa contro di lui successivamente instaurata.
Ora, non v'è dubbio che in sede di assemblea resta ferma l'esigenza di una adeguata informativa degli azionisti, avendo i soci intervenuti il diritto non solo di esprimere la propria opinione sugli argomenti all'ordine del giorno, ma anche di richiedere chiarimenti sulle materie oggetto di deliberazione (Cass., Sez. Un., 21 febbraio 2000, n. 27).
Ferma, quindi, la possibilità di sindacare la delibera autorizzativa, anche sotto il profilo della correttezza del procedimento con cui è stata adottata, occorre precisare che, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, la carenza di informazione e discussione sull'argomento all'ordine del giorno, ove sia frutto di un comportamento prevaricatore della maggioranza volto a perseguire propri interessi particolari oggettivamente in conflitto con quello sociale (Cass., Sez. 1^, 27 aprile 1990, n. 3535; Cass., Sez. 1, 12 dicembre 2005, n. 27387), è ragione di annullabilità della deliberazione ai sensi dell'art. 2377 cod. civ., non già di nullità della stessa ex art. 2379 cod. civ..
Ciò è conforme al principio - più volte ribadito da questa Corte (da ultimo, Sez. 1, 2 aprile 2007, n. 8221) - secondo cui, in tema di invalidità delle deliberazioni dell'assemblea delle società per azioni, si ha un'inversione dei criteri regolatori del diritto negoziale, in quanto per esse vige il principio in virtù del quale la regola generale è quella della annullabilità ai sensi dell'art. 2377 cod. civ., mentre la previsione della nullità è limitata ai soli casi, disciplinati dall'art. 2379 cod. civ., di impossibilità o illiceità dell'oggetto, che ricorrono quando il contenuto della deliberazione contrasta con norme dettate a tutela degli interessi generali, che trascendono l'interesse del singolo socio, dirette ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto di società.
Onde esattamente i giudici del gravame hanno ritenuto che, siccome il contrasto con norme, anche cogenti, rivolte alla tutela dell'interesse dei singoli soci o di gruppi di essi (quali quelle poste a tutela del loro diritto di informazione) determina un'ipotesi di semplice annullabilità, e non di nullità della delibera che ha autorizzato il promovimento dell'azione di responsabilità, ogni indagine sulla sussistenza del lamentato vizio sarebbe nella specie ultronea, perché l'impugnazione non è stata esercitata nel termine di decadenza previsto dal citato art. 2377 cod. civ.
4. - Il secondo motivo del ricorso principale denuncia "violazione, errata interpretazione e comunque falsa applicazione degli artt. 2392 e 2393 cod. civ., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, riguardo alle violazioni di merito di carattere fiscale e previdenziale- contributivo contestate al D. J. (e agli altri amministratori della I S.L.)".
Quando, come nella specie, ci si trova di fronte a fatti od omissioni riferibili ad un terzo (un professionista esterno), il giudice dovrebbe valutare se l'operato dell'amministratore sia stato improntato all'osservanza della buona diligenza e della vigilanza; non solo, ma sarebbe l'attore a dover allegare quale altro comportamento, diverso da quello in concreto tenuto, doveva porre in essere l'amministratore.
Ora, i testi escussi avrebbero concordemente confermato che, secondo prassi costantemente seguita, la gestione della contabilità, compresi i vari adempimenti di ordine fiscale e contributivo, era seguita da professionisti esterni, ai quali il presidente D. J. aveva sempre versato le somme occorrenti e che rendevano conto del loro operato al collegio sindacale, con il quale agivano di concerto.
Nel ricorso si fa presente che il presidente D. J. e i componenti dell'allora consiglio di amministrazione, appena si accorsero delle infedeltà del M. A. e delle sue attività fraudolente, presentarono denuncia alla magistratura penale.
Non sarebbe dato comprendere "di quale particolare dovere di vigilanza il D. J. fosse gravato e, soprattutto, tale da controllare efficacemente il materiale operato di soggetti esterni alla società, che svolgevano tali incombenze per professione e che appunto per tali loro competenze nonché capace organizzazione vennero incaricati dalla Società di svolgere tali compiti".
