CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/11/2016 Scarica PDF
Chiusura del fallimento e problemi fiscali: un abbozzo di soluzione
Vittorio Zanichelli, Presidente Emerito del Tribunale di ModenaNell’irrisolta oscillazione del pendolo tra tutela dei creditori e perseguimento del fine della salvezza della continuità aziendale con annessa tutela del debitore il punto di inversione della tendenza favorevole alla soluzione concordata della crisi (ma soprattutto della tutela del debitore) è segnato dal dl.l. n. 83 del 2015 che ha introdotto innovazioni che hanno segnato una brusca diminuzione, se non proprio un arresto, dell’afflusso delle domande di concordato preventivo.
Non è probabilmente un caso che contemporaneamente il legislatore abbia dedicato la sua attenzione anche al procedimento fallimentare, destinato forse a ridiventare l’inevitabile sbocco alternativo della crisi se non prenderanno vigore gli accordi di ristrutturazione dei debiti, rimasti l’unica alternativa praticabile e rinvigoriti dalla possibilità di un maggior coinvolgimento dei creditori bancari.
La rinnovata attenzione è stata dedicata soprattutto alla diminuzione dei tempi della procedura in via indiretta, con una maggior attenzione alla qualificazione e all’impegno del curatore fallimentare, e in via diretta con la contingentazione del tempo di esecuzione del programma di liquidazione ma soprattutto con l’implementazione dell’art. 118 l.f. che è stato integrato nel senso che alla prescrizione secondo la quale nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4) (e quindi quando si procede a ripartizione finale dell’attivo) ove si tratti di fallimento di societa' il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese è stata aggiunta quella secondo cui “La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non e' impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore puo' mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43. In deroga all'articolo 35, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato. Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonche' le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto dall'articolo 117, comma secondo. Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori secondo le modalita' disposte dal tribunale con il decreto di cui all'articolo 119. In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento”.
Pare evidente il tentativo di sottrarre al calcolo ai fini della valutazione della ragionevolezza della durata della procedura fallimentare e quindi del risarcimento ex c.d. Legge Pinto la nuova fase del supplemento di liquidazione e quindi poter sostenere che il fallimento è chiuso con il relativo provvedimento del giudice che dichiara chiusa la procedura nonostante la pendenza di giudizi.
Quanto questo tentativo, che vede comunque i creditori in attesa degli sviluppi dei giudizi in corso con gestione ad opera degli stessi organi della procedura “chiusa”, sia destinato al successo si vedrà ma forse sarebbe stata l’occasione per rivedere la stessa natura della fase liquidatoria del fallimento (e di quella dell’esecuzione del concordato preventivo) valutando, ad esempio, l’ipotesi di prevedere che il procedimento si chiuda effettivamente con l’accertamento del passivo e l’individuazione della consistenza dell’attivo da liquidarsi, lasciando al dialogo tra liquidatore e rappresentanza dei creditori la fase liquidatoria, con il Tribunale nel ruolo unicamente di risolutore dei conflitti di questi organi tra loro o con i terzi.
Occupandoci del presente, non può non prendersi atto che la modifica legislativa ha dato luogo a vari interrogativi tra i quali, in primo luogo, quello circa l’individuazione delle tipologie di giudizi la cui pendenza non preclude la chiusura del fallimento, essendosi scontrata l’interpretazione maggiormente rispettosa del dettato letterale che vuole la chiusura possibile solo se i giudizi pendenti sono quelli che il curatore ha esercitato avvalendosi del disposto dell’art. 43 l.fall. e quindi quelli relativi a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento (esclusi dunque quelli azionati iure proprio, quali le azioni revocatorie, nonché i procedimenti esecutivi che giudizi non sono) e quella più ampia che ritiene possibile non solo chiudere in pendenza di qualunque giudizio volto ad acquisire attivo e dei procedimenti esecutivi ma ritiene anche legittimato il curatore ad agire ex novo in executivis per ottenere soddisfazione della pretesa pecuniaria all’esito dei giudizi in corso.
Prescindendo da tali problemi che esulano dall’oggetto delle presenti note, ma fermo restando che tanto più ampio è il novero dei giudizi la cui pendenza si ritiene non ostativa alla chiusura della procedura tanto più sentito sarà l’incidenza della questione che ci si accinge ad affrontare, pare potersi affermare che le difficoltà maggiori si sono presentate e si presentano in relazione alle problematiche fiscali che pone la chiusura del fallimento, chiaramente non considerate dal legislatore del 2015.
