CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 31/01/2017 Scarica PDF

Sul rapporto tra verifica del passivo e giudizi pendenti su domande pregiudiziali all'accertamento dei crediti

Edoardo Staunovo-Polacco, Avvocato in Milano


Sommario: 1. Premessa; 2. L’art. 72, quinto comma, l. fall.; 3. L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo: le eccezioni previste dalla legge; 4. Gli ordinari giudizi di cognizione nella verifica dei crediti; 5. I principi ricavabili dall’applicazione congiunta degli artt. 96, comma 3, n. 3 e 72, quinto comma, l. fall.; 6. Le argomentazioni di Cass. 3953/2016: critica; 7. L’ambito applicativo del principio della trasmigrazione dell’intera controversia nella sede della verifica del passivo e le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie; 8. Il rapporto tra le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie e la verifica del passivo.


     

1. Premessa

A più di dieci anni di distanza dalla riforma organica della legge fallimentare (d.lgs. 5/2006), i rapporti tra i processi “pendenti” alla data della dichiarazione di fallimento e la verifica del passivo continuano ad essere oggetto di incertezze e di indirizzi interpretativi contrastanti.

Il problema ha evidenza normativa nell’art. 72, quinto comma, l. fall., sul quale si tornerà a breve, ma si pone più in generale ogni volta che, alla data dell’apertura della procedura fallimentare, penda un processo avente ad oggetto una questione dalla quale dipende il riconoscimento di un credito da fare valere al passivo fallimentare. La questione può sintetizzarsi in questi termini: dal momento che ogni pretesa restitutoria o risarcitoria nei confronti del fallito deve essere sottoposta, per forza di cose, alla cognizione del giudice delegato, le domande proposte nelle sedi ordinarie prima della dichiarazione di fallimento che abbiano per oggetto gli antecedenti logico-giuridici di quelle pretese possono essere decise in quelle sedi o debbono essere attratte, anch’esse, alla sede della verifica?

Chi scrive ha avuto occasione di occuparsi della sorte della domanda di risoluzione del contratto, proposta contro il fallito quando ancora in bonis, annotando brevemente una sentenza di merito che quella questione aveva risolto; in quel frangente, si era sostenuto che anche le domande pregiudiziali rispetto al diritto di  credito vantato contro il fallito dovessero essere trasferite nella sede della verifica dei crediti, eccezion fatta per i casi nei quali la sentenza che avesse pronunciato su quelle domande fosse destinata ad essere fatta valere in sedi diverse da quella concorsuale, ad esempio per l’escussione di un fideiussore[1].

Una riflessione più articolata ed alcuni importanti distinguo si rendono peraltro opportuni, sia in ragione della brevità di quelle osservazioni, sia soprattutto perché, nel corso del 2016, la Cassazione è intervenuta in argomento due volte, con due pronunce, a brevissima distanza l’una dall’altra, giungendo ad opposte conclusioni (Cass. 29 febbraio 2016, n. 3953 ha affermato la procedibilità della domanda pregiudiziale nelle sedi ordinarie[2], mentre Cass. 21 gennaio 2016, n. 1083 si è pronunciata nel senso dell’attrazione di quella domanda al rito dell’accertamento del passivo, in una liquidazione coatta amministrativa).

   

2. L’art. 72, quinto comma, l. fall.

Conviene muovere dall’analisi dell’art. 72, quinto comma, l. fall.; norma, questa, introdotta con la Novella del 2006 e diretta a disciplinare la sorte dell’azione di risoluzione contrattuale, promossa prima della dichiarazione di fallimento di una delle parti. Con questa disposizione, il legislatore ha inteso risolvere un problema che, nel vigore della previgente disciplina, aveva ricevuto la seguente soluzione: (i) dal punto di vista sostanziale, la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno, ancorché riferiti a pregressi inadempimenti della controparte, non potevano essere richiesti – in alcuna sede – se la risoluzione non fosse stata domandata dalla parte in bonis prima della dichiarazione di fallimento, stante l’indisponibilità dei beni acquisiti al fallimento ed a tutela dei principi che regolano la ripartizione dell’attivo[3]; (ii) dal punto di vista processuale, l’azione di risoluzione proposta anteriormente all’apertura della procedura avrebbe potuto proseguire nelle sedi ordinarie, sebbene per le eventuali e conseguenziali pretese risarcitorie restasse funzionalmente competente il tribunale fallimentare, per cui ogni domanda avrebbe dovuto essere proposta nelle forme e secondo il rito dell’accertamento del passivo[4].

L’art. 72, quinto comma, l. fall. oggi così dispone: “l'azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l'efficacia della trascrizione della domanda”, ed aggiunge che “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V”.