Né potrebbe sostenersi che la colpa del D. J. risulti impegnata per avere costui concesso la propria fiducia per la tenuta della contabilità al M. A., tanto più che il D. J. fu l'unico in consiglio di amministrazione ad astenersi quando venne votato l'affidamento dell'incarico de quo al predetto M. A.
Nel ricorso si sostiene che se gli amministratori sono stati adempienti ai loro obblighi e ciò malgrado abbiano commesso errori o abbiano assunto iniziative eccessivamente rischiose o comunque abbiano compiuto operazioni rivelatesi dannose o non convenienti per la società, non sorge una loro responsabilità.
La tesi della Corte d'appello è che l'avere gli amministratori delegato ad altri il compimento di obblighi propri, li esporrebbe per ciò stesso a responsabilità, qualora il delegato non adempia esattamente.
Ma questa impostazione non sarebbe condivisibile, perché postula una responsabilità praticamente oggettiva e comunque "per la sfortunata scelta", del tutto insindacabile, di rivolgersi ad uno specializzato studio di commercialista. Nella specie, gli amministratori si sono rivolti ad uno specializzato studio esterno, professionista della materia, proprio per garantire al meglio - attese le specifiche competenze tecniche ed organizzative di tale soggetto - l'adempimento di formalità ed incombenti che gli stessi non sarebbero stati personalmente in grado di svolgere.
Né sarebbe esatta l'ulteriore argomentazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il dovere di vigilanza avrebbe dovuto spingere gli amministratori a sorvegliare che il professionista esterno avesse concretamente provveduto e a presentare loro stessi la denuncia nei trenta giorni successivi. Difatti - sostiene il ricorrente - solo gli specialisti del ramo riescono ad orientarsi "nel vero e proprio ginepraio di incombenti, di termini vari, di termini da rispettare e soprattutto di proroghe varie degli stessi termini, che regolano il campo fiscale e contributivo".
Analoghe considerazioni varrebbero per gli addebiti relativi agli omessi versamenti previdenziali e contributivi e delle ritenute d'acconto per alcuni dipendenti, posto che le somme per i contributi e le ritenute che la Società doveva versare erano state regolarmente corrisposte al rag. M. A. con assegni e contanti, secondo la prassi per anni seguita con il precedente professionista esterno, rag. T.
Né sarebbe condivisibile l'argomentazione della sentenza impugnata secondo cui gli amministratori dovrebbero rispondere per avere dato origine alla anomala situazione consistente nell'affidamento dell'incarico professionale, in base ad un preciso contratto, al rag. M. A., che rivestiva contemporaneamente la carica di sindaco, ed era perciò controllore di se stesso.
Si tratterebbe di evidente forzatura, posto che l'unica conseguenza di tale situazione era l'incompatibilità del M. A. a ricoprire ulteriormente la carica di sindaco, non certo l'illiceità in sé del contratto di prestazione d'opera professionale stipulato con la Società.
Inoltre, l'incompatibilità di cui all'art. 2399 cod. civ. nasce, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, solo in presenza di rapporti di lavoro che abbiano carattere continuativo, non quando ci si trovi di fronte ad incarichi professionali non implicanti vincoli di subordinazione.
4.1. - Con il terzo mezzo il ricorrente principale denuncia "violazione, errata interpretazione e comunque falsa applicazione degli artt. 2392 e 2393 cod. civ. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 riguardo alla tardiva presentazione della dichiarazione dei redditi anno 1991 ed alle violazioni rappresentate dagli omessi versamenti previdenziali e dagli omessi versamenti delle prescritte ritenute contributive sulle competenze dei lavoratori dipendenti, per mancato riferimento, quali corretti parametri onde valutare una corretta ricorrenza o meno della diligenza nel comportamento degli amministratori, ai criteri contenuti nella L. 11 ottobre 1995, n. 423, quali ulteriormente specificati dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, ed ai principi ispiratori di tali provvedimenti".
