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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 10/12/2021 Scarica PDF
L'accesso civico generalizzato ed il diritto alla informazione sugli atti di gestione dell'emergenza sanitaria da Covid-19
Andrea Berti, AvvocatoSommario: 1. Premessa. 2. Principio di trasparenza e attività sanitaria. 3. L’accesso civico generalizzato agli atti di gestione dell’emergenza da Covid-19. 3.1. L’oggetto dell’accesso civico generalizzato ex art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013. 3.2. Le limitazioni dell’accesso civico generalizzato ex art. 5-bis d.lgs. n. 33 del 2013. 4. Il “diritto all’informazione” sull’attività sanitaria. 4.1. Il “diritto all'informazione” nei casi espressamente previsti dalla Legge. 4.2. Il “diritto all’informazione” ex art. 1, comma 2-bis, legge n. 241 del 1990. 4.3. La tutela giurisdizionale del “diritto all'informazione”.
1. Premessa.
Tradizionalmente si ritiene che il diritto in senso oggettivo debba occuparsi unicamente dei comportamenti degli uomini e non del loro “sentire”, siccome volto a dettare regole razionali dei fatti che scandiscono la vita dei consociati.
Eppure, è difficile negare che tra gli ostacoli che impediscono di fatto la piena attuazione del “principio di democraticità” (art. 1 Cost.) vi è anche il sentimento di sfiducia che i consociati maturano nei confronti del decisore politico ed amministrativo.
Il presente contributo prende le mosse dal convincimento che, soprattutto in questo particolare periodo storico caratterizzato dall’emergenza sanitaria, la trasparenza possa e debba svolgere un ruolo fondamentale per elevare il livello di fiducia sistemica nella pubblica autorità, attenuando quel diffuso sentimento di sfiducia che ha intaccato parte della popolazione, siccome destinataria di provvedimenti legislativi ed amministrativi fortemente incidenti sui più fondamentali diritti di libertà.
Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri, preso atto della dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus (PHEIC) resa il giorno precedente dall’Organizzazione Mondiale di Sanità, ha dichiarato lo “stato di emergenza” nazionale ai sensi dell’art. 24 d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, prevedendo l’immediata assunzione di iniziative di carattere straordinario ed urgente per fronteggiare il rischio sanitario, demandate al Capo del Dipartimento della protezione civile “in deroga ad ogni disposizione vigente”, “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico” .
Lo “stato di emergenza”, ripetutamente prorogato ed ancora oggi vigente (al momento sino 31 dicembre 2021) per effetto dell’art. 1 d.l. 23 luglio 2021, n. 105, ha inaugurato un periodo sotto vari profili extra ordinem sul piano individuale e sociale, che, per quanto specificamente interessa il giurista, impone la necessità di condurre un rigoroso e continuo test di verifica in ordine al rispetto di quei “principi generali” (da intendersi qui in senso ampio come comprensivi dei principi costituzionali e derivanti da fonti sovranazionali) che costituiscono il limite del temporaneo strappo ordinamentale.
E’ un dato di fatto che nel corso di questo periodo non vi sia stato diritto o libertà fondamentale dell’individuo che non sia stata in qualche modo compressa o limitata: dalla libertà di movimento e di circolazione (art. 16 Cost.), a quella di riunione (art. 17 Cost.) e di manifestazione (art. 21 Cost.), dal diritto di iniziativa economica (art. 41 Cost.) al diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), dal diritto alla istruzione (artt. 33 e 34 Cost.) a quello di fruizione di servizi pubblici essenziali come la giustizia (artt. 24 e 113 Cost.).
Il fatto che ciò sia avvenuto con un susseguirsi di eterogenee fonti normative (decreti legge, d.P.C.M., ordinanze e decreti del Ministro della Salute, del Capo del Dipartimento della Protezione civile, del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, di provvedimenti delle Regioni e degli Enti locali) ha comprensibilmente sollevato un dibattito di diritto costituzione sul rispetto della “riserva di legge”.
In questo quadro, il tema della “trasparenza” degli atti di gestione dell’emergenza sanitaria è rimasto perlopiù sullo sfondo, probabilmente in ragione del non dichiarato timore che una sua eccessiva valorizzazione in periodo emergenziale possa rappresentare un impedimento o comunque un elemento di complessità nella già complicata attuazione delle misure di contrasto del virus, difficilmente conciliabile con le esigenze di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), visto sotto il particolare profilo della efficacia ed efficienza delle misure adottate.
A ben vedere, invece, la trasparenza rappresenta, per un verso, un punto di vista privilegiato per condurre quella verifica del rispetto dei “principi generali” dell’ordinamento cui è subordinata la tenuta del sistema democratico nel contesto emergenziale e, per altro verso, una fondamentale leva per una più efficace gestione dell’emergenza.
2. Principio di trasparenza e attività sanitaria.
La necessità di rendere trasparente l’attività di gestione amministrativa della sanità pubblica è da tempo avvertita dal legislatore.
Il principio di partecipazione dei cittadini alla attuazione del servizio sanitario nazionale, già espresso dall’art. 1, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) [1], ha trovato più concreta attuazione con l’art. 14 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) che, dopo avere riconosciuto in via generale il “diritto di informazione” dell’assistito, ha previsto l’attivazione di “un efficace sistema di informazione sulle prestazioni erogate, sulle tariffe, sulle modalità di accesso ai servizi” [2].
Il d.lgs. n. 33 del 2013 ha, poi, previsto l’obbligo di pubblicazione di una serie di atti e di informazioni relative all’attività sanitaria latu sensu intesa, come comprensiva sia degli aspetti organizzativi, che di quelli afferenti alla erogazione dei servizi [3].
Su tale base è, infine intervenuto l’art. 4 legge 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilita' professionale degli esercenti le professioni sanitarie) (c.d. Legge Gelli-Bianco) che per un verso ha esteso gli obblighi di pubblicazione e per altro verso ha disciplinato l’accesso documentale nel particolare ambito sanitario, connotandolo, almeno dal punto di vista procedimentale, con alcuni elementi di “specialità” rispetto alla disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (con particolare riferimento al termine di conclusione del procedimento, ridotto a 7 giorni dalla presentazione della richiesta, con possibilità di “eventuali integrazioni” della documentazione entro il termine massimo di 30 giorni) [4].
Norme particolari sono, inoltre, dettate per la pubblicità e l’accesso agli atti autorizzatori dell’uso dei farmaci e dell’attività di farmacovigilanza.
Va evidenziato che man mano che l’attività sanitaria si avvicina all’utente del servizio traducendosi nella erogazione (volontaria o imposta) di un “trattamento sanitario”, la “trasparenza” (ovvero il “diritto di conoscere “ del paziente) viene a trovare un ulteriore fondamento giuridico e valoriale nelle libertà e nei diritti fondamentali dell’individuo e segnatamente nella “libertà personale”, nella “dignità” e nella “autodeterminazione” della persona, nonché nel “diritto alla vita” ed “alla salute”, tutti diritti che trovano protezione primaria negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e negli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ciò è oggi chiaramente affermato dall’art. 1 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), sulla scorta degli insegnamenti della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 23 dicembre 2008) e della Corte di Cassazione.
Non vi è dubbio, infatti, che il consenso al trattamento sanitario, per poter essere “libero”, deve essere “informato”, sì che “Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché' riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.” (comma 3).
