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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 30/07/2017 Scarica PDF
Il reato di "abuso dei mezzi di correzione o di disciplina" (art. 571 cod. pen.)
Nicola Pignatelli, Avvocato
1. Generalità
All’interno del Titolo che il codice dedica ai delitti contro la famiglia, l’art. 571 cod. pen. è inserito nel Capo IV, dedicato ai delitti contro l’“assistenza familiare”.
La norma in commento, prevede, al comma I, la reclusione fino a sei mesi per «chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente». Va subito precisato che, per l’orientamento maggioritario, la nozione di malattia rilevante è più ampia di quella relativa al reato di lesioni personali, comprendendo ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato di ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento[1] e per il suo accertamento non è necessario ricorrere ad una perizia, ben potendo il giudice desumere dal mezzo stesso o dalle modalità del suo utilizzo, secondo massime di esperienza, la probabilità del verificarsi della malattia[2].
La norma poi prosegue, prevedendo, al comma II, una prima aggravante, con l’applicazione delle pene previste dagli artt. 582 e 583 cod. pen. ridotte a un terzo, se dal fatto (previsto al comma I) deriva una lesione personale ed una seconda aggravante, con l’applicazione della reclusione da tre a otto anni, se da quel fatto deriva la morte della vittima.
A seconda del soggetto attivo del reato, verranno in rilievo le pene accessorie previste dagli artt. 31 e 34 del codice penale.
Circa la natura del reato, va detto che, malgrado la norma ne individui in “chiunque” il soggetto attivo, in realtà la fattispecie può concretamente configurarsi soltanto quando ad agire sia un soggetto (genitore, insegnante, ecc.: cfr. § 3) che si trovi in un rapporto personale “qualificato” col soggetto passivo: trattasi, quindi, di reato proprio.
2. Bene tutelato
Sulla scorta della collocazione sistematica della norma, in dottrina si è per lungo tempo ritenuto che il bene giuridico tutelato fosse quello della “famiglia”. Tale visione è stata poi abbandonata, per far posto a quella che – anche in considerazione del fatto che la norma richiede il “pericolo di insorgenza di una malattia nel corpo o nella mente” e contempla poi, nel comma II, dei veri e propri eventi di danno sempre riguardanti la persona – riconosce ormai definitivamente nell’incolumità psicofisica (ovvero nella integrità fisica e morale) del soggetto passivo nell’ambito dei rapporti implicanti un potere disciplinare il bene tutelato[3], non potendosi trascurare, ad ulteriore sostegno della tesi “più attuale”, il fatto che la norma offre tutela anche a soggetti estranei alla famiglia[4] (come si vedrà al § 3). Di sicuro interesse è, poi, la tesi che, pur “abbandonando” la visione meramente pubblicistica della tutela della famiglia tout court e avvicinandosi alla tesi che parla di “tutela della integrità psicofisica”, ravvisa il bene tutelato dalla norma nell’interesse del soggetto “esposto” al potere disciplinare a non subire le conseguenze di comportamenti che contrastino con lo sviluppo armonico della propria personalità[5].
3. Soggetti attivi e soggetti passivi del reato
Si è già detto che si tratta di un reato proprio, che può essere commesso dal soggetto che legittimamente (e non in via di mero fatto o “occasionale”, come si dirà) può esercitare un potere disciplinare nei confronti del soggetto passivo[6]: i genitori nei confronti dei figli minorenni conviventi, ma non nei confronti dei figli maggiorenni[7] o di minori che non siano conviventi[8]; i fratelli maggiorenni nei confronti di quelli minori, nel caso in cui manchino i genitori[9]; le persone alle quali i genitori, in loro assenza, abbiano affidato il minore[10]; gli insegnanti nei confronti degli alunni (e amplissima è sul punto la casistica, anche in riferimento ai rapporti con il reato “contiguo” di cui all’art. 572 cod. pen.); il convivente del genitore del minore[11]; le balie, i medici o gli infermieri nei confronti dei ricoverati per motivi di cura o custodia in ospedali o sanatori[12]; i soggetti cui i minori siano stati affidati dal Tribunale per i minorenni[13]; il personale medico e paramedico o i “sorveglianti” delle case di cura o degli ospizi per anziani o delle residenze sanitarie assistite; la polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti.
Diverso è poi lo spazio che tradizionalmente si tende a riconoscere al ricorso ai mezzi correttivi/educativi nei vari rapporti tra il soggetto attivo e quello passivo, con una sorta di “variabilità” del concetto di abuso: così, se al genitore si riconosce, in dati casi, la possibilità di colpire con uno schiaffo il proprio figlio, con conseguente riconoscimento della liceità di una vis modicissima[14], tale “spazio” non si ammette in quei rapporti (insegnanti/alunni; polizia penitenziaria/detenuti) nei quali il ricorso alla violenza fisica è stato escluso anche a livello legislativo e regolamentare. Al riguardo, tuttavia, merita di essere segnalato un recente orientamento giurisprudenziale che, nell’affrontare la tematica dei rapporti tra la norma in commento e quella di cui all’art. 572 cod. pen., afferma come sia la stessa configurazione dell’art. 571 cod. pen. a “richiedere” l’uso di una qualche forma di violenza (anche fisica), pure in ambiti – come quelli “scolastici” – nei quali dovrebbe ritenersi del tutto esclusa (l’argomento sarà affrontato infra, al § 4).
