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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 26/10/2021 Scarica PDF

Il danno terminale e la sua liquidazione tra Cassazione, tabelle milanesi e prospettive di riforma

Diego Modesti, Avvocato in Udine


Sommario: 1.Il danno terminale: una definizione tutt’altro che pacifica. – 2. Le conseguenze liquidatorie nell’ambito di ciascun indirizzo. – 3. Osservazioni conclusive. Prospettive di riforma

     

1. Il danno terminale: una definizione tutt’altro che pacifica

Secondo l’oramai consolidato orientamento della Suprema Corte[1] il danno terminale consiste in un danno da invalidità temporanea totale. Si tratta, in particolare, di un danno-conseguenza, risarcibile iure hereditatis e caratterizzato dal protrarsi dell’invalidità psicofisica nel periodo che intercorre tra il sinistro e l’exitus. Peraltro, trattandosi di una compromissione dell’integrità psicofisica della vittima, il danno biologico terminale è suscettibile di ristoro esclusivamente nell’ipotesi in cui vi sia stato un apprezzabile “deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio alla salute[2].

Accanto a tale profilo biologico, può aggiungersi una componente di sofferenza psichica (c.d. danno catastrofale) nell’ipotesi in cui la vittima abbia lucidamente avvertito l’ineluttabile approssimarsi della propria fine[3]. In altri termini, il danno terminale può sussistere – nella sola componente biologica – a prescindere dalla presenza o meno della “lucida agonia”, la quale, non essendo appunto un elemento necessario del danno terminale, rappresenta un quid pluris che, se provato, è idoneo ad incidere sulla liquidazione della componente biologica[4].

Tale assetto costituisce il precipitato di un novum introdotto a partire dalle c.d. pronunce di San Martino bis, con particolare riguardo a Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28989. Precedentemente al citato arresto, infatti, si distinguevano tre ipotesi[5]. La prima riguardava il caso in cui il decesso fosse avvenuto dopo un apprezzabile lasso di tempo, ma in assenza della consapevolezza della fine imminente. In tal caso, non diversamente dalle pronunce più recenti, la Suprema Corte riconosceva la risarcibilità del solo danno biologico terminale.

Nella diversa ipotesi in cui tra lesione ed exitus non fosse intercorso un apprezzabile intervallo temporale, ma si potesse dare prova della c.d. formido mortis, veniva riconosciuto il solo danno catastrofale.

Infine, non veniva riconosciuto alcun danno risarcibile iure hereditatis nell’eventualità in cui la morte fosse intervenuta dopo breve tempo e la vittima versasse in stato di incoscienza. Mancava, per vero, un’indicazione operativa nel caso di compresenza dei citati presupposti, ossia dell’apprezzabile arco temporale e della consapevolezza dell’imminente decesso.

Il vuoto interpretativo è stato colmato dalla Cassazione negli arresti più recenti. Pur confermando, in tale ipotesi, la risarcibilità del danno biologico terminale, qualora, in tale arco temporale, la vittima fosse stata anche consapevole della fine imminente, si è pervenuto alla riconoscibilità – in aggiunta al danno biologico terminale – del danno catastrofale. Nella diversa ipotesi in cui, a prescindere dal lasso di tempo intercorso tra lesione personale e decesso, si provi che la vittima è rimasta manifestamente lucida, è riconoscibile il solo danno catastrofale.

Da tale indirizzo si discostano, invece, le Tabelle di Milano, le quali offrono una definizione onnicomprensiva del danno terminale, “tale da ricomprendere al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente[6]. Il danno terminale rappresenta, dunque, la sintesi della componente biologica e di quella psichica, morfologicamente indistinguibili seppure parti del tutto. Ma è solo la percezione della morte imminente che funge da vero elemento catalizzatore, con la conseguenza che l’assenza della formido mortis determina fatalmente il venir meno dello stesso danno.