Diritto di informazione che non può essere relegato al pur fondamentale rapporto tra medico e paziente (comma 2), riguardano altresì la struttura amministrativa che eroga la prestazione sanitaria, come si evince chiaramente dal comma 9 (“Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l'informazione necessaria ai pazienti e l'adeguata formazione del personale.”).
In questa prospettiva, appare, quindi, di particolare rilievo il monito espresso dalla 3^ sezione del Consiglio di Stato secondo il quale << .. a livello generale, sempre più dovrà essere soddisfatto, nella misura in cui lo consentiranno e verranno meno le preminenti esigenze di riservatezza volte a preservare la salute quale interesse della collettività, l’interesse pubblico, sotteso all’accesso civico generalizzato, ad ottenere la massima trasparenza in ordine agli atti con i quali il Governo e le autorità sanitarie hanno inteso fronteggiare, sin dal principio, la diffusione della pandemia da Covid-19 e far luce, secondo il principio della “casa di vetro” che contraddistingue la trasparenza dell’azione amministrativa (v., su questo punto, la già citata sentenza di Cons. St., Ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10), sui moduli decisionali, invero complessi e articolati, che hanno condotto, anche in una fase procedimentale istruttoria o meramente preparatoria, all’adozione di misure emergenziali fortemente incidenti sull’esercizio dei diritti fondamentali. >>(sentenza 9 luglio 2021, n. 5213) [5].
3. L’accesso civico generalizzato agli atti di gestione dell’emergenza da Covid-19.
Può essere di qualche interesse analizzare alcune vicende relative all’applicazione dell’istituto dell’accesso civico generalizzato agli atti di gestione dell’emergenza sanitaria, traendo spunto dalla casistica giurisprudenziale.
3.1. L’oggetto dell’accesso civico generalizzato ex art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013.
Un primo filone che merita di essere indagato attiene all’”oggetto” dell’accesso. Come noto, l’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013 con riferimento all’”accesso civico semplice” parla di “documenti, informazioni o dati” (commi 1 e 6), mentre riferendosi all’“accesso generalizzato” parla di “dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni” (commi 2 e 3).
Le differenze testuali non sembrano così decisive, anche considerato che delle “informazioni” e dei “dati” non esistono chiare definizioni legislative.
Ciò che è certo è che l’oggetto dell’accesso civico generalizzato differisce da quello dell’accesso documentale ex l. n. 241 del 1990, nel senso che esso non può essere inteso come semplice diritto di ottenere il documento richiesto, bensì come “diritto all’informazione”, ovvero come diritto di acquisire dati ed informazioni indipendentemente dal supporto fisico in cui essi sono incorporati [6].
Ma in cosa consiste l’informazione” esigibile dall’Amministrazione ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013?
Certamente il concetto non può essere ampliato sino al punto di ricomprendere manifestazioni di giudizio (valutazioni o apprezzamenti) o di volontà (intendimenti futuri) da parte della P.A. [7].
Facendo applicazione di questo principio si è, quindi ritenuto non accoglibile l’istanza formulata ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013 per conoscere le misure che la Regione ha inteso predisporre per fronteggiare l’eventuale carenza di vaccini antinfluenzali per le categorie non a rischio, trattandosi di << un inammissibile sindacato sollecitatorio riguardante attività amministrative de futuro >> [8].
Su questa linea si è altresì ritenuto che non possa essere accolta l’istanza di accesso civico generalizzato volta a conoscere le azioni che l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha inteso mettere in atto per rendere fruibile alla cittadinanza la terapia a base di anticorpi monoclonali per la cura del Covid-19 [9].
Sempre con riguardo all’oggetto dell’accesso civico generalizzato, è, poi, opinione condivisa che il diritto non possa estendersi sino al punto di imporre alla P.A. un’attività di elaborazione dati (ad esempio, redigendo relazioni, elenchi o fornendo chiarimenti sul suo operato) che non siano ricavabili da documenti già esistenti ed in suo possesso [10].
E’, invece, controverso se mediante l’accesso civico generalizzato si possano ottenere dalla P.A. “informazioni” mediante un’attività di composizione, ordinazione e sviluppo più o meno complessa di documenti già esistenti ed in suo possesso.
Sul punto non sono mancate in passato decisioni di segno negativo, che hanno fatto leva sulla mancanza nella norma di un espresso riferimento letterale alle “informazioni” e sul carattere “gratuito” dell’accesso civico generalizzato, che sarebbe incompatibile con lo svolgimento di un’attività comportante rilevanti oneri organizzativi e materiali per gli uffici [11].
Su questa linea di pensiero, si è, quindi, ritenuto non accoglibile l’istanza di accesso civico generalizzato volta ad ottenere da AIFA la rendicontazione delle attività poste in essere al fine rendere fruibile alla cittadinanza la terapia a base di anticorpi monoclonali per la cura del Covid-19 [12].
Trattasi di un indirizzo restrittivo che, se non condivisibile sul piano generale in considerazione dell’ampia accezione secondo la quale deve intendersi l’oggetto dell’accesso civico generalizzato [13], lo è ancor meno se riferito all’attività di gestione dell’emergenza sanitaria, rispetto alla quale le esigenze di “trasparenza” assumono particolare rilievo, quantomeno in tutti i casi in cui si tratti di “trattamenti sanitari” (volontari od imposti) incidenti sui diritti riconosciuti dagli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e dagli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ed invero, valorizzando una linea di pensiero in realtà già presente nella giurisprudenza [14], le esigenze di “trasparenza” dell’attività di gestione dell’emergenza sanitaria sono state l’occasione per affermare che l’”informazione” a cui l’istante ha diritto può consistere anche nella elaborazione di dati ricavabili da documenti esistenti e detenuti dalla P.A..
In tal senso la giurisprudenza si è pronunciata in relazione ad un’istanza di accesso civico generalizzato volta a conoscere le misure approntate dalla Regione per la vaccinazione antinfluenzale, con particolare riferimento al quantitativo di dosi di vaccino ordinate ed acquistate e le differenze rispetto all’anno precedente; la data di inizio della campagna anti vaccinale; le categorie target destinate alla vaccinazione; le misure organizzative approntate per favorire la massima accessibilità ai vaccini da parte dei cittadini [15].
Una decisione analoga ha riguardato l’istanza di accesso civico generalizzato alla documentazione inerente al numero di posti letto di terapia intensiva disponibili ed occupati nelle strutture sanitarie regionali prima e durante l’emergenza sanitaria da Covid-19 [16].
Si tratta di affermazioni giurisprudenziali di grande rilievo che vanno al di là della pur fondamentale esigenza di trasparenza degli atti di gestione dell’emergenza sanitaria, perché, superando ogni sterile disquisizione sul tenore letterale dell’art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013 e le resistenze (anche culturali) di approccio economicistico della “trasparenza”, traducono lo spirito di una riforma (d.lgs. n. 97 del 2016) volta a garantire la “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni” (art. 1 d.lgs. n. 33 del 2013).
Altra – ed altrettanto importante - evoluzione giurisprudenziale del concetto di “oggetto” dell’accesso civico generalizzato riguarda i cosiddetti “atti interni”, che l’art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013 non menziona e non disciplina (a differenza dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990 che, per l’accesso documentale, se ne occupa espressamente) [17].