Poiché la disciplina tributaria non può non assumere come acquisiti gli istituti propri del diritto civile per cercare di dare qualche indicazione è opportuno partire dall’individuazione degli effetti sotto il profilo civilistico che derivano dalla chiusura del fallimento, posto che appunto da questo dato procedurale, secondo l’inequivoco tenore letterale della disposizione (“La chiusura della procedura … non è impedita dalla pendenza di giudizi”), non può certo prescindersi.
Ma se non può prescindersi dalla chiusura, per la stessa ragione dell’imperatività della disposizione e dell’assenza di ogni indicazione contraria dettata dal legislatore con l’intervento del 2015 di cui si tratta che ha operato l’integrazione dell’art. 118 proprio come seguito della disposizione sull’obbligo del curatore di richiedere la cancellazione, non può prescindersi neppure da quest’ultima. Sarebbe infatti veramente strano per non dire assurdo pensare che il legislatore nella disposizione che segue pressochè immediatamente quella sull’obbligo di cancellazione abbia potuto implicitamente escludere che si potesse prescindere da questa nonostante la chiusura.
Quindi un primo punto deve essere tenuto fermo: nei casi in cui si ritiene di poter chiudere il fallimento in pendenza di giudizi bisogna anche immediatamente procedere alla cancellazione della società che dunque, come si desume inequivocabilmente dall’art. 2495 c.c., si estingue.
Sempre dal punto di vista civilistico la situazione che si viene a creare, se non si sono ancora esauriti al momento dell’estinzione rapporti passivi o attivi già di pertinenza della società, come è appunto l’ipotesi di cui si tratta, è quella convincentemente disegnata dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 6070 del 12 marzo 2013.
In sintesi, secondo tale arresto deve ritenersi che, in virtù di un fenomeno assimilabile a quello della successione universale, nei rapporti passivi succedono i soci in base alla considerazione che, una volta venuto meno lo strumento (la società) attraverso il quale gli stessi operavano nel mondo giuridico ed economico, i rapporti residui si trasferiscono in capo a coloro che in concreto e sia pure in via mediata di tali rapporti erano parte. Ovviamente per i soci non illimitatamente responsabili non viene meno il limite di responsabilità di cui all’art. 2495 c.c. per cui essi rispondono solo fino alla concorrenza delle somme riscosse in base al bilancio di liquidazione. E’ importante precisare che secondo la Corte i rapporti passivi residui gravano per intero su tutti i soci che peraltro possono opporre ai creditori il limite della responsabilità dato dalle somme riscosse. Può osservarsi, incidenter tantum, che se in capo agli stessi permane l’intera obbligazione il pagamento spontaneo della stessa anche oltre il riscosso da loro effettuato sarebbe non ripetibile in quanto adempimento di un’obbligazione naturale.
Meno agevole è l’immediata individuazione della sorte dei residui attivi non liquidati e delle sopravvenienze attive della liquidazione di una società cancellata dal registro, perchè il legislatore ne tace.
La Corte, escluso che l'esistenza di tali residui o sopravvenienze sia da sola sufficiente a giustificare la revoca della cancellazione della società dal registro, o che valga altrimenti ad impedire l'estinzione dell'ente collettivo, ritiene che valgano tuttavia le stesse considerazioni circa l’automatica successione dei soci con la precisazione che ciò avviene, però, solo per le somme certe e non per le mere pretese, in base alla considerazione secondo la quale se il liquidatore non ha inserito determinati importi a bilancio o non ha iniziato un’azione per accertare il diritto deve intendersi che agli stessi abbia implicitamente rinunciato.
Enuncia la Corte: “Se l'esistenza dell'ente collettivo e l'autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, s'instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione”.
Partendo dunque dell’enunciato principio e per conciliare la ricostruzione del fenomeno dell’estinzione operata dalle Sezioni Unite con la questione fiscale e quindi per consentire al curatore fallimentare di operare ancora come nella fase ormai chiusa, sono possibili due soluzioni[1].
La prima consiste nel ritenere che la società, ai soli fini dei giudizi pendenti, possa considerarsi esistente nonostante l’estinzione.
Il fenomeno non è nuovo come dimostrano l’art. 10 l.fall., che consente il fallimento della società fino ad un anno dopo la cancellazione, e l’art. l’art. 28, comma 4, d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175 a mente del quale «Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’art. 2395 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese».
Se si seguisse l’impostazione e quindi la fictio posta base delle previsioni normative sopra richiamate e applicando l’analogia si potrebbe sostenere che, ai soli fini della gestione delle cause pendenti, l’estinzione della società ha efficacia solo al termine del supplemento di liquidazione. Questo consentirebbe di proseguire senza soluzione di continuità nell’ordinaria gestione per quanto attiene ai rapporti con il Fisco. L’operazione ermeneutica non è tuttavia facile in quanto le disposizioni sopra citate sono chiaramente eccezionali e quindi non qualificabili come espressione di un principio esportabile in diversa fattispecie.
