Diritto Civile
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1961 - pubb. 18/01/2010
Riduzione della penale, danno e interesse del creditore al momento della stipula
Cassazione civile, sez. II, 01 Luglio 2009, n. 15468. Est. Migliucci.
Contratti – Clausola penale – Riduzione ad opera del giudice – Fondamento – Valutazione del danno – Esclusione – Interesse all’adempimento – Rilevanza al momento di conclusione del contratto – Fatti sopravvenuti – Irrilevanza.
Il criterio al quale giudice deve ispirarsi per esercitare il potere di riduzione della penale contrattualmente prevista non è la valutazione del danno che sia stato accertato o risarcito, ma l’interesse che la parte ha, secondo le circostanze, all’adempimento della prestazione cui ha diritto, precisandosi che tale valutazione deve essere riferita al momento in cui si è concluso il contratto cui accede, e non a quello nel quale viene chiesto il pagamento, sicché ove essa risulti adeguata all’interesse del creditore all’adempimento con riguardo al momento della stipulazione, rimane priva di rilevanza l’eventuale eccessività per la sopravvenienza di fatti che riducano l’interesse del creditore o l’entità del pregiudizio che il medesimo viene a subire per effetto dell’inadempimento. Inoltre, deve evidenziarsi che l’apprezzamento sulla eccessività dell’importo fissato con clausola penale dalle parti contraenti, per il caso di inadempimento o di ritardato adempimento, nonché sulla misura della riduzione equitativa dell’importo medesimo, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente fondato, ai sensi dell’art. 1384 c.c., sulla valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento con riguardo all’effettiva incidenza dello stesso sull’equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, indipendentemente da una rigida ed esclusiva correlazione con l’entità del danno subito. (1)
Conforme: Cass. civ., Sez. I, 09 maggio 2007, n. 10626, in Contratti, 2007, 8-9, 790; Cass. civ., Sez. lavoro, 04 aprile 2006, n. 7835, in Contratti, 2007, 1, 17; Cass. civ., Sez. II, 26 marzo 1997, n.2655, in Contratti, 1997, 4, 357.
Difforme: Cass. civ., Sez. III, 03 settembre 1999, n.9298, in Contratti, 1999, 12, 1108; Cass. civ., Sez. II, 09 novembre 1994, n.9304, in Contratti, 1995, 2, 170; Cass. civ., Sez. II, 09 giugno 1990, n.5625, in Mass. Giur. It., 1990.
(1) Ancora sulla riduzione della clausola penale in rapporto al potere ufficioso del giudice, di Sergio Balzaretti, in questa Rivista, II, 188/2010.
Segnalazione dell'Avv. Sergio Balzaretti
omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La A. C. S.r.l. conveniva dinanzi al Tribunale di Roma l'I.N.P.D.A.P. Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti della Amministrazione Pubblica esponendo che: a) aveva stipulato con l'I.N.A.D.E.L. (al quale era subentrato il convenuto istituto) un contratto per il trasferimento di proprietà di un immobile sito in Caserta (parte di un caseggiato) per il prezzo di L. 12.150.000.000;
b) le parti avevano convenuto che la vendita si riferiva "agli immobili ed al relativo fabbricato rifinito in ogni loro parte, completamente utilizzabili ed agibili" di talchè essa venditrice si era obbligata ad eseguire lavori di ristrutturazione ed adeguamento sismico ed a consegnare la res entro il 31.12.1992; c) si era altresì impegnata ad eseguire le opere necessarie all'uso, risultando dal contratto stesso che l'immobile sarebbe stato locato al Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale; d) dopo la stipula del contratto aveva incontrato notevoli difficoltà sia nella esecuzione delle opere che per ottenere il rilascio delle certificazioni necessarie e, pertanto, consegnava l'immobile tardivamente, in data 8.5.1995 e la controparte applicava la penale di L. 2.000.000 giornaliere, ridotte di complessive L. 100.000.000 a seguito della c.d. sorpresa geologica.