Nessun dubbio si pone sulla ostensibilità degli “atti endoprocedimentali”, ovvero di quegli “atti interni” afferenti ad un’istruttoria procedimentale, atteso che non si vede per quale motivo l’accesso civico generalizzato debba sotto questo profilo essere più restrittivo dell’accesso documentale, per il quale l’ostensione a detti atti è espressamente disposta dall'art. 22, comma 1, l. n. 241 del 1990 e dall’art. 7, comma 2, d.P.R. n. 184 del 2006.
Qualche dubbio potrebbe invece sorgere, in teoria, per gli “atti interni” non utilizzati nel procedimento amministrativo, anche in considerazione della loro controversa ostensibilità ai sensi della legge n. 241 del 1990 in materia di accesso documentale [18].
Tali atti vanno tenuti distinti dai c.d. interna corporis, ovvero da quelle minute, appunti, brogliacci, pro-memoria, ecc. privi degli elementi essenziali dell'atto amministrativo (in primo luogo della sottoscrizione) ed utilizzati informalmente a titolo personale per facilitare la redazione di documenti veri e propri, i quali, non essendovi alcun obbligo di formalizzazione e conservazione, rimangono relegati nella sfera interna e privata del soggetto che li elabora e (come per l’accesso documentale ex l. n. 241 del 1990) rimangono certamente inostensibili: così, ad esempio, si è ritenuto che non possono costituire oggetto di accesso civico generalizzato gli atti di “informativa” redatti dalla Direzione generale di un Ministero sotto forma di “appunti e relazioni” non trasfuse in documenti ufficiali ed inoltrati al competente Ministro per l’adozione dei conseguenti atti di indirizzo politico, non trattandosi di attività amministrativa in senso proprio (fattispecie relativa ad attività di vigilanza e controllo sulle Casse previdenziali private) [19].
Ferma tale distinzione,il fatto che l’art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013 parli di “dati, informazioni e documenti” depone per la ostensibilità degli “atti interni” non utilizzati nel procedimento amministrativo ed a tale conclusione è recentemente giunta la giurisprudenza proprio in tema di accesso agli atti di gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 [20].
Così, ad esempio, si è giudicato ostensibile il documento di studio preparatorio del “Piano nazionale di emergenza in tema di coronavirus”, anche in mancanza di un vero e proprio provvedimento amministrativo di approvazione [21].
Allo stesso modo si è ritenuto ostensibile il “resoconto informale” di una riunione tra il Ministero della Salute e la task force di tecnici nominati al fine di supportare l’azione del Ministero nel contrasto della pandemia da Covid-19 e di cui si era stata data notizia mediante un comunicato pubblicato sul sito istituzionale dello stesso e ciò anche se trattavasi di un tavolo di consultazione informale, ovvero di un’attività interna istruttoria non relativa ad uno specifico procedimento [22].
Infine, è stata ritenuta meritevole di accoglimento l’istanza di accesso civico generalizzato ai verbali, ai documenti ed alle informazioni relativi alla riunione tenutasi in data 29 ottobre 2020 tra un’azienda produttrice di farmaci con anticorpi monoclonali ed i rappresentanti del Ministero della Salute, del Comitato tecnico scientifico e dell’Ospedale Spallanzani di Roma, quand’anche redatti in forma di “rendiconto informale”[23].
Ciò detto, è innegabile che restano comunque, anche secondo questo orientamento giurisprudenziale più estensivo, alcuni limiti dell’accesso civico generalizzato sul piano dell’“oggetto”, che vanno confrontati con la percorribilità di un’altra e distinta soluzione, rappresentata dal “diritto all’informazione” ex art. 2 della legge n. 241 del 1990: di questa questione si dirà nel prosieguo.
3.2. Le limitazioni dell’accesso civico generalizzato ex art. 5-bis d.lgs. n. 33 del 2013.
Un secondo filone casistico che merita di essere segnalato riguarda le limitazioni dell’accesso civico generalizzato agli atti di gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 ai sensi dell’art. 5-bis d.lgs. n. 33 del 2013.
Va, anzitutto, rilevato che il tema ha rappresentato l’occasione per la giurisprudenza per ribadire che la “trasparenza” e l’accesso civico generalizzato costituiscono un “principio generale dell’ordinamento giuridico”, sì che le relative limitazioni devono essere considerate fattispecie eccezionali, insuscettibili di interpretazione estensiva e di applicazione analogica [24].
Ciò è avvenuto, con conseguenze pratiche di particolare rilievo, con riferimento ai verbali del Comitato tecnico-scientifico prodromici all’emanazione dei d.P.C.M. contenenti misure di contrasto alla diffusione del virus Covid-19, che, non essendo propriamente “atti normativi” e neppure “atti amministrativi generali”, ma “atti atipici” emanati sulla base di circostanze eccezionali e temporalmente limitate, non possono essere inclusi nei casi di limitazione assoluta previsti dall’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, non essendo assimilabili alla fattispecie di cui all’art. 24, comma 1, lett. c), legge n. 241 del 1990, a cui l’art. 5-bis rinvia; sì che, essendo esclusa l’applicazione analogica e l’interpretazione estensiva della norma, non può che operare la regola generale dell’accesso [25].
L’epilogo giudiziario che ha portato all’annullamento del provvedimento del Dipartimento della Protezione civile reiettivo dell’istanza di accesso civico generalizzato ai verbali del Comitato tecnico scientifico è di particolare importanza perché, come ben si comprende, è soltanto prendendo conoscenza dei pareri tecnico-scientifici richiamati dai d.P.C.M. che è possibile verificare il rispetto dei limiti cui essi sono assoggettati ed in particolare l’“adeguatezza” e la “proporzionalità” delle misure assunte, come espressamente richiesto dal legislatore (vedi art. 1 d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, art. 1 d.l. 25 marzo 2020, n. 19, art. 1 d.l. 16 maggio 2020, n. 33).
A seguito della vicenda giudiziaria, il Dipartimento della protezione civile ha annunciato tramite il suo portale istituzionale che i verbali del CTS sarebbero stati pubblicati “dopo 45 giorni dalla data della riunione” nell’apposita sezione (https//emergenze.protezionecivile.gov.it/it/sanitarie/coronavirus/verbali-comitato-tecnico-scientifico); con la precisazione che “Nei documenti sono state oscurate le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti privati, anche societari, e dei prodotti sanitari di questi ultimi, allo scopo di contemperare le esigenze di trasparenza con quelle di riservatezza dei terzi. Sono stati, altresì, omessi gli allegati e i documenti sottoposti alle valutazioni del CTS, in virtù di quanto disposto dall’articolo 5-bis, comma 2, del D. Lgs 33/2013, e tenuto conto dell’alto numero di controinteressati, come previsto dalla Circolare FOIA 1/2019.”.
L’organo governativo si è, quindi, avvalso della facoltà prevista dall’art. 7-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013.
In disparte il mascheramento dei dati che l’Amministrazione ritenga di effettuare per rispettare i limiti di cui all’art. 5-bis d.lgs. n. 33 del 2013 (la cui legittimità andrà valutata caso per caso), tale prassi (di cui, peraltro, non è dato conoscere la fonte provvedimentale) per un verso va certamente incontro alle esigenze di trasparenza della gestione emergenziale, esonerando il cittadino dal presentare apposita istanza di accesso civico generalizzato al verbale del CTS, ma, per altro verso, non può intendersi come sostitutiva del diritto di accesso civico generalizzato, che l’Amministrazione è comunque tenuta a soddisfare nei termini di legge, ovvero entro il termine massimo di trenta giorni (art. 6, comma 6, d.lgs. n. 33 del 2013).