Il richiamo alle “disposizioni del Capo V” è da intendersi riferito alle norme che disciplinano il procedimento di accertamento del passivo e dei diritti reali dei terzi, caratterizzato dal canone dell’esclusività, in forza del novellato art. 52, secondo comma, l. fall., che prevede che “ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, primo comma, n. 1, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”.

Il combinato disposto dell’art. 72, quinto comma, con l’art. 52 l. fall. consente di elaborare due principi sui quali gli indirizzi interpretativi sono univoci:

- dal punto di vista sostanziale, l’azione di risoluzione ha effetti nei confronti della curatela solo qualora sia stata promossa prima dell’apertura della procedura e sempre che, ove la domanda sia trascrivibile, le relative formalità siano state adempiute prima della dichiarazione di fallimento;

- dal punto di vista processuale, le domande di restituzione e di risarcimento danni che conseguono alla risoluzione del contratto non possono proseguire nelle sedi ordinarie ma devono essere proposte sotto forma di domande di ammissione al passivo o, a seconda dei casi, di rivendicazione o di restituzione.

L’art. 72, quinto comma, non chiarisce però quale sia la sorte delle domande che abbiano per oggetto le questioni che costituiscono l’antecedente logico-giuridico della pronuncia risarcitoria o restitutoria, ossia quelle inerenti alla risoluzione del contratto: la norma non prevede espressamente se anche questa domanda debba essere sottoposta al rito dell’accertamento del passivo ovvero se possa proseguire nella sede processuale in cui sia stata introdotta, mediante riassunzione del processo, che è stato interrotto dalla dichiarazione di fallimento ex art. 43 l. fall..

   

3. L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo: le eccezioni previste dalla legge

Il fatto che, a seguito della riforma del 2006, l’art. 52, secondo comma, l. fall. stabilisca che “ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, primo comma, n. 1, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”, dimostra come il dogma dell’esclusività dell’accertamento del passivo sia stato ribadito e finanche rafforzato dalla Riforma: questo principio, infatti, è stato mantenuto, come dimostra l’incipit della previsione, che è rimasto invariato (“ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”), ma è stato oltretutto rafforzato (ed ampliato) perché,  fra i crediti soggetti alla verifica fallimentare, ricadono oggi quelli prededucibili (come dimostra il riferimento all’art. 111 l. fall.), e i diritti reali immobiliari (che l’abrogato art. 24 l. fall. lasciava fossero conosciuti secondo le ordinarie regole di competenza); a ciò si aggiunga l’espressa previsione, contenuta nel comma terzo dell’art. 52 l. fall., secondo cui anche i crediti esentati dal divieto di azioni esecutive individuali ex art. 51 l. fall. (in particolar modo i crediti fondiari) devono essere accertati secondo le disposizioni del Capo V.

A parere di chi scrive, l’art. 52 l. fall., nel sottoporre ad un determinato rito, e nell’attribuire in via esclusiva ad un certo organo giurisdizionale, la decisione sui crediti che possono trovare spazio nella procedura fallimentare, attribuisce a quell’organo e sottopone a quel rito anche la cognizione di tutti gli antecedenti logico-giuridici che ne costituiscono il presupposto.

Tuttavia, l’art. 52, secondo comma, l. fall. contiene una clausola di chiusura che fa salve le “diverse disposizioni della legge”. Fra di esse si rammenta ad es. l’art. 111-bis, primo comma, l. fall., che espressamente esclude dall’obbligo di verifica i crediti prededucibili non contestati per collocazione ed ammontare, ovvero l’art. 56 l. fall., che consente la compensazione, al di fuori dal concorso, dei crediti e debiti del fallito verso lo stesso soggetto.

Ci si deve chiedere pertanto se anche l’art. 72, quinto comma, l. fall. rappresenti una di queste eccezioni, esonerando dal rito dell’accertamento del passivo la domanda di  risoluzione del contratto proposta prima della dichiarazione di fallimento, assoggettando a quel rito solo le consequenziali domande risarcitorie e restitutorie. Se la risposta fosse affermativa, la questione descritta in apertura dovrebbe evidentemente risolversi nel senso della proseguibilità della domanda di risoluzione nelle sedi ordinarie.

Chi scrive, però, si mostra di contrario avviso.

Si è già detto che l’art. 72, quinto comma, l. fall., disponendo che “l'azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l'efficacia della trascrizione della domanda”, non fa altro che tradurre in legge il principio consolidato secondo il quale il diritto di agire in giudizio per la risoluzione del contratto non può essere esercitato dopo la dichiarazione di fallimento della parte inadempiente, e che, se si tratta di rapporti soggetti a trascrizione, la domanda, oltre a precedere l’apertura della procedura, deve essere anche trascritta in data anteriore. La norma non contiene, quindi, nessuna deroga alle regole procedurali; essa individua soltanto le condizioni per rendere opponibile al curatore la domanda risarcitoria, conseguente alla risoluzione del contratto.