Premesso che il ritardo nella presentazione della dichiarazione dei redditi dell'anno 1991 da parte del rag. M. A. non era preventivabile dagli amministratori; che la presentazione della dichiarazione aveva sempre costituito poco più che un ordinario adempimento di routine per gli amministratori della società, i quali anche in precedenza si erano rivolti senza problemi a consulenti esterni; che tutta la documentazione fiscale e contabile era detenuta, in ragione dello specifico incarico affidatogli, dal rag. M. A.; il ricorrente ritiene che sarebbe contrario ad ogni principio di ragionevolezza gravare gli amministratori, che si affidano ad uno studio di un professionista specializzato nel ramo, del compito di districarsi nel labirinto di date e scadenze fiscali e, ancor più, di conoscere che, in caso di ritardo, è comunque possibile ancora "limitare i danni" rispettando un ulteriore termine "di grazia", perché ciò significherebbe gravare gli amministratori di un obbligo di perizia e non di diligenza.
D'altra parte, se si adotta un criterio di diligenza e di doverosa vigilanza rigorosamente inteso per gli amministratori in carica negli anni 1991 e 1992, gli stessi rigorosi criteri dovrebbero valere per gli amministratori che li seguirono (e che proposero l'azione di responsabilità), i quali avrebbero ben potuto limitare le conseguenze pregiudizievoli avvalendosi delle disposizioni di cui alla L. n. 423 del 1995 e al D.Lgs. n. 472 del 1997.
In particolare con il D.Lgs. n. 472 del 1997 il legislatore si è preoccupato di esonerare dal pagamento di pene pecuniarie e soprattasse i soggetti rimasti vittima dell'operato illecito e penalmente rilevante di consulenti e collaboratori esterni infedeli.
Se lo stesso legislatore ha escluso la violazione di obblighi nei confronti di terzi, a maggior ragione - si sostiene - il comportamento dell'amministratore rimasto vittima di raggiri non potrebbe rilevare nei rapporti interni con la società.
La statuizione della Corte d'appello, ancorata ad affermazioni meramente concettuali ed astratte e, nel contempo, inammissibilmente rigorose circa i doveri di vigilanza e diligenza degli amministratori, avrebbe omesso di considerare, da un lato, che il M. A. aveva presentato alla Società I S.L. la fattura n. 77 in data 30 giugno 1992, coincidente con il periodo temporale in cui avrebbe dovuto essere presentata la dichiarazione dei redditi, in cui si attestava l'attività che il medesimo aveva svolto quale professionista esterno della società dal gennaio 1992 al giugno 1992, e, dall'altro, che il medesimo M. A. è stato condannato dal giudice penale per condotte abusive e truffaldine analoghe commesse in danno di altri clienti.
4.2. - Con l'unico mezzo del ricorso incidentale si deduce "violazione, errata interpretazione e comunque falsa applicazione dell'art. 2399 c.c. e art. 2407 c.c., comma 2 e, in ogni caso, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sul punto specifico in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, con riguardo alla concorrente responsabilità solidale nella sua qualità di presidente del collegio sindacale contestata al dott. P. G. e, per lo stesso, all'erede, e figlia. P. R. M.".
La Corte d'appello, nel riconoscere la sussistenza della responsabilità solidale dei sindaci, non avrebbe considerato le seguenti circostanze: che la contabilità della società era stata affidata dal consiglio di amministrazione - "con comportamento incensurabile ex art. 2399 cod. civ. nei confronti del presidente del collegio sindacale quando trattasi di incarico professionale che debba essere affidato di volta in volta" - per l'anno in questione (1991-1992) al rag. M. A.; e che l'inottemperanza effettiva a tali adempimenti è stata dimostrata come addebitatale di fatto esclusivamente al comportamento fraudolento del M. A.
In sostanza, la Corte territoriale avrebbe addebitato al P. G. una responsabilità di tipo oggettivo, seguendo il teorema del "non poteva non sapere" ovvero "non accorgersi" delle conseguenze delle omissioni del M. A.
