CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 16/04/2015 Scarica PDF
Interpretazione estensiva del presupposto oggettivo di cui all'art. 160 l.fall. e prevenzione dell'insolvenza
Roberta Marino e Marco Carminati, Ricercatori di Diritto PrivatoSommario: 1. La gestione tempestiva della crisi d’impresa. – 2. La crisi d’impresa ed il rischio d’insolvenza “qualificato”. – 3. L’accertamento giudiziale della sussistenza del requisito oggettivo. – 4. La formulazione del Piano concordatario in ragione della natura della crisi in cui versa l’impresa. – 5. Conclusioni
1. Accanto al tradizionale stato di insolvenza, richiesto come requisito oggettivo per accedere alla procedura di fallimento, la riforma della legge fallimentare ha introdotto lo stato di crisi quale presupposto per accedere al Concordato preventivo (di cui agli artt. 160 ss.) ed agli Accordi di ristrutturazione dei debiti (di cui agli artt. 182 bis ss. l.fall.).
Ciò rappresenta un’innovazione rispetto alla previgente l.fall. in cui lo stato d’insolvenza era presupposto sia per l’istanza di fallimento che per il ricorso al Concordato preventivo[1].
A seguito della Riforma la nozione di insolvenza è rimasta inalterata per cui l’art. 5 della l.fall. la definisce quale situazione in cui versa il debitore che: “si manifesta con inadempimenti ed altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. L’inadempimento contrattuale, seppur declinato all’ennesima potenza ed indipendente dalla mera volontà del debitore[2], essendoconsiderato il fenomeno più avvertibile e valutabile dall’esterno, costituisce tuttora il presupposto per la dichiarazione di fallimento[3].
Con l’introduzione del Concordato preventivo e degli Accordi di ristrutturazione si consente all’imprenditore la “scelta” della conservazione e massimizzazione del valore del patrimonio d’impresa in alternativa alla liquidazione fallimentare, affidando all’autonomia privata la gestione della crisi. In quest’ottica, contrariamente a quanto avviene nel fallimento in cui l’iniziativa è attribuita anche ai creditori e al P.M., gli strumenti di soluzione negoziata della crisi sono attivabili da parte del solo debitore. Pertanto, non ammettendosi interventi esterni, solo a quest’ultimo è attribuito il potere di far emergere la crisi.
La ragione di tale opzione è individuabile nella tutela dell’interesse individuale al riserbo dell’imprenditore e, ancor più, di un interesse superiore sancito dall’art. 41 Cost.[4], nonché nella tutela dell’interesse generale, considerato che la emersione troppo anticipata della crisi potrebbe costituire motivo scatenante di un effetto domino pregiudizievole per il mercato.
Occorre, allora, sottolineare che la diffidenza del debitore a diffondere l’informazione di una crisi dell’impresa ai terzi (crisi che può essere caratterizzata anche da fattori non rilevabili dall’esterno) ha comportato che l’accesso al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione avvenisse troppo in ritardo, versando ormai l’impresa in condizioni di insolvenza, o meglio, di crisi finanziaria spesso ai limiti di reversibilità[5].
Solo attraverso l’emanazione di regole che fornissero
una protezione agli atti compiuti in funzione del risanamento si poteva
incentivare l’imprenditore alla tempestiva emersione della crisi. In questa
direzione diversi i correttivi alla riforma della l.fall. che hanno introdotto
meccanismi incentivanti[6]: si
pensi alle regole che proteggono i pagamenti in esecuzione del concordato e
degli accordi attraverso l’esenzione da revocatoria fallimentare ex art.
Anche in ambito comunitario è crescente l’attenzione
verso l’introduzione nei Paesi membri di validi strumenti di prevenzione della
insolvenza ai fini dell’armonizzazione delle regole del fallimento. In tal
senso si pone
Tali interventi consentono di rintracciare una ratio normativa che, attraverso il ricorso agli istituti del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, mira a gestire la crisi rendendo l’imprenditore partecipe a una sorta di scambio coi creditori: egli è disposto a informare il ceto creditorio circa la propria situazione (rivelando questioni interne all’impresa) in cambio di una ristrutturazione ovvero di una riformulazione della propria esposizione debitoria[11]. In tal guisa, questi strumenti svolgono una funzione anticipatoria della insolvenza consentendo la predisposizione di piani adeguati di risanamento oppure una più proficua liquidazione del patrimonio aziendale.
L’inadeguatezza di taluni istituti di recente
introduzione a fronteggiare la crisi (si allude al concordato “in bianco” ex art. 161, comma
2. L’assenza nel nostro sistema della nozione di crisi, in realtà, è il frutto dell’opzione del legislatore di utilizzare la tecnica di normazione per clausole generali al fine di dare immediate risposte alle esigenze via via promananti dal sistema economico. Dal punto di vista applicativo, la conseguenza di tale approccio è l’estrema rilevanza attribuita al momento esegetico: compito del giudice è trovare soluzioni coerenti con gli scopi che il legislatore ha voluto perseguire in conformità con i Principi costituzionali[15]. Nel caso specifico, egli è dunque chiamato a trovare un giusto equilibrio tra l’esigenza di tutela del ceto creditorio e quella dell’anticipazione della crisi d’impresa[16].
Va, dunque, decisamente respinta la tesi che sostiene che dall’indefinitezza della soglia minima del presupposto oggettivo possa derivarne l’abolizione surrettizia[17]. La fissazione del presupposto oggettivo all’accesso di una procedura risponde proprio all’esigenza di delimitare l’ambito di applicazione di taluni istituti a particolari situazioni, avendo riguardo che la meritevolezza sociale (ex art. 1322 c.c.) dei concordati e degli accordi è riconosciuta dal legislatore se l’impresa versi in una particolare situazione che necessiti la deroga alla disciplina di diritto comune.