Nessuna eccezione, inoltre, può trarsi dal secondo periodo dell’art. 72, quinto comma, legge fall. ove si legge che “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V”: la norma si occupa soltanto delle domande restitutorie e risarcitorie, senza prevedere espressamente che la domanda di risoluzione possa proseguire nelle sedi ordinarie; al contempo, l’art. 72, comma 5, l. fall., limitandosi ad affermare che è soggetta alla verifica dei crediti “la domanda”, non chiarisce se in quella locuzione sia compresa, oltre alla domanda risarcitoria o restitutoria, anche quella di risoluzione che, rispetto alla prima, si pone come pregiudiziale.

   

4. Gli ordinari giudizi di cognizione nella verifica dei crediti

Nell’impossibilità di individuare, all’interno dell’art. 72, quinto comma, l. fall., un’eccezione alla regola generale sancita dall’art. 52, secondo comma, l. fall., bisogna ora chiedersi se sia coerente con il rito dell’accertamento del passivo l’innesto nella verifica fallimentare dei crediti di ordinari giudizi di cognizione, destinati a riverberarsi con efficacia vincolante sulla decisione di ammissione, come accadrebbe se l’azione di risoluzione intrapresa anteriormente alla dichiarazione di fallimento potesse proseguire nelle sedi ordinarie.

Ad avviso di chi scrive la risposta deve essere, almeno in linea di principio, negativa.

La legislazione concorsuale contiene, infatti, una norma che disciplina espressamente un caso di deroga parziale al principio del concorso formale: si tratta dell’art. 96, terzo comma, n. 3, l. fall., che prevede l’ammissione al passivo con riserva de “i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento”, precisando poi che “il curatore può proporre o proseguire il giudizio di impugnazione”.

Questa disposizione (che ha sostituito l’abrogato art. 95, penultimo comma, l. fall., in forza del quale “se il credito risulta da sentenza non passata in giudicato, è necessaria l’impugnazione se non si vuole ammettere il credito”), deroga al principio dell’esclusività del rito dell’accertamento del passivo, ma con una ratio ed una regola ben precisa. Quanto alla ratio, il legislatore ha voluto riconoscere autorità alla pronuncia giurisdizionale anteriore alla dichiarazione di fallimento, anche se non passata in giudicato, lasciando al curatore la scelta di impugnarla o di proseguire l’impugnazione già proposta dal debitore in bonis. Quanto poi alla regola, si è prevista l’ammissione del credito con riserva, ossia una decisione sul credito che subordina lo scioglimento della riserva al passaggio in giudicato del provvedimento emesso nelle sedi ordinarie (che comporterà l’ammissione al passivo pura e semplice, se verrà confermato in sede di gravame, ovvero lo scioglimento della riserva, con esclusione piena o parziale a seconda della riforma integrale o pro-parte del provvedimento).

Si tratta di una disciplina ben difficilmente esportabile al caso della domanda di risoluzione del contratto “pendente” alla data della dichiarazione di fallimento, per più concorrenti ragioni. Prima di tutto, l’interpretazione analogica dell’art. 96, comma terzo, n. 3 legge fall. è impedita dalla natura eccezionale della norma. In secondo luogo, essa si fonda su un presupposto (l’opponibilità al fallimento di una sentenza che si è pronunciata positivamente sul credito prima della dichiarazione di fallimento), che può mancare nel caso di risoluzione del contratto, vuoi perché la causa pende ancora in primo grado, vuoi perché il giudizio di prime cure potrebbe essersi concluso senza una pronuncia che abbia accertato il credito (ad esempio – per rimanere nell’ambito che ci occupa – ogniqualvolta la parte che ha chiesto la risoluzione non abbia accompagnato la domanda ad una pronuncia risarcitoria o restitutoria). Infine la norma de qua prevede che il credito venga ammesso al passivo con riserva, il che, nell’attuale situazione normativa, non può avvenire quando non sia stata emessa ancora una pronuncia che abbia accertato come esistente il credito, pur non essendo ancora passata in giudicato. 