Invece, i giudici del gravame avrebbero dovuto considerare che l'obbligo dei sindaci di operare un controllo sui generali criteri economici della gestione non può tradursi in un sindacato sul merito di scelte gestionali (la nomina del M. A.) legittimamente assunte dagli amministratori, e che i sindaci non possono imporre agli amministratori determinati comportamenti ovvero sostituirsi agli stessi in caso di inadempienza.
La ricorrente sostiene che il P. G. ha adempiuto ai propri doveri con diligenza, partecipando alle adunanze del consiglio di amministrazione e delle assemblee ed in ogni caso verificando la correttezza di quanto formalmente esposto dal M. A.
La Corte d'appello avrebbe omesso di valutare quali sarebbero state le eventuali irregolarità di gestione imputabili al collegio sindacale e direttamente al P. G.
4.3. - Il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale e l'unico motivo del ricorso incidentale - i quali, stante la loro stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente, tenendo conto delle norme del codice nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 - sono privi di fondamento.
4.3.1. - L'art. 2392 cod. civ. impone a tutti gli amministratori l'obbligo di amministrare con diligenza e il dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione.
Gli adempimenti tributari e contributivi, imposti dalle norme fiscali e civilistiche, rappresentano un aspetto fondamentale della gestione sociale: rientra pertanto tra i compiti degli amministratori, da un lato, verificare che le prescrizioni normative concernenti la presentazione della denuncia dei redditi, il versamento di ritenute fiscali ed il pagamento dei contributi siano regolarmente e tempestivamente osservate dalla società, e, dall'altro, esercitare un'attività di tipo correttivo per porre rimedio ad omissioni o ad irregolarità degli uffici interni preposti o dei professionisti esterni incaricati.
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che il dovere di vigilanza imponeva agli amministratori, quali che fossero le loro competenze specifiche, di prestare la massima attenzione all'adempimento degli obblighi fiscali e contributivi e che il mancato esercizio di tale dovere, traducendosi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (in termini di indetraibilità di spese sociali conseguente alla tardiva presentazione della denuncia dei redditi e di pene e soprattasse per il mancato versamento di ritenute alla fonte e di pagamento di contributi previdenziali), giustificava la condanna al risarcimento del danno in sede di azione di responsabilità promossa dalla società.
Né coglie nel segno la censura secondo cui nel caso di specie, in cui la società si era rivolta ad un professionista esterno specializzato (il rag. M. A.) per l'adempimento delle varie formalità e degli incombenti imposti in materia tributaria e contributiva, nulla potrebbe essere concretamente rimproverato al presidente del consiglio di amministrazione.
La Corte d'appello ha al riguardo osservato che, nella particolare situazione, l'affidamento dell'incarico al professionista esterno, non solo non esonerava gli amministratori da responsabilità, ma anzi ne aumentava l'obbligo di vigilanza, perché il rag. M. A., che era sindaco della Società I S.L., era contemporaneamente legato alla Società da un rapporto continuativo e stabile di prestazione d'opera professionale e versava, pertanto, in una situazione di incompatibilità.
Anche questo aspetto della motivazione della sentenza impugnata resiste alle censure.
Vero è che questa Corte, in un non recente arresto (Sez. 2^, 15 luglio 1968, n. 2537), ha statuito che l'art. 2399 cod. civ. non comprende tra le cause di decadenza del sindaco di società commerciali gli incarichi professionali non implicanti vincolo di subordinazione.
Rimeditando la questione, il Collegio non condivide la lettura della disposizione che è stata data nel richiamato precedente.
Invero, l'art. 2399 cod. civ. persegue lo scopo di tutelare l'indipendenza dei sindaci introducendo per essi delle ipotesi di incompatibilità, ad evitare che, a causa dell'attività esercitata, venga meno l'obiettività del sindaco nei confronti della società riguardo alla quale egli deve esplicare i suoi poteri-doveri di controllo.
