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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 22/05/2021 Scarica PDF

Il danno parentale tra vincolo affettivo e sconvolgimento delle abitudini di vita

Diego Modesti, Avvocato in Udine


Nota a Trib. Civ. Udine, ord. 29 marzo 2021- Giudice dott.ssa Marta Diamante

 

Sommario: 1. La massima – 2. Il caso – 3. La soluzione giuridica

 

1. La massima

In tema di danno da perdita del rapporto parentale, l’assenza di un effettivo vincolo affettivo tra padre e figlio non consente di individuare lo sconvolgimento delle abitudini di chi sopravvive in dipendenza del vuoto lasciato da chi scompare, non potendo, per tale ragione, ritenersi sussistente alcun danno risarcibile.

 

2. Il caso

Il ricorrente procedeva ad ATP dinnanzi al Tribunale di Udine onde accertare la responsabilità dei sanitari che ebbero in cura il proprio padre, un paziente psichiatrico deceduto in conseguenza di una caduta dal secondo piano del nosocomio presso cui era ricoverato.

A seguito delle operazioni peritali, all’esito delle quali veniva riconosciuta la responsabilità dell’Azienda Sanitariaresistente per omesso controllo di paziente fragile, il ricorrente procedeva nel merito con rito sommario per l’ottenimento del risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.

La causa, istruita unicamente mediante prova orale vertente il rapporto affettivo tra padre e figlio, perveniva immediatamente in decisione ex art. 702 ter c.p.c.

 

3. La soluzione giuridica

Con la pronuncia in esame, il Tribunale di Udine ha rigettato l’istanza delricorrente poiché, attesa la totale assenza del vincolo di affectio tra padre e figlio, questi non poteva ragionevolmente lamentare uno sconvolgimento delle proprie abitudini di vita per l’asserito vuoto causato dalla morte del genitore.

In particolare, il ricorrente aveva allegato l’esistenza del requisito dell’affectio limitandosi a richiamare le presunzioni legali relative al rapporto padre-figlio.

Attraverso l’escussione dei testi nel corso del giudizio, veniva appurato che i rapporti del ricorrente con il de cuiuserano, nella sostanza, totalmente assenti: i medici sostenevano di non avere mai visto una sola volta ilricorrente edavano, altresì, atto delleenormi difficoltà riscontrate nelcontattare lo stesso addirittura per procedere al pietoso ufficio delle esequie, al punto da dovere richiedere l’intervento dei servizi sociali per la celebrazione.

Il danno da perdita del congiunto, riconducibile, com’è noto, nella categoria del danno non patrimoniale [1], secondo la prevalente interpretazione della Suprema Corte, “consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rilevato da fondamentali e radicali cambiamenti di vita”. 

Tale danno si concretizza, dunque, “nel vuoto costituito dal non poter godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti (…), nel non poter fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce nelle relazioni tra i superstiti[2].

La ratio sottesa alla risarcibilità di tale pregiudizio va rinvenuta nella tutela di un duplice interesse: l’intangibilità della sfera affettiva e della reciproca solidarietà familiare, da un lato e l’inviolabilità della libera e piena esplicazione della propria personalità nell'ambito della famiglia, ex artt. 2, 29 e 30 Cost, dall’altro[3].

Quanto ai presupposti necessari ai fini del riconoscimento del danno, si richiede che l’interessato agisca sulla base di un vincolo giuridicamente rilevante con il de cuius[4] e che sussista tra questi un legame affettivo intenso e tangibile[5].

Su tali condizioni necessarie si innesta l’ulteriore requisito, di matrice eminentemente giurisprudenziale, della prova del “reale sconvolgimento di vita[6], circostanza più volte affacciatasi nell’ordinanza in commento.

L’Osservatorio sulla giustizia civile, a proposito della richiesta di danno da parte di soggetti non contemplati nella Tabella, richiede “la prova di un intenso legame affettivo e di un reale sconvolgimento di vita della vittima secondaria a seguito della morte del congiunto [7].

Tale formulazione, con l’utilizzo della congiunzione “e”, lascerebbe intendere che il danno parentale si configuri quando sussistano simultaneamente entrambi i requisiti, oltre, beninteso, alla presenza del vincolo giuridicamente rilevante tra richiedente e de cuius.

Tuttavia, un’indicazione in senso contrario pare potersi trarre, quasi in sede di interpretazione autentica, dallo stesso Osservatorio, nel passaggio in cui si ricorda che “la misura massima di personalizzazione prevista in tabella deve essere (…) applicata dal giudice solo laddove la parte, nel processo, alleghi e rigorosamente provi circostanze di fatto da cui possa desumersi il massimo sconvolgimento della propria vita in conseguenza della perdita del rapporto parentale[8].    

Lo sconvolgimento di vita, sotto questo profilo, pare, dunque, connotarsi maggiormente per la sua capacità di incidere nella modulazione del quantum entro il range delineato dall’Osservatorio, piuttosto che rappresentare una locuzione portante dell’endiadi “intenso legale affettivo- sconvolgimento di vita”.

Non appaiono, quindi, come è stato correttamente affermato in dottrina, del tutto condivisibili le indicazioni giurisprudenziali secondo cui la compromissione esistenziale è destinata a rilevare soltanto qualora si traduca in un radicale cambiamento di vita: qualsiasi alterazione negativa della dimensione personale deve essere presa in considerazione sul piano risarcitorio e non già soltanto quella che determina uno sconvolgimento globale dell’esistenza [9].

