CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 24/11/2016 Scarica PDF

Emersione della crisi e opportunità di risanamento

Rolandino Guidotti, Professore di diritto commerciale nell'Università di Bologna


Sommario: 1. Premessa - 2. La nozione di crisi - 3. La necessità dell’emersione anticipata della crisi - 4. Le procedure di allerta. - 5. I doveri degli amministratori della società in crisi. - 6. Le operazioni straordinarie.


     

1. La giornata di studio di oggi è dedicata all’analisi dei mutamenti ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni con riferimento alla gestione delle piccole e medie imprese, mutamenti che hanno comportato spesso perdita di competitività ed efficienza.

Non c’è dubbio che la trasformazione digitale dell’impresa (la c.d. digital transformation), l’espansione geografica dei mercati di riferimento e l’internazionalizzazione, anche attraverso la creazione di alleanze virtuose tra clienti e fornitori, siano fattori determinanti; come determinante è spesso l’ingresso nel capitale di operatori specializzati (per esempio di private equity) e l’accesso a fonti di finanziamento quali mini-bond (per emanciparsi dall’eccessiva dipendenza strutturale dal debito nei confronti delle banche), strumenti finanziari ibridi e/o la possibilità di accedere all’indebitamento di lungo periodo.

Accade però che spesso il primo passo da compiere sia quello di una “riorganizzazione” dell’impresa dal suo interno; è infatti banale osservare che ci si avveda della necessità di intervenire sui fattori sopra indicati nel momento in cui l’impresa si trova in uno stato di crisi e quindi non ci siano né le risorse finanziarie né le risorse umane per affrontare le sfide sopra indicate.

E’ bene dire quale ultima premessa che la nostra legge fallimentare è ben possibile che venga nel prossimo futuro profondamente riformata ad opera della c.d. riforma Rordorf  ovvero del disegno di legge delega ([1]) presentato alla Camera dei Deputati l’11 marzo 2016 e relativo appunto alla Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza.

Detto disegno di legge è ora all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati; ed è una riforma che, nel suo complesso,  merita senza dubbio di essere coltivata e successivamente coronata dal successo.

 

2. Sotto il profilo giuridico è forse opportuno ricordare che nel sistema italiano è prevista una distinzione tra stato di crisi e stato di insolvenza (che conduce al fallimento imposto al debitore, o anche da lui richiesto).

Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti (od altri fatti esteriori), che dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni ([2]).

Lo stato di crisi è sicuramente concetto più ampio e viene generalmente ricondotto alla temporanea difficoltà di adempiere alle proprie obbligazioni o al concreto pericolo di futura insolvenza.

Più precisamente può trattarsi di vera e propria insolvenza, di insolvenza reversibile, tipico presupposto dell’abrogata procedura di amministrazione controllata, ovvero «soltanto di rischio di insolvenza, ben possibile in situazioni di sbilancio patrimoniale, di andamento economico negativo o di sbilancio finanziario nelle quali l’impresa, pur essendo ancora in grado, al momento, di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni, rischia seriamente di non esserlo più in un prossimo futuro» ([3]).

Sia qui consentito ricordare come il § 1 della relazione al disegno di legge delega al quale si è già fatto cenno prevede che sia necessario definire in modo non equivoco alcune nozioni fondamentali della materia fallimentare a cominciare proprio da quella di “crisi” che «non equivale all’insolvenza in atto ma implica un pericolo di futura insolvenza».

Il fatto è però che, quantomeno in prima battuta, la crisi deve essere affrontata dagli organi sociali, lontano dai tribunali; è quindi necessario che il fenomeno possa venire puntualmente fotografato anche con l’aiuto delle scienze aziendali perché ovviamente la diagnosi, anzi la diagnosi precoce, è essenziale.

E’ indispensabile per il giurista individuare un momento, o meglio, un breve periodo di tempo entro il quale si deve intervenire; le scienze aziendali che, ovviamente trattano ampiamente del fenomeno, sembrano invece essere tendenzialmente più interessate all’aspetto dinamico della crisi ([4]).

L’individuazione del momento in cui l’impresa entra in crisi è ovviamente necessario perché è da quel momento che gli organi sociali, in prima battuta, sono chiamati ad affrontare il problema.

Non è ovviamente questa la sede per affrontare il problema ma, sotto il profilo aziendalistico, l’approccio che mi convince di più è quello interno – previsionale ovvero quello che definisce la crisi come «sistematica incapacità dei flussi di cassa reddituali attuali e prospettici di fronteggiare l’adempimento delle obbligazioni assunte e pianificate tramite il normale andamento gestionale» ([5]).