Quando le funzioni di sindaco siano svolte dalla medesima persona che è legata alla società da un rapporto continuativo di prestazione d'opera retribuita, il vincolo che si instaura con gli amministratori attenua, e talora può annullare del tutto, l'obiettività del sindaco, di fatto impedendogli di assumere iniziative non gradite agli amministratori o al capitale di comando; e il legislatore, prevedendo in tale evenienza la decadenza dalla carica di sindaco, ha espresso un giudizio generale e predeterminato sulla capacità offensiva nei confronti del bene tutelato di un siffatto rapporto.
Tenuto conto della ratio della disposizione, deve escludersi che l'incompatibilità sorga unicamente in presenza di rapporti di lavoro subordinato. La sussistenza di un rapporto giuridico di dipendenza non è l'elemento decisivo: l'art. 2399 cod. civ. è suscettibile di comprendere qualsiasi legame che abbia ad oggetto attività professionali, rese anche nell'ambito di un rapporto di lavoro autonomo, quando la prestazione a titolo oneroso abbia carattere continuativo.
Nella specie i giudici del gravame hanno accertato che al M. A. non era stata affidata una semplice attività di consulenza saltuaria od occasionale. Con detto professionista era stato infatti stipulato un contratto d'opera a titolo oneroso di carattere stabile e continuativo, avente ad oggetto la tenuta dei libri contabili i l'espletamento di mansioni di consulenza e di assistenza fiscale, l'espletamento di tutti gli incombenti, adempimenti e versamenti di natura fiscale e previdenziale. Onde correttamente la Corte d'appello ha ritenuto che la sussistenza di un vero e proprio rapporto di prestazione continuativa di opera professionale integrasse l'ipotesi di incompatibilità di cui al citato art. 2399 cod. civ.
Di qui il corollario, sul piano del dovere di diligenza e della conseguente responsabilità, che - attesa la grave situazione di irregolarità gestionale derivante dal doppio e contemporaneo esercizio, da parte del M. A., delle funzioni di sindaco e di professionista stabilmente incaricato della Società - gli amministratori non avrebbero potuto esimersi dal vigilare sull'operato di colui che, anziché effettuare, da una posizione di imparzialità, il dovuto controllo sull'amministrazione, si era reso autore e partecipe della stessa gestione da controllare.
4.3.2. - Ciò posto, sfugge alla censura mossa dalla ricorrente in via incidentale l'ulteriore statuizione della sentenza impugnata con cui è stata ravvisata la responsabilità concorrente del presidente del collegio sindacale.
Il dovere di vigilanza e di controllo imposto ai sindaci delle società per azioni dall'art. 2403 cod. civ. concerne l'operato degli amministratori e tutta l'attività sociale, al fine di assicurare che la stessa venga svolta nel rispetto della legge e dell'atto costitutivo (Cass., Sez. 1^, 24 marzo 1999, n. 2772; Cass., Sez. 1^, 6 settembre 2007, n. 18728).
Nell'ambito della vigilanza sull'osservanza della legge e sul rispetto dei principi di buona amministrazione, il collegio sindacale ha il dovere di considerare anche i corretti adempimenti previsti dalle norme tributarie e previdenziali. In particolare, con riferimento ai predetti adempimenti, la vigilanza dei sindaci investe non solo la presenza nella struttura organizzativa di personale interno responsabile e di consulenti di supporto esterno esperti nelle suindicate materie, ma anche il funzionamento di procedure che assicurino la tempestività e la regolarità degli adempimenti obbligatori.
Onde correttamente la Corte di merito ha ritenuto: (a) che il dovere di vigilanza dei sindaci esige di verificare il rispetto, da parte degli amministratori, sia degli obblighi specificamente imposti dalla legge, sia del generale obbligo di gestire nell'interesse sociale secondo il parametro della diligenza; (b) che, siccome il comportamento dei sindaci deve ispirarsi al parametro della diligenza, essi devono assumere ogni iniziativa che appaia, secondo le circostanze, necessaria all'assolvimento dei loro compiti istituzionali di controllo sull'amministrazione della società; (c) che i sindaci (ed in particolare il dott. P. G., per la sua speciale responsabilità di presidente del collegio) - in quanto informati del fatto che il consiglio di amministrazione aveva deliberato di affidare l'incarico di tenuta della contabilità sociale al rag. M. A., che era anche uno dei tre sindaci in precedenza nominato dall'assemblea dei soci - avrebbero dovuto controllare, con vigilanza e scrupolo ancora maggiori, che il collega M. A. curasse gli adempimenti previsti dalle norme tributarie e previdenziali e impiegasse le somme a lui consegnate per lo scopo a cui erano destinate.