Pertanto l'istante, premesso che il contratto de quo aveva natura mista, di appalto e di vendita, chiedeva l'applicazione di un termine suppletivo per la consegna o, in via subordinata, la disapplicazione della penale o la sua riduzione.
Costituitosi, l'istituto convenuto chiedeva il rigetto delle domande.
Con sentenza dep. il 13 settembre 2000 il Tribunale riteneva rinunciata la domanda principale rigettando quelle subordinate.
Con sentenza dep. il primo marzo 2004 la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda principale di fissazione di un termine di consegna, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
Dopo avere escluso che potesse considerarsi rinunciata la domanda relativa alla determinazione del termine, i giudici la ritenevano infondata, rilevando che se, da un canto, non era stato neppure indicato a quale norma la parte avesse fatto riferimento per chiedere la fissatone di un termine suppletivo (che il giudice può fissare solo ove non vi abbiano provveduto le parti, ai sensi dell'art. 1183 c.c.), d'altro lato, versandosi in tema di negozio misto di vendita e di appalto, la disciplina andava individuata in base al tipo di contratto i cui elementi costitutivi erano da considerarsi prevalenti: nella specie quelli della vendita, posto che il lavoro era soltanto il mezzo per il conseguimento dell'immobile che la venditrice si era impegnata a consegnare ristrutturato e con le necessarie opere di adeguamento per l'uso pattuito secondo un progetto già redatto, non essendo stato intenzione dell'acquirente affidare alla venditrice i lavori di ristrutturazione.
Veniva, quindi, esclusa la disapplicazione della clausola penale pattuita per il ritardo nella somma di L. 2.000.000 al giorno, sul rilievo che l'attrice avrebbe dovuto dimostrare che si erano verificate situazioni ad essa non imputabili che avevano impedito la consegna tempestiva dell'immobile Al riguardo, la sentenza rilevava che non erano state sollevate vere contestazioni alla decisione di primo grado che aveva escluso l'esistenza di cause giustificanti il ritardo; che gli interventi di ristrutturazione, concernenti l'intero edificio e non solo le parti alienate all'I.N.P.D.A.P., non avevano subito rilevanti modifiche per effetto dell'acquisto da parte dell'ente convenuto.
I giudici di appello osservavano ancora che l'appellante, pur avendo dedotto una erronea valutazione del comportamento inerte tenuto dall'acquirente, non aveva esaminato in alcun modo l'argomentazione sulla quale si era fondato il convincimento del primo giudice, ovvero che le opere interne (le uniche che l'acquirente avrebbe potuto indicare) avrebbero potuto essere realizzate dopo la consegna ai sensi dell'art. 6 del contratto.
Infine, era respinta la richiesta di riduzione della penale che era ritenuta congrua in relazione all'utilizzo dell'immobile che l'acquirente si era prefisso e al conseguente mancato guadagno.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione La A. C. S.r.l sulla base di sei motivi illustrati da memoria.
Resiste con controricorso l'I.N.P.D.A.P.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente lamenta "ERROR IN IUDICANDO VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., NN. 3 E 5 IN RELAZIONE ALL'ART. 1322 C.C. NONCHE' AGLI ARTT. 1362, 1366, 1175 E 1375 C.C. OMESSA E/O INSUFFICIENTE E/O CONTRADDITTORIA MOTIVAZIONE SU UN PUNTO DETERMINANTE DELLA CONTROVERSIA".
La ricorrente deduce che la domanda formulata dalla s.r.l.