La ragione sottesa a questa concezione totalizzante del danno terminale è rappresentata, per espressa indicazione dell’Osservatorio, dalla necessità di evitare il rischio di duplicazione di medesime poste di danno, cosicché la categoria del danno terminale andrebbe, appunto, a ricomprendere tanto la componente biologica terminale quanto quella morale catastrofale.

Sotto il profilo risarcitorio, ai fini del riconoscimento della posta di danno in esame, accanto al presupposto imprescindibile della consapevolezza della fine imminente, risulta necessaria la sussistenza, tra lesione ed exitus, di un lasso di tempo minimo, ma necessario, per l’elaborazione e la rappresentazione del rischio di morire. Ne consegue che qualora la formido mortis non sia accompagnata da un lasso di tempo apprezzabile, non potrà essere riconosciuto alcun risarcimento agli eredi. Alla medesima conclusione si deve giungere nell’ipotesi in cui, tra la lesione ed il decesso, la vittima versasse in stato di incoscienza.

Appare di tutta evidenza come ai diversi approcci classificatori seguiti dalla Cassazione e dall’Osservatorio corrispondano inevitabilmente distinte conseguenze applicative.

La prova della lucida agonia, seguendo l’interpretazione della Suprema Corte[7], incide esclusivamente sulla possibilità di ottenere una maggiorazione risarcitoria del danno biologico terminale laddove, e al contrario, secondo le Tabelle meneghine, la dimostrazione della formido mortis fonda la prova dell’elemento portante del danno terminale: “in nessun caso”- afferma, infatti, l’Osservatorio a proposito del danno in parola – “si tratta di danno in re ipsa, occorrendo la comprovata percezione della fine imminente. La consapevolezza della fine vita da parte della vittima è, dunque, un presupposto necessario affinché possa esservi il risarcimento del danno terminale[8]. La sua percezione, peraltro, può temporalmente non coincidere con la verificazione del fatto generatore del danno e, conseguentemente, può slittare ad una fase seguente (“Nulla impedisce, naturalmente, che a fronte di un decorso particolarmente lungo, la percezione della fine intervenga in un momento successivo, e solo da quel momento, dunque, potrà sorgere il danno terminale[9]).

 

2. Le conseguenze liquidatorie nell’ambito di ciascun indirizzo

Le differenze di impostazione poc’anzi illustrate determinano delle inevitabili ricadute anche sotto il profilo liquidatorio. 

Iniziando la disamina dai criteri individuati dalla Suprema Corte, ai fini della liquidazione del danno biologico terminale si deve fare riferimento alle tabelle relative all’invalidità temporanea assoluta[10]. Quanto, poi, al danno catastrofale, vi sono due orientamenti: da un lato, se ne affida la liquidazione ad un criterio equitativo puro che tenga conto dell’enormità della sofferenza psichica[11] e, dall’altro, si propone una valutazione da effettuarsi mediante personalizzazione che tenga conto dell’entità e dell’intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista dell’exitus[12].

Il criterio equitativo puro si connota per l’assenza di parametri di riferimento, dovendo il giudice liquidare il danno affidandosi al proprio prudente apprezzamento in relazione al caso concreto e sulla base dell’id quod plerumque accidit, dando adeguata motivazione dei criteri di scelta e di personalizzazione nonché dell’iter logico seguito nella quantificazione del danno[13].

Se tale metodo, di facile ed immediata applicazione, presenta l’indubbio vantaggio di consentire al giudice di tenere conto di tutte le circostanze che afferiscono alla vicenda decisa e, pertanto, di permettere una quanto più appropriata personalizzazione, non garantisce, tuttavia, una piena uniformità di trattamento. Ed infatti, il problema si annida proprio sulla valutazione di adeguatezza della motivazione che liquida il danno limitandosi ad affermare di avere “tenuto conto” delle circostanze del caso concreto, senza fare riferimento ad alcun criterio[14].