In passato si è sempre fatto riferimento alla possibilità che il reato in discorso potesse configurarsi nei rapporti tra gli artigiani o i datori di lavoro o anche gli altri dipendenti “superiori” e gli apprendisti o i garzoni: più di recente, la dottrina si esprime in termini negativi, in considerazione del mutato assetto e del “moderno svolgersi” dei rapporti di lavoro subordinato[15], per il quale le sanzioni disciplinari sono ora previste dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
Proprio su questo ultimo aspetto, una recentissima pronuncia di legittimità[16] – pur avendo escluso nel caso di specie l’applicabilità dell’art. 571 cod. pen. in quanto le condotte addebitate all’agente erano da sussumersi nella previsione del “contiguo” art. 572 cod. pen. – ha però avuto modo di precisare che in un ambiente di lavoro connotato dal carattere della “para-familiarità” (studio di un commercialista con pochi dipendenti) è ben possibile la configurabilità del reato di cui all’art. 571 cod. pen. (anche quando gli interventi correttivi/disciplinari del datore di lavoro siano diversi da quelli tassativamente disciplinati dalla normativa positiva), in quanto l’abuso, presupponendo per definizione l’eccesso rispetto alla fisiologia, può verificarsi, ad esempio, quando il rimprovero verbale nel pieno rispetto della dignità personale del dipendente, trasmodi fino a superare i limiti di continenza propri del rimprovero fisiologico (magari con il ricorso ripetuto a epiteti ingiuriosi o minacciosi).
Del tutto esclusa, invece, come accennato, è l’applicabilità dell’art. 571 cod. pen. quando il preteso “educatore” si trovi in un rapporto di “mero fatto” col soggetto estraneo ad ogni rapporto disciplinare con lui (come nel caso di colui che percuote un minore che compie atti vandalici in sua presenza o che molesta un anziano passante); esclusione argomentata in dottrina in virtù della tassatività dei casi in cui può ammettersi una violazione di diritti inviolabili e fondamentali quali sono l’incolumità o la libertà personale del soggetto che si intende(rebbe) correggere/educare[17].
Altresì esclusa è poi l’applicabilità della norma ai rapporti tra i coniugi – non essendo più ammissibile, alla luce della mutata concezione della figura e del ruolo del marito, a livello costituzionale, sociale e di legislazione ordinaria – alcuna forma di ius corrigendi esercitabile dal primo nei confronti della moglie: l’art. 29 della Costituzione e la disciplina del codice civile post “Riforma del diritto di famiglia” di cui alla legge 19 maggio 1975, n° 151 non consentono più alcun dubbio al riguardo e “impongono” l’applicazione delle comuni fattispecie concernenti i reati contro la persona[18].
Tale progressiva riduzione dell’ambito applicativo ha portato a parlare di “norma ormai anacronistica”, della quale si auspica in futuro l’eliminazione, per permettere il riespandersi dell’area di applicabilità di altri reati[19], quali quello di percosse o di lesioni o di omicidio (tentato o consumato), che puniscono più gravemente gli stessi fatti, se non ancorati a quell’intento correttivo/educativo contemplato nel comma I della norma in commento, che ne ha fino ad ora “giustificato” un trattamento sanzionatorio più mite.
4. Il fatto
La condotta consiste nell’abusare dei mezzi di correzione o di disciplina (anche con comportamento omissivo[20]) e presupposto di essa deve essere il “rapporto disciplinare o di affidamento” tra l’agente ed il soggetto passivo (id est: le particolari qualità soggettive di entrambi)[21].
In più, dal fatto, nella ipotesi “semplice” di cui al comma I, deve essere scaturito il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente e, nelle ipotesi “aggravate” di cui al comma II, le lesioni o la morte.
Per quanto attiene ai mezzi utilizzabili per “correggere/educare” (la giurisprudenza considera ormai sinonimi i due termini), l’orientamento risalente e tutt’ora dominante ritiene che questi debbano essere in sé leciti, in quanto non si potrebbe predicare un abuso di qualcosa che già di per sé non sia possibile utilizzare, appunto perché illecito[22]. Sviluppando tale ragionamento, si tende a ravvisare i diversi reati di percosse, lesioni, maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona, ogniqualvolta l’agente abbia messo in atto comportamenti concretanti violenza fisica o morale, che si ritiene non possano essere posti a base di un’azione caratterizzata dall’intento di educare (con il ricorso a mezzi non consentiti o con l’utilizzo di mezzi che, se pur consentiti o astrattamente leciti, siano nel caso concreto utilizzati con modalità non ammesse)[23].