Nell’ambito della verifica di sussistenza del
requisito oggettivo di cui all’art.
Va subito osservato che il concetto di crisi è di derivazione aziendalistica e non giuridica[19]. Secondo la visione aziendalistica l’impresa in crisi non è più in grado di produrre valore in quanto ha inizio una fase di declino che, pur non ancora degenerata in una crisi finanziaria, potrebbe giungere ad uno stato d’insolvenza, ossia nella situazione di crisi finanziaria irreversibile[20]. Ulteriore rilievo è che lo squilibrio finanziario rappresenta soltanto una delle modalità di espressione della crisi che l’impresa prova a gestire attraverso gli strumenti alternativi al fallimento.
Ciò premesso e avendo specifico riguardo all’impresa in attività (escludendo l’ipotesi di un’impresa già in stato di liquidazione), può affermarsi che le tre tipologie della crisi aziendale sono strettamente correlate. La crisi può essere, infatti, anche la manifestazione di una situazione di deficit economico, patrimoniale o finanziario o la compresenza di due o tutte le tipologie medesime.
Una crisi economica persistente, data da uno squilibrio duraturo tra i ricavi di esercizio ed i relativi costi, compromette nel tempo inevitabilmente l’equilibrio finanziario e quello patrimoniale[21].
Le manifestazioni finanziarie delle componenti economiche attive e passive dell’attività d’impresa, nel medio periodo, seguono la sorte delle correlate voci economiche determinando quindi una situazione di squilibrio finanziario che può essere attenuato con il ricorso all’indebitamento che, a sua volta (in caso di leva finanziaria negativa)[22], aggraverà la situazione economica, oltre che quella patrimoniale, a causa di un tendenziale squilibrio tra mezzi propri e mezzi di terzi.
Analogamente, in un’impresa in squilibrio finanziario ma economicamente in equilibrio, come nell’ipotesi di fornitori da pagare a breve e clienti con modalità di pagamento dilazionati, il ricorso crescente all’indebitamento per salvaguardare i flussi di cassa comprometterà (col tempo ed in condizioni di leva finanziaria negativa) anche l’equilibrio economico e quello patrimoniale.
Così come un deficit patrimoniale, ossia uno sbilanciamento del capitale di terzi rispetto a quello proprio nell’ambito del capitale complessivamente investito, se non attenuato con iniezione di capitale proprio, può determinare uno squilibrio economico e finanziario.
Il ricorso eccessivo al capitale di terzi, nel caso di una redditività operativa del capitale investito inferiore al costo del capitale preso a prestito, incide sull’equilibrio economico compromettendolo, così da degenerare in uno squilibrio finanziario.
Inoltre, uno sbilanciamento delle fonti di finanziamento del capitale investito a favore del capitale dei terzi può essere causa di insolvenza indipendentemente dallo squilibrio economico e finanziario che ne possa derivare, se non c’è equivalenza tra capitale investito a medio e lungo termine (es. immobilizzazioni) e fonti di finanziamento della stessa durata, laddove parte delle immobilizzazioni siano coperte da capitale di terzi e breve termine[23].
Da tali esemplificazioni emerge, allora, che dovrebbe ritenersi ammissibile l’accesso alle procedure di cui agli artt. 160 e 182 bis l.fall. anche all’imprenditore temporaneamente in equilibrio finanziario ma con perdite d’esercizio rilevate nell’ultimo periodo e/o con una struttura patrimoniale caratterizzata dalla presenza di un eccessivo indebitamento a copertura del capitale investito[24].
All’opposto, una interpretazione restrittiva del presupposto oggettivo ad opera della giurisprudenza, comporterebbe la non ammissibilità della domanda di concordato o di accordi avanzata dal debitore laddove l’impresa sia in perdita d’esercizio nell’ultimo periodo[25] o presenti un tasso di patrimonializzazione basso (seppur ancora non in difficoltà finanziaria ed in regola con i pagamenti a breve scadenza[26]), giungendo al paradosso che l’imprenditore debba decidere di non adempiere le obbligazioni assunte per essere considerato in crisi.
Diversamente, estendere alle molteplici situazioni in cui può trovarsi l’impresa la possibilità di accesso al concordato preventivo o agli accordi di ristrutturazione avrebbe l’effetto apprezzabile di gestire tempestivamente la crisi evitando che quest’ultima muti in insolvenza.
Stante la indefinitezza della normativa fallimentare, potrebbe soccorrere alla migliore definizione dello stato di crisi la nozione di “impresa in difficoltà” della Commissione Europea (Comunicazione 2004/C), che ha emanato “Orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione di imprese in difficoltà”, con cui si delinea l’approccio ed i limiti nei casi in cui le autorità pubbliche intervengano con un sostegno finanziario a favore delle imprese in crisi[27].
Secondo
La suddetta nozione, senz’altro ampia e ricomprendente diversi tipi di crisi, è stata recepita dalla Deliberazione del C.I.P.E. n. 110/2008 che detta i criteri e modalità di funzionamento del Fondo per il finanziamento delle imprese in difficoltà istituito con il D.L. n. 35/2005 e gestito da Invitalia S.p.a.[29]. La equivalenza tra la nozione di impresa “in difficoltà” e quella di impresa “in crisi” deriverebbe dalla stessa deliberazione del C.I.P.E. che, con riferimento alla documentazione da allegare alla domanda per la richiesta di aiuti per la ristrutturazione di imprese in difficoltà, fa espresso rinvio ad un piano di ristrutturazione dei debiti che abbia i requisiti previsti dall’art. 182 bis l.fall.[30]
A ben vedere, la nozione di crisi che qui si va delineando era già stata elaborata nei diversi progetti di legge che hanno preceduto il D.L. n. 35/2005. Difatti, nel testo del progetto di legge delega n. 7458 del 24 novembre 2000 si evidenzia (all’art. 2) che la riforma organica delle procedure concorsuali era ispirata ad alcuni princìpi e criteri direttivi, tra cui quello di sostituire la procedura di fallimento e le altre minori con una procedura unitaria di insolvenza, a fasi successive, ed una procedura di crisi, anticipatoria di quella di insolvenza che poteva essere avviata su istanza del solo debitore “in presenza di sintomi di squilibrio patrimoniale, economico o finanziario tali da determinare pericolo di insolvenza”.