Tale approccio valuta, in poche parole, contabilmente (e in anticipo) quando (nel futuro) l’impresa diventerà insolvente; ed è ovviamente dal momento in cui c’è la consapevolezza della (futura) insolvenza che è necessario prendere provvedimenti.

 

3. Circa la necessità di emersione anticipata della crisi a livello sovranazionale basta ricordare la Raccomandazione n. 2014/135/UE nella parte in cui prevede la necessità di consentire alle «imprese sane in difficoltà finanziaria, ovunque siano stabilite nell’Unione, l’accesso a un quadro nazionale in materia di insolvenza che permetta loro di ristrutturarsi in una fase precoce in modo da evitare l’insolvenza, massimizzandone pertanto il valore totale per creditori, dipendenti, proprietari e per l’economia in generale» (considerando 1°).

E ancora che la Commissione Europea ha invitato gli Stati Membri dell’Unione ad «offrire servi di sostegno alle imprese in tema di ristrutturazione precoce, consulenza per evitare i fallimenti e sostegno alle PMI per ristrutturarsi e rilanciarsi» (Piano d’azione imprenditorialità 2020 di cui alla COM(2012) 795 final del 9 gennaio 2013) ([6]).

Più in generale si può dire – riprendendo quanto esposto dalla relazione al disegno di legge delega di cui si è detto - come l’esigenza di anticipare l’emersione della crisi sia «un principio riconosciuto ormai da tutti gli ordinamenti a partire da quello statunitense e fa parte dei principi Uncitral e della Banca Mondiale per la corretta gestione della crisi di impresa».

Come si legge nel § 2 della relazione allo stesso disegno di legge poi «le possibilità di salvaguardare il valori di una impresa in difficoltà sono direttamente proporzionali alla tempestività dell’intervento risanatore» e, viceversa, «il ritardo nel percepire i prodromi di una crisi fa sì che, nella maggior parte dei casi, questa degeneri in una vera e propria insolvenza sino a divenire irreversibile e a rendere perciò velleitari – e non di rado addirittura ulteriormente dannosi – i postumi tentativi di risanamento».

La necessità emersione anticipata della crisi può ritenersi un dato ormai acquisito anche nella nostra legislazione nazionale con riferimento alla quale basta pensare alla disciplina del concordato c.d. in bianco introdotto nel nostro ordinamento nel 2012; si tratta, com’è noto, della versione nazionale del Chapter 11 statunitense che consente al debitore in crisi, o già insolvente, di accedere con una semplice dichiarazione ad una situazione di protezione dai suoi creditori per aver il tempo di formulare il piano e la proposta di risanamento rivolta ai creditori stessi ed al giudice.

Molti sono gli indici contenuti anche nelle ultime e varie riforme della nostra legge fallimentare nazionale ([7]).

Se è vero che nel nostro ordinamento la conservazione dell’impresa non è esclusa neppure dopo la dichiarazione di fallimento ([8]), è altrettanto vero che sono ormai da tempo molteplici gli strumenti che permettono di affrontare la crisi; ovvio è il riferimento, tra gli altri, al concordato preventivo (artt. 160 ss. e art. 186 bis l. fall. ss.) e all’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis l. fall.).

Ma questi sistemi, questi format, predisposti dal legislatore, riescono ad essere utilizzati dagli operatori in modo tanto più efficiente quanto più agli stessi si accede tempestivamente.

Si pensi a questo proposito agli effetti deleteri che può provocare sulla conservazione dell’impresa il ritardo nel deposito di una domanda di concordato in bianco o di pre-accordo di ristrutturazione dei debiti con riferimento alla notifica delle cessioni dei crediti; si pensi ancora, ma di nuovo solo a titolo di esempio, alla possibilità concessa all’impresa di ottenere finanza prededucibile già nella fase immediatamente successiva al deposito della domanda di concordato in bianco di cui all’art. 161, comma 6°, l. fall. e dunque prima che siano predisposti il piano e la proposta di concordato.

Sta di fatto che già oggi – alla luce della legislazione attuale – è ben possibile che paradossalmente la crisi si trasformi in una opportunità per l’impresa nel senso che l’impresa stessa può uscire dalla tempesta della crisi - crisi che si manifesta nell’ultimo periodo sotto il profilo finanziario ma ovviamente può avere origini di natura economica e/o patrimoniale -  rafforzata grazie a tutti gli strumenti offerti dal legislatore per liberarsi di quanto non è utile per la prosecuzione dell’attività core.