   

5. I principi ricavabili dall’applicazione congiunta degli artt. 96, comma 3, n. 3 e 72, quinto comma, l. fall.

Dall’esame congiunto dell’art. 96, comma 3, n.3 e dell’art. 72, quinto comma l. fall., peraltro, si possono trarre le seguenti regole:

(i) quando la pronuncia di risoluzione del contratto sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento e, con essa, sia stato riconosciuto il credito restitutorio o risarcitorio, o il diritto alla restituzione di un bene, il giudice della verifica deve accogliere negli esatti termini la domanda del creditore o del titolare del diritto [considerazione ovvia, visto che non si è neppure in presenza di un “processo pendente”, e pertanto l’art. 72, quinto comma, l. fall. non opera, n.d.a.];

(ii) quando la pronuncia di risoluzione del contratto sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento senza alcuna pronuncia accessoria di risarcimento o restituzione, il giudice della verifica è vincolato quanto alla risoluzione disposta nelle sedi ordinarie e può essere investito della decisione sulla restituzione di somme o di beni o sul risarcimento del danno [anche in questo caso il processo non è più pendente, almeno quanto alla risoluzione, e per il resto l’obbligatorietà del rito dell’accertamento del passivo è pacifica, n.d.a.];

(iii) quando la pronuncia di risoluzione del contratto non sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento e, con essa, sia stato riconosciuto il credito restitutorio o risarcitorio, o il diritto alla restituzione di un bene, il giudice della verifica, deve ammettere al passivo ex art. 96, terzo comma, n. 3, la domanda di insinuazione, avente per oggetto quel credito, con riserva, da sciogliersi all’esito dell’impugnazione.

In tutti gli altri casi, e cioè qualora (i) il giudizio sulla risoluzione penda ancora in primo grado, ovvero (ii) si sia concluso in primo grado con il rigetto della domanda di risoluzione, o ancora (iii) quest’ultima sia stata accolta in primo grado, senza che in questo contesto fosse stata chiesta la condanna al risarcimento del danno o alla restituzione della prestazione, il problema rimane aperto.

La sua soluzione non può prescindere dalla considerazione che il legislatore della riforma fallimentare ha modellato la disciplina della verifica dei crediti in senso spiccatamente acceleratorio, per consentire la conclusione in tempi brevi (o comunque ragionevoli) sia della fase “necessaria”, davanti al giudice delegato, sia di quella “eventuale”, di impugnazione (in tutte le sue forme) del decreto di accertamento del passivo.

Nella fase “necessaria” sono emblematici in tal senso – fra gli altri – l’anticipazione del termine per le domande tempestive a trenta giorni prima dell’udienza di verifica, rispetto alla data dell’esecutività dello stato passivo come nella precedente disciplina; l’introduzione di un termine anticipato rispetto all’ultima ripartizione dell’attivo oltre il quale le dichiarazioni tardive di credito sono inammissibili (eccezion fatta per i casi di ritardo non imputabile); ed altresì la modifica del procedimento relativo alle domande tardive che, oggi, è modellato su quello delle domande tempestive, mentre nella precedente disciplina poteva sfociare, in caso di contestazioni, in un ordinario giudizio di cognizione.

Quanto poi alla fase eventuale, le impugnazioni sono ora rette dal rito camerale ed è stato soppresso un grado di merito, non essendo più prevista la possibilità di proporre appello contro la decisione del tribunale fallimentare, ma solo di ricorrere in  Cassazione.

La situazione, dunque, nella legge fallimentare vede un solo caso, in cui l’accertamento del passivo cede il passo ad un giudizio ordinario, instaurato prima del fallimento: si tratta dell’art. 96, terzo comma, n. 3 l. fall. al quale abbiamo già fatto richiamo. Al di fuori di questa ipotesi e di quella, pure espressamente prevista dalla legge, dei crediti tributari contestati, da ammettere anch’essi con riserva da sciogliersi ai sensi dell’art. 88, 2º comma, d.p.r. n. 602 del 1973 allorché sia stata definita la sorte dell’impugnazione esperibile davanti al giudice tributario[5], nessun’altra eccezione.

Se quanto precede è corretto, a chi scrive pare frutto di una forzatura pretendere la prosecuzione in sede ordinaria della (sola) domanda di risoluzione del contratto, quando nessun indice normativo in tal senso può ricavarsi neanche dall’art. 72, quinto comma l. fall.; tenuto conto, poi, che il sistema dell’accertamento del passivo nel fallimento è spinto verso l’accelerazione, obiettivo, di certo, non perseguibile in caso di necessario coordinamento (in thesi) tra giudizi pendenti davanti a giudici diversi. Ciò era predicabile nell’assetto normativo anteriore alla riforma, ed infatti la giurisprudenza ammetteva la procedibilità dell’azione di risoluzione nelle sedi ordinarie; ma all’epoca, lo stesso giudizio di accertamento del passivo conosceva alcune fasi nelle quali trovava applicazione il rito ordinario di cognizione (rammentiamo le fasi conteziose delle insinuazioni tardive ed i giudizi di opposizione, impugnazione e revocazione dei crediti ammessi): caratteristica, questa, del tutto assente nel sistema novellato.