A. C. in ordine alla fissazione di un termine suppletivo per l'ultimazione dei lavori e per la consegna dell'immobile muoveva dall'assunto che il contratto stipulato tra la odierna ricorrente e l'amministrazione pubblica non poteva non qualificarsi come contratto misto con prevalenza dell'appalto o comunque come contratto unico con due negozi non funzionalmente collegati, con la conseguente applicazione della disciplina codicistica relativa ad entrambe le fattispecie contrattuali. La sentenza impugnata aveva immotivatamente ritenuto il contratto misto con prevalenza della vendita, senza pronunciarsi sulla prospettazione che essa ricorrente aveva formulato in ordine al collegamento solo occasionale e non funzionale dei negozi voluti dalle parti, ai quali era quindi applicabile la disciplina in materia di appalto: il che avrebbe avuto ripercussione in ordine alle domande avanzate dall'attrice. Nella specie, le parti non avevano voluto soltanto la vendita di una cosa, ma anche la consegna di una cosa futura che rappresentava l'espressione e la conseguenza dell'appalto commesso dal convenuto: nel contratto erano previste una serie di disposizioni che evidenziavano come l'attrice aveva assunto l'obbligo di eseguire imponenti lavori di ristrutturazione al completamento dei quali l'immobile sarebbe stato consegnato dall'appaltatore che aveva assunto altresì l'obbligo di gestione, impegnandosi a locarlo in nome e per conto dell'amministrazione.
La motivazione era carente laddove la sentenza non aveva valutato la compatibilità della vendita con l'appalto con la conseguente integrazione delle discipline delle diverse cause negoziali, posto che il criterio della prevalenza non esclude la rilevanza degli elementi del contratto non prevalente che siano compatibili con la disciplina del contratto prevalente.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce "ERROR IN IUDICANDO VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., NN. 3 E 5, IN RELAZIONE AGLI ARTT. 1218 E 1375 C.C., OMESSA E/0 INSUFFICIENTE E/0 CONTRADDITTORIA MOTIVAZIONE SU UN PUNTO DETERMINANTE DELLA CONTROVERSIA" La ricorrente censura la sentenza laddove aveva ritenuto che il ritardo nell'esecuzione delle opere e quindi nella consegna dell'immobile fosse imputabile in via esclusiva alla ricorrente senza attribuire rilevanza alcuna nè ai fattori sopravvenuti, cause impreviste ed imprevedibili conseguenti anche alla c.d. sorpresa geologica, nè alla mancata cooperazione dell'amministrazione.
Il sopraggiungere di circostanze impreviste ed imprevedibili rende incolpevole il ritardo dell'appaltatore, anche se non vi sia stata una proroga del termine, che sarebbe comunque giustificata.
La sentenza non aveva:
a) esaminato le risultanze della consulenza tecnica di parte da cui erano emerse le ulteriori emergenze strutturali conseguenti a quella geologica, la sorpresa strutturale più generale ed in particolare non aveva dato rilievo alle variazioni necessarie al progetto originario, che si erano dimostrare indispensabili nel corso dei lavori, avendo essa ricorrente dovuto elaborare progetti di adeguamento strutturale complessi e variamente articolati per fare fronte ad interventi imprevisti;
b) motivato in ordine al comportamento inerte tenuto dal convenuto che, nel corso della realizzazione dei lavori di ristrutturazione, non aveva mai comunicato alla ditta esecutrice le opere da realizzare secondo quanto previsto in contratto; dalla documentazione in atti era emerso che erano state commissionate modifiche al progetto originario che avrebbero richiesto una verifica da parte dell'ente al fine della prosecuzione dei lavori; d'altra parte la ricorrente aveva chiesto una verifica dei lavori dichiarandosi disponibile alla consegna dell'immobile. In realtà l'I.N.P.D.A.P., assumendo un comportamento contraddittorio ed illogico non solo si era attardato nel ricevere la consegna dei lavori ma aveva commissionato modifiche ai lavori per rendere l'immobile usufruibile in relazione all'uso al quale esso era destinato senza poi procedere alla necessaria verifica e comunicando, quando erano già da due anni i termini per la consegna e per la manifestazione, di non prendere in locazione l'immobile ai sensi dell'art. 6 del contratto. L'incertezza in ordine alle opere necessarie per l'ultimazione dell'immobile, determinata dalla condotta dell'istituto, evidenziava comunque la non imputabilità del ritardo addebitato alla ricorrente: la Corre aveva omesso ogni indagine in ordine alla condotta tenuta dall'amministrazione in violazione dei doveri di cooperazione e che determinano la mora accipiendi del creditore, che è configurabile anche con riferimento alla pubblica amministrazione. Immotivatamente e contraddittoriamente il Giudice di appello aveva affermato che, secondo quanto previsto dall'art. 6 del contratto, le opere interne potevano essere realizzate anche dopo la consegna dell'immobile;
questa era una facoltà dell'ente, che non impediva la richiesta in sede di esecuzione dei lavori, tant'è vero dalla documentazione prodotta era risultato che l'Istituto aveva commissionato ulteriori lavori, senza avere poi provveduto a verificarne la rispondenza, nonostante le numerose sollecitazioni della ricorrente.