Anche il successivo progetto di legge delega n. 7497 del 14 dicembre 2000, all’art. 5 elabora una disciplina della composizione negoziale della crisi in cui si accordava la facoltà al debitore, senza limitazioni di carattere soggettivo, di sottoporre all’omologazione dell’autorità giudiziaria gli accordi conclusi con uno o più creditori al fine di superare, in modo durevole, una situazione di crisi in atto, oppure imminente, di carattere economico, patrimoniale o finanziario.
Infine, nei due schemi di disegno di legge approvati dalla commissione ministeriale (c.d. Commissione Trevisanato), istituita presso il Ministero di Grazia e Giustizia alla fine del 2001, si definiva la crisi come la situazione patrimoniale, economica o finanziaria in cui si trova l’impresa, tale da determinare il rischio di insolvenza[31].
Nel testo dei disegni di legge ed in quello della Relazione accompagnatrice si delinea l’intento del legislatore di anticipare l’emersione della crisi prima che la stessa si trasformi in insolvenza al fine di ricercare una soluzione indirizzata alla continuazione dell’impresa o anche alla sua efficiente liquidazione. È bene, altresì, evidenziare che nella relazione si indica espressamente che il presupposto oggettivo per accedere alla procedura di composizione concordata della crisi possa consistere sia nello stato di insolvenza che in una condizione di squilibrio economico, patrimoniale e finanziario.
Estremamente rilevante ai fini delle osservazioni qui condotte è lo schema di provvedimento sullo “Statuto dell’impresa” che fu elaborato nel 1984 dalla Commissione tecnica nominata dal Ministro di Grazia e Giustizia e mai approvato dall’organo legislativo[32]. Al titolo V dedicato alla “Crisi economica dell’impresa” si prevedeva (così come avviene per lo stato di insolvenza) l’obbligo per l’imprenditore in stato di crisi economica (perdurante per almeno tre esercizi) di ricorrere all’autorità giudiziaria per accedere alle procedure concorsuali.
Di tale progetto occorre, in questa sede, evidenziare almeno tre punti salienti:
a) si fornisce una nozione di stato di crisi sussistente “quando, superata la fase di avviamento, i ricavi ordinari non sono sufficienti a coprire i costi ordinari di gestione”.
Si conferma, pertanto, che la crisi è in primo luogo di natura economica e può sfociare successivamente in quella finanziaria e/o patrimoniale;
b) si prevedeva l’obbligo di dichiarazione dello stato di crisi da parte del debitore quando lo squilibrio economico si protrae per tre esercizi consecutivi;
c) si delinea efficacemente la differenza tra i concetti di crisi e quello di insolvenza. L’art. 36 dello Schema, difatti, definisce l’impresa in stato di insolvenza quando l’imprenditore non è in condizione di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, ciò indipendentemente dallo squilibrio economico in cui versa l’impresa, sottolineando in tal modo l’autonomia dei due concetti e la caratteristica prettamente finanziaria del primo.
Relativamente al secondo dei profili, l’obbligo di emersione della crisi si porrebbe in antitesi rispetto all’attuale sistema in cui, come detto, si contemperano le esigenze di tutela al riserbo dell’imprenditore con quelle di incentivazione alla tempestiva emersione della crisi.
Più recentemente talune proposte ricostruttive della nozione di crisi avanzate dalla dottrina hanno ampliato la stessa fino a ricomprendervi il “rischio d’insolvenza”[33] quale situazione in cui versa l’imprenditore che, pur potendo adempiere i debiti scaduti (dipendenti, fornitori ed altri), non sarà probabilmente in grado di adempiere i debiti di prossima scadenza[34].
Non può non evidenziarsi che la nozione di rischio d’insolvenza così delineata è piuttosto ampia e generica al punto da prestarsi ad abusi da parte del debitore il quale potrebbe richiedere l’utilizzo degli strumenti di soluzione negoziale della crisi d’impresa sulla base di una semplice previsione di morosità, con l’intento di traslare e condividere con in il ceto creditorio il rischio d’impresa[35].
Occorre, allora, che tale nozione venga delineata o meglio “qualificata” adoperando le nozioni elaborate dalla dottrina aziendalistica di crisi economica, patrimoniale e finanziaria prima descritte. Donde, muovendo dal presupposto che un’impresa che versi in una di tali situazioni di crisi è al contempo in “rischio d’insolvenza”, si dovrà anche tener presente che questa nozione potrà essere validamente considerata per l’individuazione del presupposto per accedere agli strumenti di soluzione negoziale in esame solo se caratterizzata dalla sussistenza rilevabile di uno stato di crisi economico e/o patrimoniale e/o finanziario.
In altri termini, la nozione di “rischio d’insolvenza” delineato dalla dottrina e quella ampia di crisi importata dalla scienza aziendalistica rappresenterebbero due aspetti della medesima situazione di difficoltà in cui versa l’impresa. Le stesse si rivelano complementari sia per ciò che attiene all’individuazione delle fattispecie che hanno accesso agli istituti che per i limiti in cui le stesse si concretizzano, solo se il “rischio d’insolvenza” in cui versi l’impresa risulti “qualificato” attraverso la rilevazione di uno stato di crisi economica e/o patrimoniale e/o finanziario. In tal guisa, esso sarebbe presupposto valido ai fini dell’accesso agli accordi o al concordato preventivo.
