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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/10/2015 Scarica PDF

La sospensione della provvisoria esecutività della sentenza di primo grado dopo le ultime riforme

Gianluca Cascella, Avvocato in Torre Annunziata


Osservazioni a margine di Appello Napoli, 24 settembre 2015

 

Sommario: 1. Premessa. 2. Il procedimento. 3. Caratteri del provvedimento. 4. L'ultima riforma: osservazioni conclusive.


   

1. Lo spunto alla presente riflessione è fornito da una recentissima decisione di un giudice d’appello, edita in questa Rivista, il quale, sollecitato dall’appellante con istanza ex artt. 283-351 c.p.c. contenuta nel corpo dell’impugnazione, ha respinto l’istanza medesima rilevando, per quanto di interesse in questa sede, come la stessa non potesse trovare accoglimento per le seguenti ragioni.

Innanzitutto, la Corte ha affrontato – anche se solo in via incidentale – l’esame della tematica relativa alla natura del chiesto provvedimento di inibitoria, rilevando come lo stesso possiede natura latu sensu cautelare, il che conduce ad escludere che il requisito richiesto dall’art. 283 c.p.c. per concedere l’inibitoria potesse identificarsi con i motivi addotti dall’appellante a sostegno della proposta impugnazione, in quanto proprio la innanzi richiamata natura del provvedimento[1] non consentiva, in quella sede, di anticipare la valutazione delle contrapposte difese che le parti hanno allegato, specularmente, a sostegno delle proprie ragioni.

Inoltre, parimenti il collegio ha escluso che i c.d. gravi motivi possano essere integrati dalla sola messa in esecuzione della decisione impugnata – rectius, dagli effetti naturalmente connessi alla predetta attività –essendo invece richiesto un quid pluris, rappresentato da conseguenze ulteriori, suscettibili – a seguito di una valutazione in termini di oggettiva loro idoneità – di arrecare un pregiudizio agli interessi della parte che ha formulato l’istanza di sospensione della provvisoria esecutività della decisione di primo grado; il che rileva a maggiore ragione, secondo la Corte, allorquando la somma al cui pagamento l’appellante sia stato condannato con la decisione impugnata non sia di importo rilevante.

Ancora, importante si rivela il rilievo – naturalmente incentrato sul principio dell’onere della prova e sul conseguente atteggiarsi della sua ripartizione tra le parti del processo – per il quale risulta preciso onere della parte che formula l’istanza in questione, di allegare e provare quegli elementi oggettivi da cui si possa evincere la sussistenza di un pregiudizio per l’appellante diverso ed ulteriore rispetto ai normali effetti connessi all’esecuzione della decisione di primo grado.

Infine, il giudice ha disposto l’applicazione dell’art. 281 sexies cpc ritenendo la causa matura per la decisione, sulla scorta delle contrapposte difese delle parti, in applicazione di quanto previsto dalla riforma di fine 2011, improntata ad evidente finalità deflattiva del carico dei processi nonché di riduzione della durata dei medesimi.

 

2. A seguito della riforma del 1990 che, con la L. 353, ha attribuito efficacia esecutiva provvisoria a tutte le decisioni di primo grado, è venuto meno quello che era definito come effetto sospensivo dell’appello, e pertanto l’unico strumento per contrastare la immediata esecutività discendente dalla Legge, delle decisioni di primo grado, è rappresentato dalla c.d. inibitoria processuale, ai sensi degli artt. 283-351 c.p.c.

Il codice vigente prevede, relativamente alla istanza per provocare l’emanazione di un provvedimento, positivo o negativo, circa la sospensione della provvisoria esecutività della decisione di primo grado, quello che potremmo definire come doppio binario.

Infatti, all’appellante viene riconosciuta una duplice possibilità per sottoporre al giudice dell’impugnazione tale propria richiesta, potendo egli formularla sia nel corpo dell’atto di appello, sia in maniera non contestuale alla proposizione dell’impugnazione medesima, anche se comunque sempre in collegamento con essa.

Al di là della differenza strettamente tecnica, legata alla scelta della forma dell’atto, viene immediatamente in evidenza una differenza dal punto di vista della tempistica, volta ad assicurare una maggiore celerità nella decisione in ordine all’istanza di inibitoria, evidentemente in ragione della deduzione, da parte dell’istante, della sussistenza di un periculum in mora molto stringente: l’art. 351, 2° comma c.p.c., invero, riconosce all’appellante la facoltà di chiedere al giudice (presidente del collegio in caso di corte di appello come giudice del gravame) che la decisione sulla sospensiva sia resa in data anteriore rispetto a quella di prima comparizione, nella quale normalmente avviene la decisione sull’istanza in questione, in assenza dell’avvio del procedimento per così dire abbreviato; la data della prima udienza rappresenta il limite temporale invalicabile perché il giudice si pronunzi sulla predetta istanza, che, occorre tenerlo presente, deve essere reiterata in tale sede a pena di inammissibilità della stessa

In dottrina, infatti, si afferma che la necessità che il giudice provveda su tale istanza alla prima udienza di trattazione dell’appello discende dall’esigenza di evitare che il prosieguo del giudizio faccia emergere difese nuove ed ulteriori rispetto a quelle cristallizzate dalle parti nei rispettivi atti introduttivi e/o vi sia il deposito di documentazione ulteriore[2]; viene da pensare, al riguardo, all’ipotesi - invero ristretta e limitata per effetto della nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c. a seguito della riforma del 2012 - in cui una delle parti produca, chiedendo contestualmente l’autorizzazione a tal fine al giudice dell’appello, un documento nuovo,[3] mentre l’unico differimento della decisione su di essa è consentito nel solo caso in cui, versandosi nell’ipotesi prevista dall’art. 331 c.p.c., ovvero di cause inscindibili e/o dipendenti, si riveli indispensabile procedere alla integrazione del contraddittorio, eccezione che non ricorre, invece, nella diversa ipotesi prevista dal successivo art. 332 c.p.c.;[4] relativamente al contenuto della istanza, in giurisprudenza si ammette, con specifico riguardo al requisito del periculum in mora, che l'appellante nell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione possa limitarsi a dedurne la sussistenza, rimandando la precisa elencazione delle  argomentazioni volte a dimostrare la sussistenza del requisito predetto, nel successivo ricorso ex art. 351 c.p.c.[5]

Ove invece sia stato presentato il predetto ricorso, viene fissata udienza camerale per la decisione, in cui il giudice – che eventualmente potrebbe anche avere disposto, inaudita altera parte, l’immediata sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza ovvero dell’esecuzione nelle more intrapresa sulla scorta della sentenza medesima, se ritenga sussistere giusti motivi di urgenza – con ordinanza, dichiarata espressamente impugnabile dal 3° comma del richiamato art. 351 c.p.c., potrà confermare, modificare ovvero revocare il decreto in questione.