Così, in coerenza con queste premesse, si afferma come già l’utilizzo di un mezzo “esorbitante” rispetto al fine educativo che si sia proposto l’agente, escluda a priori – in un’ottica che privilegia una valutazione oggettiva della data situazione, senza prendere in considerazione il “punto di vista dell’agente”, essendo questo irrilevante[24] – la sussistenza del “fine educativo” di cui all’art. 571 cod. pen., con la sussunzione del fatto sotto altre norme di volta in volta rilevanti (così, per l’utilizzo di una cinghia o di un bastone nei confronti del proprio figlio, la fattispecie applicabile sarà quella delle percosse o delle lesioni o, nei congrui casi, quella del tentato omicidio; per il trascinamento a terra della vittima, tirata per i capelli per indurla a rincasare, si applicherà l’art. 610 cod. pen. in concorso con l’art. 582 cod. pen.; l’abituale vessazione o l’abituale utilizzo di mezzi violenti comporterà l’applicazione dell’art. 572 cod. pen., ecc.).
Pur essendo questo l’orientamento dominante, non sono mancate occasioni nella giurisprudenza per sostenere l’irrilevanza della “liceità del mezzo o delle modalità” ai fini della configurabilità del reato. In particolare, in una recente pronuncia[25], da un lato si è messo in evidenza come la stessa giurisprudenza non abbia escluso la configurabilità del reato in discorso in alcuni casi di ricorso a forme di violenza fisica[26] e, dall’altro, si è rilevato come la compatibilità dell’esercizio di una forma episodica di violenza fisica con il delitto di abuso dei mezzi di correzione sia coerente con quanto previsto al comma II della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 571 cod. pen., laddove sono previste – come già evidenziato – due aggravanti per i diversi casi in cui dalla condotta dell’agente siano derivate una lesione personale o addirittura la morte: per la S.C., entrambe le conseguenze (ed in particolar modo, l’eventuale morte del soggetto passivo dell’azione), non sarebbero prospettabili e verificabili se l’“ipotesi base” fosse configurabile soltanto con il ricorso a mezzi di correzione non violenti. La pratica impossibilità di ipotizzare il verificarsi di eventi di danno (lesioni o morte) ove l’abuso dei mezzi correttivi fosse configurabile solo se questi fossero leciti (id est: non violenti) «renderebbe priva di significato la previsione normativa, in contrasto con l’elementare principio ermeneutico secondo cui ad ogni disposizione normativa deve assicurarsi un significato di qualche utilità applicativa»[27].
Circa la locuzione presente in fine del comma I (“se dal fatto deriva un pericolo di malattia nel corpo o nella mente”), a fronte di un’iniziale propensione a ritenerla una tipica condizione obiettiva di punibilità (ex art. 44 cod. pen.)[28], più di recente si ritiene condivisibilmente trattarsi di un elemento costitutivo della fattispecie base, prevista dal comma I: l’ipotesi base, pertanto, configura un reato di pericolo concreto, il che implica l’obbligo per il giudice di accertarne la ricorrenza, compiendo una prognosi ex ante, in concreto e a base totale, che gli permetta di stabilire con certezza se vi sia stata probabilità (e non già semplice possibilità)[29] del verificarsi di una malattia nel corpo o nella mente.
Trattandosi di elemento costitutivo del reato, dovrà essere conosciuto e voluto dall’agente, il quale, per il sol fatto di aver inteso agire per fini educativi, non per questo potrà invocare l’assenza di dolo, almeno eventuale, nei riguardi del pericolo di insorgenza di una malattia, allorquando, nel porre in essere la sua condotta (percossa, strattonamento, violenza psichica), ben avrebbe potuto rappresentarsi (e accettare) l’insorgenza di un pericolo per il bene dell’integrità psico-fisica.
5. Elemento soggettivo
Può dirsi ormai abbandonata l’idea per la quale si tratta di un reato a dolo specifico. Per opinione ormai pacifica, sia in dottrina che in giurisprudenza, per la sussistenza del reato è necessario (e sufficiente) il dolo generico, almeno nella forma eventuale[30]: l’agente dovrà conoscere il presupposto della condotta, ossia il rapporto “disciplinare e/o di affidamento” che lo lega al soggetto passivo e dovrà rappresentarsi di agire abusando dei mezzi correttivi/educativi o delle modalità di impiego di tali mezzi, nonché di mettere così in pericolo (o accettare di mettere in pericolo) l’integrità psico-fisica della vittima.
Per le ipotesi aggravate di cui al comma II, altrettanto pacifica è la precisazione che i due eventi non devono essere voluti, poiché, altrimenti, si ricadrebbe nel campo di applicazione delle lesioni dolose e dell’omicidio volontario[31].
6. Consumazione e tentativo
Si è visto che l’ipotesi semplice, di cui al comma I, si configura come reato di pericolo concreto e quindi, si potrà ritener consumato, quando appunto sorge il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente[32].
Le ipotesi aggravate di cui al comma II, prevedono invece due fattispecie di reati di danno e quindi si realizzeranno al verificarsi, rispettivamente, della malattia (nel caso di lesioni) o della morte.