La seconda soluzione, rispondente alla citata giurisprudenza di legittimità e preferibile in quanto non comporta il ricorso a particolari acrobazie interpretative, è quella di ritenere che il debito residuato alla ripartizione finale e alla chiusura della procedura si trasferisce in capo ai soci i quali tuttavia non possono essere perseguiti dai creditori per l’ovvia considerazione che nessuna somma rinveniente dal patrimonio della fallita hanno riscosso in esito alla ripartizione finale.
Si trasferiscono in capo ai soci anche i rapporti attivi non ancora conclusi e quindi, ferma restando la legittimazione del curatore a gestirli e quindi a stare in giudizio perché così prevede espressamente la normativa fallimentare, si trasferisce in capo a loro anche la titolarità delle sopravvenienze attive eventualmente derivanti dalle azioni proseguite.
Se i giudizi hanno esito positivo, sulle sopravvenienze che si verificano non possono avanzare tuttavia alcuna pretesa non solo i creditori (art. 120 l.fall. come integrato dal d.l. n. 83/2015) ma neppure i soci in quanto i principi sulla liquidazione impongono che a questi ultimi possa essere distribuito il patrimonio solo una volta pagati i debiti per cui la gestione dell’attivo resta in capo al curatore.
In definitiva e in sintesi si costituisce un patrimonio separato costituito dalla comunione dei soci sui debiti e sui crediti azionati la cui gestione e disponibilità appartengono ex lege al curatore.
Ciò posto, quali sono le conseguenze sul piano fiscale a seconda delle soluzioni prospettate?
La prima soluzione, e cioè la fittizia sopravvivenza della società non dovrebbe comportare alcun problema anche in presenza della cancellazione della società fallita, posto che l’estinzione della stessa verrebbe convenzionalmente sospesa.
La seconda soluzione comporta invece non pochi problemi.
Nessun dubbio che si possa procedere alla della chiusura della partita IVA che comporta la possibilità di richiedere il pagamento dell’importo eventualmente a credito come da circolare ministeriale n. 3 del 1992.
Si pone invece il problema di come fare a gestire l’IVA relativa alle attività successive alla chiusura (es. pagamento dei professionisti che hanno gestito il contenzioso) in quanto la mancata titolarità della partita IVA comporterebbe l’equiparazione del curatore al consumatore finale per cui l’imposta rimarrebbe a carico della massa essendo impossibile richiederne il rimborso.
Ovviamente una soluzione sarebbe quella di mantenere aperta la partita IVA anche dopo la chiusura con la specifica indicazione della mancata cessazione dell’attività anche dopo la cancellazione: solo al termine di tutti i giudizi si provvederebbe alla dichiarazione di chiusura dell’attività e alla richiesta dell’eventuale IVA a credito procedendo al riparto finale. Osta a tale conclusione la considerazione secondo cui la partita IVA sarebbe in capo ad un soggetto inesistente, essendosi la società estinta.
Altra soluzione, che pare quella più lineare in quanto conforme alla situazione giuridica che si viene a creare con la estinzione della società in seguito alla cancellazione, potrebbe essere quella di richiedere l’apertura di una specifica partita intestandola all’ente costituito dal patrimonio in comunione dei soci della società cancellata di cui è amministratore ex lege il curatore fallimentare e su questa gestire tutte le operazioni fino all’ultimo riparto supplementare.
Punto critico è quello costituito dall’impossibilità di far emergere un credito IVA in quanto il nuovo ente di per sé non esercita attività di impresa ma gestisce solo una comunione di beni e quindi non potrebbe avere una posizione fiscale rilevante ai fini IVA.
La soluzione a mio avviso sostenibile parte dalla considerazione che il legislatore se ha considerato chiusa la procedura ha tuttavia considerato la successiva fase strettamente conseguente a quella chiusa, sia perché si trascina la situazione attiva e passiva precedente sia perché è evidente che la residua liquidazione non è che la conclusione di quella effettuata fino alla chiusura. Se così è, anche la qualificazione dell’attività della seconda fase non può che essere quella della prima e quindi trattarsi della attività di liquidazione di un’impresa commerciale e come tale idonea a fondare una richiesta di attribuzione di partita IVA.
Per quanto riguarda le imposte dirette si ricorda che il reddito imponibile deve essere determinato alla chiusura della procedura relativamente al c.d. maxiperiodo intercorrente tra l’apertura del fallimento e la sua chiusura calcolato nella differenza tra residuo attivo della procedura e patrimonio netto all’inizio della stessa.