   

6. Le argomentazioni di Cass. 3953/2016: critica

Si è fatto cenno, in premessa, ad una recente pronuncia di Cassazione (Cass. 29 febbraio 2016, n. 3953), che si è espressa in senso opposto sul tema che ci occupa.  La massima è la seguente: “le domande principali (prodromiche) di simulazione e risoluzione contrattuale, trascritte anteriormente alla dichiarazione di fallimento della parte convenuta in giudizio, proseguono legittimamente con il rito ordinario attesa l'opponibilità della relativa sentenza alla massa dei creditori in ragione dell'effetto prenotativo della trascrizione, mentre le pretese, accessorie, di restituzione e risarcimento del danno devono necessariamente procedere, previa separazione dalle prime, nelle forme degli art. 93 e ss. l.fall., in quanto assoggettate alla regola del concorso e non suscettibili di sopravvivere in sede ordinaria”.

La sentenza, resa in un giudizio di simulazione e risoluzione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare con la domanda debitamente trascritta al momento della dichiarazione di fallimento di una delle due parti, ha riconosciuto la proseguibilità del processo nella sede ordinaria..

La conclusione è stata argomentata invocando, in primo luogo, proprio il fatto che la domanda, avendo ad oggetto beni immobili, fosse stata trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento, e pertanto attribuendole effetti  “prenotativi”.

Ora, nessuno nega una siffatta efficacia alla trascrizione della domanda  ed è lo stesso art. 72, quinto comma, l. fall. ad esigerla, quando prevista, per rendere opponibile la domanda di risoluzione al fallimento. Tuttavia, come già visto, si tratta di prenotare gli effetti sostanziali della futura risoluzione, se la domanda verrà accolta; ma questo non ha nulla a che vedere con il rito nell’ambito del quale la domanda deve essere decisa, una volta dichiarato il fallimento.

In secondo luogo, i Giudici di legittimità invocano il principio della ragionevole durata del processo: il passo della motivazione è il seguente: “La convenzione europea dei diritti dell'uomo - oltre che, poi, il sistema costituzionale (art. 111 Cost.) - ha annoverato tra i diritti fondamentali anche quello alla ragionevole durata del processo, e tale diritto suppone che le norme sulla trascrizione delle domande giudiziali non siano vulnerate da interpretazioni tese a compromettere la realizzazione piena e sollecita della tutela cui la parte postula di aver diritto secondo il diritto sostanziale presidiato. Il distinto principio applicato dal tribunale - della generalizzata attrazione nel rito speciale di verifica dei crediti delle domande principali dichiarative e costitutive ancorché già trascritte - comporta proprio un simile vulnus, in quanto imporrebbe l'implicita affermazione di improseguibilità nella sede ordinaria del giudizio di simulazione e di risoluzione contrattuale, come se la attrazione nel rito speciale della pretesa di accertamento del diritto restitutorio o del credito risarcitorio dovesse necessariamente estendersi anche a quelle domande. Con il che imporrebbe all'attore, inutilmente, di ricominciare tutto il giudizio daccapo in sede fallimentare”.

Ad avviso di chi scrive, invece, proprio il principio della ragionevole durata del processo avrebbe dovuto indurre a devolvere al giudice fallimentare anche la domanda di risoluzione. È infatti la prosecuzione della domanda di risoluzione nelle sedi ordinarie a ritardare la decisione sulla pretesa risolutoria o risarcitoria, mentre non è vero il contrario, perché le domande di ammissione al passivo vengono decise in tempi sensibilmente più rapidi rispetto ai giudizi ordinari, e nulla osta a che siano corroborate, sotto l’aspetto probatorio, dal materiale acquisito nel giudizio ordinario, venendo decise dal Giudice delegato secondo il suo libero convincimento, esattamente come nella controversia ordinaria.

Infine la Suprema Corte afferma che la domanda di risoluzione/simulazione e quelle accessorie di restituzione o risarcitorie andrebbero assoggettate a riti diversi “previa separazione delle cause”. Dal punto di vista processuale, ciò genera una situazione complessa: anche a volere fare applicazione degli artt. 103, secondo comma, e 104 c.p.c. (ai quali, verosimilmente, i Giudici di legittimità hanno implicitamente fatto riferimento), non si vede come il giudice ordinario potrebbe emettere un’ordinanza di rimessione delle domande restitutorie o risarcitorie al Giudice delegato: al di là del fatto che le domande di ammissione al passivo devono, da un lato, essere veicolate e seguire l’iter procedimentale stabilito dall’art. 93 l. fall., dall’altro contenere la domanda di partecipazione al concorso; requisito, questo, che la domanda restitutoria o risarcitoria promossa prima della dichiarazione di fallimento non può contenere per definizione.

