Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/05/2017 Scarica PDF
Impossibile superare il divieto di analogia in malam partem per ritenere aggravato il tentato omicidio in danno di una convivente more uxorio. (Cass. pen. 10 gennaio 2017, n. 808)
Nicola Pignatelli, Avvocato1. Il caso
Nell’occuparsi di un caso di tentato omicidio in danno di una convivente more uxorio, la Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha avuto modo di ribadire con forza il divieto di analogia in malam partem, quale cardine del nostro sistema penale. Questo il punto di maggior interesse della pronuncia, resa all’esito di un giudizio che ha visto (nei gradi di merito) condannato l’aggressore per i concorrenti reati di omicidio tentato aggravato ai sensi ai sensi dell’art. 577, comma II, cod. pen. (norma, quest’ultima, che prevede, appunto, un aggravamento di pena se l’omicidio viene commesso in danno del coniuge) e di “maltrattamenti in famiglia”.
2. Il discrimine tra le lesioni personali dolose e l’omicidio tentato
Nell’esaminare i fatti e soffermandosi in particolare sull’aggressione perpetrata ai danni della donna, il giudice del primo grado ha escluso potesse trattarsi, nel caso concreto, di lesioni volontarie e ne ha compiuto una qualificazione in termini di “omicidio tentato”, basandosi sulla ormai pacificamente condivisa necessità di valorizzare le modalità della condotta insieme a tutti gli altri elementi utili per poterne inferire con certezza l’intenzione dell’agente (essendo quest’ultima un elemento interno alla psiche del soggetto agente, il convincimento del giudice dovrà trarsi dall’analisi dei dati esteriori, con l’aiuto di massime di esperienza, da utilizzarsi, queste ultime, «con prudenza ed accortezza, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto»[1]).
Operata la detta qualificazione (confermata in appello ed anche dalla Suprema Corte[2]), il g.u.p. capitolino ha quindi applicato l’aumento di pena previsto dall’aggravante di cui all’art. 577, comma II, cod. pen., ritenendo evidentemente equiparabili i diversi status di coniuge e di convivente more uxorio.
La Corte di appello, pur riconoscendo la mancanza di una equiparazione legale tra il coniuge e il convivente more uxorio, ha confermato l’applicazione all’imputato dell’aggravante speciale prevista dalla norma appena citata, ritenendo di poter così concludere «in conformità alla evoluzione giurisprudenziale, dottrinale e del costume sociale».
3. L’inapplicabilità dell’aggravante ex art. 577, comma II, cod. pen. al tentato omicidio commesso in danno della convivente more uxorio
Pur avendo ritenuto corretta la qualificazione in termini di omicidio tentato, il punto su cui la S.C. ha invece censurato le conclusioni dei giudici di merito, ha riguardato l’applicabilità – nel caso in cui vittima di un omicidio consumato o tentato sia una convivente more uxorio – dell’aggravante che l’art. 577, comma II cod. pen. prevede per il caso in cui vittima del reato sia il coniuge dell’agente.
La Suprema Corte ha rifiutato l’equiparazione tra convivente more uxorio e coniuge sostenuta dai giudici del merito e ha correttamente accolto, sul punto, il motivo di ricorso dell’imputato[3], con un argomentare del tutto condivisibile, in quanto, pur potendosi ritenere senz’altro vero che nel tempo si è registrata un’evoluzione giurisprudenziale, dottrinale, del costume sociale e anche della legislazione su molti aspetti riguardanti la “famiglia di fatto”[4], una tale evoluzione certamente non può – in un sistema penalistico rispettoso, come il nostro, della legalità formale – fondare l’inflizione di una pena o un inasprimento della stessa, ove non sia una legge (o un atto alla stessa equiparato) a prevederlo.