Normalmente tale differenza è negativa per cui si presenta la dichiarazione in tale senso in quanto la procedura è tecnicamente chiusa.
Quanto al trattamento delle eventuali sopravvenienze attive derivanti dall’esito dei giudizi proseguiti credo che la gestione debba essere la stessa sopra indicata e cioè calcolare la differenza tra il patrimonio netto alla data di trasferimento della titolarità dei rapporti attivi e passivi ai soci ed eventuale residuo attivo all’esito del riparto supplementare.
Così delineata una possibile soluzione dell’intricata situazione derivante dal richiamato intervento legislativo, deve darsi conto di quale sia, allo stato, l’orientamento dell’Agenzia delle entrate.
La prima pronuncia dell’Amministrazione fiscale è costituita da una risposta ad interpello da parte della Direzione Regionale del Veneto che ha affermato questi convincimenti:
- possibilità di mantenimento del codice fiscale della società in quanto non si provvede alla cancellazione della stessa;
- possibilità di chiusura della posizione IVA in conseguenza della cessazione dell’attività con richiesta eventuale di rimborso;
- riapertura della partita IVA in caso di successive operazioni rilevanti ai fini IVA, ad esempio in seguito all’esito dei giudizi pendenti;
- quanto alle imposte sui redditi e ferma restando la predisposizione della dichiarazione per il periodo dall’apertura alla chiusura del fallimento, per il periodo successivo non si dovrebbe presentare la dichiarazione integrativa, volta solo a correggere errori, ma si dovrebbe presentare un nuovo modello UNICO relativo al periodo in cui si sono verificati i necessari presupposti di cui all’art. 118 c. 2 legge fall. e quindi, sembrerebbe, per quello successivo alla chiusura della procedura e fino al riparto supplementare, ma la posizione non è chiara[2] in quanto si accenna nel documento alla rideterminazione dell’imposta in base al “nuovo maxiperiodo” e quindi sembrerebbe rifacendo il calcolo prendendo come inizio la dichiarazione di fallimento e come fine la ripartizione supplementare.
Le conclusioni sotto il profilo pratico coincidono con quelle sopra sostenuto nel senso che è possibile procedere al recupero dell’IVA anche per le operazioni successive alla chiusura così come rileva anche ai fini delle imposte dirette detto periodo sia che lo si calcoli spezzato in due periodi sia che lo si consideri per l’intero.
Come si è cercato di dimostrare osta alla soluzione indicata l’impossibilità di prescindere dalla cancellazione della impresa.
Recentemente l’Amministrazione si è espressa a più alto livello in quanto è intervenuta una risposta ad interpello da parte dell’Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Normativa, la quale, tuttavia, ha onestamente ammesso che la soluzione non è agevole “Poiché il legislatore non è intervenuto per adeguare le norme fiscali alla nuova realtà fallimentare, la problematica sollevata dall’istante non è di immediata soluzione, in quanto le regole ordinarie appaiono di difficile applicazione”.
Conclude peraltro il documento in maniera estremamente possibilista in quanto esamina l’ipotesi in cui il tribunale acconsenta ad evitare la cancellazione e conclude che in tale caso il contribuente “avrà la possibilità di assolvere gli obblighi fiscali secondo le regole ordinarie” ma esamina anche quella in cui la cancellazione venga invece disposta concludendo che, in tal caso, “in mancanza di ulteriori sviluppi della materia, si ritiene plausibile la proposta dell’istante – richiesta di apertura della partita Iva – al fine di ottemperare a tutti gli obblighi in argomento”.
Nessuna motivazione, dunque, sulla possibile inconciliabilità dell’apertura della partita IVA in assenza di attività di impresa per cui sembrerebbe che l’Agenzia aderisca alla tesi sopra esposta dell’identità di natura della liquidazione operata dal curatore prima e dopo la chiusura della procedura.
Al di là di tali rilievi pare potersi desumere che l’atteggiamento conciliante dell’Agenzia sembra preannunciare che l’Amministrazione fiscale sia disponibile a non arroccarsi su posizioni formalistiche.
Ma un dubbio sorge inevitabile: se invece di un quesito volto a chiarire (come è avvenuto nella fattispecie che ha dato origine all’interpello) come potesse il curatore adempiere agli obblighi fiscali in caso di chiusura del fallimento con prosecuzione dei giudizi in corso la domanda fosse stata volta a chiarire come si possa ottenere il rimborso di crediti fiscali nella stessa situazione la risposta sarebbe stata altrettanto possibilista?
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