   

7. L’ambito applicativo del principio della trasmigrazione dell’intera controversia nella sede della verifica del passivo e le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie

Fin qui si è detto della domanda di risoluzione contrattuale promossa prima della dichiarazione di fallimento. Va ora puntualizzato l’ambito applicativo dei principi in tal modo individuati.

In primo luogo, l’idea che la cognizione dell’intera causa (e non solo delle domande di risarcimento o di restituzione) debba essere devoluta al giudice delegato, non riguarda solo il caso della domanda di risoluzione, del quale si occupa espressamente l’art. 72, quinto comma, l. fall., ma tutte le ipotesi in cui, al momento dell’apertura della procedura fallimentare, siano pendenti giudizi che hanno per oggetto  domande pregiudiziali al riconoscimento di crediti da fare valere nel passivo fallimentare: la nullità del contratto, l’annullabilità, la rescissione, la simulazione etc. La stessa sentenza di legittimità, sopra richiamata, pur sposando la tesi della proseguibilità dell’azione di risoluzione in sede ordinaria, dà per scontato che anche l’azione di simulazione sia assoggettata alla stessa regola.

Ad avviso di chi scrive, invece, per le ragioni sopra esposte non può che essere il Giudice delegato colui che si pronuncia sull’antecedente logico-giuridico della pretesa creditoria.

Se questo è vero, è però altrettanto vero che il principio dell’esclusività del rito fallimentare può e deve riguardare le domande pregiudiziali solo se esse siano strumentali al conseguimento dell’ammissione al passivo quale unico “bene della vita” cui la parte in bonis, a seguito della dichiarazione di fallimento, tende. Con questa precisazione – che comporta un significativo ridimensionamento dell’enunciato principio – si intende dire che il Giudice delegato, nella verifica concorsuale, può bensì pronunciarsi sulla pretesa creditoria, con efficacia endo-fallimentare, ma non può emettere altri tipi di pronunce alle quali la domanda pregiudiziale mira, per scopi che (come accade il più delle volte) sono del tutto estranei ai poteri del Giudice delle verifica, e che per l’appunto sono sottratti alla sua competenza.

Più precisamente, va osservato che vi sono, prima di tutto, una molteplicità di situazioni nelle quali la domanda pregiudiziale (di risoluzione, annullamento o quant’altro), non ha alcuna attinenza con il passivo fallimentare. Ciò accade quando la controparte in bonis del fallito agisce o intende proseguire l’azione nelle sedi ordinarie per finalità del tutto estranee alla partecipazione al concorso, ed al riguardo già in passato chi scrive aveva proposto gli esempi della pretesa risolutoria finalizzata a provocare la mera liberazione della parte in bonis dagli obblighi contrattuali, ovvero quella destinata ad essere fatta valere nei confronti del fallito tornato in bonis, magari a seguito della revoca della dichiarazione di fallimento; ancora, si pensi all’ipotesi della risoluzione contrattuale, che sia necessaria per escutere una garanzia di terzi, ovvero per liberare la parte in bonis da una garanzia in conseguenza dell’altrui inadempimento. In tutti questi casi, predicare l’attrazione della domanda al rito dell’accertamento del passivo non ha evidentemente alcun senso[6].

Vi sono poi altrettante situazioni nelle quali la domanda pregiudiziale, se da un lato costituisce l’antecedente logico-giuridico del riconoscimento di un credito risarcitorio o restitutorio, ovvero di una pretesa di rivendica o di restituzione, da fare accertare nelle forme di cui agli artt. 93 ss. l. fall., dall’altro lato è strumentale a riconoscere un “bene della vita” ulteriore, che il giudice delegato – in ragione della propria competenza e dei suoi poteri – non può assegnare alla parte.

Le ipotesi sono numerose: si pensi, in primo luogo, ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare che sia stato trascritto ma non adempiuto e per il quale sia stata proposta (e trascritta) domanda di risoluzione, per inadempimento della parte acquirente, poi fallita. Il promittente venditore, in veste di attore, potrebbe avere cumulato alla domanda risolutoria una domanda di rilascio dell’immobile nel cui possesso il promissario acquirente era stato immesso, ovvero una domanda di risarcimento danni, da sottoporre sicuramente al giudice della verifica. Tuttavia,  se la domanda di risoluzione, prodromica anche alla pretesa risarcitoria o restitutoria, fosse dichiarata improcedibile, il promittente venditore si vedrebbe privato della possibilità di ottenere un titolo (la sentenza di risoluzione del contratto), idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari: e difficilmente quel titolo potrebbe essere “surrogato” dal decreto di esecutività dello stato passivo, anche solo per l’efficacia meramente endo-concorsuale di quest’ultimo.