Se diversamente intesa, detta prassi finirebbe invero per introdurre, di fatto e surrettiziamente, una sorta di “differimento” dell’accesso non previsto da alcuna norma, peraltro difficilmente censurabile davanti al giudice amministrativo, atteso che la pubblicazione del verbale nei quaranta giorni sortirebbe l’effetto di far cessare la materia del contendere prima ancora di poter discutere l’eventuale ricorso giurisdizionale.
Sempre in tema di limitazioni “assolute” ex art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, il Garante per la protezione dei dati personali ha avuto occasione di confermare la sua interpretazione restrittiva dell’art. 5-bis, comma 4, d.lgs. n. 33 del 2013, (“Se i limiti di cui ai commi 1 e 2 riguardano soltanto alcuni dati o alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l’accesso agli altri dati o alle altre parti.”), ritenendo la norma inapplicabile ogniqualvolta vi sia la possibilità che i soggetti menzionati possano in qualche modo essere re-identificati attraverso il complesso delle informazioni contenute nei documenti richiesti [26]: per tale motivo il Garante ha ritenuto non accoglibile l’istanza con cui un giornalista chiedeva alla Regione informazioni specifiche in merito alla distribuzione dei casi di contagio da Covid-19 suddivisi per Comuni, sesso, età, esito, ecc., atteso che, anche se le informazioni richieste non contemplavano le generalità delle persone fisiche contagiate, non poteva escludersi che queste potessero essere re-identificate a posteriori, anche considerata la dimensione demografica dei Comuni interessati.
Quanto alle limitazioni “relative” dell’accesso civico generalizzato ex art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. n. 33 del 2013, la giurisprudenza ha ribadito la necessità di una puntuale motivazione del provvedimento di rigetto dell’istanza, siccome idonea a dar conto del giudizio di ponderazione degli interessi in gioco con la tecnica del bilanciamento, sulla base del criterio del “pregiudizio concreto” (c.d. criterio del “harm test” o “test del danno”).
In applicazione di tali principi, si è quindi ritenuto illegittimo il diniego dell’istanza di accesso civico generalizzato presentata da un giornalista agli atti riguardanti l’impiego ed il ritiro delle forze militari nei Comuni in cui era stata per la prima volta istituita la “zona rossa” a seguito della crisi pandemica da Covid-19 (5/8 marzo 2020), in quanto motivato con un generico richiamo agli interessi di cui all’art. 5-bis, comma 1, lett. a), b) c) (sicurezza e ordine pubblico, sicurezza nazionale, difesa e questioni militari) senza dar conto del “concreto pregiudizio” che la divulgazione di detti documenti avrebbe arrecato a tali interessi [27].
4. Il “diritto all’informazione” sull’attività sanitaria.
Come detto, anche accedendo alla più ampia nozione di “oggetto” dell’’accesso civico generalizzato, esso presenta alcuni limiti strutturali che non consentono di soddisfare appieno le esigenze di informazione che non siano in qualche modo ricavabili (anche mediante attività di elaborazione) da atti o documenti esistenti e detenuti dalla P.A., quantunque “interni” alla stessa.
E’ allora da chiedersi se l’ordinamento contempli strumenti che possano soddisfare altrimenti detta esigenza informativa nei confronti della P.A. e le eventuali forme di tutela giurisdizionale.
4.1. Il “diritto all'informazione” nei casi espressamente previsti dalla Legge.
Può, anzitutto, rilevarsi che vi sono casi in cui il legislatore riconosce espressamente al cittadino il diritto di ottenere dalla P.A. “informazioni” di suo interesse, ovvero un “diritto all’informazione” sotto il profilo oggettivo più ampio di quello garantito dal diritto di accesso, sia esso documentale ex l. n. 241 del 1990 o civico ex d.lgs. n. 33 del 2013.
Alcune di queste disposizioni hanno carattere generale, in quanto riguardano aspetti organizzativi o gestionali relativi all’intera attività svolta da una Pubblica Amministrazione [28].
Altre sono disposizioni di settore che riguardano specifiche attività amministrative, da intendersi in senso ampio come comprensive anche di attività materiali [29].
Orbene, in presenza di una di queste norme non pare potersi dubitare della esistenza di un “diritto all’informazione” giurisdizionalmente tutelato, salvo verificare quale sia lo strumento processuale azionabile (questione su cui si dirà infra).
Con specifico riguardo alla “trasparenza” dell’attività di gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19, di particolare interesse sono alcune norme contenute nel d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), che prevedono l’informazione alla popolazione nell’ambito dell’attività di protezione civile: in particolare, l’art. 2, comma 4, lett. f) prevede tra le attività di prevenzione non strutturale di protezione civile anche quella concernente “l'informazione alla popolazione sugli scenari di rischio e le relative norme di comportamento nonché' sulla pianificazione di protezione civile“ e l’art. 17, comma 3, lett. b) stabilisce che tra le modalità di organizzazione e di svolgimento dell’attività di allertamento della popolazione debbano essere previsti anche gli “aspetti relativi alla comunicazione del rischio, anche in relazione alla redazione dei piani di protezione civile di cui all'articolo 18, e all'informazione alla popolazione sulle misure in essi contenute“.
Costituiscono un esempio di applicazione delle norme predette i bollettini informativi ed i comunicati stampa quotidianamente emessi dalla Protezione civile nel corso del primo anno dell’emergenza sanitaria.
L’ampia formulazione della norma autorizza a ritenere che non possa essere esclusa una interlocuzione individuale con le Autorità preposte, con la quale richiedere informazioni dettagliate in merito alle misure contenute nei piani di protezione civile.
4.2. Il “diritto all’informazione” ex art. 1, comma 2-bis, legge n. 241 del 1990.
Al di là dei casi sopra menzionati in cui esistono specifiche disposizioni di legge (di carattere generale o settoriale) prevedenti il diritto del cittadino di ottenere determinate informazioni dalla P.A., ci si può chiedere se un analogo “diritto all’informazione” sia comunque desumibile da altre norme di carattere generale [30].
La prima disposizione che viene in considerazione è l’art. 2 della legge n. 241 del 1990, che, come noto, impone alle P.A. di concludere con un provvedimento espresso un procedimento amministrativo avviato con apposita istanza dell’interessato.
Al riguardo, si è sostenuto l’impossibilità di riconoscere un “diritto all’informazione” del cittadino nei confronti della P.A. sulla base dell’art. 2 legge n. 241 del 1990, atteso che quest’ultima norma - e gli obblighi che ne derivano – valgono unicamente per l’attività provvedimentale in senso stretto, a cui non è riconducibile l’“attività conoscitiva, relazionale et similia” [31].
Quest’ultima posizione è in linea con la consolidata giurisprudenza secondo la quale l’obbligo di procedere e di provvedere di cui all'art. 2 della legge n. 241 del 1990 non riguarda rapporti rispetto ai quali non sia configurabile un potere provvedimentale amministrativo in senso stretto (come per i c.d. atti paritetici), anche considerato che per tali rapporti vengono in considerazione diritti soggettivi (e non interessi legittimi), sì che l’interessato non potrebbe adire il Giudice amministrativo con ricorso ex art. 117 c.p.a., ma semmai il Giudice ordinario [32].