4.3.3. - Non è pertinente il richiamo fatto dal ricorrente principale alla L. 11 ottobre 1995, n. 423, e al successivo D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
Tali atti normativi - nel prevedere che la riscossione delle soprattasse e delle pene pecuniarie previste dalle leggi d'imposta in caso di omesso, ritardato o insufficiente versamento e sospesa nei confronti del contribuente e del sostituto d'imposta qualora la violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, di ragionieri o dottori commercialisti, in dipendenza del loro mandato professionale - dettano disposizioni che riguardano i rapporti tra contribuente e fisco, stabilendo le condizioni per la commutazione dell'atto di irrogazione delle sanzioni a carico del professionista e per lo sgravio in favore del contribuente (a vantaggio del quale viene prevista una causa di non punibilità).
Ma né la L. n. 423 del 1995 né il D.Lgs. n. 472 del 1997 spiegano un effetto diretto sulla diligenza che è esigibile dagli amministratori nello svolgimento del loro ufficio, né attenuano la conseguente responsabilità in cui essi incorrono allorché, da parte del professionista incaricato, non siano assicurate la tempestività e la regolarità degli adempimenti obbligatori. Più semplicemente, le citate disposizioni normative hanno un indiretto riflesso sulla portata dell'obbligo risarcitorio degli amministratori ove, per effetto della condotta illecita, penalmente rilevante, del professionista e dello sgravio disposto dall'ufficio tributario in favore del contribuente per effetto della commutazione dell'atto di irrogazione a carico del professionista (sgravio che nella specie non risulta essere stato adottato), la società non sia più passibile di soprattasse e di pene pecuniarie: in tale evenienza, venendo meno il titolo della responsabilità della società per soprattasse e pene pecuniarie, non è neppure configurabile lo specifico pregiudizio corrispondente all'importo delle sanzioni, e quindi di esso non può essere chiamato a rispondere l'amministratore.
5. - Con il quarto mezzo del ricorso principale si deduce "violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nonché contraddittorietà della motivazione, laddove (punto 20 della sentenza impugnata) è stata ritenuta impegnata la responsabilità degli amministratori per ingenti esborsi sostenuti dalla società senza giustificazione alcuna per complessive L. 370.475.560 (fatture emesse dalla s.r.l. Neodata, ditta Ca.N. e ditta T.)".
La Corte d'appello, con sovvertimento di ogni principio in tema di onere probatorio, avrebbe fatto carico agli amministratori di non avere vinto "l'opinione presuntiva che si trattasse di prestazioni inesistenti".
Erroneamente la Corte territoriale avrebbe considerato il teste geom. G. attendibile là dove ha riferito che i lavori erano stati affidati alle imprese F. e N. e generico ed indeterminato là dove ha riferito del concomitante intervento della impresa T.
La sentenza impugnata ha concluso che, essendo stati i lavori effettuati dalle "diverse" ditte F. e N., essi non potevano essere effettuati dalle imprese delle cui fatture si discute.
In realtà, il D. J. non avrebbe mai sostenuto che in luogo delle imprese F, e N. fossero intervenute quelle le cui fatture sono state prodotte, ma solo che anche dalla T. sono stati eseguiti interventi di supporto e complementari.
Le fatture della T. riflettono, ad avviso del ricorrente, lavori di cooperazione e di supporto all'attività di scavo e per la collocazione delle tubazioni, effettuati in occasione dei lavori per i necessari adeguamenti degli impianti (questi, sì, affidati alle ditte F. e N.) di rete fognaria, telefonica e gas.
Le fatture emesse dalla T., il cui contenuto il ricorrente riproduce, sarebbero circostanziate e conterrebbero una dettagliata ed analitica esposizione degli interventi.