Si pensi inoltre ad una domanda ex art. 2932 c.c., trascritta prima della dichiarazione di fallimento del promittente venditore, avente per oggetto la costituzione del diritto di proprietà sul bene oggetto di un preliminare di compravendita immobiliare. Di questa fattispecie si sono occupate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 16 settembre 2015, n. 18131[7], enunciando il principio secondo il quale “con riferimento al contratto preliminare di compravendita, quando la domanda promossa dal promissario acquirente diretta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto è stata trascritta prima della dichiarazione di fallimento, la sentenza che l’accoglie, anche se trascritta successivamente, è opponibile alla massa dei creditori sì che l’esercizio da parte del curatore del contraente fallito della facoltà di scioglimento è inopponibile al promissario acquirente sempre che la domanda venga poi accolta”. La decisione è sicuramente inerente agli effetti sostanziali della trascrizione della domanda giudiziale, ma dal punto di vista processuale, anche se alla domanda costitutiva ex art. 2932 c.c. si associasse la domanda di consegna dell’immobile (soggetta al rito dell’accertamento del passivo), non si vede come la pronuncia di trasferimento della proprietà potrebbe essere emessa dal giudice della verifica, essendo estranea ai suoi poteri.

In questi e in altri casi simili, poiché la parte in bonis non può vedersi privata, con l’improcedibilità del giudizio ordinario, delle tutele alle quali la sua domanda tende e che il giudice delegato non può concedere, è inevitabile che il processo possa e debba proseguire nelle sedi ordinarie, previa riassunzione nei confronti della Curatela.

Se questi rilievi sono corretti, si può concludere:

- che la regola dell’improcedibilità della domanda pregiudiziale e della sua necessaria attrazione al rito dell’accertamento del passivo esiste, ma trova applicazione solo quando la domanda pregiudiziale non abbia altro scopo che l’ammissione del consequenziale credito risarcitorio o restitutorio al passivo fallimentare, cosicché la domanda nelle sedi ordinarie si traduce, con il fallimento, in una mera domanda di ammissione al passivo (si pensi al promissario acquirente che abbia chiesto la risoluzione del preliminare di compravendita mobiliare, per inadempimento del promittente venditore, al solo possibile scopo di ottenere la restituzione degli acconti versati);

- per contro, quella regola non deve trovare applicazione né qualora la domanda abbia finalità del tutto estranee alla partecipazione al concorso, né qualora sia strumentale non solo all’ammissione al passivo del credito consequenziale, ma anche ad ulteriori declaratorie o adempimenti che esorbitano dai poteri e/o dalla competenza del Giudice della verifica.

   

8. Il rapporto tra le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie e la verifica del passivo

A questo punto, resta da stabilire quale sia il rapporto tra l’accertamento del passivo e le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie.

Senza occuparsi delle domande non destinate ad influire in alcun modo sulla verifica dei crediti, e delle quali si è detto poco più sopra, per le altre è da escludere, in primo luogo, che i procedimenti possano correre paralleli, ovvero che il giudice della verifica possa decidere, sulla domanda “a monte”, autonomamente rispetto al giudice ordinario. Ammettere una simile ipotesi significherebbe duplicare le cognizioni sullo stesso tema, con il rischio di giudicati contrastanti.

Il rapporto, invece, deve essere correttamente inquadrato nell’ambito della pregiudizialità: la decisione del giudice ordinario sulla domanda “a monte”, pertanto, una volta emessa nei confronti della Curatela e passata in giudicato, dovrebbe vincolare il giudice della verifica; beninteso senza influire sulla decisione relativa alla domanda restitutoria o risarcitoria, rimessa alla sua cognizione esclusiva.

Può accadere che, in attesa della conclusione del processo proseguito in sede ordinaria (sulla sola domanda pregiudiziale), la parte si astenga dal proporre le domande di risarcimento o restituzione, preferendo attendere la decisione sulla pregiudiziale. Tale eventualità non crea problemi procedurali; tuttavia il creditore sconta il fatto che un soggetto non insinuato non può avere mai diritto agli accantonamenti nei riparti, sicché, una volta ammesso al passivo, probabilmente in via ultra-tardiva, e previo accertamento della non-imputabilità anche ai fini dei prelievi nei riparti già eseguiti, potrebbe trovare il fallimento privo di risorse sufficienti ad assicurargli il pagamento delle quote pregresse cui avrebbe diritto.

Potrebbe però anche darsi che il creditore insinui il credito al passivo mentre pende il giudizio ordinario sulla domanda pregiudiziale.