Il dato normativo sembrerebbe lasciar intendere che il legislatore demandi allo stesso debitore, tramite il potere autocertificativo riconosciutogli attraverso il professionista attestatore incaricato, il compito di dichiarare lo stato ed il tipo di crisi in cui versa l’impresa. Di conseguenza il tribunale dovrebbe semplicemente limitarsi a prendere atto della completezza della documentazione esibita e del contenuto della relazione depositata.
Al riguardo la giurisprudenza[37]e la prevalente dottrina, sulla base
di un’interpretazione sistematica che tiene conto anche del disposto dell’art.
162, comma
Tale indirizzo interpretativo si è successivamente
applicato anche al pre-concordato che per via del ricorso massiccio
all’istituto ha reso ancor più probabile il rischio di un utilizzo spesso volto
strumentalmente ad ottenere i benefici del blocco delle azioni esecutive con
possibile pregiudizio dell’interesse del ceto creditorio[39]. La
giurisprudenza si è più volte pronunciata per la verifica della sussistenza del
requisito soggettivo ed oggettivo attraverso l’attività del commissario cui la
riforma del giugno
Dunque, il giudice è chiamato al controllo dell’esistenza del presupposto oggettivo nella fase di ammissione al concordato o agli accordi di ristrutturazione in quanto teleologicamente finalizzato a impedire la lesione delle situazioni giuridiche soggettive dei creditori. Esso consiste nella verifica che i sacrifici imposti dalla maggioranza alla minoranza dei creditori non siano il frutto del ricorso abusivo allo strumento da parte del debitore, il quale potrebbe agire al sol fine di ottenere vantaggi in condizioni di simulata incapienza patrimoniale[41].
L’opportunità di restringere l’ambito di applicazione risponde, altresì, all’esigenza della tutela dell’interesse pubblico, potendosi verificare un abuso (anche ex latere creditoris)se l’adesione all’operazione di ristrutturazione fosse volta unicamente ad ottenere vantaggi (quali la deducibilità delle perdite su crediti) cui scaturirebbe la lesione dell’interesse erariale al recupero del gettito fiscale.
Così come, una volta individuata la natura della crisi, sarebbe da escludersi che l’operazione di ristrutturazione (che proponga una continuità di gestione o sia di natura non liquidatoria) possa considerarsi meritevole di tutela da parte dell’ordinamento se l’impresa versi in una crisi irreversibile[42].
Allora, la questione risiede, come detto, anzitutto nella valutazione dell’intensità e della natura della crisi ed il ruolo del giudice è tutt’altro che attenuato.
Si è già sottolineato che i tribunali sono rimasti prevalentemente ancorati alla manifestazione finanziaria della crisi d’impresa, non tenendo in debito conto che nella pratica possono verificarsi diverse situazioni in cui la crisi finanziaria è soltanto la proiezione della gestione della crisi economica e/o patrimoniale e che pertanto la stessa si manifesta a posteriori. Va ribadito che il rischio è di non ritenere ammissibile la domanda di concordato o di accordi avanzata dal debitore quando l’impresa sia in perdita d’esercizio o presenti un tasso di patrimonializzazione basso, seppur ancora non in difficoltà finanziaria ed in regola con i pagamenti a breve scadenza.
La crisi di tipo economico è senz’altro da ritenersi quella più importante e strutturale nell’ambito della gestione d’impresa, nonché di agevole rilevazione dalla documentazione che il debitore è tenuto a depositare in tribunale. Rappresentando la manifestazione dello squilibrio tra i costi dell’impresa ed i ricavi nell’esercizio di riferimento (l’utile o la perdita d’esercizio), la crisi emerge chiaramente dalla situazione economica dei bilanci depositati. Il riferimento è agli imprenditori tenuti ad osservare le disposizioni civilistiche di tenuta delle scritture di cui agli artt. 2214 c.c. e seguenti dello Statuto dell’imprenditore commerciale oppure a quelli esonerati in quanto imprenditori commerciali di piccole dimensioni[43] ma fiscalmente obbligati alla tenuta del libro giornale e del libro degli inventari, ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. n. 600/1973 in materia di accertamento dell’imposta sui redditi.
Nel caso, invece, di imprenditori commerciali
individuali o organizzati in forma di società di persone che abbiano optato per
il regime contabile-fiscale semplificato (rientrando nei presupposti di cui al
citato art. 18[44]) la situazione di crisi
economica emergerà dai modelli dichiarativi fiscali. In essi la perdita
economica sarà evidente nei quadri dedicati alla determinazione del reddito
d’impresa, oltre che nell’aggiornata relazione sulla situazione
patrimoniale-economica-finanziaria che tali imprese devono depositare ai sensi
dell’art.
Più complessa è, invece, la rilevazione dello squilibrio patrimoniale in quanto basato essenzialmente sulla osservazione di indici di correlazione tra le varie voci di bilancio[46]. Anche in tal caso occorrerà distinguere tra imprese in regime di contabilità ordinaria (che compilano il bilancio) ed imprese che optano per il regime contabile semplificato.
Quanto alle prime, l’analisi dei principali indici di
patrimonializzazione eventualmente richiesti al debitore dall’A.G. consentirà
di verificare in modo diretto la sussistenza di uno squilibrio di tipo
patrimoniale. Viceversa, per le seconde occorrerà probabilmente che queste
provvedano in primis alla
rielaborazione dei dati aziendali secondo schemi standard di bilancio, per poi
procedere alla correlazione delle diverse voci patrimoniali che emergono dagli
stessi. A tal fine, alcuni tribunali hanno affidato alle competenze di un CTU
la verifica del requisito oggettivo, altri demandano al commissario nominato ai
sensi dell’art. 161, comma
4. Il tipo di crisi e il relativo piano di ristrutturazione entrano inevitabilmente in gioco nelle valutazioni dei creditori che decidono di approvare il Concordato o di partecipare all’Accordo di ristrutturazione. Sarebbe, senza dubbio, illusoria l’idea che solo una sospensione dei pagamenti (unitamente al controllo pubblicistico) senza un adeguata pianificazione di ristrutturazione, possa costituire una misura adeguata al fine del salvataggio dell’impresa o della sua più efficiente liquidazione.