La S.C., affrontando il tema, ha dapprima ricordato come, in passato, sia stata ritenuta la manifesta infondatezza della questione di legittimità del citato art. 577, comma II, cod. pen. (sollevata per disparità di trattamento rispetto all’ex coniuge e al convivente more uxorio), essendosi ritenuto non irrazionale il più grave trattamento normativo per il solo uxoricidio, tenuto conto della sussistenza del rapporto di coniugio e del carattere di tendenziale stabilità e riconoscibilità del vincolo coniugale[5], e successivamente ha richiamato la sentenza che la Corte costituzionale ha pronunciato in riferimento alla pretesa incostituzionalità dell’art. 649 cod. pen., nella parte in cui non prevede l’applicazione anche ai casi di convivenza more uxorio della causa di non punibilità per i reati contro il patrimonio previsti dal Titolo XIII del Libro II del codice[6].
Con tale pronuncia, i Giudici costituzionali, nell’escludere l’irragionevolezza della mancata equiparazione tra coniuge e convivente more uxorio, hanno rimarcato la differenza tra la convivenza more uxorio e il vincolo coniugale, mancando, la prima, dei caratteri di stabilità e certezza propri del secondo, poiché «basata sull’“affectio” quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile», con la conseguente «impossibilità di qualificare come illogica e “discriminatoria” la mancata estensione alla stessa del medesimo regime previsto per la diversa situazione che scaturisce dal matrimonio».
Nel concludere per la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, la Corte costituzionale ha poi ribadito l’esclusiva in capo al legislatore (e al suo discrezionale e non censurabile apprezzamento) delle scelte riguardanti l’assimilazione delle due diverse situazioni (di coniuge e di convivente) su aspetti ben individuati.
Ragionamento condivisibile, tanto più se – per il doveroso rispetto del principio nullum crimen, nulla poena sine lege e del conseguente divieto di analogia in malam partem in ambito penalistico[7] – si tratta, come nel nostro caso, di aggravamento del trattamento sanzionatorio: è il legislatore, e lui soltanto a dover stabilire con certezza e tassativamente non soltanto quali debbano essere i fatti costituenti reato, ma anche quali debbano essere i fatti idonei ad aggravare (o ad attenuare[8]) la pena[9].
In virtù di tali premesse, con la sentenza in commento, la S.C. – come detto – ha annullato la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto sussistente l’aggravante prevista, allo stato attuale, soltanto per il coniuge[10] e tanto ha fatto censurando come inammissibili i richiami operati dalla Corte territoriale ad una «evoluzione della interpretazione giurisprudenziale e dottrinale e del costume sociale», senza che l’opera estensiva fosse consentita da un (allo stato inesistente) «pertinente riferimento normativo»[11]: in definitiva, ciò che la Suprema Corte ha impedito nel caso concreto è stata l’estensione analogica in malam partem per via giudiziale[12] del contenuto di una norma di diritto penale sostanziale aggravatrice del trattamento sanzionatorio, pacificamente inammissibile in tema di interpretazione/applicazione delle norme penali di sfavore[13].
Pertinente riferimento normativo che, invece, ora sussiste per il partner dell’unione civile: dall’11 febbraio 2017 (data di entrata in vigore del d. lgs. 19 gennaio 2017, n° 6), il legislatore ha infatti provveduto (non senza riserve “di metodo”, da parte della dottrina)[14] a coordinare la disciplina delle unioni civili con il codice penale ed il codice di procedura penale, equiparando espressamente il partner dell’unione civile al coniuge (cfr. il nuovo art. 574-ter cod. pen.).
Nessuna equiparazione sostanziale ai medesimi fini – come si legge anche nella Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo innanzi citato – è stata invece fissata nella legge n° 76/2016 tra il coniuge e il convivente di fatto[15], il che manterrà ancora attuale la condivisibile conclusione cui è pervenuta la S.C. con la sentenza in commento, circa l’inammissibilità di applicazioni analogiche in malam partem di disposizioni riguardanti situazioni non equiparabili e non equiparate a livello legislativo[16].