In tale eventualità, esclusa, come già detto, la possibilità di una ammissione al passivo con riserva ex art. 96, n. 3, l. fall., ed essendo precluso al Giudice delegato pronunciarsi sia sulla domanda pregiudiziale, sia su quella dipendente, in questo secondo caso finché non si sia concluso il giudizio nella sede ordinaria, si potrebbe ipotizzare la sospensione della decisione sul credito ex art. 295 c.p.c., in attesa della pronuncia, da parte del giudice ordinario, sulla domanda pregiudiziale. Tuttavia, come è stato autorevolmente evidenziato[8], l’istituto della sospensione del processo per pregiudizialità-dipendenza appare inadatto alla fase necessaria di verifica del passivo. A ben vedere, perciò, l’unica via percorribile è quella del rigetto della domanda di ammissione al passivo, per carenza, allo stato, del suo presupposto “a monte”.

Solo la proposizione di un’opposizione allo stato passivo del creditore istante consentirebbe al processo instaurato ex art 98-99 l. fall. di essere sospeso ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della decisione nelle sedi ordinarie; con il vantaggio per il creditore, previa richiesta e concessione di misure cautelari, di beneficiare degli accantonamenti ai sensi dell’art. 113, comma 2, l. fall.

Si tratta di un iter non certo snello e che, per certi versi, contraddice quanto esposto in precedenza circa la difficile compatibilità delle parentesi ordinarie di cognizione nell’accertamento del passivo.

Tuttavia, allo stato, pare a chi scrive che questo sia l’unico modo per garantire alla parte in bonis il diritto ad ottenere una tutela che il Giudice delegato, in sede di verifica, non è in grado di accordarle. Al contempo, la costruzione sopra descritta consentirebbe al creditore di non subire le conseguenze pregiudizievoli che la durata del processo ordinario potrebbe comportare, in termini di perdita delle ripartizioni anteriori all’ammissione del credito.

Si tratta, inoltre, di una soluzione che non ostacola l’iter della procedura concorsuale, dal momento che l’opposizione allo stato passivo non preclude neppure la chiusura del fallimento[9], il giudizio di opposizione può proseguire, anche dopo la chiusura, una volta cessata la causa di sospensione, e le somme accantonate possono essere depositate ai sensi dell’art. 117, terzo comma, l. fall., per essere distribuite a chi spettano ovvero, in caso di definitiva esclusione del credito, all’esito dell’opposizione, per essere fatte oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori.



[1] Staunovo-Polacco, Trasmigrazione dell’azione di risoluzione nella verifica del passivo, Osservazioni a Trib. Torino 17 maggio 2014, in Fallimento, 2015, 350. Conformemente v. Montanari, Fallimento e azioni pendenti dei creditori nel sistema uscito dalla riforma, in Giur. comm., 2015, I, 94, e in giurisprudenza Trib. Santa Maria Capua Vetere 6 maggio 2014, in Fallimento, 2014, 1236; Trib. Saluzzo 24 maggio 2012, id., 2012, 1256; Trib. Udine 16 marzo 2012, ibid, 1004.

[2] Nello stesso senso v. Trib. Salerno 1 febbraio 2013, in Fallimento, 2013, 1391, nonché, ivi citati, Trib. Milano 24 agosto 2012, www.plurisonline.it; Trib. Verona 17 aprile 2012, www.ilcaso.it e Trib. Asti 17 gennaio 2009, www.plurisonline.it.

[3] Così Cass. 24 maggio 2005, n. 10927, Foro it., Rep. 2005, voce Fallimento, n. 513; Cass. 6 febbraio 2004, n. 2261, in Giur. it., 2004, 1678

[4] Così Cass. 19 aprile 2011, n. 8972, Foro it., Rep. 2012, voce Fallimento, n. 355; Cass. 29 ottobre 2008, n. 25984, in Fallimento, 2009, 1179; Cass. 21 ottobre 2005, n. 20350, Foro it., Rep. 2005, voce Fallimento, n. 322; Cass. 9 dicembre 1998, n. 12396, id., Rep. 1998, voce cit., n. 377; Cass. 25 luglio 1997, n. 6976, in Fallimento, 1998, 508.

[5] In argomento v. Cass. 17 marzo 2014, n. 6126, in Foro it., 2014, I, 3558.

[6] Si vedano i precedenti menzionati alla nota n. 1.

[7] In Foro it., 2015, I, 3488.

[8] Montanari, op. cit., 103.

[9] Cass. 22 ottobre 2007, n. 22105, Foro it., Rep. 2007, voce Fallimento, n. 660; principio valido a fortiori con il novellato art. 118, secondo comma, l. fall.


Scarica Articolo PDF