Pertanto, i Giudici avrebbero dovuto quantificare il ritardo attribuibile all'amministrazione e defalcarlo da quello globale, in modo da verificare che il ritardo dell'appaltatore era non al medesimo imputabile, perchè determinato dall'amministrazione che aveva contravvenuto al principio generale di cui all'art. 1375 c.c..
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia "ERROR IN IUDICANDO VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., NN. 3 E 5 IN RELAZIONE AGLI ARTT. 184 e 191 C.P.C.", deducendo che la sentenza non aveva esaminato e motivato in ordine alla richiesta di ammissione della consulenza tecnica d'ufficio, il cui espletamento sarebbe stato necessario per verificare l'inapplicabilità della penale.
Con il quarto motivo deduce "ERROR IN IUDICANDO VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., N. 5 VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., N 4 IN RELAZIONE ALL'ART. 1660 C.C. E ALLA NORMATIVA IN MATERIA DI APPALTI" rilevando che il diritto alla fissazione di un nuovo termine per l'adempimento sorge quando diventa necessaria una maggiore durata dei lavori determinata da cause non imputabili, termine che deve essere stabilito dal giudice terzo.
I primi quattro motivi, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.
Le censure sono infondate.
Dopo avere escluso che ricorressero gli estremi per la determinazione giudiziale del termine per l'adempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto intercorso fra le parti, la sentenza ha ritenuto che in definitiva oggetto della domanda era l'esclusione della clausola penale (o, in subordine, la sua riduzione) sul presupposto della asserita insussistenza di un inadempimento colpevole addebitabile all'attrice. Ed i giudici, pur avendo considerato applicabile al negozio - che presentava un contenuto complesso con elementi della vendita e dell'appalto - la disciplina della prima per la prevalenza degli elementi riconducibili a tale tipo di contratteranno compiuto la verifica in ordine alla sussistenza di un inadempimento colpevole, ritenendo che - a stregua di quanto emerso dalla decisione di primo grado e non specificamente contestato dall'appellante - doveva escludersi che il ritardo nella consegna dell'immobile fosse giustificato da cause non imputabili alla venditrice (di cui si dirà infra più diffusamente).
Orbene, la questione in ordine alla natura del contratto stipulato fra le parti e alla disciplina applicabile (primo motivo) appare del tutto inconferente rispetto al thema decidendum della presente controversia introdotta dalla ricorrente con la domanda di fissazione di un nuovo termine per l'adempimento e, in subordine, di disapplicazione o riduzione della clausola penale.
Ed invero, la qualificazione del contratto e l'applicabilità delle norme in materia di appalto e non di vendita, come sostenuto dalla ricorrente, è del tutto indifferente sia rispetto alla richiesta di un termine suppletivo sia in riferimento all'applicabilità della clausola penale, che presuppone un inadempimento colpevole del soggetto obbligato. Per quanto concerne l'assegnazione del termine di proroga, occorre considerare che l'art. 1183 c.c., conferisce al giudice il potere di stabilire il termine per l'adempimento qualora esso non sia stato pattuito dalle parti. La determinazione giudiziale del termine non è prevista nel caso in cui l'originario termine non sia stato osservato dall'obbligato, il quale evidentemente ha l'onere di provare che l'inadempimento non è stato determinato da causa a lui imputabile.