Partendo dall’assunto per il quale il pericolo di insorgenza della malattia è un elemento costitutivo del reato, si è ammessa in dottrina[33] la configurabilità del tentativo per la ipotesi base di cui al comma I, nel caso in cui l’agente, pur avendo posto in essere la condotta tipica del reato (ossia l’abuso del mezzo correttivo) senz’altro idonea, secondo l’id quod plerumque accidit, a rendere probabile l’insorgenza della malattia, tale probabilità (tale pericolo, appunto) non si sia potuta verificare (ad esempio, perché, a fronte di una violenza psichica perpetrata da un genitore, idonea a provocare malessere e turbamento nel minore, l’altro genitore presente subito tranquillizzi la vittima con rassicurazioni e manifestazioni di affetto, tali da scongiurare ogni pericolo di sofferenza; o, come nel caso di un insegnante che allontani dall’aula un minore in maniche di camicia per lasciarlo in punizione all’aria aperta e con bassa temperatura e immediatamente dopo l’alunno venga riportato “al caldo” da un terzo).
7. Le ipotesi di cui al comma II
Si è già detto che al comma II l’articolo in commento prevede due aggravanti, entrambe con trattamento sanzionatorio attenuato, rispetto alle corrispondenti “figure autonome” delle lesioni dolose e dell’omicidio volontario[34]; trattamento sanzionatorio attenuato che si tende da più parti a criticare, in quanto non più corrispondente alla coscienza sociale che ormai più non vede nel particolare fine educativo una motivazione della condotta di pregnanza tale da così diminuire la risposta sanzionatoria, rispetto alle corrispondenti situazioni in cui la lesione dell’integrità psicofisica e la lesione del bene vita avvengono al di fuori di un “contesto disciplinare”.
La pena stabilita per le lesioni scaturite da un’azione connotata da intento educativo può andare da un mese ad un anno di reclusione (in luogo della reclusione da tre mesi a tre anni, se le lesioni siano cagionate in contesto non collegato al fine educativo dell’agente), da un anno a due anni e quattro mesi di reclusione per le lesioni gravi (invece che da tre a sette anni) e da due a quattro anni di reclusione per le lesioni gravissime (invece che da sei a dodici anni). Del pari affievolito è il trattamento sanzionatorio per l’evento morte, che comporta l’applicazione della reclusione da tre a otto anni.
Pur avendo la giurisprudenza sempre propeso per la natura di circostanze aggravanti delle ipotesi contemplate dal comma II della norma[35], in dottrina si è anche sostenuta la ricostruzione delle figure in termini di reati aggravati dall’evento[36].
Tralasciando qui la questione del rispetto del principio di colpevolezza, ormai positivamente superato sia per l’imputazione delle aggravanti (cfr. art. 59 cod. pen.), sia per i delitti aggravati dall’evento, per i quali anche l’evento non voluto deve essere rimproverabile per colpa (secondo l’insegnamento di C. cost. n° 1085/1988), la soluzione della questione in un senso o nell’altro reca con sé la preoccupazione di scongiurare il pericolo insito nel giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., che al giudice compete per la ricorrenza di circostanze di segno diverso[37]: il ritenere, ad esempio, la morte un’aggravante bilanciabile rispetto ad attenuanti presenti nel caso concreto, fa temere per la corretta e proporzionata dosimetria della pena nei casi in cui l’esito della condotta dell’agente porti ad un risultato che, seppur non voluto e seppur conseguenza di una condotta mirante ad “educare”, non può che ritenersi più che spropositato, appunto, rispetto al fine che ha mosso sin dall’inizio l’agente.
Sulla possibilità di poter addossare all’agente, ai sensi del comma II, l’evento morte conseguente al suicidio del soggetto passivo, vittima in ipotesi di aggressioni morali di una certa gravità e tali da provocare un consistente turbamento psichico, una pronuncia risalente di legittimità si è espressa positivamente[38]. Di recente, la questione è stata affrontata in riferimento alla “contigua” fattispecie di cui all’art. 572 cod. pen., in relazione alla quale la S.C. ha avuto modo di affermare come «per garantire il principio di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale, nei casi di suicidio seguito alla condotta di maltrattamenti, è necessario che l’evento sia la conseguenza prevedibile della condotta di base posta in essere dall’autore del reato e non sia invece il frutto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima, imprevedibile e non conoscibile da parte del soggetto agente, al quale non potrà, in tal caso, muoversi alcun rimprovero per avere cagionato l’evento con la propria condotta illecita»[39]: considerato che il reato di cui all’art. 571 cod. pen. è meno grave, non solo per il trattamento sanzionatorio, ma anche e soprattutto per la stessa condotta che lo concreta (anche un unico atto, senza quelle reiterazioni nel tempo, che possono concretare quel “maltrattamento” senz’altro idoneo a spiegare un effetto afflittivo maggiore), ancora più difficile, in questo caso – pur non potendosi escludere in astratto – potrà essere la prevedibilità di un tragico epilogo come quello del suicidio, con maggiore difficoltà di attribuire all’agente, quindi, quel rimprovero di colpevolezza meritevole della sanzione massima, prevista dal comma II dell’art. 571 cod. pen.
8. Circostanze comuni
La giurisprudenza esclude la possibilità di riconoscere all’agente l’attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale, di cui all’art. 62 n° 1), in quanto la norma già prevede quale elemento costitutivo del reato il fine educativo, idoneo, come abbiamo visto, a giustificare la mitezza del trattamento sanzionatorio rispetto a fattispecie dolose che, se autonomamente prese in considerazione, prevedono una pena maggiore[40]. Del pari, la giurisprudenza ha escluso la possibilità di riconoscere all’agente l’attenuante della provocazione di cui all’art. 62 n° 2)[41].
