Deontologia


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25020 - pubb. 20/03/2021

Abuso della qualità di magistrato: il CSM assolve, le Sezioni Unite della Cassazione riformano la decisione

Cassazione Sez. Un. Civili, 04 Marzo 2021, n. 6004. Pres. Cassano. Est. Cirillo.


Magistratura - Illecito disciplinare - Abuso della qualità di magistrato



In relazione all’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), l’abuso della qualità di magistrato, al fine di ottenere un trattamento di miglior favore per sé o per altri, può anche essere effettuato implicitamente, quando la conoscenza della qualità stessa si inserisce in un contesto che concorre ad evidenziare una pressione psicologica sulla controparte o che comunque è idoneo ad incidere sulle determinazioni della stessa sino al punto di indurla ad addivenire ad un dato rapporto contrattuale (sentenza n. 33089 del 2019). Ragione per cui tale illecito sussiste anche quando non venga spesa in modo esplicito la qualità di magistrato, se essa è nota all’interlocutore, essendo necessario l’uso strumentale di detta qualità allo scopo di conseguire vantaggi ingiusti, per sé o per altri (sentenza 28 maggio 2020, n. 10086).

L’illecito in questione, infatti, ha il duplice fine di preservare la fiducia nell’imparzialità del magistrato, in relazione alla possibilità che l’abuso della qualità per un fine ingiusto determini negli interlocutori il dubbio circa la permeabilità a richieste di soggetti interessati a influenzarlo nell’esercizio delle funzioni, e di garantire una linearità di comportamento, riconducibile al dovere generico di correttezza nella vita privata; inoltre, l’ingiusto vantaggio non viene in considerazione solo in quanto contra ius, dovendosi accogliere una nozione più ampia di ingiustizia, comprendente anche gli scopi che mirano all’ottenimento di trattamenti di favore non comunemente praticati, ma richiesti tramite la spendita della qualità di magistrato quale strumento diretto al loro raggiungimento (sentenza 23 novembre 2018, n. 30424).

[Nel caso di specie, la Sezione disciplinare del C.S.M. ha assolto l’incolpato dopo aver dato atto che lo stesso, nell’ambito della scuola di formazione diretta dal Dott. X. , rilevando che egli era delegato da quest’ultimo a controllare la formazione delle borsiste, partecipava ad interrogatori incrociati sulla vita sentimentale e sessuale delle ragazze alle quali presentava il c.d. "regolamento" della scuola e presenziava alla firma dei contratti da parte degli aspiranti. La sentenza ha poi anche rilevato che dalla ricostruzione complessiva della vicenda emergeva "un delicato quadro sotto il profilo del clima di soggezione psicologica nel quale venivano a trovarsi alcuni dei giovani aspiranti magistrati". Nel procedere all’irrogazione della sanzione, la Sezione disciplinare ha ricordato la "peculiare gravità dei comportamenti emersi" e il ruolo centrale che il Dott. Y. rivestiva all’interno della scuola.
Dopo tale articolata ricostruzione, però, la decisione in esame ha ritenuto di dover assolvere l’incolpato dall’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), sulla base della semplice affermazione per cui l’attività di "intermediazione" esercitata dal Dott. Y. non era stata svolta utilizzando la qualità di magistrato, ma semplicemente il suo ruolo di stretto collaboratore del Dott. X. , sufficiente a creare la necessaria pressione psicologica.] (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


Fatto

1. In data 1° dicembre 2017 il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del Dott. Y.A , all’epoca dei fatti sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo, contestandogli l’illecito di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 3, comma 1, lett. a) e d).

La complessa incolpazione prevede la fattispecie di cui alla lettera d) per avere il Dott. Y. partecipato, in qualità di coordinatore dei collaboratori e borsisti, alla gestione organizzativa della Scuola di formazione giuridica denominata Diritto e scienza s.r.l., diretta dal Consigliere di Stato Dott. X.F. ; nonché la fattispecie di cui alla lettera a) per avere il medesimo utilizzato la sua qualità di magistrato, in violazione del dovere generale di correttezza, per propiziare una serie di ingiusti vantaggi al Dott. X. , anche di carattere sentimentale e sessuale, analiticamente indicati nel capo di incolpazione, collegati alla selezione delle ragazze che partecipavano al corso e connessi con la relazione tra il Dott. X. e la Dott.ssa P.F. .

1.1. La vicenda ha preso l’avvio da due esposti inviati da P.A. , padre di P.F. , al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa ed alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Piacenza.

In quegli scritti egli aveva ricostruito la vicenda personale della figlia F. la quale, dopo essersi laureata in giurisprudenza, si era iscritta alla scuola di formazione giuridica denominata Diritto e scienza s.r.l., diretta dal Consigliere di Stato Dott. X.F., in vista della partecipazione al concorso in magistratura. L’iscrizione alla società aveva comportato per la giovane, la quale aveva nel frattempo intrapreso una relazione sentimentale col Dott. X. , la sottoscrizione di un contratto di borsa di studio con la citata società, contratto che implicava una serie di stringenti vincoli di natura personale. In particolare, tra questi vi erano quello di segretezza, il divieto di contrarre matrimonio, l’obbligo di fedeltà nei confronti del direttore della scuola Dott. X., quello di attenersi ad un dress code analiticamente individuato e quello di svolgere attività sessuale a richiesta del medesimo Dott. X..

Il P. riferiva nei menzionati esposti che, dopo la fine della relazione tra sua figlia ed il Dott. X. , ella era stata invitata più volte dai Carabinieri di (*) a presentarsi in caserma per un "tentativo di conciliazione" con il medesimo, visto che il Dott. X. sosteneva di aver subito lesioni personali per un contatto con la ragazza. Il medesimo, poi, l’aveva anche convenuta in giudizio, in sede civile, per un presunto inadempimento. Tutta la vicenda aveva determinato nella Dott.ssa P. uno stato di prostrazione psicologica con una serie di gravi problemi che ne avevano reso necessario il ricovero presso il Servizio psichiatrico dell’ASL di (…).