Donde, la natura della crisi in cui versa l’impresa assume particolare rilievo ai fini della tipologia di pianificazione che l’imprenditore propone ai propri creditori.
Il piano è strumento flessibile: a seconda che si tratti di crisi economica e/o finanziaria e/o patrimoniale, il piano da sottoporre poi al controllo del professionista e all’omologazione del tribunale accanto alla programmazione finanziaria potrà contemplare anche quella economica e/o patrimoniale.
È noto che sussistono notevoli differenze tra un Piano finanziario ed un Piano industriale-economico[48].
Il piano finanziario consiste in una elencazione analitica sia sotto il profilo descrittivo che tecnico-contabile delle fonti finanziarie future necessarie a sostenere gli impieghi programmati (durante il periodo di competenza) in una condizione costante di equilibrio finanziario.
Il Piano industriale-economico o business plan, di cui è parte anche il piano finanziario, è invece un documento che illustra, in modo sia descrittivo che quantitativo, le intenzioni del management riguardo alle strategie competitive dell’azienda e le azioni che saranno realizzate per il raggiungimento degli obiettivi strategici.
Si ritiene, in primo luogo, che il piano di cui agli
artt. 160-
D’altro canto, il legislatore in occasione della
modifica del 2012 apportata alla l.fall., ha ritenuto opportuno richiedere
appositamente un piano anche di tipo economico-industriale, nel concordato in
continuità di cui all’art. 186 bisl.fall.[50],
stabilendo che quando la proposta di concordato è basata sulla prosecuzione
dell’attività il piano da depositare previsto dall’art.
Il legislatore tiene conto delle differenze tra i vari tipi di pianificazione e richiede specificatamente per la proposta di risanamento della crisi d’impresa in continuazione dell’attività sia la pianificazione finanziaria che quella economica[51].
Ai fini del giudizio di ammissibilità del ricorso ex artt. 161 o 182 bis l.fall., è sufficiente per il tribunale il deposito del piano
di cui all’art.
In altri termini, la verifica da parte del tribunale del presupposto oggettivo, nonché la verifica della meritevolezza degli interessi in concreto realizzati dall’operazione di risanamento necessitano della esibizione da parte del debitore di un piano di ristrutturazione del debito articolato secondo la funzione che lo strumento prescelto (concordato o accordo di ristrutturazione) è chiamata a svolgere, in considerazione della natura della crisi dell’impresa. Occorre, infatti, tener ben presente che, più analitiche saranno le ipotesi previsionali contemplate dal piano (o piani), maggiori saranno le probabilità che durante la fase esecutiva del Concordato o dell’Accordo omologato si verifichino scostamenti dal piano originariamente depositato. Al riguardo, il D.L. n. 83 del 2012 (convertito in L. n. 134 del 2012) ha previsto che in caso di modifiche sostanziali della proposta e del piano il professionista predisponga un supplemento di attestazione[56]. Conseguentemente gli atti non contemplati nel piano non saranno garantiti dagli effetti protettivi di cui agli artt. 67, 182 quater, 217 bis l.fall.
5. Il legislatore della riforma ha lasciato indefinito il concetto di crisi affidando, in tal guisa, alle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali l’individuazione dei limiti di ammissibilità al Concordato preventivo ed agli Accordi di ristrutturazione.
A fronte di un’interpretazione prevalentemente restrittiva dello stato di crisi da parte della giurisprudenza ancorata essenzialmente all’aspetto finanziario dell’inadempimento, la dottrina si è rivelata sensibile alle diverse manifestazioni con cui può concretizzarsi la crisi d’impresa, elaborando la nozione di “rischio d’insolvenza” che, tuttavia, data la sua indefinitezza, si presta ad eventuali abusi da parte del debitore.
Si ritiene che un tentativo di individuazione del presupposto oggettivo non possa prescindere dalla nozione aziendalistica di crisi d’impresa che si articola nei suoi diversi aspetti economico, patrimoniale e finanziario.
Seguendo la nozione di matrice aziendalista un’impresa sarà in stato di crisi e potrà accedere ad uno degli strumenti di cui agli artt. 160 e 182 bis l.fall. laddove versi in una situazione di squilibrio economico e/o patrimoniale e/o finanziario. Pertanto la stessa nozione di rischio di insolvenza, se correlata a quella aziendalistica (nel senso di considerare il rischio d’insolvenza come la conseguenza della sussistenza di uno dei tre tipi di crisi in cui versa l’impresa), perderà la sua indefinitezza. In tal guisa, si verrebbe a delineare il concetto di “rischio d’insolvenza qualificato” idoneo a rappresentare le svariate fattispecie di crisi che rientrano nel presupposto oggettivo del Concordato preventivo e degli Accordi di ristrutturazione.
Tale lettura consentirebbe agli strumenti di soluzione della crisi d’impresa di assolvere a pieno il loro compito di prevenzione dell’insolvenza: l’accesso da parte dell’impresa che, sebbene in crisi economica o patrimoniale, siaancora in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni (anche se a rischio di insolvenza, laddove la crisi economica/patrimoniale si protraesse) permetterebbe di avviare processi di riorganizzazione e di ristrutturazione prima che sia troppo tardi.