Per quanto riguarda le aggravanti comuni di cui all’art. 61 cod. pen., potrà venire in rilievo quella prevista dal n° 5) (l’aver profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche con riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa: si pensi all’anziano in una casa di cura).
Per quella prevista dal n° 11) (l’aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità) può condividersene l’esclusione – in ossequio a quanto previsto dallo stesso incipit dell’art. 61 cod. pen.[42] – in ragione del fatto che si tratta di un reato proprio che, in quanto tale, può essere perpetrato da chi già si trovi in particolari rapporti col soggetto passivo e quindi “il fatto aggravatore” è già stato oggetto di valutazione legislativa quale elemento costitutivo del reato e analoghe considerazioni varranno per l’esclusione dell’aggravante dei motivi abietti o futili, prevista dal n° 1) dell’art. 61 cod. pen.[43].
Per l’aggravante prevista dal n° 11-ter (l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione), si è notato in dottrina come il legislatore abbia fatto generico riferimento ai “delitti contro la persona” e non già ai delitti previsti dal Titolo XII del Libro II del codice[44] e questo può portare ad un’applicazione anche al reato in commento che, pur non rientrando nel Titolo XII, si è visto essere un reato che tutela l’integrità psico-fisica della persona: conferma di ciò si può rinvenire facendo riferimento a quelle sentenze che si occupano del “contiguo” reato di cui all’art. 572 cod. pen., per il quale tale aggravante viene riconosciuta[45].
Considerazioni analoghe potranno farsi in relazione all’aggravante comune prevista dal n° 11-quinques, il quale prevede un aumento di pena per i delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale (nei quali ben può farsi rientrare l’art. 571 cod. pen.), se commessi in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza.
9. Misure cautelari e precautelari. Brevi cenni
L’art. 282-bis, c.p.p. prevede un’espressa deroga ai limiti edittali posti in via generale dall’art. 280 c.p.p., al fine di permettere l’applicazione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare anche in danno di chi abusa dei mezzi di correzione nei confronti di familiari: una misura cautelare «dalla morfologia articolata», attraverso la quale il legislatore si è sforzato di contemperare al meglio le antitetiche esigenze che fanno capo, da un lato, alla vittima (ed anche ai suoi prossimi congiunti: si pensi al minore vittima “principale” e all’altro genitore o ai fratelli conviventi) e, dall’altro, allo stesso (presunto) colpevole dell’abuso[46].
La norma contempla due misure cautelari, la prima delle quali – prevista in via “principale” dal comma 1° – consiste, appunto, nell’allontanamento dalla casa familiare[47] e la seconda – prevista dal comma 3° in via “accessoria” alla prima[48] –, riguardante il potere del giudice di imporre, in aggiunta al primo “vincolo” di natura personale, il versamento di un assegno periodico in favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta in via principale, rimangano privi di mezzi adeguati.
Il successivo art. 282-quater prevede, poi, tra le altre, anche la comunicazione alla persona offesa della ordinanza applicativa della misura, onde garantirle di conoscere compiutamente “il contenuto” della misura disposta, anche al fine di permetterle di segnalarne eventuali violazioni[49] e, comunque, per renderla edotta della possibilità di chiedere un “ordine di protezione europeo”[50].
Importanti obblighi comunicativi nei riguardi della persona offesa (o del suo difensore) sono poi fissati dall’art. 299 cod. proc. pen., per il caso di revoca o di sostituzione della misura cautelare principale dell’allontanamento, adottata in casi di “violenza anche morale o psicologica alla persona”[51]: in tali casi, quando la richiesta di revoca o di sostituzione proviene dal pubblico ministero o dall’imputato, questa deve essere doverosamente (a pena di inammissibilità) contestualmente notificata a cura del soggetto richiedente, alla persona offesa (o al suo difensore) al fine di favorire l’acquisizione del “punto di vista” della vittima ai fini della decisione del giudice (cfr. art. 299, commi 3 e 4-bis, c.p.p.).
Un cenno merita altresì l’introduzione nel codice di procedura penale (ad opera della legge 15 ottobre 2013, n° 119) dell’art. 384-bis, il quale contempla la misura precautelare facoltativa dell’“allontanamento d’urgenza dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa” nei casi di flagranza del reato e sempre che gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria, debitamente autorizzati dal pubblico ministero, constatino la sussistenza nel caso concreto di fondate ragioni per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa (e alla convalida di tale misura precautelare è possibile “far seguire” il giudizio direttissimo[52]).