Ed in materia di appalto, nel caso in cui non sia stato possibile osservare il termine stabilito contrattualmente a seguito di variazioni rese necessarie, tale circostanza potrà influire sulla non imputabilità del ritardo a colpa dell'appaltatore, il quale avrà diritto ad ottenere dal committente un termine suppletivo ed in caso di mancato accordo, non potrà essere perciò solo essere ritenuto inadempiente, essendo posto a carico del committente dimostrare che l'inadempimento era addebitabile all'appaltatore.
In ogni caso, l'accertamento di un ritardo colpevole nell'adempimento da parte dell'attrice portava ad escludere che potesse essere giustificata la proroga dell'originario termine di consegna. Ed invero la sentenza, nell'affermare che il ritardo nella consegna dell'immobile era imputabile a colpa dell'appaltatore, ha verificato che l'inosservanza del termine pattuito non era stato causato da situazioni ad essa non rapportabili sull'assorbente rilievo che le considerazioni formulate dal giudice di primo grado in ordine all'accertata insussistenza di cause giustificatrici del ritardo non erano state specificamente censurate con l'appello. La Corte ha in proposito chiarito come i lavori di ristrutturazione, che riguardavano l'intero edificio e non solo le parti alienate al convenuto, erano già definiti in sede di rilascio della concessione edilizia, che era anteriore alla stipula del contratto di vendita de qua e che - appunto secondo quanto statuito dal giudice di primo grado - non avevano subito rilevanti modifiche per effetto dell'acquisto.
Quindi la sentenza ha evidenziato come, a proposito della condotta inerte addebitata all'amministrazione dalla ricorrente, quest'ultima ancora una volta non aveva censurato ("non aveva in alcun modo esaminato") l'argomentazione sulla quale la decisione di primo grado aveva fondato il proprio convincimento, e cioè che ai sensi dell'art. 6 del contratto le opere interne avrebbero potuto essere realizzate dopo la consegna per espresso patto di cui all'art. 6 del contratto.
Dunque, la ratio decidendi della sentenza impugnata si basa sulla considerazione che le circostanze poste dal giudice di primo grado a fondamento della decisione che aveva escluso la sussistenza di eventi e o comportamenti che avessero potuto giustificare il ritardo, erano da ritenersi non contestate: in sostanza, i giudici hanno ritenuto tali statuizioni coperte dal giudicato interno, in quanto non censurate specificamente con i motivi di appello. Al riguardo, va osservato che l'appello non ha effetto pienamente devolutivo, in quanto il giudice del gravame può conoscere della controversia dibattuta in primo grado solo attraverso l'esame delle specifiche censure mosse dall'appellante attraverso la cui formulazione si consuma il diritto di impugnazione, e non può estendere l'indagine su punti della sentenza di primo grado che non siano stati investiti, neanche implicitamente, da alcuna doglianza, per cui deve ritenersi formato il giudicato interno - rilevabile anche d'ufficio - in ordine alle circostanze poste dal giudice di primo grado alla base della sua decisione in relazione alle quali non siano stati formulati specifici motivi di appello.
Orbene, la ricorrente non ha colto l'anzidetta ratio decidendi della sentenza impugnata che avrebbe dovuto specificamente censurare e, lamentando l'erroneità di tale motivazione, avrebbe dovuto denunciare e dimostrare di avere specificamente censurato con i motivi di appello le statuizioni di cui si è detto. In realtà, senza tenere conto della motivazione di cui si è detto, le doglianze formulate con il secondo e il quarto motivo, pur facendo riferimento a violazioni di legge e a vizi di motivazione, da cui la sentenza è immune, sollecitano un riesame del merito della causa attraverso una nuova ricostruzione dei fatti di causa che è inammissibile in sede di legittimità, perchè è evidentemente oggetto dell'indagine di fatto riservata al giudice di merito.