Mancando quel «pertinente riferimento normativo» al convivente more uxorio, quale vittima di un omicidio (consumato o tentato), davvero incomprensibile, dunque, è apparso il riconoscimento nelle sedi di merito e, ancor prima, la stessa contestazione da parte del Pubblico ministero di un’aggravante, in relazione ad un soggetto che riveste la qualità di convivente; qualità che in nessun caso – e neanche in virtù della ormai pacifica e apprezzabile evoluzione del pensiero legislativo e sociale sull’argomento – può farsi rientrare nel ben distinto e diverso concetto di “coniuge”[17].
4. Il reato di maltrattamenti in famiglia
Come abbiamo visto, l’aggressore è stato anche condannato (con sentenza confermata sul punto in sede di legittimità) per il diverso reato di “maltrattamenti in famiglia” di cui all’art. 572 cod. pen.
Questa norma, originariamente rubricata “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, è stata poi oggetto di una riformulazione “evolutiva” ad opera della legge 1° ottobre 2012, n° 172 che ha modificato la rubrica dell’articolo in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi” e ha inserito tra i soggetti passivi dell’azione delittuosa anche le persone “comunque conviventi”.
Non vi è quindi dubbio che, per un espresso intervento legislativo, la condotta dell’aggressore nel caso in esame possa farsi rientrare nella previsione incriminatrice, senza forzature in chiave analogica del testo normativo. Questo, ovviamente, nel caso in cui la condotta sia stata posta in essere dopo l’entrata in vigore della novella.
Tuttavia, pur non sapendo quando sia stato commesso il reato di maltrattamenti nel caso di cui ci stiamo occupando, va messo in evidenza come alla stessa condanna si sarebbe potuti pervenire anche nella vigenza del vecchio testo dell’art. 572 cod. pen., il quale prevedeva tra i soggetti passivi, per quel che qui interessa, le “persone della famiglia” tout court, senza aggiungervi presupposti formali di parentela e/o di coniugio.
Una tale affermazione, consolidata in giurisprudenza, a ben vedere è (stata, nel tempo) più che rispettosa dei principi qualificanti il diritto penale sostanziale: nullum crimen, nulla poena sine lege, divieto di analogia in malam partem e possibilità di interpretazione estensiva che non travalichi il senso delle espressioni e dei termini utilizzati dal legislatore.
E questo perché, se nel caso che ci ha principalmente occupati in questo commento, la questione (correttamente) risolta dalla S.C. ha riguardato l’impossibilità di far rientrare – ai fini dell’aggravamento di pena – nel concetto di “coniuge” chi coniuge non è (ossia il convivente more uxorio), nel diverso caso dei “familiari passibili di maltrattamenti”, anche prima della opportuna equiparazione legislativa del 2012, si è trattato di dover dare esatto significato, appunto, al concetto di “familiare”, traendo spunti interpretativi, questa volta sì, dalla evoluzione della considerazione sociale e anche legislativa del concetto di famiglia, da lungo tempo ormai, per quanto attiene a questo aspetto, non più “classicamente” inteso quale sinonimo di “famiglia legittima fondata sul matrimonio”.
Il tutto, in ossequio alla distinzione – ormai pacificamente accolta sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza – tra interpretazione estensiva ed analogia.
Come noto, la prima, a differenza della seconda, è ammessa anche per le norme incriminatrici o aggravatrici, anche se si sottolinea la difficoltà di distinguere in molti casi i due procedimenti ermeneutici: così si dice che «l’interpretazione estensiva è pur sempre collegata al senso delle parole normativamente espresse […], l’analogia presuppone, invece, che l’ipotesi concreta non sia in alcun modo riconducibile all’ambito semantico della norma»[18].