Occorre tenere presente che, come autorevolmente si sostiene, essendo preclusa al giudice la possibilità di disporre ex officio la sospensione della provvisoria esecutività in questione,[6] se nell’atto di appello (principale e/o incidentale che sia) tale istanza non sia stata proposta, e nemmeno essa sia stata avanzata in maniera separata, come consente il secondo comma dell’art. 351 c.p.c., l’appellante risulterà inevitabilmente decaduto dalla possibilità di una sua successiva proposizione, anche se, per ipotesi, il termine per proporre l’impugnazione risulti ancora pendente.[7]

La possibilità di ricorrere allo strumento in questione, che configura un rimedio di carattere generale, viene dalla giurisprudenza di legittimità esclusa con riferimento ad una peculiare ipotesi, che è quella della sentenza dichiarativa di fallimento, in relazione alla quale, per la Cassazione, il rimedio di cui all'art. 351 c.p.c. non può trovare applicazione in considerazione della essenza e della finalità della procedura fallimentare, attesa la funzione che la esecuzione collettiva è finalizzata ad attuare,[8]all'evidenza volta a tutelare interessi superindividuali, che come tali trascendono quelli delle singole parti e pertanto legittimano l'esclusione dell'applicabilità di un rimedio avente invece – come già rilevato - carattere generale, in ragione delle peculiarità di una legislazione settoriale e specifica quale quella che regolamenta il fallimento e le procedure concorsuali in genere.

 

3. Prima di passare alla descrizione dei caratteri del provvedimento – positivo e/o negativo - di sospensione, va premesso come esso rappresenti, metaforicamente parlando, l’altra faccia della medaglia rappresentata  dalla esecutorietà ex lege della decisione di primo grado, introdotta dalla L. 353/1990, e tanto al fine di controbilanciare la indubbia gravosità, per la parte soccombente, di tale previsione, dato che, prima della richiamata riforma, i casi in cui il giudice di primo grado concedeva la esecutività provvisoria della decisione erano pochi, ben individuati e con l’osservanza di specifiche avvertenze; altro segno, questo, della volontà, fatta palese dal Legislatore del 1990, di conferire alla statuizione del giudice di prime cure valenza ed autonomia ben superiori rispetto al passato, perseguendo altresì un ulteriore obiettivo, che potrebbe definirsi mediato, rappresentato da una deflazione degli appelli ed in particolare di quelli che, nella vigenza del precedente regime, venivano proposti al solo scopo di procrastinare il più a lungo possibile l’avvio dell’esecuzione in forza della sentenza medesima, visto che la esecutorietà della stessa era condizionata ad una valutazione del giudice dell’appello: come afferma autorevole studioso, essa rappresenta un irrinunciabile contrappeso rispetto alla provvisoria esecutività attribuita ex lege alle decisioni di primo grado.[9]

Per una più agevole comprensione della finalità del provvedimento che l'istante ai sensi degli artt. 283-351 c.p.c. richiede al giudice dell'appello, occorre subito precisare come l'oggetto di esso si riveli duplice, in quanto può riguardare sia l'efficacia esecutiva provvisoria della sentenza, attribuita a tutte le decisioni di primo grado dal novellato art. 282 c.p.c., sia, di contro – ovviamente a seconda del momento in cui detta istanza viene formulata, in rapporto ad un'esecuzione che, sulla base del titolo in questione, non è ancora iniziata, ovvero sia stata già avviata con il compimento del suo primo atto (id est, il pignoramento) – sia una esecuzione già iniziata, anche perchè nulla vieta all'appellante di formulare entrambe le richieste, magari graduandole nel senso di richiedere innanzitutto la sospensione dell'efficacia esecutiva provvisoria, rafforzata ed accompagnata dall'ulteriore richiesta di privare di ogni effetto eventuali atti di esecuzione nelle more posti in essere dal creditore procedente, come si afferma in dottrina;[10] il tutto, poi, senza trascurarsi di evidenziare che l'esame delle circostanze specifiche del caso concreto ben può dar luogo ad una sospensione anche solo parziale della efficacia esecutiva della decisione impugnata, come si verifica, ad esempio, molto spesso nel caso in cui vi sia un massimale di polizza assicurativa, oppure vi sia stato, nelle more tra l'avvio dell'esecuzione, la proposizione dell'appello con la contestuale – ovvero anche anteriore – formulazione dell'istanza, il pagamento di una somma da parte del debitore, magari la cifra che il medesimo riteneva congrua, sospensione che, in tal caso, può riguardare, ad esempio, anche i soli interessi, stante la non applicabilità, nella ipotesi sopra prospettata, della previsione di cui all'art. 1194 c.c., dovendosi invece detrarre dal dovuto la somma già versata, che concorre anche a ridurre la base di calcolo per gli interessi; ancora, si può fare l'esempio di un pagamento avvenuto in primo grado, o addirittura anche prima, del quale tuttavia il primo giudice non se ne è accorto, conseguentemente nulla statuendo in proposito.

Tutte ipotesi, quelle appena menzionate – ma senza pretesa di esaustività – in cui la sospensione parziale si rivela senza dubbio lo strumento più idoneo a contemperare i contrapposti interessi, da un lato, del debitore a non subire un'esecuzione per una somma che non tenga conto, per la sua eccessività, di quanto già da questi pagato e, dall'altro, del creditore a non vedere paralizzata in toto la sua azione esecutiva; inoltre, non va trascurato che l’ordinanza che concede ovvero nega l’inibitoria viene dalla Legge espressamente dichiarata come non impugnabile, come infatti statuisce il primo comma dell’art. 351 c.p.c., il che porta la dottrina prevalente ad escludere che, nei confronti della stessa, sia esperibile il rimedio di cui al 7° comma dell’art. 111 Cost., il c.d. ricorso straordinario in Cassazione.[11]      