La pronuncia del Tribunale di Udine, nell’affermare che “il danno parentale, (…) può essere riconosciuto in capo a tutti quei soggetti che possono far valere un vincolo giuridicamente rilevante con la vittima (presupposto di diritto) e che erano legati da vincoli affettivi intensi e tangibili con la vittima (presupposto di fatto)”, pertanto, sembra collocarsi nel solco dell’interpretazione, qui condivisa, che privilegia la sussistenza di questi soli due presupposti per dare corpo al danno in parola e che individua nello sconvolgimento di vita un parametro di cui il giudice dovrà tenere conto, unitamente agli altri, in sede di liquidazione [10].



[1] La giurisprudenza più risalente riconduceva il danno parentale nella categoria dei danni indiretti o “da rimbalzo”, poiché il pregiudizio ricadeva su un soggetto diverso dalla vittima principale dell’illecito. Difettando, quindi, il nesso di causalità, l’illecito non poteva realizzarsi.

Tuttavia, tale prospettiva muta e già a partire dal 2003 la perdita del rapporto familiare viene considerata dalla Suprema Corte (v. Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828) la causa di un danno diretto ed immediato da far valere iure proprio in giudizio (così C. Napolitano, Danno da perdita del rapporto parentale e danno terminale, in Nuova giur. civ. comm., 6, 2020, p. 1223).

[2] Cfr. Cass. civ., Sez. III, 9 maggio 2011, n. 10107. Si veda, altresì, Cass. civ., Sez. III, 20 agosto 2015, n. 16992 a mente della quale “il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rilevato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita”. Più di recente, Cass. civ., Sez. III, 5 novembre 2020, n. 24689 secondo cui “in tema di pregiudizio derivante da perdita o lesione del rapporto parentale, il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussista il profilo del danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto e, cioè, l’interiore sofferenza morale soggettiva e quella riflessa sul piano dinamico-relazionale, nonché ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso”.

[3] Sul punto, Cass. civ., nn. 8827 e 8828/2003, cit.

[4] Quanto al presupposto in parola va rammentato che “il vincolo di sangue, non è un elemento imprescindibile ai fini del riconoscimento del danno da lesione del rapporto parentale, dovendo “esso essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva, indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto che non sia legato da un vincolo di consanguineità naturale, ma che ha con il danneggiato analoga relazione di affetto, di consuetudine di vita e di abitudini, e che infonda nel danneggiato quel sentimento di protezione e di sicurezza insito, riferendosi alla presente fattispecie, nel rapporto padre figlio”” (Cass. civ., n. 24689/2020, cit.In senso conforme, Cass. civ., Sez. III, ord. 21 agosto 2018, n. 20835).

[5] A tal proposito va rilevato che, secondo giurisprudenza consolidata, “il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto, escludendoli automaticamente, in caso di insussistenza dello stesso” (cfr. Cass. civ., n. 24689/2020, cit.). In linea con tale principio, Cass. civ., Sez. VI, 24 marzo 2021, n. 8218; Cass. civ., Sez. III, 20 aprile 2018, n. 10321; Cass. civ., Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21230, le quali superano il precedente orientamento per il quale affinché “possa ritenersi risarcibile la lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei a ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell'art. 2 Cost.” (così Cass. civ., Sez. III, 16 marzo 2012, n. 4253).

[6] V. Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, voce Criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione alla integrità psico-fisica e dalla perdita/grave lesione del rapporto parentale, § 3, ed. 2021, pag. 8.

P. Marra, Il punto sul danno da sconvolgimento della vita familiare, in RI.DA.RE- Risarcimento Danno Responsabilità, Focus del 18 settembre 2018, p. 7, assai significativamente, afferma che “per indicare il pregiudizio non patrimoniale esaminato, in luogo dell’usuale denominazione di ‘danno da perdita (o lesione) parentale’, parrebbe più opportuno impiegare quella di ‘danno da sconvolgimento della vita familiare’.

[7] Cfr. Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, ibidem.

[8] Sul punto si veda Osservatorio sulla giustizia civile di Milano,cit., pag. 8: ”deve ribadirsi che il danno in esame non è in re ipsa e non esiste, pertanto, un ‘minimo garantito: la parte è -come sempre- gravata dagli oneri di allegazione e prova del danno non patrimoniale subito, fermo il ricorso alla prova per presunzioni; il giudice deve valutare caso per caso, ferma la possibilità di porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (Cass. sentenza n. 25164/2020).

Il valore monetario, indicato in Tabella nella prima colonna, è quello denominato ‘base’ (…)  L’ aumento ‘personalizzato’ fino ai valori massimi, indicato nella seconda colonna della Tabella, deve essere, invece, applicato dal giudice solo laddove la parte nel processo alleghi e rigorosamente provi circostanze di fatto da cui possa inferirsi, anche in via presuntiva, un maggiore sconvolgimento della propria vita in conseguenza della perdita del rapporto parentale”.

[9] V. P. Ziviz, La tutela risarcitoria del nipote non convivente per la perdita del nonno, in RI.DA.RE- Risarcimento Danno Responsabilità, Giurisprudenza commentata del 12 marzo 2018, p. 5.

[10] A tal proposito, si veda Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, ibidem: “L’Osservatorio ha proposto una tabella prevedente una forbice che consente di tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, tipizzabili, in particolare: nella sopravvivenza o meno di altri congiunti del nucleo familiare primario, nella convivenza o meno di questi ultimi, nella qualità ed intensità della relazione affettiva familiare residua, nella qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta, nell’età della vittima primaria e secondaria”.


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