E così, se in futuro sarà scontato leggere di pronunce che, in relazione a fatti commessi dopo la novella, non possono che riconoscere la sussistenza del reato di cui all’art. 572 cod. pen. anche in danno del convivente more uxorio (e a fortiori, del partner di un’unione civile), di sicuro interesse, avviandoci a concludere, sono le affermazioni fatte dai giudici in questi anni, per giustificare – anche alla luce della prima parte dell’art. 2 Cost. ed in un’ottica di maggiore protezione della personalità dei soggetti passivi dei maltrattamenti – l’interpretazione estensiva[19] del termine “famiglia”, presente nel vecchio testo dell’articolo in discorso: «Non v’è dubbio, che la tutela apprestata dalla norma penale si estenda anche alla famiglia di fatto […], atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo»[20], con sporadiche “prese di posizione” tendenti a sminuire la portata del fattore tempo, purché vi sia almeno la «prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione»[21].
In continuità con tale indirizzo, anche di recente, si è valorizzata la decisione di gestire in comune l’alloggio della famiglia di fatto, quale indice in grado di far emergere quel «rapporto di stretta dipendenza affettiva e relazionale che rappresenta il presupposto del reato di maltrattamenti in famiglia»[22].
Proprio il riferimento alla coabitazione, serve alla giurisprudenza per segnare il distinguo tra il coniuge separato ed il convivente di fatto ai fini dell’art. 572 cod. pen.: invero, se per ritenere “familiare” un soggetto non legato da vincoli legali di parentela o coniugio si è pretesa dalla giurisprudenza prevalente l’esistenza di rapporti di assistenza e solidarietà inseriti in un consorzio di vita caratterizzato anche dalla coabitazione[23], per ammettere la sussistenza del reato in danno di un coniuge separato (anche di fatto), si è ritenuta ininfluente la coabitazione stessa e ciò in quanto, il coniuge separato, indipendentemente dalla coabitazione, comunque è un familiare, nei cui confronti, seppur diversamente atteggiantisi, persistono i doveri di solidarietà e reciproco rispetto nascenti dal matrimonio[24], la cui violazione offende la dignità e la personalità della vittima[25] anche in assenza di un attuale consorzio di vita.
In definitiva, può dirsi come il tema della rilevanza della famiglia di fatto e della convivenza more uxorio in particolare – pur avendo registrato significative evoluzioni a livello legislativo e giurisprudenziale, ad esempio, nell’ambito del diritto privato o in quello processualpenalistico – una volta calato nell’ambito del diritto penale sostanziale, non può che confrontarsi con la peculiarità delle regole interpretative e dogmatiche proprie di questo, con la necessità di adeguarvisi, per evitare di incorrere nella violazione di principi posti a livello anche costituzionale.
E così, se nel passato (prima, cioè, dell’entrata in vigore della legge n° 172/2012), correttamente la giurisprudenza ha fondato la punibilità per il reato di cui all’art. 572 cod. pen. (vecchio testo) su una consentita estensione del campo semantico dell’espressione “persona della famiglia”, non così può fare l’interprete allorquando è chiamato a fare applicazione di norme nelle quali figurano termini dal significato ben circoscritto, l’inclusione nel quale di concetti non sovrapponibili finisce col risolversi in una inammissibile applicazione analogica contra reum.
Solo l’equiparazione, per via legislativa, di soggetti il cui status è incontestabilmente diverso (così come è accaduto, lo abbiamo visto, per il partner dell’unione civile) potrà quindi fondare un’estensione dell’area del penalmente rilevante o un aggravamento del trattamento sanzionatorio e tanto potrà avvenire soltanto se il legislatore riterrà in futuro di potersi spingere ad una equiparazione completa tra lo status dei soggetti coniugati e lo status dei soggetti che vivono un’altra e certamente lecita dimensione affettiva; dimensione affettiva – quella concretantesi nella convivenza more uxorio – in buona parte ma non in tutto sovrapponibile al rapporto di coniugio, nel quale i soggetti che vi danno vita sono appunto dei coniugi (costituiti tali dall’atto di matrimonio) e non già dei conviventi, che potranno ben rientrare nella cerchia generale dei “familiari” nell’accezione ormai evoluta del termine, ma non in quella (cerchia) speciale e più ristretta dei “coniugi”.