*Il contributo è stato pubblicato in Il Fallimento, 2015, n. 4, pag. 385 dopo essere stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
[1] La differenza di presupposti ha comportato, altresì, l’abolizione del fallimento d’ufficio. Si rinvia a G. Lo Cascio, L’abolizione del fallimento d’ufficio e la consecuzione delle procedure concorsuali,in Il Fallimento, 2, 2008, 129 ss.
[2] La giurisprudenza
interpreta lo stato di insolvenza quale impotenza strutturale, e non soltanto
transitoria, vale a dire incapacità di soddisfare regolarmente e con mezzi
normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di
liquidità e di credito necessarie all’attività d’impresa. Donde, un singolo
inadempimento non rileva ai fini della configurabilità dello stato d’insolvenza
occorrendo una serie reiterata di inadempimenti insieme ad altri fattori
indicativi. In tal senso Cass. 27 febbraio 2001, n.
[3] Su tale questione e sui tentativi di rendere anche la nozione di insolvenza una categoria aperta si v. le riflessioni condotte da P. Pannella, La nuova frontiera dell’insolvenza, in www.ilcaso.it.
[4] Cfr. G. Lo Cascio, Il professionista attestatore,in Il Fallimento,11, 2013, 1327.
[5] I rilievi sono svolti da G. Fauceglia, L’anticipazione della crisi d’impresa: profili di diritto comparato e prospettive future, in Il Fallimento, 2009, 14.
[6] L’ultima modifica
al testo della legge fallimentare si è avuta con il D.L. 21 giugno 2013 n.
[7] Tali effetti protettivi di fonte non negoziale derivano dalla previsione introdotta dal c.d. decreto correttivo del 2007, segnatamente l’art. 16, comma 4, del d.lg. 169 che ha sostituito integralmente l’art. 182 bis l.fall.
[8] Articolo inserito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122 che ha convertito, con modificazioni, il D.L. 31 maggio 2010, n. 78. La modifica ha effetto dal 31 luglio 2010, pubbl. in G.U., supp. ord. n. 174.
[9] G.U.U.E. n. 74, 14 marzo 2014, Serie L.
[10] Per un commento
v. U. Macrì, La raccomandazione della
Commissione UE su un nuovo approccio all’insolvenza, in Il Fallimento, 4, 2014,
[11] Non si affronterà in questa sede la problematica, assai rilevante nell’ambito dell’impresa organizzata in forma societaria, dell’esercizio delle funzioni di controllo esercitabili dagli organi societari. Sulla questione si rinvia a L. Rovelli, Il controllo nella società: autonomia statutaria e ruolo delle clausole generali,in Trattato del contratto a cura di V. Roppo, VI, Milano, 2006, 733.
[12] Autorevole dottrina evidenzia il dato fattuale che la maggior parte dei concordati preventivi sono sfociati nel fallimento del debitore, rilevandosi inadeguati alla prevenzione e risoluzione della crisi d’impresa. Sul punto G. Lo Cascio, Il punto sul concordato preventivo, in Il Fallimento, 1, 2014, 7.
[13] Si v. G. Boccuzzi, I meccanismi di allerta e prevenzione e le procedure stragiudiziali, in Diritto fallimentare, 2005, 626; M. Fabiani, Osservazioni sulle misure di allarme per le crisi d’impresa,in Il Fallimento,2004, 825; G. Santoni, I sistemi di allerta e prevenzione e le procedure anticipatorie della crisi nel progetto di riforma della legge fallimentare,in Dir. fall.,2004, I, 733; A. Jorio, La riforma delle leggi francesi sull’insolvenza: un modello da imitare,in Giur. comm., 1995, 698; L. Panzani, La riforma delle procedure concorsuali: due soluzioni a confronto,in Il Fallimento, 2001, 129.
[14] La necessità di introdurre delle procedure d’allerta che consentano di fare emergere la crisi prima che si tramuti in insolvenza è emersa anche nell’ambito dei lavori del Convegno organizzato dall’Odcec di Milano dal titolo: L’efficacia della legislazione sulla crisi d’impresa. La prospettiva della procédure d’alerte, Milano, 27 giugno 2013.
In realtà, gli strumenti presenti nell’ordinamento francese rispondono all’esigenza di anticipare l’insolvenza definita quale condizione di “impossibilità per l’imprenditore di far fronte al passivo esigibile con l’attivo disponibile”. La nozione di insolvenza, così intesa, consente di cogliere le differenze con il nostro ordinamento in quanto nel primo, prima di dichiarare il fallimento dell’impresa, essa deve giungere a uno stadio assai critico e avanzato di decozione. Di qui, la necessità che i terzi vengano allertati delle difficoltà anche di tipo finanziario anticipando il momento di emersione dell’insolvenza. È chiaro allora che tali strumenti dovrebbero trovare dei significativi adattamenti nel nostro ordinamento.
[15] La dottrina si è ampiamente occupata del tema, ex multis, si v. G. Terranova, Stato di crisi, stato d’insolvenza, incapienza patrimoniale,in AA.VV., Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa,Torino, 2007, 15.
[16] Sul punto v. anche N. Rocco di Torrepadula, La crisi dell’imprenditore, in Giur. comm.,2, 2009, 219.
[17] A paventarlo è S. Ambrosini, Il controllo giudiziale sull’ammissibilità della domanda di concordato preventivo e sulla formazione delle classi, in Dir. fall., 2010, I, 559.
[18] Si veda Trib.