1.2. L’incolpazione nei confronti del Dott. Y. è derivata dal fatto che negli esposti suindicati la Dott.ssa P. lo aveva identificato come il coordinatore della scuola diretta dal Dott. X. , nonché il soggetto alla presenza del quale ella aveva firmato il contratto di adesione alla scuola, con tutte le limitazioni che ne derivavano. In particolare, il Dott. Y. era stato indicato come colui che, oltre a partecipare col Dott. X. "ad interrogatori incrociati sulla vita sessuale antecedente della P. ", si era presentato come uno stretto collaboratore del Dott. X. e si era attivato presso quest’ultimo affinché, una volta cessata la relazione sentimentale con la Dott.ssa P. , venissero assunte "sanzioni" nei confronti della medesima.

L’importanza assunta dal Dott. Y. nella selezione delle candidate alla scuola era stata confermata anche da altre ragazze (Dott.ssa D. , Dott.ssa I. e Dott.ssa Z. ), tutte nella medesima situazione della Dott.ssa P. , le quali avevano riferito che il c.d. "regolamento" del borsista era stato loro sottoposto proprio dal Dott. Y. , il quale aveva collaborato nella redazione e diffusione del dress code al quale le candidate borsiste dovevano attenersi. E il Dott. Y. si era anche intromesso nella vita della Dott.ssa P. quando ella aveva manifestato il suo desiderio di interrompere la relazione col Dott. X. .

1.3. In data 22 ottobre 2018 il Procuratore generale della Corte di cassazione ha chiesto la fissazione dell’udienza di discussione nei confronti del Dott. Y. , facendo presente che lo stesso era stato in precedenza destinatario di un provvedimento di sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio, con conseguente collocamento fuori ruolo.

2. La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con sentenza del 15 ottobre 2020, ha ritenuto il Dott. Y. responsabile dell’incolpazione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. d), e gli ha applicato la sanzione disciplinare della sospensione dalle funzioni per anni due, con trasferimento d’ufficio al Tribunale di Bologna. Contestualmente, la Sezione l’ha assolto dall’incolpazione di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), del D.Lgs. cit., per essere rimasti esclusi gli addebiti.

La pronuncia disciplinare ha premesso che il D.Lgs. n. 106 del 2006, art. 3, comma 1, lett. d), vieta innanzitutto ai magistrati di compiere attività incompatibili con la funzione giudiziaria di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 16, cioè tutti gli impieghi pubblici e privati ad eccezione di quelli ivi regolati. Alla luce di questa disposizione è incompatibile con la funzione giudiziaria l’attività di consulenza e tutta l’attività di esercizio della professione legale, com’è confermato anche dalla vigente circolare in tema di incarichi extragiudiziari. Nella seconda parte della disposizione, il citato art. 3, comma 1, lettera d), vieta lo svolgimento di tutte le attività "tali da recare concreto pregiudizio all’assolvimento dei doveri disciplinati dall’art. 1", cioè i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza e laboriosità, riserbo ed equilibrio; formula, questa, che si riferisce alle attività che, pur non riconducibili a quelle imprenditoriali o libero professionali, siano comunque in grado di recare concreto pregiudizio all’assolvimento dei doveri del magistrato.

Dalla lettura congiunta di queste disposizioni discende, secondo la Sezione disciplinare, che "l’attività didattica del magistrato, con la gestione sistematica e continuativa, da parte dello stesso, in forma di un lavoro autonomo, di un servizio di formazione finalizzato all’accesso a professioni del settore giuridico" rientri nel novero delle attività vietate ai sensi dell’art. 16 cit., com’è stato confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità. Nel caso specifico, tenendo presente anche quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 20028 del 2018, relativa al provvedimento cautelare assunto nei confronti del medesimo Dott. Y. , la Sezione disciplinare ha ritenuto integrata l’ipotesi prevista dalla norma sanzionatrice contestata, alla luce delle deposizioni testimoniali assunte nel corso del giudizio. Lo stesso Magistrato, infatti, aveva ammesso di essere il coordinatore dei collaboratori e dei borsisti dei corsi gestiti dalla scuola del Dott. X. , il che costituiva conferma del suo pieno coinvolgimento in un’attività professionale non consentita.

Considerati, quindi, i connotati della vicenda e valutata "la gravità dei fatti contestati, in ragione del ruolo ricoperto dall’incolpato", la Sezione disciplinare ha ritenuto di dover applicare nei suoi confronti la sanzione in precedenza indicata.

Quanto, invece, all’incolpazione di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), del D.Lgs. cit., la medesima sentenza ha affermato essere l’illecito insussistente, dal momento che non vi era la prova che l’attività di intermediazione svolta dal Dott. Y. fosse stata compiuta usando la sua qualità di magistrato. Il timore reverenziale che l’incolpato aveva esercitato sulle ragazze non si fondava, secondo il giudice disciplinare, sulla qualità di magistrato, quanto esclusivamente sul suo ruolo di stretto collaboratore del Dott. X. . Anche l’episodio, contenuto nel capo di incolpazione, secondo cui il Dott. Y. avrebbe ipotizzato a carico della Dott.ssa P. , come strumento di pressione, il reato di truffa sentimentale o sessuale non poteva ritenersi frutto della qualità di magistrato spesa dall’incolpato, quanto del clima di soggezione psicologica esistente all’interno della scuola. D’altra parte, ha concluso la Sezione disciplinare, l’ipotesi era giuridicamente così grossolana che chiunque l’avrebbe potuto facilmente comprendere, anche se non laureato in giurisprudenza.

3. Contro la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura propone ricorso il Dott. Y.D. , con atto affidato a quattro motivi.

Il Ministro della giustizia, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha presentato una memoria chiedendo che il ricorso del Magistrato incolpato venga dichiarato inammissibile o comunque infondato.

Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione propone ricorso in via autonoma contro la medesima sentenza, con atto affidato ad un solo complesso motivo.

Il Dott. Y. resiste con controricorso al ricorso del Procuratore generale.

Il Dott. Y. ed il Ministro della giustizia hanno depositato memorie.

Fissati per l’udienza pubblica del 9 febbraio 2021, i due ricorsi sono stati trattati in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176, senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Il Procuratore generale ha depositato conclusioni per iscritto, chiedendo che il ricorso presentato dal suo Ufficio venga accolto e che sia viceversa rigettato il ricorso del Dott. Y. .

 

Motivi

Ricorso del Dott. Y. (motivi primo, secondo e terzo).

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22, e art. 3, comma 1, lett. d), del R.D. n. 12 del 1941, art. 16, comma 1, nonché del capo 3.3. della circolare del C.S.M. sugli incarichi extragiudiziari n. 22581 del 2015, oltre a mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.

Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata, pur avendo dato atto della produzione, da parte della difesa, di una memoria di 142 pagine in data 10 gennaio 2020, non ne avrebbe poi tenuto alcun conto. Da quel documento, da leggere unitamente alle deposizioni dei testi a difesa (M. , No. e G. ), risultava che il ruolo svolto dal ricorrente all’interno della scuola diretta dal Dott. X. era solo di carattere scientifico; egli, cioè, aveva solo collaborato con la rivista Diritto e scienza che all’epoca era accessibile on line a chiunque. Le testimonianze suindicate avrebbero dimostrato, secondo il ricorrente, che egli partecipava alla scuola di formazione in qualità di allievo, in vista del superamento del concorso per la magistratura amministrativa, in una situazione di sostanziale parità con gli altri borsisti. L’unico magistrato che aveva una posizione di parità col Dott. X. era la Dott.ssa I. , la quale è stata peraltro assolta in sede disciplinare con la sentenza n. 57 del 2020 della medesima Sezione. Tanto starebbe a dimostrare che l’incolpazione per la quale il ricorrente è stato condannato sarebbe rimasta del tutto indimostrata.

1.1. Il motivo, quando non inammissibile, è comunque privo di fondamento.

Risulta dalla lettura della sentenza impugnata che la Sezione disciplinare ha compiuto, all’esito di una delicata ed articolata istruttoria dibattimentale, una valutazione complessiva delle prove a disposizione, pervenendo alla conclusione in base alla quale era da ritenere dimostrata l’attiva partecipazione del Dott. Y. alla scuola di preparazione gestita dal Dott. X. . Il giudice di merito, infatti, pur dando atto delle deposizioni delle testi M. , No. e G. (cui si richiama il motivo in esame), ha concluso nel senso che la partecipazione organizzativa del Dott. Y. risultava da una serie di elementi inconfutabili, elencati in motivazione e inseriti nel contesto complessivo dell’intera vicenda. La Sezione disciplinare ha richiamato, a questo proposito, il fatto che lo stesso incolpato aveva ammesso di essere il coordinatore dei collaboratori e dei borsisti ammessi al corso e che egli aveva svolto, proprio in considerazione di tale suo ruolo, alcuni compiti molto rilevanti anche dal punto di vista personale, quali la predisposizione del dress code che le ragazze dovevano rispettare e lo svolgimento di domande attinenti "la vita privata e le relazioni sentimentali" delle medesime, attività che il giudice disciplinare ha ritenuto comunque non confacenti "al modo di essere di coloro che aspirano a diventare magistrati". Oltre a ciò, la sentenza ha osservato che anche l’attività scientifica assume rilievo ai fini dell’illecito contestato, quando essa sia il segno della partecipazione attiva ad un corso privato di preparazione al concorso in magistratura "e sia riservata ai soli partecipanti alla scuola, contribuendo così alla relativa formazione".

La difesa ha insistito in modo particolare, nel motivo in esame, sulla circostanza per cui il ricorrente partecipava alla scuola in veste di allievo come gli altri e con compiti di mera collaborazione scientifica alla rivista che era collegata ai lavori della scuola. È evidente, però, che le due cose non sono affatto incompatibili, nel senso che, anche volendo ammettere che il Dott. Y. frequentasse il corso, come afferma la difesa, in vista del superamento del concorso nella magistratura amministrativa, ciò non toglie che egli abbia assunto anche quel ruolo di partecipazione e organizzazione che la sentenza ha posto in luce e che costituisce il fondamento della contestazione disciplinare a lui mossa ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. d).

La valutazione complessiva del quadro probatorio, d’altra parte, è un compito rimesso al giudice di merito, per cui la doglianza si risolve, per certi aspetti, anche nella indebita sollecitazione delle Sezioni Unite allo svolgimento di un diverso e non consentito esame delle prove.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22, e art. 3, comma 1, lett. d), del R.D. n. 12 del 1941, art. 16, comma 1, del capo 3.3. della circolare del C.S.M. sugli incarichi extragiudiziari n. 22581 del 2015, nonché violazione dell’art. 24 Cost., e degli artt. 192 e 546 c.p.p., nei capi e nei punti nei quali la sentenza omette di valutare le prove contrarie.