[1] G. MARINUCCI-E. DOLCINI, op. cit., p. 289. La necessità di un accertamento rigoroso della reale volizione dell’agente (se sia, cioè, indirizzata all’evento morte o, se al contrario, sia indirizzata a provocare l’evento tipico delle lesioni) acquista ancor di più carattere di imprescindibilità proprio in tema di aggressioni dolose al bene giuridico “incolumità individuale”, in quanto il nostro diritto penale conosce figure contigue (appunto, le lesioni dolose nelle varie “gradazioni” e l’omicidio tentato) che – entrambe caratterizzate dall’assenza dell’evento morte – finiscono col distinguersi proprio (e soltanto) in base al diverso atteggiamento psicologico dell’agente/aggressore: valga, al riguardo, quanto si è autorevolmente sostenuto da E. MORSELLI, Condotta ed evento nella disciplina del tentativo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, p. 44: «Si prenda in considerazione un tentativo di omicidio, con ferimento al corpo della vittima. Esteriormente, niente, assolutamente niente, distingue codesto tentativo di omicidio, dalle lesioni personali. Ciò che impedisce a questo ferimento di essere una semplice lesione, per trasformarsi in un fatto molto più grave, quale è il tentativo di omicidio, è esclusivamente l’intenzione di uccidereche ha diretto e sorretto l’azione criminosa del soggetto. Se mancasse all’azione questa precisaintenzionalità, cadremmo in un vicolo cieco, perché non resterebbe più alcuna distinzione possibile tra una lesione personale ed un tentativo di omicidio. Più che mai nel tentativo rifulge quindi quella che è la funzione del dolo come “portatore del significato dell’illecito”».
[2] Si legge nella sentenza in commento che «la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, deve essere, in particolare, desunta attraverso un procedimento inferenziale, analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario, da fatti esterni o certi, aventi un sicuro valore sintomatico, e in particolare da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei a esprimere il fine perseguito dall’agente secondo quod plerumque accidit, quali esemplificativamente il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi».
[3] Annullando in parte qua la sentenza e rinviando per la rideterminazione della pena ad altra Sezione della Corte d’appello.
[4] Per un quadro della normativa e della giurisprudenza riguardante la famiglia di fatto, v. M. DOGLIOTTI, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto, in Fam. dir., 2016, p. 871 e ss.
[5] Cass. 22 febbraio 1988, n° 6037, in Giust. Pen., 1989, II, 207. Si veda anche Cass. 27 febbraio 2007, n° 8121.
[6] Ci si riferisce a C. cost. 25 luglio 2000, n° 352, in Cass. pen., 2001, p. 28. In argomento, si veda anche Cass. 18 novembre 2009, n° 44047, in Pluris-Banca dati online, Wolters Kluwer.
[7] Per F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit. p. 69, «Nei sistemi penali fondati sulla legalità formale, il divieto dell’analogia è il naturale risvolto garantista dello stesso principio del nullum crimen, nulla poena sine lege».
[8] Per le attenuanti o per le cause di non punibilità ed in genere per le norme penali di favore, in dottrina si registra un orientamento, tuttavia non unanime, che tende ad ammettere l’analogia, poiché trattasi, in tali casi, di analogia in bonam partem: non essendo qui possibile dar conto compiutamente del pensiero dei sostenitori di tale orientamento e di quello ad esso contrapposto, si rinvia a F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit. p. 72.
[9] E si vedano, ad esempio, le modifiche all’art. 600-sexies, comma II, cod. pen., che hanno portato all’inclusione del convivente dell’ascendente o del genitore di un minore tra i soggetti la cui condotta assume valenza più grave, in materia di induzione, favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione minorile, di pornografia minorile, di riduzione o mantenimento di minori in schiavitù o servitù, di tratta di minori o di acquisto o alienazione di schiavi di età minore: cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale I. Delitti contro la persona, IIa ed., Cedam, 2005, p. 455.