L’art. 2 della legge n. 241 del 1990 non è, però, l’unica norma sulla base della quale va verificata la configurabilità di un obbligo della P.A. di riscontrare un’istanza di informazione di un consociato.
Un prezioso spunto in tal senso è offerto da quella consolidata giurisprudenza amministrativa secondo la quale un obbligo giuridico di provvedere sussiste non soltanto quando esso è espressamente previsto da specifiche norme di legge (con conseguente operatività dell’art. 2 l. n. 241 del 1990), ma anche in relazione a fattispecie non tipizzate allorquando “ragioni di giustizia e di equità” impongano alla P.A. di adottare un atto o un provvedimento espresso [33].
Prendendo le mosse da questo consolidato principio giurisprudenziale, si è, allora, ritenuto che anche il “diritto all’informazione” del cittadino nei confronti della P.A. sia configurabile ogni qualvolta egli possa vantare una “legittima aspettativa” ad ottenere informazioni in merito a talune attività da essa poste in essere: ciò alla luce dei principi generali di trasparenza, di correttezza e di leale cooperazione.
In questa prospettiva si è quindi affermato che << .. indipendentemente dall’esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97, Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un’esplicita pronuncia. >> (Cons. St., sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7955) [34].
Dette affermazioni hanno trovato una linea di continuità anche in pronunce più recenti, seppure con la precisazione secondo la quale l’obbligo informativo non può trasformarsi in altri e più onerosi obblighi di facere di diversa natura (Cons. Stato, sez. IV, 27 agosto 2019) [35].
Questo indirizzo merita oggi di essere ulteriormente valorizzato alla luce della disposizione contenuta nell’art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, aggiunta dall’art. 12, comma 1, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (convertito dalla legge 11 settembre 2010, n. 120), secondo la quale “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede.”.
La norma è il frutto dell’elaborazione giurisprudenziale (non soltanto amministrativa, ma anche della Corte di cassazione) che da tempo non dubita della applicabilità della “clausola generale di buona fede e correttezza” anche all’azione della pubblica amministrazione, non soltanto a quella contrattuale, ma anche a quella di carattere autoritativo, valorizzando sotto tale profilo l’”affidamento incolpevole” dell’amministrato [36].
Può, pertanto, ragionevolmente affermarsi che, al di là dei casi in cui esistono specifiche disposizioni di legge (di carattere generale o settoriale) prevedenti il diritto del cittadino di ottenere determinate notizie ed informazioni dalla P.A., un diritto di conoscere in capo allo stesso sussiste, ai sensi dell’art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, ogniqualvolta egli possa vantare, per “ragioni di giustizia e di equità” una “legittima aspettativa” in tal senso, da valutare sulla base dei principi di trasparenza, correttezza e buona fede.
E’, allora, da chiedersi se, al di là degli obblighi informativi gravanti sul medico nell’ambito della “relazione di cura” con il paziente (art. 1, comma 2, legge n. 219 del 2017) ed al di là delle tipiche prerogative del diritto di accesso documentale ex l. n. 241 del 1990 e di accesso civico (semplice e generalizzato) ex d.lgs. n. 33 del 2013, sia configurabile un “diritto all’informazione” in materia sanitaria ed in che limiti.
Si ritiene che un tale diritto sussista quantomeno in relazione alle informazioni riguardanti i “trattamenti sanitari” imposti o raccomandati alla popolazione dalle Autorità sanitarie (si pensi alle cosiddette “campagne vaccinali”)
In questi casi di “sanità amministrata” a livello centrale il “rapporto” con l’assistito va al di là della relazione personale e fiduciaria con il medico (il quale è spesso vincolato da “linee guida” ministeriali e non ha neppure conoscenza diretta di tutte le informazioni necessarie a soddisfare le esigenze conoscitive del paziente) e si estende all’Autorità sanitaria dalla quale l’obbligo o la raccomandazione promana, di tal che è nei confronti di quest’ultima che può essere esercitato il “diritto all’informazione” sul trattamento sanitario.
A favore di una “legittima aspettativa” (rectius: diritto) in tal senso militano diverse considerazioni.
In primo luogo, la rilevanza degli interessi e dei diritti incisi dall’azione amministrativa di cui si chiede di essere notiziati: è evidente, invero, che le esigenze di trasparenza dell’attività sanitaria in merito alla erogazione dei “trattamenti sanitari” sono massime ed il “diritto di conoscere“ dell’assistito trova un fondamento giuridico nelle libertà e nei diritti fondamentali dell’individuo e segnatamente nella “libertà personale”, nella “dignità” e nella “autodeterminazione” della persona, oltre che nel “diritto alla vita” ed “alla salute” ex artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
In secondo luogo, anche sul piano letterale, è di rilievo il fatto che l’art. 1, comma 3, della legge n. 219 del 2017, nello stabilire che “Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché' riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.”, non prevede come unico ed esclusivo interlocutore il medico (che pure è tenuto all’obbligo informativo ai sensi del comma 2), di tal che ciò autorizza a ritenere che detto “diritto di conoscere” possa essere esercitato anche nei confronti di tutte le Amministrazioni che detengono dette informazioni, perché formate o trattate nello svolgimento dei loro compiti istituzionali.
Del resto, una conferma in tal senso viene anche dal comma 9 dell’art. 1 della legge n. 219 del 2017, che pone la piena e corretta attuazione del principio del “consenso informato” a carico di ogni struttura sanitaria pubblica o privata.
Ciò significa, in concreto, che, al di là del diritto all’informazione esigibile dal medico (art. 1, comma 2, legge n. 219 del 2017) ed al di là delle tipiche prerogative del diritto di accesso documentale ex l. n. 241 del 1990 e di accesso civico (semplice e generalizzato) ex d.lgs. n. 33 del 2013, ogni persona anche potenzialmente destinataria di un trattamento sanitario obbligatorio od anche raccomandato dalle Autorità sanitarie ha diritto di ottenere da queste ultime o dalle strutture organizzative di cui si avvale ogni informazione, completa, aggiornata e comprensibile, in ordine ai benefici ed ai rischi dello stesso, nonché in ordine alle possibili alternative e delle possibili conseguenze dell’eventuale rifiuto.
Trattasi di un “diritto all’informazione” fondato sul combinato disposto dell’art. 1, comma 2-bis l. n. 241 del 1990 e dell’art. 1, comma 3, legge n. 219 del 2017 e che ha come interlocutori il Ministero della Salute, le Regioni e tutti i soggetti istituzionalmente preposti a svolgere le attività poste a presidio della efficacia e della sicurezza del trattamento sanitario o di un determinato farmaco (in particolare ISS e AIFA ciascuno per la rispettiva sfera di competenza).
Si pensi alle dibattute questioni concernenti l’efficacia e la sicurezza dei vaccini anti Covid-19: a tale riguardo, si ritiene non possa negarsi la “legittima aspettativa” di un consociato ad avere informazioni ulteriori rispetto a quelle rese pubbliche dai due istituti nei rispettivi siti istituzionali.
Si pensi ancora alle “possibili alternative“ai vaccini nella cura del Covid-19, dai “programmi di uso compassionevole” (autorizzati ed in corso), ai farmaci già immessi in commercio ed utilizzabili per il trattamento della malattia.