A conferma della precisa volontà legislatore di costruire il provvedimento in questione come non impugnabile, va detto che la giurisprudenza esclude altresì l'esperibilità anche di ulteriori strumenti di impugnazione e/o contestazione di tale provvedimento, affermando  - anche se sulla scorta di differenti presupposti, non esenti da critiche, come meglio si proverà ad evidenziare in seguito – che, contro l'ordinanza in questione, non è possibile proporre reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c., sul presupposto – mostrandosi sul punto in evidente disaccordo con la corte di appello partenopea  - per cui, dovendo la valutazione del giudice, nell'emettere il provvedimento de quo, riguardare il solo requisito del fumus boni iuris, e quindi potendo prescindere dal valutare la sussistenza o meno dell'ulteriore requisito del periculum in mora, allora tale decisione non possiederebbe natura nemmeno latu sensu cautelare,[12] come invece affermato dalla decisione qui annotata; in proposito, occorre evidenziare tuttavia che tale ricostruzione appare smentita dal consolidato orientamento della S.C. che, invece, riconosce al provvedimento ex artt. 283-351 c.p.c. natura cautelare in senso ampio, indubbiamente provvisorio ed in quanto tale inidoneo a determinare un pregiudizio irreversibile ai diritti delle parti,[13] come del resto la giurisprudenza di legittimità ha ribadito con una successiva decisione,[14] e come anche alcuni autori sostengono;[15]va rilevato infine, per completezza espositiva sul punto, che qualche autore si mostra in disaccordo con i richiamati orientamenti giurisprudenziali e dottrina e, traendo spunto dalla affermata natura – in senso ampio, latu sensu che dir si voglia – cautelare dell'ordinanza in questione, paventando l'incostituzionalità degli artt. 283-351 c.p.c., sotto il profilo della violazione di svariati principi costituzionali (quali quello di uguaglianza, del diritto alla difesa nonché del giusto processo), ritiene invece che l'ordinanza medesima sia reclamabile ai sensi dell'art. 669terdecies c.p.c.[16]

Così individuato l'oggetto del provvedimento in questione, occorre analizzarne brevemente i presupposti – a parte, ovviamente, l'istanza, della cui indispensabilità si è già detto – per la concessione della inibitoria medesima, ovvero i c.d. gravi e fondati motivi.

Al riguardo, va tenuto presente che l'art. 283 c.p.c. consente la sospensione della efficacia esecutiva provvisoria della sentenza di primo nel caso di loro ricorrenza, ed al fine della individuazione del relativo contenuto, occorre ben tenere a mente il rapporto che intercorre tra detta norma e la disposizione che immediatamente la precede, ovvero l'art. 282 c.p.c., essendo un rapporto tra la regola, quella introdotta da tale ultima norma, costituita dalla esecutività provvisoria della decisione di primo grado - trattandosi di un effetto previsto ex lege - e l'eccezione rappresentata, invece, dalla possibilità di inibire tale effetto, che necessariamente l'art. 283 c.p.c. subordina alla verifica della ricorrenza, nel caso concreto, degli stringenti presupposti che la norma stessa ha introdotto – appunto il fumus boni iuris ed il periculum in mora, della cui coesistenza il giudice dell'impugnazione deve accertarsi, per poter concedere l'inibitoria; con la riforma del 2005, essendo stata resa palese la indispensabilità della sussistenza di entrambe i requisiti, sono state superate le oscillazioni dottrinali e giurisprudenziali sorte, nel silenzio della lettera precedente della citata disposizione, sulla indispensabilità o meno di entrambe i requisiti; ed infatti, dopo la entrata in vigore della predetta riforma, in dottrina si è subito rilevato che, a seguito della riforma in questione, il giudice dell’impugnazione, nella propria valutazione non sarà più limitato a prendere in considerazione solo il pericolo che il ricorrente abbia dedotto, allegato e provato, come a lui derivante dalla possibile esecuzione della decisione di primo grado, potendo invece prendere in considerazione anche il merito del gravame e la sua eventuale fondatezza,[17] anche se, così opinando, ad avviso di chi scrive, vengono ad essere accomunati (se non equiparati) motivi dell’inibitoria e motivi dell’impugnazione, che tuttavia non pare essere stato l’intento del Legislatore del 2005.

Evidente risulta, allora, la ratio legis insita in tale previsione, siccome chiaramente volta ad impedire che l'intento, perseguito dal Legislatore, di conferire al giudizio di primo grado natura indiscutibilmente risolutiva di qualsivoglia pretesa che, tra le parti, potesse reciprocamente insorgere in relazione alla vicenda portata all'esame del giudice, venisse vanificato dal riconoscimento – come accadeva prima della riforma del 1990 che, come già rilevato, ha escluso il c.d. effetto sospensivo dell'appello – alla impugnazione stessa di una finalità esclusivamente, o quasi, volta a conseguire tale sospensiva, tralasciando invece il compito assegnatogli dal  Legislatore, quello cioè di svolgere funzione di revisio prioris istantiae rispetto alla controversia che ha costituito oggetto del giudizio di primo grado, in ragione del correlato divieto del nova in appello, reso sempre più stringente dal susseguirsi delle riforme al processo civile, in particolare all'art. 345 c.p.c.

La riforma del 2005 ha inciso sull’istituto e sulla sua concreta portata in modo non trascurabile, e tanto appare indubbio, anche se, in relazione alla effettiva innovatività della riforma, parte della dottrina ne dubita, rilevando come, in realtà, non sarebbe a parlarsi di una vera e propria innovazione normativa, quanto piuttosto di una ricognizione e riconduzione, nell’alveo del codice di procedura ed in più con il riconoscimento della dignità di norma di diritto positivo, di risultati interpretativi frutto di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.[18] 

A proposito della modifica introdotta nel 2005, va osservato come la l. 263 abbia apportato modifiche rilevanti al testo dell'art. 283 c.p.c., sia inserendo l'aggettivo fondati, con riferimento ai gravi motivi previsti dalla norma in questione, ed in tal modo ha, in sostanza, da un lato reso ancora più stringenti i requisiti che il ricorrente deve allegare e provare per ottenere l’inibitoria e, dall’altro, imposto al giudice dell’impugnazione un’analisi ancor più minuziosa ed estesa in ordine alla sussistenza dei presupposti in questione, di modo che il provvedimento che conceda o neghi l’inibitoria, a maggiore ragione perché non impugnabile, e per le conseguenze che esso determina sulle posizioni delle parti, possa essere il più possibile conforme a giustizia. 

Ben si comprende, pertanto, perchè, secondo la giurisprudenza, per concedere la sospensiva di cui all'art. 283 c.p.c., risulta indispensabile la coesistenza, in termini di allegazione e prova di essi da parte del ricorrente, di entrambe i requisiti richiesti dalla norma in questione, onde impedire che venga aggirata la previsione di carattere generale contenuta nell'art. 282 c.p.c., incentivando quindi la proposizione di appelli al solo fine di conseguire l'inibitoria;[19] si tratta, cioè, secondo tale condivisibile ricostruzione, di evitare un ritorno al passato, impedendo quindi una reintroduzione, de facto, del citato effetto sospensivo dell'appello.