Non solo. Il criterio equitativo puro, oltre a prestare il fianco al rischio di liquidazioni arbitrarie ed immotivate, non consente all’operatore del diritto di svolgere a ragion veduta una previsione che si confronti con i precedenti giurisprudenziali, finendo, così, per muoversi nella direzione opposta rispetto ad uno degli obiettivi da sempre perseguiti dal legislatore, ossia il contenimento del carico giudiziario: l’assenza di certezze sul quantum risarcitorio potrebbe, infatti, fatalmente indurre ciascuna parte a tentare la sorte nella speranza che il giudice riduca le pretese avanzate dalla controparte[15].

Tali rischi appaiono ancor più tangibili alla luce dell’indicazione fornita dalla Corte di legittimità, la quale afferma che il criterio in parola debba tenere in considerazione l’enormità della sofferenza psichica. Sembra, piuttosto, che tale parametro introduca ulteriori elementi di perplessità, essendo arduo misurare l’entità della sofferenza con un qualche strumento che possa solo lontanamente avvicinarsi al bilancino dell’orafo. In altre parole, è del tutto evidente che, ogniqualvolta la vittima sia consapevole dell’ineluttabile approssimarsi della propria fine, allora percepisca ipso facto una sofferenza psichica che non potrà che essere “enorme”. 

Per tale ragione, e data l’intuibile delicatezza insita nella disamina e nella liquidazione di tale posta di danno, sorge la necessità di indicare più dettagliatamente i criteri attraverso cui valutare e, dunque, monetizzare la “lucida agonia”.

Il secondo orientamento, che vede il danno catastrofale come una posta da valorizzare adeguatamente attraverso la personalizzazione del danno biologico terminale, seppure sconti l’assenza di indicatori numerici utili, appare maggiormente in grado di arginare la discrezionalità concessa al giudice in fase di liquidazione, dovendosi considerare l’entità e l’intensità delle conseguenze della lesione della salute in vista della morte imminente.  

Il criterio proposto dall’Osservatorio, diversamente, individua il parametro liquidatorio del danno terminale sulla base dell’intensità crescente e può essere così riassumibile: il periodo massimo di riferimento è convenzionalmente individuato in cento giorni, oltre i quali il danno non può prolungarsi (tornerà ad essere risarcibile esclusivamente il danno biologico temporaneo ordinario); nei primi tre giorni di danno terminale, il giudice può liberamente – secondo una valutazione personalizzata ed equitativa – liquidare il danno, con il solo limite del tetto massimo fissato in Euro 30.000,00, non ulteriormente personalizzabili. Dal quarto giorno vengono stabiliti dei valori pro die in senso decrescente[16], i quali possono subire una maggiorazione per effetto della personalizzazione, che – tenuto conto delle circostanze del caso concreto e del particolare sconvolgimento provato – non può superare il cinquanta per cento.

Ciò premesso, è appena il caso di sottolineare come, per ciascun importo assegnato pro die, non venga distinto il quantum corrispondente all’elemento biologico e a quello psichico. Sarebbe stato certamente più agevole per l’operatore potersi muovere tra le due componenti, come avviene, ad esempio, nelle tabelle milanesi in riferimento alla liquidazione del danno permanente da lesione all’integrità psicofisica. Ma una tale soluzione, è evidente, non sarebbe stata coerente con la morfologia “monistica” che l’Osservatorio ha disegnato per il danno terminale.

 

3. Osservazioni conclusive. Prospettive di riforma

Alla fine, pare di poter affermare che né l’uno né l’altro dei criteri in esame consente di approdare a delle conclusioni pienamente rassicuranti sotto il profilo eminentemente pratico.

Certamente da preferirsi ai fini applicativi è la concezione “dualistica”, seguita dalla Suprema Corte, che distingue, dal lato risarcitorio, il danno biologico terminale da quello catastrofale poiché non sempre, come più volte ribadito, la vittima è consapevole dell’imminenza della propria fine. Ed è esattamente in tali casi che maggiormente scricchiola la soluzione tranchant individuata dall’Osservatorio: per le Tabelle milanesi, infatti, nell’ipotesi prospettata non verrebbe riconosciuto alcun danno agli eredi della vittima, stante il rapporto di dipendenza che avvince la componente biologica a quella morale.