Ciò nel limite e nella misura in cui le informazioni richieste siano già nella disponibilità delle Autorità competenti, non potendo l’obbligo informativo trasmodare in un obbligo di facere attività non ancora compiute (inattività di cui va comunque va reso edotto il richiedente).
4.3. La tutela giurisdizionale del “diritto all'informazione”.
Rimane da capire se e come il “diritto all’informazione” così configurato possa essere processualmente tutelato.
Una prima questione attiene alla giurisdizione.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa è decisamente orientata a ritenere che le relative controversie siano riconducibili all’ambito della giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo [37].
Una seconda questione, sulla quale, invece, non esistono opinioni concordi, riguarda le modalità di tutela del “diritto all’informazione”, ovvero il mezzo processuale esperibile davanti al Giudice amministrativo in caso di sua violazione.
Le diverse soluzioni dipendono da come si concepisce il “diritto all’informazione”.
Ove si ritenga trattarsi di un diritto altro e distinto dal “diritto di accesso”, si concluderà che la sua tutela debba essere azionata con mezzi processuali differenti da quelli previsti dall’art. 116 c.p.a. [38] e segnatamente con i rimedi giudiziali previsti avverso il “silenzio” della P.A. di cui agli artt. 31 e 117 del Codice del processo amministrativo [39].
A diverse conclusioni si dovrebbe giungere, invece, ove si ritenesse che il “diritto all’informazione” sia nella sostanza assimilabile al “diritto di accesso”, potendo il cittadino anche in tal caso avvalersi, in caso di sua lesione, dei mezzi di tutela previsti dall’art. 116 c.p.a. [40].
[1] Art. 1, comma 3, l. n. 833 del 1978 prevede che “… L'attuazione del servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini.“.
[2] Art. 14 d.lgs. n. 502 del 1992: “1. Al fine di garantire il costante adeguamento delle strutture e delle prestazioni sanitarie alle esigenze dei cittadini utenti del Servizio sanitario nazionale il Ministro della sanità definisce con proprio decreto, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome i contenuti e le modalità di utilizzo degli indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie relativamente alla personalizzazione ed umanizzazione dell'assistenza, al diritto all'informazione, alle prestazioni alberghiere, nonché dell'andamento delle attività di prevenzione delle malattie. ….. 4. Al fine di favorire l'orientamento dei cittadini nel Servizio sanitario nazionale, le unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere provvedono ad attivare un efficace sistema di informazione sulle prestazioni erogate, sulle tariffe, sulle modalità di accesso ai servizi. … 6. Al fine di favorire l'esercizio del diritto di libera scelta del medico e del presidio di cura, il Ministero della sanità cura la pubblicazione dell'elenco di tutte le istituzioni pubbliche e private che erogano prestazioni di alta specialità, con l'indicazione delle apparecchiature di alta tecnologia in dotazione nonché delle tariffe praticate per le prestazioni più rilevanti. …“.
[3] L’art. 41 del d.lgs. n. 33 del 2013 (Trasparenza del servizio sanitario nazionale), così dispone: “1. Le amministrazioni e gli enti del servizio sanitario nazionale, dei servizi sanitari regionali, ivi comprese le aziende sanitarie territoriali ed ospedaliere, le agenzie e gli altri enti ed organismi pubblici che svolgono attività di programmazione e fornitura dei servizi sanitari, sono tenute all'adempimento di tutti gli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente. 1-bis. Le amministrazioni di cui al comma 1 pubblicano altresì, nei loro siti istituzionali, i dati relativi a tutte le spese e a tutti i pagamenti effettuati, distinti per tipologia di lavoro, bene o servizio, e ne permettono la consultazione, in forma sintetica e aggregata, in relazione alla tipologia di spesa sostenuta, all'ambito temporale di riferimento e ai beneficiari. 2 Le aziende sanitarie ed ospedaliere pubblicano tutte le informazioni e i dati concernenti le procedure di conferimento degli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo, nonché degli incarichi di responsabile di dipartimento e di strutture semplici e complesse, ivi compresi i bandi e gli avvisi di selezione, lo svolgimento delle relative procedure, gli atti di conferimento. 3 Alla dirigenza sanitaria di cui al comma 2 [fatta eccezione per i responsabili di strutture semplici] si applicano gli obblighi di pubblicazione di cui all’articolo 15. Per attività professionali, ai sensi del comma 1, lettera c) dell'articolo 15, si intendono anche le prestazioni professionali svolte in regime intramurario. 4 E' pubblicato e annualmente aggiornato l'elenco delle strutture sanitarie private accreditate. Sono altresì pubblicati gli accordi con esse intercorsi. 5. Le regioni includono il rispetto di obblighi di pubblicità previsti dalla normativa vigente fra i requisiti necessari all'accreditamento delle strutture sanitarie. 6. Gli enti, le aziende e le strutture pubbliche e private che erogano prestazioni per conto del servizio sanitario sono tenuti ad indicare nel proprio sito, in una apposita sezione denominata «Liste di attesa», i criteri di formazione delle liste di attesa, i tempi di attesa previsti e i tempi medi effettivi di attesa per ciascuna tipologia di prestazione erogata.“.
[4] L’art. 4 della l. n. 24 del 2017 prevede quanto segue: “1. Le prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e private sono soggette all'obbligo di trasparenza, nel rispetto del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. 2. La direzione sanitaria della struttura pubblica o privata, entro sette giorni dalla presentazione della richiesta da parte degli interessati aventi diritto, in conformità alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi e a quanto previsto dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, fornisce la documentazione sanitaria disponibile relativa al paziente, preferibilmente in formato elettronico; le eventuali integrazioni sono fornite, in ogni caso, entro il termine massimo di trenta giorni dalla presentazione della suddetta richiesta. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, le strutture sanitarie pubbliche e private adeguano i regolamenti interni adottati in attuazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, alle disposizioni del presente comma. 3. Le strutture sanitarie pubbliche e private rendono disponibili, mediante pubblicazione nel proprio sito internet, i dati relativi a tutti i risarcimenti erogati nell'ultimo quinquennio, verificati nell'ambito dell'esercizio della funzione di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio sanitario (risk management) di cui all’articolo 1, comma 539, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, come modificato dagli articoli 2 e 16 della presente legge.“.
[5] Sulla stessa linea Tar Lazio, sez. III-quater, 7 maggio 2021, n. 5346, secondo il quale << Forme diffuse di controllo sono quanto mai necessarie in una situazione di così grave preoccupazione per la salute pubblica e individuale, nel perseguimento della cui tutela si inserisce certamente un notevole “utilizzo delle risorse pubbliche”, in cui si colloca l’istanza di accesso in esame. >>.
[6] In tal senso Anac, con delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016 (“Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del D.Lgs. 33/2013”): << Dalla lettura dell’art. 5 bis si evince, inoltre, che oggetto dell’accesso possono essere anche le informazioni detenute dalle p.a. e dagli altri soggetti indicati al § 4.1.. Il primo riferimento non solo ai “documenti amministrativi”, ma anche ai “dati” che esprimono un concetto informativo più ampio, da riferire al dato conoscitivo come tale, indipendentemente dal supporto fisico su cui è incorporato e a prescindere dai vincoli derivanti dalle sue modalità di organizzazione e conservazione. >>. Anche per il Dipartimento della Funzione pubblica (circolare n. 2 del 30 maggio 2017), dal punto di vista oggettivo l’accesso civico generalizzato è tendenzialmente omnicomprensivo. Nella medesima prospettiva, Cons. St., sez. V, 20 marzo 2019, n. 1817 chiarisce che l’accesso civico generalizzato, << sotto il profilo oggettivo, realizza il massimo della “estensione” (in quanto riferito non solo a documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni informative) >>, configurandosi come << accesso universale e totale, che non soffre di limitazioni contenutistiche ..>>.