Deve allora ritenersi che i gravi motivi richiesti per la concessione della inibitoria non possano essere integrati solo da una valutazione di probabile fondatezza dell'appello e dalla sola esecuzione della sentenza, munita della clausola di provvisoria esecutività ai sensi dell'art. 282 c.p.c., occorrendo invece la deduzione, da parte dell'appellante (con conseguente onere a suo carico ex art. 2697 c.c.), che nelle more della decisione sul merito della impugnazione egli sia esposto al rischio di subire un danno ulteriore,[20] come potrebbe essere, ad esempio, per un imprenditore commerciale, la revoca delle linee di credito a lui concesse dagli istituti bancari, con conseguente richiesta, da parte di tali soggetti, di immediato rientro.

In giurisprudenza, invero, si registrano anche decisioni che contravvengono, pur se con qualche distinguo, l'affermazione contenuta nel provvedimento che qui si annota, relativamente alla preclusione, per il giudice dell'appello, di delibare anticipatamente, in sede di esame dell'inibitoria, la verosimile fondatezza del gravame, assumendosi infatti una posizione che, al contrario, ammette simile possibilità.[21]

Si afferma, in sostanza, che i gravi motivi idonei a determinare la sospensione della esecutività della sentenza di primo grado ai sensi dell'art. 282 c.p.c., debbono consistere nella concorrenza di un rilevante fumus boni juris nei motivi di appello – come ad esempio è stato riconosciuto nel caso in cui l'appellante abbia dedotto la nullità della notifica dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado,[22]evidentemente celebratosi, quindi, nella incolpevole contumacia di quest'ultimo - e del pregiudizio che la parte soccombente potrebbe subire dall'esecuzione iniziata e, da tale presupposto, si perviene a statuire come la valutazione relativa al requisito da ultimo richiamato possa tradursi in una valutazione anticipata e sommaria della fondatezza dei motivi di appello mentre, con riguardo all'ulteriore requisito del periculum in mora, si sostiene che il pregiudizio in questione non possa consistere nel subire i meri effetti della condanna pronunciata, dovendo non solo rappresentare un pregiudizio secondario alla esecuzione stessa, ma, altresì, anche essere tale da incidere sulla parte esecutata con effetti ulteriori rispetto a quelli propri della esecuzione.[23]

Ecco che, allora, proprio in ragione della chiesta sussistenza di gravi e fondati motivi, risulta inevitabile come tanto più appaia probabile e verosimile l’accoglimento dell’appello, di conseguenza tanto più risulterà doverosa la concessione dell’inibitoria, anche in considerazione del fatto che il Legislatore non si è limitato ad intervenire solo sul requisito del fumus boni iuris, come si è già provato ad evidenziare, ma con la riforma del 2005 ha inciso anche sull’ulteriore requisito del periculum in mora, avendo elevato la potenziale insolvenza di una delle parti a criterio tipico, appunto ex lege, cui il giudice dovrà fare riferimento nella relativa valutazione, con l’evidente fine di tutelare la posizione del soggetto che, ove costretto al pagamento in ragione della forza esecutiva della decisione di primo grado, rischi, appunto per le condizioni economiche tutt’altro che floride della propria controparte, di non poter più recuperare, in caso di accoglimento, anche solo parziale, del proposto appello, quanto pagato in esecuzione (tutt’altro che spontanea) della decisione in questione; il periculum in mora, in questo caso, non risiede tanto nel dover subire una esecuzione ingiusta – perché fondata su una sentenza errata – quanto invece nel rischio che, nelle more della decisione sull’appello, che eventualmente accolga (anche solo in parte) l’impugnazione, la controparte si renda del tutto impossidente (a meno che non lo sia già): il pericolo di subire quello che in dottrina viene definito come pericolo da infruttuosità[24]; per converso, tuttavia, se il creditore è una procedura fallimentare, deve ritenersi che l’art. 113 L.F. escluda per il debitore esecutato tale pericolo, in quanto detta norma prevede, al 3° comma, introdotto dal d.lgs n. 5 del 9.1.06, che le somme incassate dalla procedura in conseguenza della messa in esecuzione di provvedimenti giudiziali provvisoriamente esecutivi ma non definitivi, devono essere accantonate nei modi che stabilirà il giudice delegato.

Su tali premesse, dunque, considerata la natura della valutazione che, sul punto, è chiamato a compiere il giudice dell'impugnazione, è possibile rilevare come, dal combinato disposto degli artt. 283 e 351 cod. proc. civ. emerga, in favore del giudice di appello, adito con una istanza per la concessione della sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza emessa nel giudizio di primo grado, un potere discrezionale di ampiezza ben maggiore rispetto a quello riconosciuto, ad esempio, sempre al medesimo giudice o dall’art. 373, 1° comma c.p.c., per l’ipotesi di eventuale sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza di appello impugnata con ricorso per cassazione oppure nel caso previsto dal terzo comma dell’art. 431 c.p.c., che prevede l’ipotesi in cui l’istanza di sospensione sia rivolta nei confronti di una sentenza di primo grado favorevole al lavoratore, oppure ancore nel caso disciplinato dall’ultimo comma dell’art. 447bis cp.c, allorquando cioè la sentenza di condanna della cui efficacia esecutiva provvisoria venga chiesta l’inibitoria riguardi rapporti di locazione, comodato e affitto di immobili urbani.  Invero, nelle ipotesi innanzi richiamate, la legge richiede un requisito ancora più stringente, dal punto di vista del periculum in mora, per la concessione del provvedimento, richiamando infatti la necessaria esistenza di un danno grave ed irreparabile (art. 373,1° comma c.p.c.) tale cioè che, all’esito di una valutazione in termini oggettivi, da un lato si riveli troppo sbilanciato in negativo, rispetto al correlato beneficio che l’altra parte potrebbe ricevere dall’attuazione forzata della sentenza, e, dall’altro, il danno causato dall’esecuzione medesima non sia altrimenti rimediabile, per la parte che la subisce; ancora, è richiesta la sussistenza di quello che viene definito danno gravissimo, per il caso in cui l’esecuzione sia già iniziata (art. 431, 3° comma c.p.c.) in cui tale requisito pare trovare la sua giustificazione (con la correlata valutazione oggettiva da parte del giudice) in ragione delle diverse qualità soggettive delle parti coinvolte, nonché nell’altrettanto diverso (con evidente svantaggio per il lavoratore) potere contrattuale; infine, anche l’ultima norma innanzi richiamata, l’art. 447bis c.p.c., richiede, per darsi luogo alla inibitoria della efficacia esecutiva della decisione di primo grado, ovvero dell’esecuzione avviata sulla scorta di essa, il medesimo requisito previsto dalla disposizione richiamata in precedenza, e cioè un danno gravissimo.