Se l’equità pura presenta gli svantaggi di cui si è detto, un correttivo potrebbe essere rappresentato dal riferimento alla cd. “equità calibrata”, ossia dalla ponderazione dei precedenti giurisprudenziali specifici [17]. Del resto, il concetto primigenio di equità fa proprio riferimento a quella “rerum convenientia, quae in paribus causis paria iura desiderat[18].

Per l’operatore del diritto, per vero, il sistema delle tabelle è pur sempre la stella polare: un riferimento semplice ed immediato che permette, in pochi passaggi, possibilmente su software, di pervenire ad una soluzione liquidativa generalmente condivisa. 

Come conciliare, dunque, le esigenze monistiche dell’Osservatorio con quelle dualistiche della Cassazione in un sistema tabellare?

Una soluzione potrebbe essere quella di differenziare il quantum da corrispondere a titolo di danno biologico terminale e quello da liquidare a titolo di danno catastrofale innestando quest’ultimo sulla prima posta. La componente biologica verrebbe, così, quantificata sulla base delle tabelle predisposte per l’invalidità temporanea assoluta, mentre la lucida agonia – qualora provata[19] – fungerà da elemento personalizzante ed idoneo ad incidere sul quantum finale. Naturalmente, la personalizzazione, per quanto si è detto, non dovrà essere affidata ad un criterio equitativo puro, ma si muoverà in un range di valori che recepirà le indicazioni dell’equità calibrata, da un lato, e le specificità del caso concreto, dall’altro.

E proprio in riferimento a queste ultime, il giudice avrà agio di poter disporre del materiale istruttorio tradizionale, composto principalmente dalle deposizioni testimoniali, e potrà altresì, ove possibile beninteso, giovarsi dei contributi della medicina legale in ordine alla valutazione della sussistenza e della durata del periodo agonico. A titolo meramente esemplificativo, un valido indicatore del periodo di agonia e della sua durata è costituito dall’ossido nitrico, ossia una molecola “protagonista nella modulazione del tono vascolare e prodotta in condizioni di stress da ossido nitrico sintasi inducibile (iNOS)[20]. La letteratura fa, infine, riferimento alla presenza di proteine correlate alla durata dell’agonia, quali l’albumina e l’ubiquitina; inoltre, la concentrazione post mortem delle catecolamine in alcuni fluidi corporei indica che la vittima ha subìto un particolare stress pre-mortale[21].



[1] Cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 5 maggio 2021, n. 11719; Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2020, n. 9888; Cass. civ., sez. VI, ord., 6 ottobre 2020, n. 21508; Cass. civ., sez. III, 20 giugno 2019, n. 16592; Cass. civ., sez. VI, ord., 17 settembre 2019, n. 23153; Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2018, n. 18328; Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361.

[2] V. Cass. civ., sez. III, 27 settembre 2017, n.22451, Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2013, n. 7126; Cass. civ., sez. III, 10 agosto 2004, n. 15408. In dottrina, si vedano C. Napolitano, Danno biologico terminale e danno morale terminale: due categorie meramente descrittive, in Danno resp., 4, 2020, pp. 459 e 460; M. Bolcato, M. Sanavio, D. Rodriguez, A. Aprile, Il ruolo medico-legale nell’accertamento del danno, in Riv. it. med. leg., 1, 2020, p. 30.