Milano 10 novembre 2009che nel
verificare la sussistenza del requisito oggettivo di un accordo di
ristrutturazione si esprime in tal senso: “… Nulla quaestio anche sullo stato di crisi, quale situazione di
momentanea difficoltà finanziaria apertamente confessata dalle società
ricorrenti e profusamente documentata in atti …”; Trib. di Milano, decr. 25
marzo 2010 afferma che: “L’imprenditore deve poi trovarsi in stato di crisi,
condizione che può coincidere o meno con l’insolvenza, essendo sufficiente, in
linea puramente teorica, uno stato di dissesto o difficoltà finanziaria non
ancora integrante la definitiva incapacità di adempiere regolarmente alle
proprie obbligazioni”; Trib. Roma, decr. 20 maggio 2010. Anche in tale
pronuncia si evince che l’oggetto dell’indagine del collegio deve riguardare la
provenienza del ricorso di omologazione degli accordi ex art. 182 bis l.fall.
da un imprenditore in stato di dissesto o di difficoltà finanziaria. Si v.
altresì Trib. Milano, decr. 15 novembre 2011; App. Brescia, sent. 9 luglio
2010; Trib. Mantova, decr. 25 agosto
[19] Autorevole dottrina ha esortato i giuristi ad analizzare la crisi d’impresa anche alla luce di criteri aziendalistici al fine di individuare gli strumenti più idonei al superamento della stessa. Così N. Irti, Il giurista dinnanzi alla crisi d’impresa,in Riv. it. leasing,1986, 249.
[20] Il legislatore ha ritenuto opportuno intervenire con un’apposita norma di interpretazione autentica, segnatamente il D.L. 30 dicembre 2005, n. 373, convertito con modificazioni dalla L. 23 febbraio 2006, n. 51, per affermare l’inclusione nel concetto di crisi anche di quello di insolvenza.
[21] Per un’approfondita analisi dei diversi aspetti della situazione d’impresa e della loro correlazione, nonché della preminenza dell’aspetto economico sugli altri ai fini di una valutazione sulla situazione prospettica d’impresa si rinvia a D. Amodeo, Ragioneria generale delle imprese,Napoli, 785 ss.; cfr. M. Rutigliano, Superare la crisi con i piani di risanamento e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 1 ss.
[22] Vale a dire in caso di tasso di redditività del capitale investito (ROI) è inferiore al tasso medio di remunerazione del capitale preso a prestito (OF/T).
[23] Cfr.A.
[24] In tal senso L. Zocca, Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e relazioni del professionista, Il Sole 24 Ore, 8, 12,15; P. Pajardi - A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 925.
[25] Rileva opportunamente che lo start up d’impresa ben potrebbe costituire una fase transitoria in cui non esiste necessariamente la crisi. N. Rocco di Torrepadula, La crisi dell’imprenditore, cit., 226.
[26] L. Panzani, Concordato preventivo: soggetti e presupposto oggettivo, in Il Fallimento, 9, 2006, 1009.
[27] Pubblicati in G.U.C.E. n. 244 del 1° ottobre 2004 con efficacia dal 9 ottobre 2012 per effetto della Comunicazione della Commissione, pubblicata in G.U.C.E. n. 156 del 9 luglio 2009.
[28] Ancora al punto 10 degli Orientamenti: “Ai fini dei presenti orientamenti, un’impresa, a prescindere delle sue dimensioni, è in linea di principio considerata in difficoltà nei seguenti casi:
a) Nel caso di società a responsabilità limitata, qualora abbia perso più della metà del capitale sociale e la perdita di più di un quarto di tale capitale sia intervenuta nel corso degli ultimi dodici mesi, o
b) Nel caso di società in cui almeno alcuni soci abbiano la responsabilità illimitata per i debiti della società, qualora abbia perso più della metà dei fondi propri, quali indicati nei conti della società, e la perdita di più di un quarto del capitale sia intervenuta nel corso degli ultimi dodici mesi, o
c) Per tutte le forme di società, qualora ricorrano le condizioni previste dal diritto nazionale per l’apertura nei loro confronti di una procedura concorsuale per insolvenza”.
[29] Attualmente il Fondo non è più operativo in quanto abrogato dal D.L. n. 83/2012 del 22 giugno 2012 (G.U. n. 147 del 26 giugno 2012). Dal 26 giugno 2012 non sono più proponibili nuove domande, tuttavia sono fatti salvi i procedimenti in corso alla data del 26 giugno 2012.
[30] Al punto 3 lett. e della delibera C.I.P.E. n. 110/2008, è previsto che l’impresa in difficoltà, per la quale non sia stata già presentata istanza giudiziale per l’accertamento dell’insolvenza, per poter accedere agli aiuti per la ristrutturazione debba tra l’altro depositare “un piano di ristrutturazione industriale alle condizioni di cui all’art. 3.2 degli orientamenti accompagnato da un piano di ristrutturazione dei debiti che abbia i requisiti di cui all’art. 182-bis del regio decreto del 16 marzo 1942, n. 267 e successive modificazioni ed integrazioni (di seguito piano di ristrutturazione)”.
[31] Per un’ampia disamina delle soluzioni riformatrici si v. L. Panzani, La riforma delle procedure concorsuali: due soluzioni a confronto,cit.,129 ss. il quale rileva che il riferimento allo stato di crisi muove dalla scelta del legislatore di anticipare la possibilità offerta al debitore di porre rimedio alla situazione di difficoltà dell’impresa.
[32] Si v. M. Sandulli, La crisi economica dell’impresa, in Giur. comm., 1985, 970; Id., Lo statuto dell’impresa, in Giur. comm., 1984, 150.
[33] Si v. al riguardo
G. De Ferra, Il rischio di insolvenza,in Giur.
comm., 2001, 193 ss. il quale amplia la dimensione temporale anche ad una
fase contingente di difficoltà che sulla base di un giudizio prognostico si
rivela rischiosa quanto alla capacità di adempiere che necessitano di un
urgente intervento. Sul tema si veda anche G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato,cit.,
[34] Si v. al riguardoTrib. di Sulmona, decr. 2 novembre
[35] Problematica
avvertita nell’ordinamento spagnolo in cui con
[36] Ciò è quanto si desume dalla lettera degli artt. 161 e 182 bis l.fall.