Dopo aver ricordato che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, stabilisce che nel procedimento disciplinare si osservano le norme del codice di rito penale, in quanto compatibili, il ricorrente rileva che la sentenza impugnata non avrebbe affatto valutato una serie di prove a discarico. Il primo elemento è costituito dal fatto che il Dott. Y. , come già detto, avrebbe partecipato alle sole attività scientifiche della scuola diretta dal Dott. X. . Trattandosi della collaborazione, di carattere scientifico, per il coordinamento di una rivista aperta al pubblico, la Sezione disciplinare avrebbe dovuto considerare detta attività come libera e perciò consentita, in conformità a quanto deciso nel caso della Dott.ssa I. , alla luce della menzionata circolare del C.S.M. sugli incarichi extragiudiziari. Oltre a ciò, la Sezione disciplinare aveva acquisito l’informativa del 24 luglio 2018 della Guardia finanza la quale, all’esito di indagini anche bancarie e patrimoniali, aveva escluso che il ricorrente avesse avuto un qualche potere di direzione della rivista suindicata. La sentenza disciplinare sarebbe errata, inoltre, anche perché ha condannato il ricorrente al quale era stata contestata la partecipazione alla sola gestione organizzativa e scientifica della scuola di formazione, senza considerare che la circolare più volte richiamata vieta la partecipazione alla gestione economica, organizzativa e scientifica. La lettura della norma imporrebbe, invece, di escludere, in mancanza di prova di una partecipazione alla gestione economica, la possibilità di configurare una violazione della circolare del C.S.M., per cui l’accusa disciplinare verrebbe conseguentemente a cadere. Il che è in linea con la pacifica considerazione secondo cui ciò che la norma intende vietare è che il magistrato svolga un’ulteriore attività professionale con tornaconto economico, compromettendo in tal modo il primato della funzione esercitata.

2.1. Il motivo non è fondato.

2.2. Osserva il Collegio che la prima parte del motivo (pp. 11-16 del ricorso) è in qualche misura ripetitiva del precedente, perché il ricorrente torna ad insistere sul fatto che la sua partecipazione al corso gestito dal Dott. X. si sarebbe concretizzata nel solo svolgimento di un’attività scientifica, da ritenere pienamente libera e, perciò, consentita.

Non resta che ribadire, quindi, ciò che si è già detto a proposito del primo motivo, e cioè che la Sezione disciplinare ha compiuto una valutazione complessiva delle prove a disposizione ed ha correttamente osservato che anche lo svolgimento di un’attività scientifica può, come si è detto, essere il sintomo della partecipazione attiva alla scuola di preparazione al concorso. Non è fondata, quindi, la doglianza di presunta violazione degli artt. 192 e 546 c.p.p., proprio perché il giudice disciplinare ha dato chiaramente conto della valutazione compiuta e delle ragioni per le quali è pervenuto a tale conclusione.

2.3. La seconda parte del motivo, invece (pp. 16-19), censura il fatto che la Sezione disciplinare abbia ritenuto sussistente l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. d), pur in assenza della partecipazione, da parte del Dott. Y. , alla gestione economica della scuola; il ricorso insiste, a tal proposito, nel richiamo al paragrafo 3.3. della circolare n. 22581 del 2015 del Consiglio superiore della magistratura.

2.4. Giova ricordare che queste Sezioni Unite, con la sentenza 10 dicembre 2013, n. 27493, proprio occupandosi dell’illecito disciplinare suindicato in relazione al caso di un magistrato che aveva organizzato e gestito dei corsi privati finalizzati alla preparazione al concorso in magistratura, hanno affermato che è soltanto la norma di legge, vale a dire il R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 16, comma 1, a stabilire il perimetro della fattispecie, senza che l’attività di normazione secondaria espletata dal C.S.M. nei suoi compiti di alta amministrazione possa andare ad "implementare" la portata della norma di legge. In altri termini, è soltanto quest’ultima a contenere, attraverso l’espresso rinvio di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), cit., l’indicazione di ciò che ai magistrati è vietato; per cui le Sezioni Unite intendono oggi ribadire quanto già detto nella citata sentenza, e cioè che "la circolare del Consiglio sugli incarichi extragiudiziari, come non potrebbe innovare o integrare la portata delle attività vietate, così neanche potrebbe imporre alla Sezione disciplinare un’interpretazione autentica di ciò che rientra (o che fuoriesce) dai confini dell’art. 16, comma 1". Tanto più che in materia di illeciti disciplinari vige il principio di tipicità, che il legislatore del 2006 ha inteso una volta di più confermare e rafforzare.

Consegue da tale premessa che l’art. 3, punto 3.3., della circolare n. 22581 del 2015 del C.S.M. - il quale vieta, tra l’altro, "la partecipazione, sotto qualsiasi forma ed indipendentemente dalle caratteristiche dimensionali, alla gestione economica, organizzativa e scientifica" delle scuole private di preparazione a concorsi o esami per l’accesso alla magistratura - non può restringere la portata del R.D. n. 12 del 1941, art. 16, in base al quale i magistrati "non possono assumere pubblici o privati impieghi od uffici" e non possono accettare incarichi di qualsiasi specie "senza l’autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura" (v. in tal senso il comma 2, novellato dalla L. 2 aprile 1979, n. 97, art. 14).

Così inquadrati correttamente i termini giuridici della questione, le Sezioni Unite rilevano che la ratio legis - che costituisce, per così dire, il faro che deve guidare l’interprete nel suo compito di ricostruzione del sistema - è nel senso che l’attività giudiziaria, per l’altissima rilevanza costituzionale e sociale che riveste e per l’affidamento che in essa ripongono i consociati, non può tollerare la commistione con altre attività, pubbliche o private, che possano far insorgere il dubbio che il magistrato venga distolto, distratto o reso comunque meno solerte nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali. Tale commistione, infatti, oltre ad incidere sulla tempestività ed efficacia dell’attività giudiziaria, può legittimamente appannare l’immagine del magistrato sotto il profilo della laboriosità e dell’impegno, con evidenti ricadute sulla fiducia riposta dai consociati nell’amministrazione della giustizia.

Sotto altro profilo, il divieto di cui al R.D. n. 12 del 1941, art. 16, mette in gioco anche i valori della indipendenza ed imparzialità.

La sentenza n. 27493 del 2013, nel ricostruire a tutto tondo cosa debba intendersi per attività consentite e vietate sulla base della previsione del citato art. 16, ha precisato che anche nell’ambito delle attività libere e lecite (puntualmente elencate al paragrafo 2.6 della motivazione) "il magistrato deve responsabilmente valutare che l’attività in concreto espletata non comprometta la sua affidabilità e credibilità, in termini di indipendenza e imparzialità, e deve curare che questa si svolga con modalità tali da non risultare pregiudizievole per il servizio giustizia".