[10] L’aggravante in discorso potrà applicarsi anche allorquando l’omicidio (consumato o tentato) venga perpetrato nei confronti del coniuge separato di fatto (cfr. Cass. 19 ottobre 1982, in Pluris-Banca dati online, Wolters Kluwer)e nei confronti di quello legalmente separato (Cass. 1° febbraio 2011, n° 7198; Cass. 19 dicembre 2006, n° 42462; Cass. 9 gennaio 1985, n° 53, in Pluris-Banca dati online, Wolters Kluwer), ma non già allorquando il matrimonio sia stato annullato o sciolto (R. RICCIOTTI, sub art. 577, in Comm. breve al cod. pen. (a cura di Crespi, Stella, Zuccalà), IIa ed., Cedam, 1992, p. 1257; F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale I. Delitti contro la persona, cit., p. 101) o ne siano cessati gli effetti civili o, ancora, quando tra reo e vittima vi sia soltanto un matrimonio religioso non trascritto nei registri dello stato civile (V. MANZINI, Trattato di dir. pen. italiano (aggiornato da P. Nuvolone e G. D. Pisapia), vol. VIII, Utet, 1985, p. 58; F. MANTOVANI, op. loc. ult. cit.). La giurisprudenza ha ritenuto applicabile l’aggravante anche ai rapporti tra cittadini stranieri uniti in matrimonio all’estero (v. Cass. 3 luglio 2012, n° 29709).
[11] Sul punto, T. PADOVANI, op. cit., 33, per il quale «il principio di tassatività costituisce la proiezione verso l’esterno del principio di determinatezza: esso vincola cioè l’interpretazione giudiziale a ricondurre nella fattispecie incriminatrice (o aggravatrice) soltanto i casi da essa “espressamente preveduti”. È quindi preclusa l’analogia (sia legis: in rapporto a singole disposizioni che regolino casi simili a quello considerato, sia iuris: in rapporto ai principi generali dell’ordinamento, allorché manchino disposizioni concernenti casi simili) nei confronti di norme incriminatrici, o comunque sfavorevoli».
[12] Pacifica è l’affermazione per cui, nella materia penale, il divieto di analogia in malam partem (espressamente sancito dall’art. 1 cod. pen. e dall’art. 14 delle “Disposizioni sulla legge in generale” e implicitamente riconosciuto dall’art. 25, Cost.) è, in primis, rivolto al giudice: cfr. C. FIORE, Dir. pen., Parte generale I, Utet, 2000, p. 76; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, op. cit., p. 55.
[13] Queste le parole della Corte: «Sulla base di tali principi, che il Collegio condivide e riafferma, non appare condivisibile l’iter logico-argomentativo della sentenza impugnata, che, al di fuori di un pertinente riferimento normativo e richiamando l’evoluzione della interpretazione giurisprudenziale e dottrinale e del costume sociale, finisce con l’estendere, in forza di una non consentita applicazione analogica, il contenuto di una norma di diritto penale sostanziale, come tale, di stretta interpretazione».
[14] Critiche, sotto un profilo di “tecnica legislativa”, all’estensione operata dal d. lgs. n° 6/2017 in virtù dell’art. 1, comma 28°, lett. c) della legge 20 maggio 2016, n° 76, si leggono in P. PITTARO, I profili penali della L. n° 76/2016, in Fam. dir., 2016, p. 1012 e in E. PICCATTI, Con i decreti attuativi si delineano alcuni contorni penalistici delle unioni civili, in ilPenalista.it, 21 febbraio 2017.
[15] E valga, al riguardo, la “generale” affermazione di M. DOGLIOTTI, op. cit., p. 880: «la convivenza (o meglio, la famiglia) di fatto sta più fuori che dentro la legge n° 76». Di «modello ad intensità minore» rispetto alle unioni civili, parla L. BALESTRA, Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, in Giur. it., 2016, p. 1785.