[7] Vedi Tar Roma, sez. II-ter, 27 settembre 2017, n. 9940, che ha ritenuto inammissibile l’istanza di accesso civico finalizzata a conoscere le valutazioni compiute dalla P.A. in merito ad un contratto in corso o le sue intenzioni in caso di inadempimento della controparte contrattuale.
[8] Tar Potenza 17 aprile 2021, n. 319.
[9] Tar Lazio, sez. III-quater 14 luglio 2021, n. 8419.
[10] In questo senso si è espressa Anac con la deliberazione n. 1309 del 2016. In giurisprudenza vedasi Cons. St., sez. III, 26 luglio 2019, n. 5293 e Tar Torino, sez. II, 12 novembre 2020, n. 720.
[11] Così, ad esempio, per Tar Firenze, sez. II, 5 ottobre 2020, n. 1155, il concessionario di un’area portuale non ha diritto di accedere ai dati riguardanti i traffici operati da imprese concessionarie di altre aree dello stesso porto, ancorché si tratti di dati aggregati già processati dall’Autorità Portuale. E per Tar Genova, sez. II, 20 dicembre 2019, n. 957 non può essere accolta un’istanza di accesso civico generalizzato con cui si chiede un documento riassuntivo degli introiti annuali ottenuti dal concessionario del servizio di trasporto pubblico ferroviario regionale e locale, in quanto implicherebbe l’elaborazione di dati, ancorché essi siano ricavabili da documenti esistenti.
[12] Tar Lazio n. 8419 del 2021.
[13] Vedi nota 61.
[14] Vedi Tar Brescia, sez. II, 11 giugno 2021, n. 537, per il quale va accolta l’istanza di accesso civico generalizzato volta a conoscere se i cartelli pubblicitari collocati lungo una strada siano stati autorizzati (informazione sottoposta a regime di pubblicità legale ex art. 55 d.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495) e, in caso negativo, gli eventuali provvedimenti sanzionatori che il Comune ha adottato per ripristinare la legalità.
[15] Tar Potenza n. 319 del 2021.
[16] Tar Campobasso 14 giugno 2021, n. 217.
[17] Il Consiglio di Stato in sede consultiva aveva segnalato l’opportunità di affrontare in modo esplicito il problema della accessibilità o meno degli “atti interni” (parere 24 febbraio 2016, n. 515).
[18] Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, tali atti non sono ostensibili ai sensi dell’art. 22 l. n. 241 del 1990 perchè, nella misura in cui non sono presi in considerazione dalla P.A. e non hanno quindi alcuna rilevanza esterna, non può esservi alcun interesse alla loro conoscenza; si tratterebbe, pertanto, di atti assimilabili sostanzialmente ad interna corporis (Cons. St., sez. III, 31 marzo 2016, n. 1261; sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 25; Tar Ancona 5 novembre 2018, n. 714; Lazio, sez. II-bis, 28 gennaio 2008, n. 625). Un secondo indirizzo giurisprudenziale ritiene, invece, che gli “atti interni” siano sempre ostensibili ai sensi dell’art. 22 l. n. 241 del 1990, anche se non concretamente utilizzati nel procedimento ai fini della decisione finale e ciò per i seguenti motivi: perché sotto il profilo testuale, mentre il testo originario dell'art. 22, comma 2, l. n. 241 del 1990 (prima delle modifiche apportate dalla l. n. 15 del 2005) definiva documenti amministrativi gli atti anche interni "formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell'attività amministrativa.", oggi, l'art. 22 non parla più di atti "formati" o "comunque utilizzati", ma di atti "detenuti", per dipiù aggiungendo che può trattarsi anche di atti "non relativi ad uno specifico procedimento"; perché tali atti potrebbero interessare proprio per censurare il difetto di istruttoria (Cons. St., sez. VI, 19 gennaio 1999, n. 22; sez. V, 9 dicembre 1997, n. 1489; Tar Milano, sez. II, 19 novembre 2019, n. 2443 ed in dottrina Garofoli-Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, Nel diritto editore, 2018.
[19] Tar Lazio, sez. III-bis, 30 marzo 2018, n. 3598.
[20] In realtà, già Tar Palermo, sez. III, 6 aprile 2018, n. 796 aveva ritenuto ostensibile un “parere urbanistico” istruttorio a prescindere dal rilievo procedimentale che aveva assunto nel procedimento.
[21] Tar Lazio, sez. III-quater, 22 gennaio 2021, n. 879 (fattispecie riguardante un’istanza presentata da Deputati della Repubblica).
[22] Tar Lazio n. 5346 del 2021.
[23] Tar Lazio n. 8419 del 2021.
[24] Al riguardo, Cons. St. a.p. n. 10 del 2020 afferma che << … una lettura sistematica, costituzionalmente e convenzionalmente orientata, impone un necessario approccio restrittivo (ai limiti) secondo un’interpretazione tassativizzante. >>.
[25] Sulla questione si è pronunciata la 3^ sezione del Consiglio di Stato con decreto 31 luglio 2020, n. 4574, nonché il Tar Lazio, sez. I-quater, 22 luglio 2020, n. 8615. Per un commento alla vicenda vedasi Berti A., I vetri appannati di “casa Italia”: il caso dell’accesso civico generalizzato ai verbali del Comitato tecnico-scientifico per l’emergenza Covid-19, www.dirittoaccesso.it, 18 agosto 2020; nonché Laviola F., La decisione politica science-based e il ruolo del Comitato tecnico-scientifico nella gestione dell’emergenza Covid-19 tra arbitrarie pretese di segretezza e riaffermazione del diritto alla trasparenza, www.federalismi.it n. 20/2021.
[26] Ciò in considerazione di quanto previsto dall’art. 4, paragrafo 1, n. 1 del Regolamento UE 27 aprile 2016, n. 2016/679, per il quale “si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale.”.
[27] Tar Lazio, sez. I-ter, 3 giugno 2021, n. 6583.
[28] Si pensi a quelle disposizioni che prevedono il diritto del cittadino di conoscere la normativa, le strutture competenti ed i compiti delle P.A. in merito ai “servizi” offerti alla cittadinanza: tale diritto è espressamente riconosciuto dall’art. 8, comma 2, della legge 7 giugno 2000, n. 150 (contenente la “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni) e dall’art. 26 del decreto legislativo 26 marzo 2000, n. 59 (di attuazione della Direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno), che prevede anch’essa un apposito “diritto all’informazione” in materia di esercizio delle attività di servizi. Si pensi ancora a quelle norme di carattere generale riguardanti colui che partecipa - o che è comunque interessato - ad un procedimento amministrativo: a questi soggetti l’art. 5, comma 3, della legge n. 241 del 1990 riconosce il diritto di conoscere l’”unità organizzativa competente” ed il “nominativo del responsabile del procedimento” (a prescindere dagli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 35 d.lgs. n. 33 del 2013) e l’art. 11, comma 2, lett. b), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Testo unico del pubblico impiego) e l’art. 3, comma 1-quater, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale) gli riconoscono il diritto di conoscere l’iter del procedimento ed il rispetto della tempistica procedimentale. Sempre su un piano generale, può parlarsi di “diritto all’informazione” latu sensu inteso con riferimento al diritto dell’interessato di ricevere soccorso e collaborazione nel corso del procedimento ed in particolare nella fase di presentazione di un’istanza di accesso (Tar Napoli, sez. VI, 10 luglio 2020, n. 3000).