Si pensi, ancora a titolo di esempio, alla disciplina relativa allo scioglimento dei contratti di cui all’art. 169 bis l. fall.: la norma oggi è rubricata “Contratti pendenti” e si riferisce ai contratti «ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data di presentazione del ricorso» (comma 1°) permettendo al debitore di liberarsi da quelli che non ritiene più funzionali alle esigenze dell’impresa ([9]).


4. Della necessità di fare emergere tempestivamente la crisi è ben consapevole anche il futuro legislatore nazionale che nel progetto di riforma della legge fallimentare sta proponendo di introdurre nel nostro ordinamento le c.d. procedure di allerta e composizione assistita della crisi ispirate, tra l’altro, alla più recente legislazione francese ([10]).

Dette procedure sono proprio finalizzate a incentivare l’emersione anticipata della crisi e ad agevolare lo svolgimento di trattative tra debitore e creditori attribuendo le relative competenze, quantomeno in prima battuta, ad una apposita sezione specializzata degli organismi di composizione della crisi.

Non è questa la sede per prendere posizione in modo approfondito circa l’utilità di queste procedure nel nostro ordinamento anche perché probabilmente il loro eventuale successo dipenderà dal testo definitivo della delega e da come verranno scritti i decreti delegati.

Mi auguro però che il futuro legislatore tenga in debito conto le osservazioni dell’Assonime – Associazione fra le società italiane per azioni - che nell’audizione del 6 luglio 2016 ha evidenziato che appare preferibile un sistema che istituisce un meccanismo di prevenzione basato sul rafforzamento del ruolo degli organi societari evitando una fase giurisdizionale anticipata perché «[u]na fase giurisdizionale anticipata può portare a effetti contrari a  quelli  auspicati  e rappresentare un  disincentivo per  il  debitore  a far  emergere  la crisi,  per  motivi reputazionali, rischiando di aggravare la crisi dell’impresa e dilatarne i tempi» ([11]).

Ma il compito è tutt’altro che agevole da svolgere: nel nostro paese il sistema delle imprese è connotato, in buona parte, dalla coincidenza delle stesse persone nella proprietà e nella gestione dell’impresa e da un sistema di controlli – penso soprattutto al collegio sindacale – sempre troppo vicino a chi lo ha nominato ([12]).

Dubito quindi dell’efficienza di un sistema che – come prevede l’art. 4 del disegno di legge delega -  ponga «a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e delle società di revisione l’obbligo di avvisare immediatamente l’organo amministrativo della società dell’esistenza di fondati indizi della crisi e, in caso di omessa o inadeguata risposta, di informare direttamente il competente organismo di composizione della crisi».

Mi rendo peraltro conto di sollevare un problema senza proporre una soluzione.

 

5. E’ già stato messo in evidenza da altri come l’equiparazione tra stato di crisi / insolvenza e necessaria cessazione dell’impresa sia venuto meno; l’esistenza della crisi non è ovviamente un segno di salute dell’impresa ma non è neppure un segnale inequivocabile di necessità di cessazione della stessa  ([13]).

Prima ho anche evidenziato come ormai debba essere ritenuto un dato acquisito quello della necessità di far emergere la crisi tempestivamente.

Ora vorrei però anche sottolineare il fatto che il tema rileva pure con riferimento ai doveri (recte: poteri – doveri) degli amministratori nei confronti della società perché – soprattutto dopo la riforma del diritto societario che ormai risale al 2003 – è reso palese il loro dovere di compiere tutte le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale (art. 2380 bis c.c.).

Norma che - unitamente, tra l’altro, al disposto di cui all’art. 2364 c.c. - non solo costituisce il netto spartiacque tra i compiti dell’assemblea e quelli dell’organo amministrativo, ma che specifica anche il contenuto dell’attività di gestione indicandolo, lo si è appena detto, nel compimento di tutte le attività necessarie per lo svolgimento dell’oggetto sociale.

Indicazione ai nostri fini importante vuoi che la si voglia leggere nel senso che l’art. 2380 bis c.c. si riferisca direttamente non solo allo scopo – mezzo (ossia alla specifica attività economica indicata nell’atto costitutivo), ma anche allo scopo – fine (lo scopo di lucro oggettivo) ([14]); vuoi che si ritenga che il dovere di attuare l’oggetto sociale non possa non ricomprendere anche «il dovere costante di assicurare le condizioni per la salvaguardia e l’efficienza dell’attività imprenditoriale della società» ([15]) e quindi ovviamente anche un’attività di previsione ed elaborazione degli scenari in cui l’impresa sarà costretta ad operare nel futuro ([16]).