Il fatto, poi, che alla camera di commercio la società N. s.r.l. risultasse in liquidazione e la ditta del Ca. N. risultasse già ritirata dagli affari prima delle prestazioni documentate dalle rispettive fatture rese a favore della Società I S.L., non costituirebbe una circostanza concludente e dirimente, non potendo escludersi che l'una e l'altra abbiano continuato, di fatto, ad operare.
Poco pertinente sarebbe il rilievo della mancanza di relazione alcuna con l'oggetto sociale delle prestazioni (manifestazioni di prestazioni artiche e di assistenza amministrativa) indicate in alcune fatture. La Corte d'appello avrebbe totalmente trascurato di considerare che, oltre a tornei vari, per animare la vita del parco - come emerso dall'istruttoria esperita e come bene ha ritenuto il Tribunale - venivano organizzate delle frequenti e ricorrenti serate danzanti nei fine settimana. I complessi musicali che venivano chiamati all'uopo dovevano essere remunerati e le fatture in contestazione documenterebbero appunto tali spese.
Inoltre la sentenza della Corte d'appello neppure indicherebbe quale vantaggio sarebbe derivato al D. J. e agli altri amministratori dalla pretesa fatturazione non veritiera.
5.1. - Il motivo è inammissibile.
Nell'accogliere, in riforma dell'impugnata sentenza, la domanda di condanna per il danno, per un importo di L. 370.475.560, sottostante alla contabilizzazione a carico della Società di fatture per prestazioni inesistenti emesse dalla s.r.l. N., dalla ditta I. di Ca.Ni., dalla Impresa T.C.M. e dalla ditta T., la Corte d'appello ha rilevato:
che le deposizioni dei testi G. e B. non contengono nessuna concreta indicazione, da cui possa dedursi la veridicità delle forniture fatturate dalle imprese menzionate. Entrambi i testi hanno confermato che in passato la Società I S.L. aveva dovuto affrontare l'esecuzione di diversi lavori, fra essi inclusi quelli per la posa in opera di tubazioni per vari impianti (per la cui progettazione il teste G. era stato consulente); tuttavia, dalle deposizioni non sono emerse indicazioni che offrano elementi precisi e specifici che consentano il riscontro della corrispondenza fra le fatture contestate e i lavori eseguiti e permettano di riferire i lavori di cui i testi avevano ricordo all'epoca e alle imprese a cui le prestazioni descritte nelle fatture sono riferite;
che nessuna delle fatture in contestazione descrive una ragione causale della prestazione effettuata che corrisponda agli interventi cui si riferiva la prestazione professionale del geom. G.; che, quanto al teste B. (titolare di una impresa che aveva eseguito in passato per la Società dei lavori per la posa in opera di tubazioni), nessun elemento specifico ed oggettivo può ricavarsi dalla sua deposizione a favore della esistenza delle prestazioni effettuate dalla T. e dalla Impresa T.C.M.; che dai certificati della camera di commercio risulta che la Società N. era stata posta in liquidazione volontaria con Delib. 5 dicembre 1989 e che l'Impresa I. di Ca. Ni. era cessata per ritiro dagli affari dal 1 agosto 1989: prima, quindi, della data cui si riferiscono le prestazioni fatturate;
che le prestazioni indicate nelle fatture N. e I. (manifestazioni e prestazioni artistiche e consulenza amministrativa) non avevano alcuna relazione con l'oggetto sociale;
che Ca. Ni., interrogato dalla Guardia di finanza, aveva escluso di avere mai avuto alcun rapporto economico con la Società I S.L.;
che dagli accertamenti della Guardia di finanza è risultato che l'Impresa T.C. non aveva personale né mezzi idonei allo svolgimento delle prestazioni fatturate, tutte concernenti lavori di rilevante impegno di manutenzione ordinaria e straordinaria, incompatibili con il volume di affari dichiarato ai fini IVA. Si tratta di una motivazione adeguata, priva di mende logiche e giuridiche, con cui la Corte di merito - sulla base della analitica ricostruzione delle emergenze processuali e della valutazione delle deposizioni testimoniali e delle prove documentali, non prive di riscontro nei risultati delle indagini della Guardia di finanza - è giunta alla conclusione che le spese fatturate, pari a complessive L. 370.475.560, siano equiparabili ad uscite patrimoniali e di cassa, disposte senza causa e assolutamente non riferibili all'attività sociale, e siano valse ad occultare delle distrazioni patrimoniali.