Allora, ove invece si tenga presente che, per l'inibitoria di cui all'art. 283 cod. proc. civ., viene invece richiesta, come si è visto, la ricorrenza dei gravi e fondati motivi, tanto sta a significare che, da un lato, il giudice di appello può verificare anche solo sommariamente la ricorrenza o meno del fumus, ossia la fondatezza o meno dell'impugnazione stessa; dall'altro che il pregiudizio patrimoniale derivabile al soccombente dall'esecuzione della sentenza (in relazione al quale può esser concessa anche un'inibitoria parziale, se i capi della sentenza sono separati), può esser valutabile anche in relazione alla difficoltà del medesimo di ottenere la restituzione di quanto pagato in caso di accoglimento del gravame; conseguenza di tale considerazione è che alla base della concessione o meno dell’inibitoria si colloca una ponderazione complessiva, da parte del giudice, che gli effetti di essa produrranno sulle posizioni soggettive delle parti, ovviamente in relazione alle rispettive allegazioni e difese come emergenti dagli atti di causa.

Ed infatti, potendosi condividere l’opinione di chi sostiene che il pregiudizio che l’art. 283 c.p.c., prende in considerazione è quello che alla parte appellante può derivare da una esecuzione ingiusta,[25] logico corollario di tale premessa consiste nel ritenere che il requisito del fumus boni iuris assume rilievo fondamentale nella valutazione dell’istanza di inibitoria, dal momento che è solo nel caso in cui l’appello si appalesi evidentemente fondato (o comunque non manifestamente infondato) la prognosi a posteriori sulla eventuale esecuzione porterà a concludere per la sua ingiustizia;[26]infatti, anche se non si richiede che entrambe i requisiti possiedano – singolarmente considerati - un rilievo particolare, ai fini della concessione della inibitoria, risultando sufficiente che gli stessi, considerati nel loro insieme, possano giustificare l'accoglimento dell'istanza,[27] si manifesta in ogni caso una sorta di preferenza che il giudice dell'appello dovrebbe accordare, nella decisione sull'istanza, alla valutazione del requisito del fumus, peraltro collegato alla verosimile fondatezza dell'appello,[28] in quanto, anche se sussiste un periculum, l'evidente infondatezza dell'appello, con conseguente sicura (o quasi) conferma della decisione impugnata, legittima il rigetto dell'istanza di inibitoria mentre, specularmente, se l'appello è palesemente fondato, anche in assenza di periculum potrà farsi luogo alla sospensiva, onde evitare l'avvio di una esecuzione destinata ad essere caducata per effetto del sicuro (o quasi) accoglimento dell'appello.[29]

Tale potere discrezionale, tuttavia, richiede, per il suo concreto esercizio, che il giudice dell’impugnazione lo sostenga e giustifichi con una motivazione di estremo rigore, impegnandolo in una valutazione ben più approfondita della verosimile fondatezza dell’appello stesso, al punto che quasi si sovrappone con la seconda, come se la prognosi sulla sussistenza dei gravi e fondati motivi integrasse anche una analoga valutazione sulla fondatezza dell’appello; il che ha portato alcuni ad affermare che, proprio per il maggiore impegno richiesto al giudice dell’impugnazione nel motivare il provvedimento emesso all’esito di una simile valutazione, per il medesimo giudice l’emanazione di un provvedimento di accoglimento dell’istanza in questione verosimilmente risulterà fonte di maggiore impegno che non, specularmente, per uno di rigetto;[30] anche se, va detto, il medesimo autore, per altro verso, rileva come non sia possibile tale sovrapposizione, dato che anche a seguito della modifica del 2005, ciò che il giudice dell’impugnazione è chiamato ad esaminare sono i motivi dell’inibitoria, ex art. 283 c.p.c., e non quelli dell’appello,[31] il che, pertanto, non esclude che, pur concessa la prima, melius re perpensa, venga poi rigettato il secondo.

Occorre infine un breve accenno ai rapporti intercorrenti tra sospensione della esecutività provvisoria del titolo e processo esecutivo iniziato sulla base del titolo medesimo, rilevandosi come gli effetti sono diversi a seconda del momento in cui eventualmente intervenga l'inibitoria, e cioè se prima ovvero dopo l'inizio dell'esecuzione: nel primo caso, come si ritiene in dottrina, risulterà preclusa, per effetto della sospensione, l'avvio di qualsivoglia azione esecutiva in forza di quel titolo,[32]mentre, con riferimento alla seconda ipotesi, la S.C., con orientamento consolidato, ritiene che, ove intervenga la sospensione della sua esecutività ex art. 283 c.p.c., la stessa non determina la sopravvenuta illegittimità degli atti esecutivi nel frattempo compiuti, bensì impone la sospensione, ai sensi dell'art. 623 cod. proc. civ., del processo esecutivo iniziato sulla base di detto titolo;[33] inoltre, se – come si verifica molto di frequente - nel frattempo il debitore/appellante ha anche proposto opposizione avverso l'azione esecutiva nel frattempo avviata nei suoi confronti, è indubbio che la successiva sopravvenienza della sospensione della efficacia esecutiva del titolo azionato, da parte del giudice avanti al quale il titolo sia stato impugnato, non ha alcuna incidenza sull'oggetto del giudizio di opposizione, assume invece rilievo come circostanza che può essere evidenziata e fatta rilevare al giudice dell'esecuzione nell'ambito del processo esecutivo, perché disponga direttamente la sospensione dell'esecuzione[34], che non viene caducata, dunque, ma semplicemente arrestata in attesa dell'esito del giudizio di appello, dato che, come prevede l'art. 283, 2° comma c.p.c., l'ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio di appello; anzi, se a seguito della opposizione all'esecuzione il processo esecutivo viene sospeso dal ex art. 624 c.p.c., in conseguenza della inibitoria dell'esecutività del titolo giudiziale, ove la parte interessata non proponga reclamo ex art. 669terdecies c.p.c. contro detta ordinanza, ove voglia evitare la stabilizzazione del provvedimento e l'estinzione del processo esecutivo ai sensi dell'art. 624,3° comma c.p.c., non potrà esimersi dal tempestivamenteinstaurare tempestivamente il giudizio sul merito dell'opposizione,[35] il cui oggetto, come noto, concerne l'accertamento negativo della sussistenza del diritto di procedere all'esecuzione al momento in cui l'esecuzione è iniziata.

 

4. La riforma che ha senza dubbio interessato l'istituto in misura maggiore, negli ultimi anni, dopo quella del 2005, è intervenuta nel 2011, ed ha riguardato aspetti di indubbio rilievo applicativo del medesimo, suscettibili di produrre conseguenze pratiche estremamente rilevanti, da più punti di vista.