10. Rapporti con altri reati
Il fine “di educare” che muove l’agente, segna la differenza tra il reato in discorso e quello di lesioni personali: la sussistenza di una tale finalità nella mente dell’agente, se “oggettivamente” e ragionevolmente sussistente, porterà all’applicazione dell’art. 571 cod. pen. nella sua ipotesi aggravata di cui al comma II, che prevede un trattamento sanzionatorio senz’altro più lieve. La differenza tra le fattispecie previste dagli artt. 571 e 572 cod. pen. è data, invece, dal fatto che, per aversi il primo reato, è sufficiente l’episodicità della condotta[53], laddove, per aversi il secondo (tipico reato abituale[54]) è necessaria la reiterazione nel tempo[55] di atti che, complessivamente considerati, concretino quel (mal)trattamento meritevole di pena più grave, sia nella sua ipotesi base che negli sviluppi più gravi; sviluppi più gravi che, anche per tale fattispecie, devono essere non voluti, con la precisazione che, quand’anche vi fosse, nelle intenzioni dell’agente, la volontà di esercitare un preteso ius corrigendi, se la condotta assume carattere di abitualità, a nulla varrà, appunto, sostenere che l’intento fosse quello educativo, dovendosi avere riguardo soltanto all’estrinsecazione sul piano meramente oggettivo della condotta tenuta dall’agente[56].
[1] Cfr. Cass. 19 gennaio 2017, n° 2669, per esteso in Pluris-Banca dati online, Wolters Kluwer; Cass. 10 marzo 2016, n° 9954; Cass. 22 ottobre 2009, n° 49433; Cass. 3 maggio 2005, n° 16491.
[2] Cfr. Cass. 21 maggio 1998, n° 6001.
[3] Cfr. MANZINI, Trattato di dir. pen. italiano (aggiornato da P. Nuvolone e G. D. Pisapia), vol. VII, Utet, 1984, p. 901; MAZZA, Maltrattamenti ed abuso dei mezzi di correzione, in Enc. giur., vol. XIX, Treccani, 1990, p. 3; COLOMBO, sub art. 571 c.p., in Commentario breve al diritto di famiglia (a cura di Zaccaria), IIIa ed., Cedam, 2016, p. 2388.
[4] Cfr. MIEDICO, sub art. 571, in Codice penale commentato (a cura di E. Dolcini e G. Marinucci) IIIa ed., Ipsoa, 2011, p. 5120.
[5] Cfr. TRIPODI-CERIGLIONE, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in Diritto penale della famiglia (a cura di Catullo), Cedam, 2012, p. 300.
[6] Cfr. SPENA, Reati contro la famiglia, in Trattato di dir. pen. (diretto da Grosso, Padovani e Pagliaro), vol. XIII, Giuffrè, 2012, p. 7, per il quale: «i reati di abuso dei mezzi di correzione (art. 571) e maltrattamenti (art. 572) si riferiscono espressamente a relazioni di supremazia/soggezione che, per come concepite e descritte dalle norme incriminatrici, possono senz’altro ricorrere anche al di fuori dell’ambito familiare (in ambito scolastico, lavorativo, carcerario, et similia)».
[7] Cfr. TRIPODI-CERIGLIONE, op. cit., p. 306. In giurisprudenza, v. Cass. 7 febbraio 2011, n° 4444.
[8] Cfr. MIEDICO, op. loc. ult. cit.
[9] Cfr. PISAPIA, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in Digesto penale, vol. I, Utet, 1987, p. 33.
[10] App. Palermo, 19 settembre 2016.
[11] Cfr. PISAPIA, op. cit., p. 32.
[12] Cfr. ANTOLISEI, Manuale di dir. pen., Parte speciale - I, XIVa ed., Giuffrè, 2002, p. 507.
[13] Cass. 19 gennaio 2017, n° 2669, cit.
[14] Cfr. TRIPODI-CERIGLIONE, op. cit., p. 310, i quali, nel richiamare il “concetto dell’adeguatezza sociale” quale criterio utile ad individuare i confini della liceità del mezzo utilizzato, affermano come «per tradizione all’interno della famiglia sono infatti considerati mezzi adeguati lievi percosse o piccoli sacrifici alimentari, in quanto determinanti una sofferenza fisica o morale assai ridotta e comunque passeggera».
[15] Cfr. PISAPIA, op. loc. ult. cit.; COLOMBO, op. cit., p. 2389.
[16] Cass. 2 dicembre 2016, n° 51591.
[17] Cfr. PISAPIA, op. cit., p. 31; COLOMBO, op. cit., p. 2392.
[18] Cfr. PISAPIA, op. cit., p. 31; ANTOLISEI, op. cit., p. 509; MIEDICO, op. cit., p. 5121, che segnala la sentenza della Cassazione del 22 febbraio 1956 come la prima pronuncia di legittimità ad aver negato ogni forma di ius corrigendi in capo al marito, così inaugurando quello che poi è diventato il consolidato indirizzo giurisprudenziale sul punto; TRIPODI-CERIGLIONE, op. cit., p. 306.
[19] Cfr. LARIZZA, La difficile sopravvivenza del reato di abuso dei mezzi di correzione, in Cass. pen., 1997, p. 39.
[20] Cfr. Cass. 3 maggio 2005, n° 16491.
[21] Cfr. TRIPODI-CERIGLIONE, op. loc. ult. cit.