Le censure in cui si articola il motivo - ancorché formalmente indirizzate a denunciare vizi di violazione di legge e contraddittorietà nella motivazione - si risolvono in una contestazione degli apprezzamenti in fatto compiuti dalla Corte di merito ed in una sollecitazione ad una nuova valutazione degli elementi acquisiti in giudizio.
Ma ciò fuoriesce dai limiti del sindacato di questa Suprema Corte, alla quale non è consentito il potere di riesaminare il merito della causa, potendo essa solo controllare sul piano logico e formale e della correttezza giuridica l'esame e la valutazione effettuati dal giudice di merito, a questo soltanto spettando di individuare le fonti del proprio convincimento, di apprezzare le prove e di scegliere, tra le risultanze di causa, quelle ritenute più idonee a dimostrare (o ad escludere la prova de)i fatti in discussione (salvi i casi tassativamente previsti dalla legge - che qui non vengono in rilievo - in cui è assegnato un valore legale alla prova). In sede di legittimità, infatti, il controllo della motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice del merito circa la propria statuizione esibisca i requisiti strutturali minimi dell'argomentazione (fatto probatorio - massima di esperienza - fatto accertato), senza che sia consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata dal detto giudice, potendo questa essere disattesa, non già quando l'inferenza probatoria non sia da essa "necessitata", ma solo quando non sia da essa neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita, avendosi, in tal caso, una mera apparenza del discorso giustificativo (Cass., Sez. lav., 16 gennaio 1996, n. 326).
Nella specie, i dedotti vizi non corrispondono al modello enucleabile dall'art. 360 cod. proc. civ., n. 5 poiché, da un lato, non investono omissioni, insufficienze o contraddittorietà del discorso giustificativo su punti decisivi della controversia e, dall'altro, si infrangono contro la palese sussistenza, nella sentenza impugnata, dei requisiti strutturali dell'argomentazione, come sopra individuati. Quelle deduzioni, in conclusione, si sostanziano nel ripercorrere criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice a quo, sicché incidono sull'intrinseco delle opzioni nelle quali propriamente si concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso estranee all'ambito meramente estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità.
6. - Il ricorso principale ed il ricorso incidentale sono rigettati.
Le spese di lite sostenute dalla controricorrente Società I Sette Laghi - che ha svolto attività difensiva nel solo giudizio promosso con il ricorso iscritto al numero 2475 del 2004 di registro generale - vanno poste a carico del soccombente D. J., e vengono liquidate come da dispositivo.
Nei rapporti tra il ricorrente D. J. e la controricorrente P. G. sussistono giustificati motivi per la compensazione delle spese del grado. Il ricorso è stato difatti notificato alla P. M. R., quale erede del dott. P. G., presidente del collegio sindacale, per ragioni di integrità del contraddittorio, non già per muovere censure alla parte della sentenza riferita alla responsabilità del presidente del collegio sindacale; e l'errore nella individuazione della P. M. R. quale erede anche di Z. A. ved. P. non ha svolto, nella economia complessiva dell'unico atto di controricorso, una influenza decisiva.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi:
1) dichiara inammissibile l'impugnazione proposta da D. J. R. nei confronti di P. A. M. nella qualità di erede di Z. A. ved. P.;
2) rigetta il ricorso principale e l'incidentale;
3) condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese processuali sostenute dalla controricorrente Società, liquidate in Euro 5.200,00 di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre alle spese processuali ed agli accessori di legge;
4) dichiara interamente compensate tra il D. J. e la P. M. R. le spese processuali del grado.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile, il 11 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2008.