Per quanto concerne l'omesso esame della richiesta di consulenza tecnica (terzo motivo), va considerato che rientra nel potere discrezionale del giudice di merito accogliere o rigettare l'istanza di ammissione della consulenza tecnica d'ufficio, senza che l'eventuale provvedimento negativo possa essere censurato in sede di legittimità, quando risulti che gli elementi di convincimento per disattendere la richiesta della parte siano stati tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e ritenute esaurienti dal giudice, con valutazione immune da vizi logici e giuridici: nella specie, il rigetto implicito dell'istanza trovava fondamento proprio nelle argomentazioni poste a base del convincimento in ordine all'accertamento circa la imputabilità del ritardo nell'adempimento di cui si è detto, essendo del tutto preclusa ogni ulteriore indagine al riguardo.
Con il quinto motivo deducendo "ERROR IN IUDICANDO VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., N. 3 VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., N 4, IN RELAZIONE ALL'ART. 1384 C.C." censura la decisione impugnata laddove aveva ritenuto equa la penale fissata in L. 1.700.000.000 tenendo conto soltanto dell'interesse del creditore - rapportato all'utilizzo dell'immobile - senza peraltro valutare il complessivo assetto di interessi ed il danno economicamente in concreto subito dall'ente pubblico.
La penale non era dovuta, perchè il ritardo non era configurabile e comunque non era imputabile all'attrice; in subordine la misura della stessa era eccessiva, tenuto conto dell'interesse del creditore, dovendosi al riguardo considerare il reddito presumibilmente percepibile dal capitale investito, atteso che l'immobile sarebbe dovuto essere locato dall' I.N.AD.E.L. oggi I.N.P.D.A.P.: il capitale investito doveva ritenersi pari alle somme erogate prima della effettiva consegna dell'edificio ultimato e non anche all'importo di quelle erogate successivamente, perchè queste ultime non erano rimaste improduttive neppure per un giorno; al momento della scadenza del termine pattuito l'ente aveva versato soltanto una parte del prezzo della vendita, mantenendo la disponibilità di una ulteriore ingente somma e così ricavando un vantaggio di carattere patrimoniale che si era tradotto in una riduzione del danno subito dal creditore, Peraltro, la penale non era stata pattuita per il solo caso di locazione dell'immobile, tenuto conto che il semplice ritardo nella consegna non ne aveva impedito la libera commerciabilità. La valutazione dell'interesse dei contraenti andava compiuta al momento dell'inadempimento e non a quello di conclusione del contratto, sicchè andava considerato il mancato interesse del Ministero intervenuto successivamente all'atto notarile e dimostrato dal comportamento inerte dal medesimo tenuto: le genetiche considerazioni sulla mancata redditività causata dal ritardo affermate dalla sentenza impugnata andavano confrontate con il comportamento inadempiente del convenuto che per oltre un anno aveva eluso le richieste formulate dall'attrice di eseguire gli adattamenti interni e di visionare l'immobile. Pertanto, la decurtazione della penale si imponeva in considerazione della mancata cooperazione da parte del convenuto che aveva con ritardo comunicato che il Ministero non aveva intenzione di prendere in locazione i locali in oggetto.
Il motivo è infondato.