[3] Sul punto, si vedano A. Penta, Il danno c.d. terminale. L’approdo di un approccio conciliativo, in Tabelle milanesi 2021 sul danno non patrimoniale, Officina del Diritto – Responsabilità civile, 2021, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, pp. 42 e 43; M. Rossetti, Il danno alla salute, III ed., 2021, Wolters Kluwer – CEDAM, Milano, p. 1137; L. Berti, Con le dieci nuove sentenze di San Martino la Terza sezione riepiloga le regole della responsabilità sanitaria e della liquidazione del danno, in Responsabilità medico-sanitaria e risarcimenti, Quali nuovi scenari dopo le sentenze del “San Martino 2019” e la pandemia Covid-19?, Giuffrè Francis Lefebvre, 2021, Milano, p. 68; C. Napolitano, Danno biologico terminale e danno morale terminale: due categorie meramente descrittive, cit., p. 463; M. Bolcato, M. Sanavio, D. Rodriguez, A. Aprile, Il ruolo medico-legale nell’accertamento del danno, cit., pp. 30 e 31; C. Leanza, Il danno tanatologico: una riflessione tra arresti ed approdi nella giurisprudenza di legittimità, in Dir. fam. pers., 2, 2019, p. 950; D. Chindemi, Responsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica e privata, V ed., 2021, Altalex/Wolters Kluwer, Milano, p. 1059; F. Bordoni, La risarcibilità iure successionis del danno biologico temporaneo: recenti sviluppi, in Danno resp., 3, 2021, p. 339. In giurisprudenza, si vedano Cass. civ., sez. VI-3, 6 ottobre 2020, n. 21508, ord.; Cass. civ., sez. III, 23 ottobre 2018, n. 26727; Cass. civ., Sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350; Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361; Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537; Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2013, n. 7126; Cass. civ., sez. III, 24 marzo 2011, n. 6754.

[4] Cfr. Cass. civ., sez. VI, ord., 17 settembre 2019, n. 23153 in cui la componente morale viene identificata “… quale ulteriore accessorio della devastazione biologica stricto sensu…”.

[5]  Così, A. Penta, Il danno c.d. terminale. L’approdo di un approccio conciliativo, cit., pp. 42 e 43.

[6] V. Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, ed. 2021, p. 77.

[7] M. Bolcato, M. Sanavio, D. Rodriguez, A. Aprile, Il ruolo medico-legale nell’accertamento del danno, cit., p. 31 utilizzano l’espressione “cosciente percezione delle conseguenze letifere delle lesioni riportate”.

[8] Così, Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, cit., p. 78. Si veda, altresì, M. Bolcato, M. Sanavio, D. Rodriguez, A. Aprile, Il ruolo medico-legale nell’accertamento del danno, cit., p. 30.

[9] V. Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, cit., p. 78.

[10] A tal proposito, si vedano A. Penta, Il danno c.d. terminale. L’approdo di un approccio conciliativo, cit., p. 41 e 45; C. Napolitano, Danno biologico terminale e danno morale terminale: due categorie meramente descrittive, cit., p. 462; C. Trapuzzano, Il danno non patrimoniale da morte, in Giur. merito, 4, 2012, pp. 1002 ss; F. Bordoni, La risarcibilità iure successionis del danno biologico temporaneo: recenti sviluppi, cit., p. 339; L. Berti, Con le dieci nuove sentenze di San Martino la Terza sezione riepiloga le regole della responsabilità sanitaria e della liquidazione del danno, cit., p. 68; M. Rossetti, Il danno alla salute, cit., p. 1137. In giurisprudenza, si vedano Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2020, n.9888; Cass. civ., sez. III, ord., 6 luglio 2020, n. 13870; Cass. civ., sez. III, 20 giugno 2019, n. 16592; Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2018, n. 18328; Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361.

[11] Cfr. Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2020, n. 9888; Cass. civ., sez. III, 20 giugno 2019, n. 16592. In dottrina, v. L. Berti, Con le dieci nuove sentenze di San Martino la Terza sezione riepiloga le regole della responsabilità sanitaria e della liquidazione del danno, cit., p. 68; M. Rossetti, Il danno alla salute, cit., p. 1137; C. Napolitano, Danno biologico terminale e danno morale terminale: due categorie meramente descrittive, cit., p. 463; A. Penta, Il danno c.d. terminale. L’approdo di un approccio conciliativo, cit., p. 45.