[22] Cfr. MANZINI, op. cit., p. 910; ANTOLISEI, op. cit., p. 508; Cass. 21 settembre 2012, n° 36564; Cass. 16 maggio 1996, n° 4904, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1130, con nota di FIGIACONI, Abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti in famiglia: revirement della Corte di cassazione. Quest’ultima interessante sentenza è di poco successiva ad altra (Cass. 11 aprile 1996, pronunciata sempre dalla Sez. VI, ma in diversa composizione), che ha ritenuto invece non accettabile «l’opinione, peraltro seguita da larga giurisprudenza della Corte di cassazione, che basti la c.d. “illiceità” del mezzo per escludere la sussistenza del rato di cui all’art. 571 c.p.». Per un commento ad entrambe le sentenze, v. PITTARO, Il delitto di abuso dei mezzi di correzione: una fattispecie “senza più fondamento”?, in Fam. dir., 1996, p. 328.
[23] A volte, la tesi tutt’ora maggioritaria delle “necessaria liceità del mezzo usato” viene invocata dalla difesa per sostenere che, essendo stato usato nel caso concreto un mezzo illecito ed essendo quindi inconfigurabile in reato de quo con conseguente qualificazione del fatto in termini di lesioni personali, qualora queste siano lievi e non sia stata presentata querela, si dovrà pervenire ad un proscioglimento dell’imputato.
[24] Cass. n° 22 settembre 2005, n° 39927.
[25] Cass. 19 gennaio 2017, n° 2669, cit.
[26] Cfr. Cass. 10 marzo 2016, n° 9954, riguardante il caso di un’insegnante che aveva sottoposto i bambini a violenze fisiche consistite in schiaffi o nel tirare loro con forza i capelli, a violenze psicologiche e a condotte umilianti, consistite nel minacciarli dell’arrivo di un diavoletto, nel costringerli a cantare o a mangiare e nel farli stare con la lingua fuori; violenze fisiche e psichiche che, per la S.C., sono correttamente riconducibili al concetto di “abuso” fatto proprio dall’art. 571 cod. pen. e tali, quindi, da ingenerare il pericolo dell’insorgenza di una malattia nel corpo o nella mente; Cass. 10 settembre 2012, n° 34492, in Dir. pen. proc., 2013, p. 64, con nota di LARIZZA, Potere disciplinare dell’insegnante: i limiti posti dalla Cassazione a tutela del minore; Cass. 28 marzo 2012, n° 11734, che ha ritenuto corretta la qualificazione in termini di “abuso dei mezzi di correzione”, operata dalla Corte di appello di Bologna (sent. del 18 gennaio 2011) in un caso in cui un maestro elementare aveva utilizzato un “righello” per percuotere le mani e le terga degli alunni e un vocabolario per colpirli al capo; Cass. 3 maggio 2005, n° 16491, cit.; Trib. Bari, 3 ottobre 2016, che ha ravvisato il reato in discorso, nella ipotesi base del comma I, in un caso in cui la madre ha colpito il figlio con schiaffi, provocandogli un’epistassi subito arrestatasi.
[27] E così, riprendendo quanto da Altri evidenziato e riferito (vedasi supra, alla nota 14), ammesso, in dati casi, il ricorso ad uno schiaffo o a una piccola privazione alimentare (mezzi che, secondo l’orientamento dominante, sarebbero da ritenersi illeciti), l’abuso commesso in date circostanze, comunque rimarrà punito ai sensi della norma in commento, poiché, se così non fosse, sarebbe praticamente e logicamente impossibile l’insorgenza del pericolo di malattia nel corpo o nella mente (comma 1°) e, a fortiori, le lesioni o la morte del soggetto passivo (comma 2°).
[28] Così TRIPODI-CERIGLIONE, op. cit., p. 301, in coerenza con la preferenza degli Autori per la tesi dell’interesse del soggetto “esposto” al potere disciplinare a non subire le conseguenze di comportamenti che contrastino con lo sviluppo armonico della propria personalità, quale bene tutelato dalla norma.
[29] Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di dir. pen. Parte generale, IIIa ed., Giuffrè, 2009, p. 195.
[30] Cfr. ANTOLISEI, op. cit., p. 510; MIEDICO, op. cit., p. 5123; COLOMBO, op. cit., p. 2389. In giurisprudenza, v. Cass. 3 maggio 2005, n° 16491, cit. (la cui massima è riportata in Dir. pen. proc., 2006, p. 355, con nota di SILVANI, Violenza per fini educativi: per l’abuso di mezzi di correzione basta il dolo generico).
[31] Cfr. PISAPIA, op. cit., p. 36.
[32] Cass. 10 settembre 2012, n° 34492, cit.; Cass. 13 maggio 2010, n° 18289; Cass. 18 gennaio 2010, n° 2100.
[33] MAZZA, op. cit., p. 4.
[34] Cfr. TRIPODI-CERIGLIONE, op. cit., p. 297, i quali, nel richiamare un passo della Relazione ministeriale al progetto definitivo del nuovo codice penale, evidenziano come: «il trattamento sanzionatorio preferenziale accordato al delitto in esame si spiega in ragione della valorizzazione degli attenuati disvalori soggettivi di azione e di atteggiamento interiore che connotano la fattispecie».
[35] Cass. 10 settembre 2012, n° 34492, cit.; C. Assise Roma, 3 luglio 1991; Pret. Lecce, 19 febbraio 1993.
[36] PISAPIA, op. cit., p. 36; PITTARO, op. cit., p. 329; MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 315.