Innanzitutto, va detto che la l n. 183 del 27.12.2011 ha - giusta la previsione contenuta nell’art. 27, comma 1, lett.a) – aggiunto un comma all’art. 283 c.p.c., il quale, nell’ipotesi in cui la richiesta di sospensiva venga respinta siccome inammissibile o comunque manifestamente carente di fondamento, conferisce al giudice la facoltà di sanzionare il proponente, mediante ordinanza espressamente dichiarata come non impugnabile, ad una pena pecuniaria oscillante tra un minimo di 250 euro ed un massimo di 10.000,00 euro con l’evidente quanto duplice finalità di scoraggiare, da un lato, la proposizione di istanze palesemente dilatorie e, dall'altro, di ridurre la durata dei giudizi di appello e, conseguentemente, anche il carico di procedimenti che, come è noto, appesantiscono i ruoli delle corti; tale norma è entrata in vigore, giusta la previsione dell’art. 36, comma 1 della predetta l. 183/2011, dal 1 febbraio 2012.

Anche in tal caso si tratta di una valutazione discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice dell'impugnazione, che senza dubbio verterà sulla verifica, da un lato, della sussistenza dei presupposti previsti dal codice di rito per la rituale formulazione della stessa, sanzionandola con una declaratoria di inammissibilità in caso di esito negativo della verifica medesima (come, ad esempio, nel caso di una istanza formulata per la prima volta solo alla prima udienza di trattazione del processo di appello, oppure proposta con l'atto di appello e non reiterata alla predetta prima udienza; ancora, parimenti è destinata ad essere dichiarata inammissibile una istanza volta a conseguire l'esecutività provvisoria di sentenze che ex lege non possono essere dichiarate provvisoriamente esecutive prima che diventino definitive, come ad esempio quelle di accertamento ovvero costitutive, come del resto conferma la S.C.[36]) e, dall'altro, superato tale primo scoglio, della esistenza o meno dei gravi e fondati motivi richiesti dall'art. 283 c.p.c., con conseguente rigetto della stessa per sua manifesta infondatezza, ovvero per la ipotesi in cui già ictu oculi appaia evidente la totale assenza dei gravi e fondati motivi richiesti dalla norma in questione; ad esempio, tale sarebbe il caso in cui il ricorrente non abbia né allegato, né tantomeno provato (anche con il ricorso a presunzioni) la sussistenza di un danno irreparabile quale conseguenza del portare ad esecuzione la decisione di primo grado (danno in ogni caso, per fare un esempio, non ipotizzabile ove se ne sostenga la natura esclusivamente patrimoniale, come tale completamente ristorabile in caso di vittoria nel giudizio d'appello) anche in ragione di una presunta ingiustificata sproporzione tra il pregiudizio derivante alla parte che subisce l'esecuzione della sentenza ed il vantaggio che ne deriva al convenuto in appello (anch'essa non allegata e/o comunque non provata) nonché la circostanza che sussisterebbe un nesso causale diretto tra l'esecuzione della sentenza e le difficoltà economiche che da essa si assume possano derivare all'appellante, come potrebbe essere nell'ipotesi in cui un inadempimento contrattuale, cristallizzato nella sentenza di condanna poi appellata, sia in realtà la manifestazione della facoltà riconosciuta alla parte di tutelarsi, ex art. 1460 c.c., con la exceptio non rite adimpleti contractus, erroneamente disattesa dal giudice di prime cure. Elementi che, se invece posti dal ricorrente a fondamento della propria istanza, dovrebbero – il condizionale è d'obbligo, viste le inevitabili peculiarità di ogni singola fattispecie – consentirgli, anche in caso di rigetto della propria istanza, quantomeno di evitare la condanna introdotta dalla riforma del 2011.

Tale riforma, in pratica, ha posto a carico del soccombente in primo grado poi appellante, un preciso onere di preventiva verifica della sua effettiva capacità, nel formulare l'istanza di inibitoria, non solo di rispettare le norme processuali che nel disciplinano proposizione e funzionamento,[37] quanto e soprattutto di validamente allegare e provare la sussistenza dei gravi e fondati motivi che l'art. 283 c.p.c. richiede, astenendosi dal proporla allorquando, in realtà, la sua finalità risulti, già ad esso appellante (nonché e soprattutto al suo legale) nulla più che ostruzionistica e dilatoria; può condividersi, quindi, l'opinione di chi sostiene che, con tale riforma, il Legislatore ha inteso perseguire una finalità di responsabilizzazione del soccombente;[38]mentre, dal punto di vista del giudice, la valutazione che gli viene richiesta, sul punto, inevitabilmente attiene ad una verifica, anche se sommaria, circa la fondatezza o meno dell'impugnazione,

Per concludere questa breve riflessione, può osservarsi come vi siano alcuni aspetti di indubbia criticità dell'istituto, con particolare riguardo all'assetto ed alle conseguenze applicative che esso assume all'esito delle ultime riforme, ed in particolare quella di fine 2011, su cui non appare superfluo svolgere qualche rapida considerazione: infatti, se, come si afferma da parte di alcuni, è indubbio che, quello in questione, costituisce un potere sanzionatorio che il giudice esercita discrezionalmente, basandosi su proprie personali valutazioni di opportunità, tanto non può risolversi in pregiudizio del diritto alla difesa della parte e dell’effettività della tutela giurisdizionale,[39] dato che, proprio la sommarietà della delibazione che il giudice di secondo grado compie al fine dell'irrogazione della predetta sanzione rischia di sacrificare, sull'altare del processo giusto purchè (e solo se) veloce i sopra richiamati principi, e tanto appare inaccettabile.

Inoltre, non può trascurarsi di evidenziare che l’eventuale ordinanza di rigetto della istanza di inibitoria per inammissibilità oppure per manifesta infondatezza, che sanzioni il ricorrente/appellante con la pena pecuniaria, può rivelarsi problematica sia per l’appellante che per il giudice, ovviamente in modo ben differente in relazione alle diversità soggettive.