Non è ovviamente questa la sede per ripercorrere il dibattito relativo ai doveri che incombono in capo agli amministratori di società in crisi; basti qui dire che lo stesso si è di recente rivitalizzato alla luce delle norme che dal 2005 in poi hanno arricchito gli strumenti di soluzione concordata della crisi di impresa ([17]); che ad oggi il legislatore si è astenuto dall’occuparsi direttamente della materia; e che, invece, nel disegno di legge Rordorf è previsto, tra l’altro, all’art. 13, comma 1°, lett. b), «il dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».

 

6. Ma c’è un altro aspetto relativo alla “gestione della crisi”, quale opportunità, che forse va ancora studiato in comune con gli aziendalisti più di altri argomenti; è quello delle operazioni societarie straordinarie durante la crisi.

Il tema è di grande importanza ove si consideri un numero rilevante di procedure riguarda imprenditori che svolgono la loro attività in forma societaria e in particolare in forma di società di capitali; e, in ogni caso, queste sono sicuramente le procedure di maggior rilevanza e con la maggior rilevanza per gli stakeholders.

Non si è forse ad oggi studiato abbastanza l’impatto positivo che potrebbero avere le operazioni straordinarie nell’ambito della crisi di impresa.

Mi riferisco soprattutto a trasformazione, fusione e scissione e quindi a operazioni che si caratterizzano per una funzione riorganizzativa dell’impresa in forma societaria, ma anche ad altre operazioni straordinarie che incidono solo su particolari aspetti della riorganizzazione; si pensi, a titolo di esempio, all’aumento di capitale.

Come è stato correttamente osservato la riorganizzazione delle strutture e del finanziamento delle società attraverso le operazioni straordinarie assume rilievo non solo in prospettiva di ristrutturazione del debito, ma anche in quella della rivitalizzazione dell’impresa, assumendo così un ruolo fondamentale nei piani di risanamento ([18]).

Il tema è dovrà essere approfondito nel prossimo futuro anche perché in quest’ambito più che in altri il diritto vivente è molto “più avanti” del legislatore sia fallimentare sia societario e manca una cornice normativa ben definita entro la quale muoversi ([19]).



* Si tratta della traccia dell’intervento svolto a Milano in data 17 novembre 2016 all’Eurodefi Economic Forum 2016 dedicato a La PMI tra vecchi modelli e strumenti di per le sfide di breve e medio periodo organizzato in collaborazione con l’Associazione Nazionale Direttori Amministrativi e Finanziari.

([1]) Originariamente n. 3671 e oggi n. 3671 bis a seguito dello stralcio dell’art. 15, relativo all’amministrazione straordinaria, deliberato dall’Assemblea il 18 maggio 2016.

([2]) Art. 5, comma 2°, l. fall.

([3]) A. Jorio, sub art. 160, in A. Nigro, M. Sandulli e V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, III, Giappichelli, Torino, 2010, p. 15.

([4]) Come osserva A. Quagli, Il concetto di crisi di impresa come incontro tra la prospettiva aziendale e quella giuridica, in questa rivista, II, 2016, p. 2 tale «accento sulla involuzione progressiva è giusto e doveroso. Tuttavia proprio l’idea fortemente radicata negli aziendalisti della dinamica gestionale, tende forse a scoraggiare delimitazioni puntuali del fenomeno in parola». In generale sull’argomento si può consultare L. Guatri, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al valore, Egea, Milano, 1995.

([5]) A. Quagli, op. cit., p. 8.

([6]) Reperibile: https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2012/IT/1-2012-795-IT-F1-1.Pdf.