Più di recente queste Sezioni Unite, nel ribadire e dare continuità ai precetti della sentenza n. 27493, hanno osservato che il divieto di assumere incarichi e di esercitare "industrie e commerci" comporta anche il divieto di "apparire di assumere la veste di imprenditore o amministratore di società, dovendo il magistrato improntare la sua condotta alla massima obiettività e al massimo disinteresse", proprio per evitare che un comportamento dissonante possa ledere la fiducia e la credibilità "di cui il magistrato e l’ordine giudiziario debbono godere" (così la sentenza 16 dicembre 2019, n. 33089, in linea con altri precedenti ivi indicati). Nè può tacersi che la Corte costituzionale, occupandosi di un particolare aspetto della legislazione sugli illeciti disciplinari dei magistrati, ha rilevato, fra l’altro, che i magistrati devono anche apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, per evitare di ledere la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario (sentenza n. 197 del 2018).

2.5. Dando continuità a tutti i principi qui riassunti, si trae la dovuta conclusione che, non prevedendo il R.D. n. 12 del 1941, art. 16, alcun riferimento obbligato al tornaconto economico, una volta dimostrata l’attiva partecipazione del Dott. Y. alla scuola diretta dal Dott. X. , nei termini che il giudice disciplinare ha individuato, non assume alcuna valenza la circostanza che quella partecipazione sia avvenuta senza ottenerne un vantaggio economico; circostanza, questa, che lo stesso capo d’incolpazione dà del resto per pacifica, posto che l’illecito di cui al n. 1) contesta all’odierno ricorrente la partecipazione alla sola "gestione organizzativa e scientifica della scuola" diretta dal Dott. X. .

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., dell’art. 6 della CEDU e dell’art. 512 c.p.p., per il mancato accoglimento dell’istanza difensiva volta all’assunzione del teste a discarico Dott. X. , oltre a mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.

Osserva il ricorrente di aver richiesto alla Sezione disciplinare, nel corso dell’udienza del 14 febbraio 2019, di ammettere la testimonianza del Dott. X. , istanza rigettata dalla Sezione sul rilievo che era stata già acquisita copia integrale della deposizione resa da quest’ultimo davanti al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Premessa l’applicabilità dell’art. 6 CEDU anche al giudizio disciplinare, il ricorrente dichiara che il procedimento disciplinare a carico dei magistrati "rientra in ogni caso nella nozione di giudizio penale". Ciò comporta che la decisione del giudice disciplinare di negare ingresso alla richiesta testimonianza sarebbe in contrasto con le disposizioni richiamate, posto che il Dott. X. era "il testimone principale"; nè l’omissione potrebbe essere sostituita dall’acquisizione dei verbali relativi al procedimento davanti al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, posto che in quella sede il Dott. X. si era limitato a contestare la nullità dell’incolpazione per indeterminatezza. In tal modo, inoltre, la Sezione disciplinare avrebbe finito per introdurre un’ulteriore ipotesi di lettura consentita, in assenza delle condizioni legittimanti previste dall’art. 512 del codice di rito penale.

3.1. Il motivo non è fondato, per una serie di concorrenti ragioni.

3.2. È necessario rilevare, innanzitutto, che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4, nel regolare le modalità di svolgimento del giudizio davanti alla Sezione disciplinare del C.S.M., dispone che si applichino le norme del codice di procedura penale, "in quanto compatibili". Queste Sezioni Unite hanno più volte affermato che i richiami al codice di procedura penale contenuti tanto nel citato art. 18 quanto nell’art. 16, comma 2, del medesimo D.Lgs. (relativo all’attività di indagine) vanno intesi in modo restrittivo, dovendo per il resto trovare applicazione le disposizioni del codice di procedura civile (v. le sentenze 25 gennaio 2013, n. 1771, 4 settembre 2015, n. 17585, e 3 settembre 2020, n. 18303). Ciò consente di sgombrare subito il campo dall’affermazione del ricorrente secondo cui dovrebbero valere in sede disciplinare le medesime regole vigenti per il processo penale.

3.3. Fatta questa premessa, il Collegio rileva che il ricorrente sovrappone tre piani distinti: 1) il diritto della parte di richiedere prove a discarico, che può essere esercitato mediante il deposito della lista testi e l’indicazione delle circostanze su cui dovrebbe vertere l’esame; 2) la possibilità di sollecitare il giudice a fare uso dei suoi poteri officiosi di assunzione di nuovi mezzi di prova (art. 507 c.p.p.), se ritenuti assolutamente necessari; potere eccezionale e residuale rispetto all’iniziativa delle parti e comunque rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice; 3) il divieto di lettura di verbali di dichiarazioni assunte nella fase delle indagini, se non previo esame a dibattimento della persona che le ha rese, salvo che ciò sia divenuto impossibile per fatti o circostanze imprevedibili (art. 512 c.p.p., comma 1, e art. 511 c.p.p., comma 1).

Con riferimento al punto 1), occorre innanzitutto precisare che l’art. 468 c.p.p., esige dalle parti che intendono chiedere l’esame di testimoni l’indicazione di una lista che contenga "le circostanze su cui deve vertere l’esame", con conseguente potere del giudice di autorizzare la citazione dei medesimi e possibilità di non ammettere le testimonianze vietate e quelle "manifestamente sovrabbondanti". Non a caso, infatti, la giurisprudenza penale di questa Corte ha insegnato che la violazione del diritto di difesa consistente nella mancata ammissione delle prove dedotte esige che siano indicate specificamente le prove che l’imputato non ha potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento (così, da ultimo, la sentenza 29 maggio 2017, n. 39764, imp. Rhafor). Il che si collega in modo pienamente coerente con la previsione dell’art. 6, comma 2, lett. d), della CEDU.