Infatti, come del resto condivisibilmente rilevato da alcuni, per il primo si pone il problema di ricevere una sgradita – in quanto negativa – anticipata valutazione sul merito del proprio appello, in quanto, ove respinta la propria istanza perché ritenuta manifestamente infondata (quindi poichè, all’evidenza, ritenuto assente il fumus) non gli sarà certo difficile prefigurarsi come anche il proprio appello verrà respinto per l’identica motivazione,[40] per cui tale statuizione è astrattamente idonea a costituire, per l’appellante, un vincolo giuridico; di contro, per quanto riguarda il giudice, mentre l’ordinanza in questione, anche se non possiede analoga valenza, siccome sempre revocabile con la sentenza che definisce il giudizio, tuttavia non può negarsi spieghi efficacia di vincolo, se non giuridico, quantomeno psicologico, dato che il giudice dell’impugnazione, revocandola con la sentenza, finirebbe per sconfessare sé stesso, per cui è agevole capire il perché i giudici di appello, nel motivare le ordinanze in questione, tendono praticamente sempre a rimarcare che quella testè resa è una valutazione niente altro che sommaria e provvisoria;[41] come dire, allora, che – si perdoni l’espressione non aulica ma ben rappresentativa del concetto - mettono le mani avanti, proprio al fine di non sconfessarsi apertamente, ove nel decidere la causa dovessero cambiare idea; non c’è da sorprendersi, allora, se da una scorsa anche sommaria ai ruoli ed ai repertori delle corti di appello dei principali capoluoghi italiani, emerge che l’istituto in questione, su cui il legislatore riponeva molto affidamento, come già detto, è stato oggetto di rarissime applicazioni; ciò verosimilmente può dipendere dal fatto che spesso, dopo la delibazione sommaria e provvisoria compiuta in sede di decisione sull’inibitoria, i giudici cambiano idea, mutamento di opinione indubbiamente agevolato dalla circostanza, di tutt’altro che infrequente verificazione, per cui nel tempo – notoriamente tutt’altro che breve – che intercorre tra il momento in cui decidono sull’inibitoria e quello della decisione finale, si verificano avvicendamenti tra i componenti dei collegi giudicanti, a volte addirittura dopo che la causa è stata trattenuta in decisione, che inevitabilmente costringono i giudici a ripartire da zero, o quasi, a maggiore ragione perché il nuovo arrivato ben potrebbe rivelarsi di opinione totalmente divergente rispetto al suo predecessore, ed allora, in tal caso, la revoca dell’ordinanza si rivela ipotesi molto probabile, con tutte le conseguenze che in precedenza si è provato ad ipotizzare.

Allora, visto quanto sopra evidenziato, deve dubitarsi non solo della effettiva utilità di introdurre la previsione della applicazione della sanzione pecuniaria a carico del ricorrente per l’ipotesi di rigetto della sua istanza di inibitoria siccome inammissibile o manifestamente infondata, in quanto il codice di procedura già prevede, dal 2009, un istituto ancora più adeguato e sicuramente meno problematico, quale l’art. 96, 3° comma c.p.c., come del resto si sostiene anche da altra opinione;[42] la predetta norma, invero, è una disposizione suscettibile di applicazione generalizzata e volta a sanzionare qualsiasi ipotesi di responsabilità per un utilizzo abusivo e fuorviante di qualunque tipo di processo (quindi pacificamente anche quello di appello), come si è avuto modo di osservare altrove,[43] ma anche della sua costituzionalità, per evidente contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., come anche da altri rilevato[44].

Ed infatti, deve osservarsi come, dal primo dei punti di vista innanzi richiamati, tale previsione crei una evidente quanto ingiustificata disparità di trattamento tra l’appellante che abbia le risorse per affrontare, oltre che il costo dell’appello, anche il rischio economico ulteriore dell’applicazione della sanzione pecuniaria introdotta dalla riforma del 2011, ed invece un altro soggetto che, pur trovandosi, per il resto, in identica situazione, tale disponibilità non possieda; dal secondo punto di vista, in quanto con la “minaccia” di una simile sanzione, che ben può giungere anche a importi non trascurabili, si pone un evidente limite all’esercizio del diritto alla difesa, che certo non può essere superato con il ricorso al patrocinio a spese dello stato, dato che tale normativa non prevede la copertura per i costi derivanti dall’applicazione di tale sanzione pecuniaria; infine, con riguardo all’ultimo profilo, perché non può definirsi giusto un sistema processuale che grava il cittadino di sanzioni ripetute, sfruttando ogni occasione, solo perché ha “osato” chiedere Giustizia, per gravarlo di spese e costi che, con l’esito della controversia stessa nulla hanno da spartire, come accaduto anche con una ulteriore riforma, intervenuta a fine 2012, per la quale, in caso di rigetto dell’appello, principale e/o incidentale, l’appellante è tenuto a versare nelle casse dello stato un importo pari a quello del contributo unificato che aveva versato in origine, al momento della proposizione dell’appello;[45]il tutto senza trascurarsi di evidenziare come la predetta riforma ha introdotto la possibilità di una immediata decisione, nel merito, della controversia ve poi si consideri nella previsione della possibilità di decidere immediatamente il merito, ex art. 351. 4° comma c.p.c. (possibilità sfruttata dalla corte partenopea nell'ordinanza qui annotata).

In sostanza, in caso di rigetto dell’appello lo sfortunato appellante riceve ben tre contraccolpi: i)la decisione negativa sull’impugnazione, con l’eventuale condanna alle spese; ii)l’ordinanza di rigetto della istanza di inibitoria, che magari gli ha applicato la sanzione pecuniaria introdotta nel 2011; iii)infine, last but not least, dopo aver subito già due condanne, il versamento di un ulteriore contributo unificato, stavolta all’esito del processo medesimo.

Ad avviso di chi scrive, si tratta di misure che, dietro il dichiarato fine di abbattere il contenzioso scoraggiando la proposizione di azioni infondate, nascondono il ben più prosaico intento di fare cassa (visto anche il periodico e consistente aumento dell’ammontare dei contributi unificati) e che, tuttavia, nella pratica, non appare così azzardato assimilarli a dei veri e propri punitive damages; viene allora da pensare che il mancato utilizzo dell’istituto introdotto dalla riforma del 2011 da parte dei giudici di appello sia sintomatico della loro consapevolezza della problematicità dell’istituto, evidentemente ritenuto in grado di causare molti più danni che concreti vantaggi, il che rende ancora più meritevole di apprezzamento il lavoro della nostra magistratura; come non condividere, allora, l'opinione di chi afferma che, fatta salva sola la previsione introdotta dall'art. 351, 4° comma c.p.c., detta riforma si rivela un evidentissimo giro di vite sull’istituto dell’inibitoria, che ne ha ulteriormente ridotto la capacità di garantire adeguatamente il diritto di difesa delle parti e l’equilibrio dei rapporti tra primo e secondo grado di giudizio.[46]

In definitiva, il ricorso alla Giustizia assomiglia sempre più ad un percorso di guerra, inflazionato com’è da decadenze, preclusioni, sanzioni pecuniarie e vincoli di ogni tipo, di guisa che – si perdoni la provocazione – nelle aule di Giustizia, la targa con l’imperituro monito per il quale “La Giustizia è uguale per tutti,” ben potrebbe essere sostituita – o quantomeno affiancata - con una contenente l’altrettanto nota espressione, di dantesca memoria “Lasciate ogni speranza o voi che entrate...”; per cui, come insegnano gli antichi.... intelligenti pauca.