[37]Cass., S.U. sent. del23 gennaio 2013, n.1521, in www.ilcaso.it
[38] In dottrina, ex multis, C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti,
Milano, 2012, 183. Diverse le pronunce della giurisprudenza di merito, tra cui:
Trib. Firenze, decr. 7 agosto 2013, Trib. Roma, decr. 21 novembre 2005; Trib.
Benevento, decr. 29 agosto 2013;Trib.
Rimini, decr. 20 marzo 2009; Trib.
Roma, decr. 20 maggio 2010; Trib.
Roma, decr. 20 maggio 2010; Trib.
Milano, decr. 15 novembre 2011; Trib.
Mantova, decr. 31 gennaio 2013 tutte in www.ilcaso.it.
In senso opposto, Trib. Milano, decr. 25 marzo
[39] L’art. 82 del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con
modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n.
[40] In proposito si
vedano le Linee guida del Tribunale di Milano, plenum 20 settembre
[41] Altra è invece la valutazione da compiersi nell’ambito del controllo di fattibilità del piano presentato, potendo scendere sul piano della causa in concreto, si è evidenziata la centralità del ruolo del professionista attestatore che nell’ambito dell’ufficio che è chiamato a svolgere mitiga l’arbitrarietà della dichiarazione del debitore. Sul punto sia consentito rinviare a R. Marino, Il professionista attestatore negli accordi di ristrutturazione dei debiti. Ruolo e responsabilità,Napoli, 2013,Cap. III.
[42] Con specifico riferimento agli accordi di ristrutturazione la ragione economico sociale che rende meritevole la deroga alla disciplina di diritto comune è la possibilità che la gestione della crisi d’impresa, se privatamente concordata fra l’imprenditore e la parte più significativa dei suoi creditori, potrebbe generare una quantità di risorse disponibili superiore a quella che si creerebbe con l’apertura della procedura fallimentare. Pertanto, laddove l’operazione di ristrutturazione non sia liquidatoria l’interesse è certamente meritevole di tutela allorché la crisi sia da considerarsi “reversibile” ed il piano di ristrutturazione sia considerato fattibile.
[43] Ai sensi dell’art. 2083 c.c. sono piccoli imprenditori: “i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.
[44] Ai sensi dell’art. 18 del D.P.R. n. 600/1973 gli imprenditori individuali e le società di persone, qualora i ricavi conseguiti in un anno intero non abbiano superato l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi per oggetto prestazioni di servizi, ovvero di 700.000 euro per le imprese aventi per oggetto altre attività, sono esonerati per l’anno successivo dalla tenuta delle scritture contabili, salvi gli obblighi di tenuta delle scritture previste da disposizioni diverse dal presente decreto.
[45] Al riguardo si è
espresso con sent. il Trib. Cremona 17 aprile
[46] Tra i principali indici di patrimonializzazione: “Grado di autonomia finanziaria”(capitale proprio/capitale investito);“Indice di indebitamento”(capitale investito/capitale proprio); “Grado di rigidità dei finanziamenti” (capitale proprio + passività consolidate/capitale investito)
[47]Trib. Firenze, decr. 31 luglio
[48] Per una corretta e sintetica trattazione, v. F. Favotto, Economia aziendale - modelli, misure, casi, Milano, 2001; amplius, P. Capaldo, La programmazione aziendale, Milano, 1965; V. Coda - M. Bergamini Barbato - G. Brunetti, Indici di bilancio e flussi finanziari, Milano, 1974; P. Onida, Economia d’azienda, Torino, 2004.
[49] Al contempo va segnalato che il legislatore nell’ambito della Legge sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento (L. 3 del 27 gennaio 2012) quale procedura di ristrutturazione dei debiti degli imprenditori sotto-soglia e del debitore civile disciplina in modo più dettagliato il contenuto minimo del piano finanziario che il debitore deve depositare. Il piano “prevede le scadenze e le modalità di pagamento dei creditori, anche se suddivisi in classi, le eventuali garanzie rilasciate per l’adempimento dei debiti, le modalità per l’eventuale liquidazione dei beni”.
[50] Articolo introdotto dall’art. 33 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. La modifica si applica dal 11 settembre 2012 (art. 33, comma 3, d.l. 83/2012 cit.).
[51] La pianificazione industriale-economica è utile invece quando la procedura di risanamento della crisi d’impresa non è basata sulla liquidazione dell’azienda ma sulla sua continuazione.
[52] Per un’impresa di modeste dimensioni con una posizione debitoria costituita da pochi grandi creditori potrebbe essere uno spreco di risorse depositare un piano industriale articolato, unitamente all’accordo ed alla relazione del professionista. Il costo da sostenere per l’articolazione di un articolato Piano industriale potrebbe rappresentare per le imprese di modeste dimensioni un disincentivo all’utilizzo di tale strumento. Si ritiene che i tribunali debbano tenere in debito conto questa circostanza per consentire anche a tali imprese di poter accedere al concordato preventivo o agli accordi di ristrutturazione del debito.
[53] Il piano di cui
agli artt. 160-
[54]Interessanti le considerazioni svolte da L. Zocca, Accordi di ristrutturazione dei debiti tra utopia e realtà,cit., 5. Sulla necessità avvertita in ambito comunitario di fissazione di regole minime per la redazione dei piani di ristrutturazione si veda G. Lo Cascio, Il rischio d’insolvenza nell’attuale concezione della Commissione europea, in Il Fallimento, cit., 736, 740, 741.
[55] S. Ambrosini, Contenuti e
fattibilità del piano di concordato preventivo alla luce della riforma del
[56] Sul punto Trib.
Milano 20 ottobre
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