[16] Per un primo commento al D. lgs. n° 6/2017, v. G. L. GATTA, Unioni civili tra persone dello stesso sesso: profili penalistici, in www.penalecontemporaneo.it, 31 gennaio 2017.
[17] Cfr. G. L. GATTA, Unioni civili tra persone delle stesso sesso e convivenze di fatto: i profili penalistici della Legge Cirinnà, in www.penalecontemporaneo.it, 11 maggio 2016: «è altresì noto come, in assenza di interventi del legislatore, il giudice penale non possa adeguare la norma alla mutata realtà sociale dei rapporti di coppia, trovando un ostacolo insuperabile ora nel divieto di analogia (quando l’interpretazione evolutiva produrrebbe effetti in malam partem), ora nel carattere eccezionale delle disposizioni via via considerate (nel caso, invece, di effetti in bonam partem)».
[18] Così, testualmente, T. PADOVANI, op. cit., 34. Nello stesso senso, F. ANTOLISEI, Manuale di dir. pen. Parte generale, XVIa ed., Giuffrè, 2003, p. 98; F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit. p. 71; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, op. cit., p. 56.
[19] In applicazione del c.d. “metodo teleologico”, in virtù del quale «l’interprete si deve sforzare di attualizzare il senso della norma, in base al più congruo scopo di tutela che ad essa può essere assegnato nel preciso momento in cui si procede all’atto interpretativo»: così G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, IIIa ed., Zanichelli, 1999, p. 106.
[20] Cass. 22 ottobre 2009, n° 40727; Cass. 22 maggio 2008, n° 20647, in Giur. it., 2009, p. 705, con nota di S. FERRARI, A proposito della «convivenza» quale presupposto dei maltrattamenti in famiglia; Cass. 31 maggio 2007, n° 21329, in Cass. pen., 2008, p. 2858, con nota di S. BELTRANI, La (mutevole) rilevanza della famiglia di fatto nel diritto penale; Cass. 21 novembre 2006, n° 38109, in Fam. dir., 2007, p. 160, con nota di P. PITTARO, La convivente violentata, avendo presentato querela irrevocabile, non può “coprire” il partner al dibattimento minimizzando le precedenti dichiarazioni; Cass. 7 dicembre 1979, in Cass. pen., 1981, p. 1228; Trib. Busto Arsizio, 9 aprile 2010.
[21] Cass. 8 novembre 2005 n° 44262; Cass. 24 febbraio 2003, n° 8848. Cfr. P. PITTARO, op. cit., p. 164; S. FERRARI, op. cit., p. 706.
[22] Cass. 2 marzo 2016, n° 8041.
[23] Si veda Cass. 7 luglio 2015, n° 32156, in Dir. pen. proc., 2015, p. 1390, con nota di A ROIATI, Sul ruolo da attribuire al requisito della convivenza nella fattispecie dei maltrattamenti in famiglia.
[24] Cass. 17 aprile 2009, n° 16658, in Giur. it., 2010, p. 397; Cass. 27 giugno 2008, n° 26571; Cass. 22 settembre 2003, n° 49109, in Riv. pen., 2005, p. 230; Cass. 26 gennaio 1998, n° 282, in Cass. pen., 1999, p. 1803; Trib. Rovereto, 26 giugno 2001, in Giur. merito, 2002, p. 788. Non concorda sull’ininfluenza della mancanza di coabitazione, S. FERRARI, op. cit., p. 708, per il quale la nozione di “persona della famiglia” deve essere ancorata alla “casa”, soltanto così potendosi ammettere che, ai fini della sussistenza del reato, saranno «persone della famiglia (da intendersi sia come famiglia legittima che di fatto) tutte quelle che vivono insieme o godono comunque, ancorché non conviventi, di un libero accesso alla “casa”», quale luogo in cui «la vittima dovrebbe trovare protezione anziché violenza».
[25] Cfr. L. TARASCO, Maltrattamenti in famiglia o verso conviventi: prospettive di “ulteriore” riforma, in Dir. pen. proc., 2015, p. 81.
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