([7]) Si pensi, a titolo di esempio: (a) alla disciplina della bancarotta semplice, secondo la quale è punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore che, fuori dai di bancarotta fraudolenta, «ha aggravo il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento, o con altra colpa grave»; (b) alla disciplina del concordato fallimentare, dove prevede che il concordato possa essere proposto da un terzo nell’immediatezza della dichiarazione di fallimento; dal fallito, per contro, non prima del decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento. Il rischio che il debitore veda definitivamente perduto il controllo sull’impresa dovrebbe quindi incentivarlo a cercare con maggiore tempestività un accordo una soluzione alla sua crisi anteriore al fallimento; (c) alla disciplina dell’esdebitazione dove prevede che l’istanza di esdebitazione non possa essere accolta qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali; si tratta del presupposto oggettivo dell’esdebitazione: il c.d. presupposto di risultato; dall’assenza di beni e/o crediti esigibili nel patrimonio del fallito – che non permettono neppure di pagare crediti prededucibili e le spese di procedura - la legge fa discendere la presunzione assoluta che il fallito abbia ritardato colpevolmente l’apertura della procedura stessa; e quindi non meriti di accedere al beneficio dell’esdebitazione stessa; (c1) ancora la disciplina dell’esdebitazione nella parte in cui prevede che il fallito «non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura», assumendo un comportamento antigiuridico di ostacolo alla sua ragionevole durata, implica, tra l’altro, l’obbligo del fallito di non porre in essere, prima della dichiarazione di fallimento, atti che, nella consapevolezza della irreversibilità del proprio dissesto, siano alternativi al tempestivo deposito della domanda di fallimento in proprio o diversa soluzione della crisi prevista dalla legge; (d) alla disciplina delle proposte concorrenti; il rischio di proposte concorrenti “ostili” per le domande di concordato che non assicurino il pagamento di una determinata percentuale al ceto chirografario dovrebbero infatti indurre l’imprenditore a far emergere la propria crisi il prima possibile; (e) alla disciplina sull’erogazione di provvista finanziaria alle imprese (nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti) che rendono possibile alle imprese in crisi di ottenere finanziamenti: il ricorso alla finanza interinale prededucibile può essere autorizzato dall’autorità giudiziaria anche prima del deposito della domanda definitiva; (f) alle norme sui contratti pendenti (nel concordato preventivo) che permettono già nella fase del c.d. concordato in bianco che l’impresa in crisi si sciolga dai contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data della presentazione del ricorso.

([8]) Il riferimento è ovviamente agli istituti dell’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito (art. 104 l. fall.) e all’affitto dell’azienda o di rami dell’azienda nel fallimento (art. 104 ter l. fall.).

([9])  Basta leggere la Relazione al disegno di legge della Camera dei Deputati n. 3201 del 27 giugno 2015 per evincere come la disposizione di cui all’art. 169 bis l. fall. vuole consentire «al debitore che intende ristrutturare la complessiva situazione debitoria di “chiudere” o potremmo dire di “liquidare” i rapporti contrattuali non più utili o non più proporzionali alle esigenze della liquidazione concordataria e della continuazione dell’attività nel concordato in continuità. La continuazione nel rapporto contrattuale potrebbe infatti comportare oneri e obblighi che finirebbero per appesantire fino a pregiudicare quella ristrutturazione complessiva dei rapporti di credito e debito che è necessaria per la riuscita di qualsiasi proposta concordataria presentata ai creditori». La lettera dell’art. 169 bis l. fall., così come oggi riformato, usa formula ancora più ampia di quella utilizzata dall’art. 72 l. fall., che, com’è noto, disciplina le fattispecie nelle quali un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito «da entrambe le parti», espressione quest’ultima che manca, non a caso, nella norma dedicata al concordato. Il nuovo art. 169 bis l. fall., nella versione attuale, usa formula ancora più ampia di quella dell’art. 72 l. fall. che, dopo l’intervento correttivo del 2007, è divenuta sicuramente una norma di chiusura relativa ai rapporti giuridici pendenti per l’ipotesi in cui non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa. Formula più ampia resa opportuna, se non indispensabile, dalla necessità di salvaguardare l’impresa in concordato.

([10]) In argomento A. Jorio, Su allerta e dintorni, in Giur. comm., 2016, I, p. 261 ss.

([11]) Così il testo dell’audizione Assonime citato nel testo a p. 3 del dattiloscritto.

([12]) In questo senso v. A. Jorio, op. loc. cit., p. 263.

([13]) L. Stanghellini, Le crisi di impresa tra diritto ed economia, Le procedure di insolvenza, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 46 e 49.

([14]) Cfr., di recente, le osservazioni di F. Brizzi, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Giappichelli, Torino, 2015, p. 198.

([15]) C. Angelici, La società per azioni. Principi e problemi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da P. Schlesinger, I, Giuffrè, Milano, 2012, p. 390.

([16]) E v., in argomento, D. Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto fallimentare tra diritto ed economina, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 165.

([17]) E v. G. Guerrieri, La responsabilità degli amministratori dell’impresa nell’impresa in crisi, in Nuove leggi civ., 2016, p. 572 s., testo e nota n. 6.

([18]) Così quasi testualmente P. Bastia e R. Brogi, Nota introduttiva: l’analisi giuridico – aziendalistica, in P. Bastia e R. Brogi, Operazioni societarie straordinarie e crisi di impresa, Milano, Wolters Kluwer, 2016, p. 1.

([19]) E v. R. Rordorf, Prefazione, in P. Bastia e R. Brogi, op. cit., p. viii.


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