Nel caso in esame il ricorrente non si è doluto della mancata ammissione di una testimonianza da lui indicata nella lista testi, bensì si è limitato a sostenere che avrebbe avuto interesse all’escussione come teste del Dott. X. , che questi era il "testimone principale" e che la sua mancata audizione avrebbe precluso la possibilità di far emergere "l’effettiva dinamica delle relazioni intercorse tra il Dott. Y. e il Dott. X. ". Nessuna precisa indicazione viene compiuta, però, in ordine all’effettivo contenuto della prova testimoniale, cioè su quali questioni e domande il teste sarebbe stato chiamato a rispondere. Ne consegue che anche il richiamo all’art. 6 della CEDU risulta improprio, perché il ricorso non considera i termini, del tutto generici, nei quali è stata censurata la mancata ammissione della prova testimoniale.

Con riferimento al punto 2), invece, la Corte rileva che l’istanza formulata all’udienza del 14 febbraio 2019 è da intendere come sollecitazione al giudice disciplinare a fare uso dei suoi poteri officiosi ai sensi dell’art. 507 cit.; e rispetto a tale richiesta la Sezione disciplinare godeva di ampi margini di valutazione discrezionale, in quanto avrebbe dovuto assumere la prova solo se ritenuta assolutamente necessaria. Le dichiarazioni del Dott. X. , infatti, erano già acquisite agli atti del fascicolo e delle stesse, quindi, poteva essere data lettura, con conseguente successiva utilizzazione, ai sensi dell’art. 526 c.p.p..

Con riferimento al punto 3), infine, il Collegio osserva che il richiamo, contenuto nel motivo in esame, all’art. 512 c.p.p. - che consente al giudice di dare lettura degli atti ivi indicati "quando, per fatti e circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione" - non considera che nel giudizio disciplinare non vi è il c.d. "doppio fascicolo" che caratterizza il processo penale e che vieta, almeno in linea tendenziale, che gli atti di indagine trasmigrino nel fascicolo del dibattimento e vengano assunti dal giudice come prove valutabili ai fini della decisione. Ne consegue che, esistendo nel giudizio disciplinare un unico fascicolo d’ufficio nel quale sono contenuti anche gli atti di indagine, di questi ultimi poteva legittimamente essere disposta l’utilizzazione, proprio in virtù della suindicata clausola di compatibilità contenuta nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24.

Il motivo in esame, in fondo, oltre ad essere generico, potrebbe al massimo essere riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), (mancata assunzione di una prova decisiva); ma anche sotto tale prospettazione la censura sarebbe ugualmente infondata, posto che non sono state esplicitate le ragioni per le quali l’escussione come teste del Dott. X. avrebbe avuto una valenza decisiva, in grado cioè di "scardinare" da sola l’intero impianto argomentativo della sentenza impugnata.

3.4. Dal complesso di tutte queste argomentazioni deriva, quindi, il rigetto del terzo motivo di ricorso.

4. L’esame del quarto motivo di ricorso del Dott. Y. viene posticipato per ragioni di coerenza sistematica della presente pronuncia.

Ricorso del Procuratore generale.

5. Con l’unico motivo di ricorso il Procuratore generale lamenta, in riferimento all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, e art. 3, comma 1, lett. a), nonché mancanza o mera apparenza di motivazione della sentenza.

Osserva innanzitutto il ricorrente che la sentenza impugnata ha confermato in modo inoppugnabile che il Dott. Y. ha svolto l’attività di "mediatore" nell’ambito del corso diretto dal Dott. X. ; è stato infatti dimostrato che egli indusse alcune ragazze iscritte al corso a rispondere ad un test sul valore dei fidanzati e a sottoscrivere il dress code del corso (tacchi alti, minigonna etc.) e collaborò a prospettare alla Dott.ssa P. l’ipotesi del reato di "truffa sentimentale". Sostiene il ricorrente che il capo di incolpazione aveva chiaramente illustrato che il Dott. Y. era anche, nel momento in cui tenne quei comportamenti, magistrato della Procura della Repubblica di Rovigo, circostanza ben nota a tutti i partecipanti al corso; per cui già questo dimostrava che le condotte contestate si erano svolte con la spendita di tale qualità. La sentenza impugnata, con una "assoluta omissione motivazionale", senza confrontarsi con le pronunce già emesse da queste Sezioni Unite sull’argomento, ha ritenuto che non vi fosse l’abuso della qualità di magistrato. Nonostante l’accertata esistenza "di un clima di soggezione psicologica", la sentenza impugnata ha affermato che l’ipotizzata "truffa sentimentale" fosse talmente grossolana da risultare poco credibile. La motivazione della sentenza, però, oltre ad essere illogica e contraddittoria, sarebbe anche del tutto carente, perché in essa nulla si dice riguardo alle altre circostanze delineate nel capo d’incolpazione, che sarebbero tutte indice degli abusi perpetrati dal Dott. Y. . È evidente, infatti, che le ragazze che partecipavano al corso avevano come obiettivo il superamento del concorso in magistratura; per cui esse erano consapevoli del fatto che il mantenere comportamenti "non graditi" al Dott. X. ed al Dott. Y. avrebbero implicato "un minor aiuto da parte di questi, quali esperti in materia, per il superamento del concorso". Risulta quindi chiaramente, secondo il Procuratore generale, che la sentenza avrebbe omesso di considerare come la condizione di soggezione in cui si trovavano le studentesse derivava anche dal fatto che il Dott. Y. era un magistrato, sostituto procuratore della Repubblica. Come ha affermato la sentenza n. 20028 del 2018, emessa nei confronti del Dott. Y. in relazione alla sua sospensione cautelare, l’abuso della qualità di magistrato è dimostrata dallo stesso timore reverenziale ingenerato nelle giovani borsiste; per cui l’assoluzione dall’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), appare al ricorrente essere frutto di una motivazione del tutto omessa, caratterizzata dall’assenza di un vero apparato argomentativo.