[37] Cfr. PADOVANI, Dir. pen., VIIa ed., Giuffrè, 2004, p. 237; MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 465.
[38] Cass. 6 aprile 1964, Cioffo, CED 99189, segnalata da MIEDICO, op. cit., p. 5124.
[39] Cass. 18 marzo 2008, n° 12129, in Giur. it., 2008, p. 2812, con nota di PAVESI, In tema di suicidio a seguito di maltrattamenti.
[40] Cfr. COLOMBO, op. cit., p. 2393. Per la giurisprudenza, v. Cass. 7 dicembre 1965, Pietrantuono, CED 100623, segnalata da MIEDICO, op. loc. ult. cit.
[41] Cfr. COLOMBO, op. cit., p. 2394. Per la giurisprudenza, v. Cass. 13 maggio 1966, Annunziata, CED 102652, segnalata da PISAPIA, op. cit., p. 36, il quale però non condivide l’assolutezza dell’assunto per cui «il torto del soggetto passivo è un presupposto dell’abuso del potere correttivo da parte dell’agente, e, quindi, essendo da considerare ricompreso nell’economia essenziale della fattispecie criminosa, non può assumere al tempo stesso rilevanza come elemento accidentale del reato»: secondo l’Autore, invece, ben possono darsi casi nei quali il soggetto passivo abbia assunto un comportamento provocatorio, che può appunto provocare nell’agente una condizione di irascibilità che altrimenti non si sarebbe verificata e non lo avrebbe, quindi, portato ad usare, abusandone, il mezzo di correzione.
[42] Il quale, come noto, prevede l’applicazione delle aggravanti previste dalla norma soltanto se i fatti ivi elencati non siano (già) considerati quali elementi costitutivi del reato.
[43] Cfr. TRIPODI-CERIGLIONE, op. cit., p. 321, i quali escludono l’applicabilità dell’aggravante dei motivi abietti o futili, prevista dal n° l) dell’art. 61, in quanto «inconciliabile con le finalità correttive del delitto in esame, e perciò incompatibile con la configurazione dello stesso».
[44] GATTA, in AA.VV., Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Ipsoa, 2009, p. 12.
[45] Cass. 23 marzo 2016, n° 19852.
[46] Cfr. CARACENI, Misure cautelari pro victima e diritti di libertà dell’accusato: a proposito di una convivenza faticosa, in Arch. nuova proc. pen., 2017, p. 257.
[47] Magari, con l’aggiunta di prescrizioni “accessorie” che, ai sensi del comma 2° dello stesso articolo, concorrono a “modellare” la misura coercitiva principale: cfr. SPARAGNA, Le singole misure cautelari, in La cautela nel sistema penale (a cura di Bassi), Cedam, 2016, p. 93.
[48] L’accessorietà della misura di sostegno economico (così come anche quella delle prescrizioni accessorie di carattere “personale” previste dal comma 2° dell’articolo in commento), è ben scolpita dal tenore del comma 4°, per il quale «I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti anche successivamente al provvedimento di cui al comma 1, sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia se è revocato o perde comunque efficacia il provvedimento di cui al comma 1».
[49] Cfr. DE AMICIS, sub artt. 280-296 c.p.p., in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina (a cura di Lattanzi e Lupo), vol. IV, t. I, Giuffrè, 2013.
[50] Da intendersi, ai sensi dell’art. 2, lett. c) del d.lgs. 11 febbraio 2015, n° 9, come quella «decisione adottata dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro con la quale, al fine di continuare a tutelare la persona protetta, viene disposto che gli effetti della misura di protezione si estendano al territorio di altro Stato membro in cui la persona protetta risieda o soggiorni o dichiari di voler risiedere o soggiornare».
[51] Cfr. BELLANTONI, Soggetti vulnerabili e processo penale (seconda parte), in Arch. nuova proc. pen., 2017, p. 249.
[52] Cfr. TURCO, I cinque moduli del giudizio direttissimo tipico, in Arch. nuova proc. pen., 2017, p. 365.
[53] Cfr. COLOMBO, op. cit., p. 2390.
[54] Cfr. ANTOLISEI, op. cit., p. 513.
[55] Cfr. Cass. 19 gennaio 2017, n° 2669, cit.; Cass. 2 luglio 2010, n° 25138.
[56] Cfr. Cass. 13 marzo 2017, n° 11956; Cass. 26 febbraio 2016, n° 8074; Cass. 22 dicembre 2014, n° 53425, in Pluris-Banca dati on line, Wolters Kluwer, per la quale, in caso di reiterati comportamenti violenti da parte di una maestra, è configurabile il diverso e più grave reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen., a nulla rilevando le dichiarazioni di aver agito per fini educativi, non potendo l’intenzione soggettiva dell’agente portare alla sussunzione del fatto sotto l’art. 571 cod. pen., «in quanto il nesso tra mezzo e fine di correzione va valutato sul piano oggettivo, con riferimento al contesto culturale ed al complesso normativo fornito dall’ordinamento giuridico e non già dalla intenzione dell’agente»; Cass. 21 settembre 2012, n° 36564; Cass. 25 settembre 1995, n° 2609.
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