[12] Cfr. Cass. civ., sez. III, ord., 6 luglio 2020, n. 13870; Cass. civ., sez. lav., ord., 28 giugno 2019, n. 17577; Cass. civ., Sez. 6-3, ord., 5 luglio 2019, n. 18056; Cass. civ., sez. 3, 20 ottobre 2014, n. 22228.

[13] A tal proposito, si veda M. Rossetti, Il danno alla salute, cit., p. 654. In giurisprudenza, si veda Trib. Grosseto, 15 giungo 2016, n.480 in cui – richiamando Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361 – è stata esclusa la sussistenza del danno biologico terminale mentre si è ravvisata la componente catastrofale in considerazione, nel caso di specie, “… del brevissimo lasso di tempo di permanenza in vita e, però, dell’efferatezza dell’aggressione e del terrore provato dalla vittima, indifesa, e consapevole della propria imminente fine…”; quanto alla liquidazione del danno catastrofale, il Tribunale ha affermato che, pertanto, “Tale danno…non può che essere determinato in via equitativa”.

[14] V. M. Rossetti, Il danno alla salute, cit., p. 656.

[15] Così, M. Rossetti, Il danno alla salute, cit., p. 656. Ibidem

[16] M. Bolcato, M. Sanavio, D. Rodriguez, A. Aprile, Il ruolo medico-legale nell’accertamento del danno, cit., p. 33 criticano con fermezza l’assegnazione di un valore tabellare che decresce di giorno in giorno, come a voler sostenere che “la sofferenza vada a scemare a partire dal momento dell’evento in poi”. Gli Autori sostengono, infatti, che “Dal punto di vista clinico e, di conseguenza, anche da quello medico-legale, tale assunto non è sempre verificato; esistono situazioni in cui, a seguito di eventi gravi, le conseguenze potenzialmente mortali si manifestano solo a lunga distanza dall’evento e la connessa sofferenza, in taluni casi, potrebbe essere addirittura incrementale. Si pensi a casi di schiacciamento con tardiva perdita di arti o a lesioni con liberazione di mioglobina in circolo che solo successivamente porti all’insufficienza renale e multiorgano”.

[17] Si veda P. Virgadamo, Danno non patrimoniale e “ingiustizia conformata”, 2014, Giappichelli, Torino, p. 345.

[18] La definizione “Aequitas est rerum convenientia, quae in paribus causis paria iura desiderat” è contenuta nel “Fragmentum pragense”, IV, 2, in H. Fitting, Juristische schriften des früheren mittelalters, 1876, Halle, p.146 ed è generalmente adottata dai glossatori (ad es., Piacentino, Irnerio), trovando verosimilmente il proprio addentellato semantico nel passo di Cicerone “Valeat aequitas quae paribus in causis paria iura desiderat” (Topica, 23).

[19] A tal proposito, si consideri la l. 15 marzo 2010, n. 38 concernente le “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, in cui si stabilisce che il personale medico o infermieristico deve riportare, all’interno della cartella clinica, le caratteristiche del dolore rilevato, la sua evoluzione nel corso del ricovero, la tecnica antalgica e i farmaci utilizzati, nonché il relativo dosaggio e il risultato antalgico conseguito. Essendo, di regola, tali indicazioni attuate nella prassi, può accadere che la documentazione svolga un ruolo fondamentale al fine di stabilire se la vittima fosse in uno stato di incoscienza, semi-coscienza o di coscienza altalenante (cfr. M. Bolcato, M. Sanavio, D. Rodriguez, A. Aprile, Il ruolo medico-legale nell’accertamento del danno, cit., p. 34).

[20] Si veda M. Bolcato, M. Sanavio, D. Rodriguez, A. Aprile, Il ruolo medico-legale nell’accertamento del danno, cit., p. 35.

[21] Per un’analisi scientifica maggiormente dettagliata, si veda M. Bolcato, M. Sanavio, D. Rodriguez, A. Aprile, Il ruolo medico-legale nell’accertamento del danno, cit., p. 35.


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