5.1. Rileva innanzitutto il Collegio che è infondata l’eccezione, proposta dalla difesa del Dott. Y. nella memoria difensiva presentata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., secondo cui il Procuratore generale sarebbe privo di interesse all’impugnazione della sentenza in questione per il fatto che la sua "pretesa punitiva" è stata "totalmente soddisfatta", posto che la Sezione disciplinare ha irrogato esattamente la sanzione della sospensione dalle funzioni per la durata di anni due, così come era stato richiesto dall’Ufficio in sede di dibattimento.

A questo proposito vanno compiute alcune considerazioni.

Le Sezioni Unite ritengono di dover affermare - e tale circostanza merita di essere opportunamente sottolineata, siccome di per sé decisiva - che il giudizio disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari è previsto dalla Costituzione ed è regolato secondo criteri di garanzia che dimostrano, una volta di più, l’attenzione e la fiducia che la Carta fondamentale riserva alla categoria. L’art. 105 Cost., infatti, stabilisce come prerogativa del C.S.M., fra le altre, quella di disporre provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati e l’art. 107 Cost., comma 2, attribuisce al Ministro della giustizia la facoltà di promuovere l’azione disciplinare.

A livello di legge ordinaria, il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 14, nell’indicare il Procuratore generale della Corte di cassazione, accanto al Ministro della giustizia, come titolare dell’azione disciplinare, al comma 3 specifica che il primo ha "l’obbligo" di esercitare tale azione. Dal contesto dell’ordinamento emerge con sicura chiarezza, perciò, che il Procuratore generale della Corte di cassazione non agisce per soddisfare una "pretesa punitiva", quanto, innanzitutto, perché sia rispettata la legge, secondo quella che è una sua tipica prerogativa istituzionale (si veda, in proposito, anche l’art. 363 c.p.c.). Il fatto che la Sezione disciplinare abbia, nella specie, irrogato la sanzione disciplinare negli esatti termini richiesti dal P.G. al termine del dibattimento non fa venire meno, perciò, l’interesse di quest’ultimo all’impugnazione della sentenza, quando egli ne ravvisi la necessità.

È appena il caso di aggiungere, poi, che l’azione disciplinare era stata promossa nei confronti del Dott. Y. in relazione a due diversi capi di incolpazione; per cui è evidente che il Procuratore generale avesse comunque interesse all’impugnazione una volta che per uno dei due capi sia stata pronunciata una sentenza di assoluzione.

5.2. Ciò premesso, il ricorso del Procuratore generale è fondato.

È necessario ricordare, ai fini del corretto inquadramento della fattispecie, che la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha già affermato in più occasioni che, in relazione all’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), l’abuso della qualità di magistrato, al fine di ottenere un trattamento di miglior favore per sé o per altri, può anche essere effettuato implicitamente, quando la conoscenza della qualità stessa si inserisce in un contesto che concorre ad evidenziare una pressione psicologica sulla controparte o che comunque è idoneo ad incidere sulle determinazioni della stessa sino al punto di indurla ad addivenire ad un dato rapporto contrattuale (sentenza n. 33089 del 2019). Ragione per cui tale illecito sussiste anche quando non venga spesa in modo esplicito la qualità di magistrato, se essa è nota all’interlocutore, essendo necessario l’uso strumentale di detta qualità allo scopo di conseguire vantaggi ingiusti, per sé o per altri (sentenza 28 maggio 2020, n. 10086).

L’illecito in questione, infatti, ha il duplice fine di preservare la fiducia nell’imparzialità del magistrato, in relazione alla possibilità che l’abuso della qualità per un fine ingiusto determini negli interlocutori il dubbio circa la permeabilità a richieste di soggetti interessati a influenzarlo nell’esercizio delle funzioni, e di garantire una linearità di comportamento, riconducibile al dovere generico di correttezza nella vita privata; inoltre, l’ingiusto vantaggio non viene in considerazione solo in quanto contra ius, dovendosi accogliere una nozione più ampia di ingiustizia, comprendente anche gli scopi che mirano all’ottenimento di trattamenti di favore non comunemente praticati, ma richiesti tramite la spendita della qualità di magistrato quale strumento diretto al loro raggiungimento (sentenza 23 novembre 2018, n. 30424).

5.3. La Sezione disciplinare non ha fatto buon governo di tali principi.

La sentenza impugnata, infatti, ha compiuto un lungo excursus nel quale ha posto in luce il complesso ruolo tenuto dal Dott. Y. nell’ambito della scuola di formazione diretta dal Dott. X. , rilevando che egli era delegato da quest’ultimo a controllare la formazione delle borsiste, partecipava ad interrogatori incrociati sulla vita sentimentale e sessuale delle ragazze alle quali presentava il c.d. "regolamento" della scuola e presenziava alla firma dei contratti da parte degli aspiranti. La sentenza ha poi anche rilevato che dalla ricostruzione complessiva della vicenda emergeva "un delicato quadro sotto il profilo del clima di soggezione psicologica nel quale venivano a trovarsi alcuni dei giovani aspiranti magistrati". Nel procedere all’irrogazione della sanzione, la Sezione disciplinare ha ricordato la "peculiare gravità dei comportamenti emersi" e il ruolo centrale che il Dott. Y. rivestiva all’interno della scuola.

Dopo tale articolata ricostruzione, però, la decisione in esame ha ritenuto di dover assolvere l’incolpato dall’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), sulla base della semplice affermazione per cui l’attività di "intermediazione" esercitata dal Dott. Y. non era stata svolta utilizzando la qualità di magistrato, ma semplicemente il suo ruolo di stretto collaboratore del Dott. X. , sufficiente a creare la necessaria pressione psicologica.