Occorre innanzitutto premettere che, come si è detto sopra, la sentenza ha ritenuto circostanza ormai definitivamente acclarata (perchè la relativa statuizione della decisione del Tribunale non era stata specificamente censurata con i motivi di appello) l'esistenza di un ritardo colpevole imputabile alla ricorrente nella consegna dell'immobile de quo; ha quindi ha confermato il rigetto della richiesta di riduzione formulata ai sensi dell'art. 1384 c.c., sul rilievo che la penale pattuita doveva ritenersi congrua in considerazione del mancato guadagno che l'acquirente avrebbe ricavato dall'immobile qualora fosse stato tempestivamente consegnato, tenuto conto dell'interesse del creditore in relazione all'utilizzazione del bene che l'acquirente si era prefisso secondo quanto previsto nel contratto.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità l'apprezzamento sulla eccessività dell'importo fissato con clausola penale dalle parti contraenti, per il caso di inadempimento o di ritardato adempimento, nonchè sulla misura della riduzione equitativa dell'importo medesimo, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente fondato, a norma dell'art. 1384 c.c., sulla valutazione dell'interesse del creditore all'adempimento con riguardo all'effettiva incidenza dello stesso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, indipendentemente da una rigida ed esclusiva correlazione con l'entità del danno subito (Cass. 6158/2007; 7528/2002; 6380/2001): in particolare, il criterio cui il giudice deve fare riferimento per esercitare il potere di riduzione della penale non è la valutazione del danno che sia stato accertato o risarcito, ma l'interesse che la parte ha, secondo le circostanze, all'adempimento della prestazione cui ha diritto; la valutazione va riferita al momento in cui si è concluso il contratto cui accede, e non a quello in cui ne viene chiesto il pagamento, sicchè ove essa risulti adeguata all'interesse del creditore all'adempimento con riferimento al momento della stipulazione, rimane priva di rilevanza l'eventuale eccessività per la sopravvenienza di fatti che riducano l'interesse del creditore o l'entità del pregiudizio che il medesimo viene a subire per effetto dell'inadempimento (Cass. 10626/2007) Orbene, giudici hanno correttamente e congruamente motivato la decisione giacchè, nell'escludere la eccessività della penale, hanno considerato l'interesse patrimoniale del creditore alla tempestiva esecuzione della prestazione pattuita alla luce dell'economia del contratto e alla conseguente incidenza derivante dal ritardato adempimento della venditrice sull'equilibrio del sinallagma funzionale attesa l'utilizzazione dell'immobile che, secondo quanto era stato stabilito nel contratto intercorso fra le parti, doveva essere dall'acquirente destinato a locazione a favore del Ministero. In effetti la doglianza si risolve in una inammissibile richiesta di rivalutazione delle risultanze processuali in ordine alla effettiva determinazione del danno subito dal convenuto e alla conseguente eccessività della misura della penale pattuita.
Con il sesto motivo deducendo la ricorrente deducendo "ERROR IN IUDICANDO VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., N. 3 VIOLAZIONE DELL'ART. 360 C.P.C., N 4 IN RELAZIONE AGU ARTT. 1223 E 1227 C.C." denuncia "l'omessa pronuncia in ordine alla sollevata eccezione di compensatone (cfr. comparsa conclusionale pag. 13)".
Il motivo è inammissibile.
La ricorrente, avendo dedotto la omessa pronuncia in ordine all'eccezione di compensazione (evidentemente invocando la violazione dell'art. 112 c.p.c.), avrebbe dovuto, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non solo trascrivere il contenuto dell'eccezione ma dimostrare di averla tempestivamente e ritualmente sollevata nel giudizio di merito, indicando l'atto o il verbale di causa in cui l'aveva proposta: nella specie, non solo non ha trascritto il contenuto dell'eccezione ma addirittura ha indicato di averla sollevata con la comparsa conclusionale che ha carattere meramente illustrativo delle domande e delle eccezioni ritualmente svolte nel corso del giudizio, e non può contenerne di nuove che costituiscano un ampliamento del "thema decidendum", sicchè il giudice non incorre nel vizio di omessa pronunzia ove non esamini una questione proposta per la prima volta in tale comparsa o memoria (Cass. 13165/2004).
Il ricorso va rigettato.
Le spese della presente fase vanno poste a carico della ricorrente, risultata soccombente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 7.700,00, di cui Euro 200,00, per esborsi ed Euro 7.500,00, per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.
Testo Integrale