[1] E quindi, a monte, della delibazione richiesta al giudice dell’impugnazione per la sua eventuale concessione.

[2] CONSOLO C., LUISO F.P., SASSANI B., Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, p. 406.

[3] Sul punto, amplius, CASCELLA G., Nuovi documenti in appello e valutazione del giudice ex art. 345 c.p.c., nota a Trib. Torre Annunziata, 13 maggio 2014, n. 1731, est. dr. Ferrara, in La Nuova Procedura Civile, 2014, 5.

[4] CONSOLO C., LUISO F.P., SASSANI B., op. cit,. p. 406.

[5] App. Milano, sez. IV, 23 ottobre 2013, in IlCaso.it, 2013, I, 11232.

[6] TARZIA G., Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 2002, p. 320 e ss.

[7] MANDRIOLI C., Diritto processuale civile, Torino, 2009, p. 486 e ss.

[8] Cass. civ., sez. I, 9 luglio 2003, n. 10792, in Foro it., 2004, I, 2844.

[9] TARZIA G., Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano, 2009, p. 401 e ss.

[10] COMOGLIO L.P., FERRI C., TARUFFO M., Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2006, p. 640 e ss.

[11] Ex multis, MANDRIOLI C, op. cit., p. 487; CONSOLO C., LUISO F.P., SASSANI B., op. cit., p. 407.

[12] Trib. Taranto, sez. II, 17 febbraio 2014, in www.altalex.com., che testualmente ha stabilito “Allo scopo è sufficiente infatti che il giudice d’appello si avveda soltanto dell’erroneità della decisione del giudice di primo grado per concedere la sospensiva (difetto del fumus); così ad esempio, in tema di sentenza di condanna al pagamento di somme di danaro, può essere concessa anche se non ricorre il rischio di insolvenza della parte vittoriosa in primo grado, in ordine alla restituzione delle somme in favore dell’appellante che dovesse ottenere la riforma della sentenza.”

[13] Cass. civ., sez. III, 25 febbraio 2005, n. 4060, in Giur.it, Mass., 2005, secondo cui “L'ordinanza con cui in sede d'appello, alla prima udienza, il Collegio, a norma degli artt. 283 e 351 cod. proc. civ. (nel testo successivo alla legge n. 353 del 1990) provvede in ordine alla provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado non è reclamabile davanti a un giudice diverso nè è ricorribile per Cassazione, a norma dell'art. 111 Cost., in quanto trattasi di provvedimento endoprocedimentale avente natura latamente cautelare e provvisoria, destinato ad essere assorbito e superato dal provvedimento a cognizione piena che definisce il giudizio.”

[14] Cass. civ., sez. II, 21 febbraio 2007, n. 4024, in Giur.it, Mass., 2007; conforme, Cass. Civ., sez. II, 25 ottobre 2013, n.24171, in CED, Cassazione, 2013.

[15]  Ex multis, cfr. PUNZI C., Il processo civile. Sistema e problematiche, II, Torino, 2010, p. 231 e ss.

[16] BALENA G., BOVE M., Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, p. 113 e ss.

[17] CECCHELLA C., in CECCHELLA, AMADEI, BUONCRISTIANI, Il nuovo processo ordinario e sommario di cognizione, Milano, 2006, p. 30 e ss.

[18] IMPAGNATIELLO G., sub art. 283, in Cipriani, Monteleone (a cura di) Riforma del processo civile (l. 14 maggio 2005, n. 80), in NLCC, 2006, 1003 e ss.

[19] App. Genova, 14 marzo 2012, in www.federalismi.it.

[20] In tal senso, App. Firenze, 23 aprile 1997, in Giur.it, 1998, 1408.

[21] App. Genova, 14 marzo 2012, cit., che testualmente ha statuito “La valutazione  relativa al fumus boni iuris può tradursi in una valutazione anticipata e sommaria della fondatezza dei motivi di appello, posto che i motivi devono essere 'fondati', tenendo conto tuttavia che tale giudizio non vincola la decisione finale, ed è riservato alla corte in sede di decisione nel merito.

[22] App. Milano, sez. IV, 23 ottobre 2013, cit.

[23] App. Genova, 14 marzo 2012, in Corriere del Merito, 2012, 6, 556 .

[24] IMPAGNATIELLO G.., La provvisoria esecuzione e l’inibitoria nel processo civile, I, Milano, 2010, 455.

[25] IMPAGNATIELLO G.., op. cit., 459.

[26] IMPAGNATIELLO G.., op. loc. cit..

[27] NEGRINI L., sub 283, in Chiarloni (diretto da), Le recenti riforme del processo civile, Bologna, 2007, p. 256 e ss.

[28] NEGRINI L., op. loc. cit.

[29] NEGRINI L., op. loc. cit.

[30] IMPAGNATIELLO G.., op. loc. cit..

[31] IMPAGNATIELLO G., sub art. 283, in Cipriani, Monteleone (a cura di) Riforma del processo civile (l. 14 maggio 2005, n. 80), in NLCC, 2006, 1003 e ss.

[32] CONSOLO C., sub art. 283, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Consolo e Luiso, Milano, 2007, p. 272 e ss.

[33] Cass. civ., sez. III, 4 giugno 2013, n. 14048, in CED, Cassazione, 2013.

[34] Cass. civ., sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512, in Giur. it., Mass., 2007.

[35] Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2015, n. 7364, in CED, Cassazione, 2015.

[36] Cass. civ., sez.  III, 26 marzo 2009, n. 7369, in Foro it., 2009, 10, 1, 2699, che testualmente ha statuito “Le sentenze di accertamento non hanno efficacia esecutiva anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato, ad eccezione delle eventuali statuizioni di condanna consequenziali.

[37] E questo tutto sommato dovrebbe rappresentare il problema minore.

[38] D'ADAMO D., sub 283, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, Torino, 2012, p. 292

[39] D'ADAMO D., op. loc. cit.

[40] BRIGHENTI F., sub 283, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Cendon, Milano, 2012, p. 1680.

[41] BRIGHENTI F., op. oc. cit.

[42] ROMANO A., Sospetta incostituzionalità del potere sanzionatorio ex art. 283 c.p.c., in La Nuova Procedura Civile, 2013, 2.

[43] CASCELLA G., La condanna d’ufficio ex art. 96, 3° comma c.p.c., a cavallo  tra funzione risarcitoria e sanzionatoria, in La Nuova Procedura Civile, 2013, 2, p. 20.

[44] ROMANO A., op. loc. cit.

[45] Ai sensi dell’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater  all’art. 13 del D.P.R. 115/2002.

[46] IMPAGNATIELLO G., La nuovissima disciplina dell’inibitoria in appello, in Giusto proc. civ., 2012, p. 109 ss.


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