La sentenza, quindi, non ha esaminato nella loro globalità una serie di elementi che pure risultavano dal capo di incolpazione di cui al n. 2) della rubrica, nonché dalla ricostruzione in fatto operata dalla stessa Sezione disciplinare. In particolare: l’avere il Dott. Y. ipotizzato, in caso di rifiuto da parte delle borsiste di accondiscendere ai desideri del Dott. X. , la possibilità di sanzioni nei loro confronti (quanto alla Dott.ssa P. , la circostanza è specificamente indicata in motivazione a p. 5, senza ulteriori considerazioni e valutazioni); la pressione consistita nell’indurre la Dott.ssa P. a recarsi dai Carabinieri per la presunta conciliazione e a tenere una serie di comportamenti compiacenti in favore del Dott. X. ; la prospettazione alla medesima, in quel preciso contesto che la stessa Sezione disciplinare definisce di "soggezione psicologica", della c.d. "truffa sentimentale" che le avrebbe precluso la partecipazione al concorso in magistratura; nonché la pressione esercitata nei confronti della Dott.ssa Pernice affinché lasciasse il suo fidanzato in cambio di un aiuto al superamento del concorso, con il correlativo episodio di "spionaggio" che la riguarda (descritto nel capo di incolpazione).

In rapporto a questo complesso quadro probatorio, il P.G. ha correttamente rilevato che, trattandosi di un magistrato in servizio presso una Procura della Repubblica, il timore reverenziale poteva derivare, con ogni probabilità, proprio da questo; nè può ritenersi soddisfacente la motivazione della sentenza che riconduce il timore reverenziale alla sola circostanza che egli fosse il braccio destro del Dott. X. . È corretto, d’altra parte, anche l’ulteriore rilievo del ricorrente secondo cui, poiché le ragazze che frequentavano la scuola avevano come obiettivo primario quello di superare il concorso in magistratura, poteva essere un sufficiente strumento di pressione psicologica il semplice timore di un "minore aiuto" nello studio, da parte di due magistrati, l’uno amministrativo e l’altro ordinario, in vista del raggiungimento dell’obiettivo. Ed è anche fuor di dubbio che i comportamenti di cui al capo di incolpazione in questione siano idonei, almeno in base ad una valutazione in astratto, ad incidere negativamente sulla fiducia e sulla considerazione di cui deve godere il magistrato, ovvero a compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario.

Esaminando il ricorso proposto dal Dott. Y. nei confronti della pronuncia della Sezione disciplinare del C.S.M. che gli aveva applicato la misura della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio, del resto, queste Sezioni Unite avevano già evidenziato, nella sentenza 27 luglio 2018, n. 20028, l’importanza del ruolo di magistrato ordinario ricoperto dal Dott. Y. ai fini dell’esercizio di una pressione psicologica sugli aspiranti alla partecipazione alle attività della scuola diretta dal Dott. X. .

Occorre poi aggiungere, infine, che la giurisprudenza di questa Corte in materia disciplinare ha più volte ribadito che alle Sezioni Unite è preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ma non è precluso il controllo della congruità, adeguatezza e logicità della motivazione, perché il vizio di motivazione può risultare non solo dal testo del provvedimento ma anche da altri atti del processo specificamente indicati nel ricorso (così, da ultimo, la sentenza 24 gennaio 2020, n. 1606, in linea con un pacifico orientamento in tema di vizio di motivazione, su cui v. le sentenze 9 giugno 2017, n. 14430, e 19 marzo 2019, n. 7691).

Si impone, pertanto, la cassazione della sentenza in parte qua e il rinvio alla Sezione disciplinare affinché dia conto con una più congrua motivazione, alla luce dei principi indicati, delle ragioni della propria decisione.

Ricorso del Dott. Y. (quarto motivo).

6. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 5, art. 12, comma 4, e art. 13, comma 2, nonché del principio di proporzionalità della sanzione inflitta.

Dopo aver richiamato il contenuto delle norme che determinano le sanzioni disciplinari a carico dei magistrati, il ricorrente lamenta che l’irrogazione della sanzione della sospensione per due anni violerebbe il principio di proporzionalità. Tenendo in considerazione il ruolo secondario da lui svolto nella scuola del Dott. X. , il positivo superamento, da parte sua, della prima valutazione di professionalità e la condizione di malattia con difficoltà di deambulazione, il Dott. Y. ricorda che la Dott.ssa I. è stata assolta (nonostante un suo coinvolgimento maggiore nella scuola) e che la stessa sentenza descrive i comportamenti da lui tenuti come connotati da una "tale grossolanità da poter essere immediatamente rilevabile" Ne consegue che la sanzione inflitta sarebbe esorbitante, anche perché la durata del procedimento disciplinare per quasi tre anni ha finito col rendere la sospensione, già imposta in via cautelare, ben superiore per durata alla sanzione inflitta con la sentenza oggi impugnata.

6.1. Ritiene il Collegio che l’esame del quarto motivo di ricorso del Dott. Y. rimanga assorbito a seguito dell’accoglimento del ricorso del Procuratore generale.

La Sezione disciplinare, infatti, sarà chiamata, proprio a causa di tale accoglimento, ad un nuovo giudizio sul capo di incolpazione per il quale aveva emesso una pronuncia assolutoria e, all’esito, dovrà provvedere ex novo ad una rivalutazione della vicenda nella sua globalità ai fini dell’irrogazione della sanzione disciplinare.

Conclusioni.

7. In conclusione, sono rigettati i motivi primo, secondo e terzo del ricorso del Dott. Y. , con assorbimento del quarto, mentre è accolto il ricorso del Procuratore generale.

La sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla Sezione disciplinare del C.S.M., in diversa composizione personale.

Non occorre provvedere sulle spese.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta i motivi primo, secondo e terzo del ricorso del Dott. Y. , con assorbimento del quarto. Accoglie il ricorso del Procuratore generale, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Sezione disciplinare del C.S.M., in diversa composizione personale.

Nulla per le spese.

Depositata in cancelleria il 4 marzo 2021.