[29] Si veda, ad esempio, l’art. 54 legge 9 marzo 1989 n. 88 (Accesso dei cittadini ai dati personali, previdenziali e pensionistici); od ancora l’art. 2, comma 5, legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali); sono, inoltre, numerose le norme speciali che stabiliscono un “diritto all’informazione” in materia ambientale.
[30] In realtà, il tema della esistenza di un diritto del cittadino ad essere informato dalla P.A. al di là del diritto di accesso non è nuovo: al riguardo, ancor prima della legge n. 241 del 1990, si era rilevato che << Al principio di socialità dello Stato è da collegare anche la pubblicità-informazione. Nello Stato sociale, infatti, si ritiene che sia compito degli uffici pubblici assistere i cittadini e, particolarmente quelli socialmente più deboli, nell’acquisizione e nell’esercizio dei diritti che sono ad essi riservati dalla legge. Con formula efficace si dice che il singolo funzionario deve essere non solo “servitore dello Stato”, ma anche “assistente del cittadino”.>>. <<La pubblicità-informazione diviene allora uno dei presupposti necessari per la realizzazione della giustizia sociale. >>. (Meloncelli A., Pubblicità - dir. pubbl. - Enciclopedia del Diritto, 1988).
[31] In questo senso Tar Lazio, sez. I-quater, 28 aprile 2018, n. 4695, per il quale il dipendente che ha ottenuto dalla P.A. il pagamento di una somma a titolo risarcitorio per una vertenza di lavoro in forza di una sentenza non ha diritto di ottenere dalla stessa P.A. informazioni sul dettaglio analitico degli importi corrisposti a titolo di sorte (voci retributive ed oneri accessori), interessi, rivalutazione e ritenute fiscali), atteso che è onere del creditore verificare l’esattezza del soddisfacimento dell’obbligazione.
[32] Cons. St., sez. V, 1° luglio 2019, n. 4504; sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2185; sez. VI 9 febbraio 2004, n. 441; sez. VI, 2 settembre 2003, n. 4878.
[33] Cons. St., sez. IV, 13 dicembre 2013, n. 5994; V, 3 giugno 2010, n. 3487; IV 14 maggio 2010, n. 3024; VI 11 maggio 2007, n. 2318; VI 14 aprile 2004, n. 2122.
[34] Trattavasi di un caso in cui la concessionaria di un'area demaniale marittima interclusa da altra ed adiacente area demaniale concessa ad altri soggetti non disposti a consentire il passaggio aveva chiesto al Comune, alla Regione ed al Ministero infrastrutture e trasporti di pronunciarsi sull'esistenza di una servitù. Sulla stessa linea Tar Lazio, sez. I-bis, 20 febbraio 2018, n. 1934, per il quale il dipendente che ha ottenuto il riconoscimento in via giudiziale del diritto ad una speciale indennità ha diritto di conoscere dall’Amministrazione il regime fiscale ad essa applicabile.
[35] Vedi Tar Lazio, sez. II-quater, 15 gennaio 2019, n. 500, che ha ritenuto che ai sensi dell’art. 10 legge 22 febbraio 2001, n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) un soggetto portatore di interessi diffusi può esigere dai competenti Ministeri che adottino una campagna informativa rivolta all’intera popolazione avente ad oggetto l’individuazione delle corrette modalità d’uso degli apparecchi di telefonia mobile (telefoni cellulari e cordless) e l’informazione dei rischi per la salute e l’ambiente connessi ad un uso improprio degli stessi; ciò in quanto l’attività c.d. informativa dei Ministeri non può ascriversi alla categoria degli atti meramente materiali, bensì a quella degli “atti amministrativi a contenuto generale”, perché per un verso si rivolge ad una pluralità indefinita di soggetti e per altro verso presuppone comunque un’attività istruttoria finalizzata alla individuazione dell’oggetto/contenuto dell’informazione stessa (es. studio e ricerca delle informazioni necessarie per raggiungere lo scopo previsto dalla norma). La sentenza è stata parzialmente riformata da Cons. Stato, sez. IV, 27 agosto 2019, la quale, pur ritenendo trattarsi di “attività materiale” (preceduta da istruttoria tecnica) priva di carattere provvedimentale, ha accolto la domanda ex art. 117 c.p.a. al fine di ottenere non già la condanna del Ministero ad un obbligo di facere la campagna informativa, ma quantomeno un riscontro esplicito all’istanza dell’associazione, chiarendo quali attività siano state svolte al riguardo. Ciò sulla base del seguente presupposto: << 15.2. In sostanza, l'obbligo di rispondere può configurarsi, come nel caso di specie, non solo a valle di puntuali previsioni legislative o regolamentari, ma anche per la peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di interesse generale impongono di riscontrare eventuali richieste formulate da enti espressivi di interessi collettivi, alla stregua del generale dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica di cui all'art. 97 della Costituzione. >>.
[36] Vedasi Cass. Civ., S.U., 13 maggio 2019, n. 12640: << .. com'è noto, il principio della tutela del legittimo affidamento nell'operato della Pubblica Amministrazione - cui è stato dato un ruolo centrale in ambito Europeo sia dalla CGUE (vedi, per tutte: sentenza 17 ottobre 2018, C-167/17, punto 51; sentenza 14 ottobre 2010, C 67/09, punto 71) sia dalla Corte EDU (fra le altre: sentenza 28 settembre 2004, Kopecky c. Slovacchia; sentenza 13 dicembre 2013, Bèlànè Nagy c. Ungheria) - in ambito nazionale, trovando origine nei principi affermati dagli artt. 3 e 97 Cost. è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l'attività legislativa ed amministrativa (Cass. 17 aprile 2013, n. 9308; Cass. 24 maggio 2017, n. 12991; Cass. 2 febbraio 2018, n. 2603); >>.
[37] A diverse conclusioni si potrebbe pervenire se si concepisse il “diritto all’informazione” come diritto soggettivo rispetto al quale la P.A. pone in essere un mero “comportamento” doveroso (ovvero un’attività meramente materiale), rimarcandone le differenze rispetto al “diritto di accesso”: in tale prospettiva, le controversie in materia di “diritto all’informazione” non rientrerebbero in alcuna delle materie di “giurisdizione esclusiva” del Giudice amministrativo elencate nell’art. 133 c.p.a. e la giurisdizione sarebbe del Giudice ordinario: su questa linea di pensiero sembra essere Trib. Bari 05.06.2003 (in Foro it. 2003, I,3173), secondo il quale il diritto ex art. 54 l. n. 88 del 1989 del titolare al trattamento pensionistico alla corretta informazione circa la consistenza del credito contributo può essere tutelato davanti all’A.G.O. mediante ricorso per decreto ingiuntivo, per la consegna da parte dell’istituto previdenziale dell’estratto conto relativo alla posizione assicurativa.
[38] Vedi Cons. St., sez. VI, 2 aprile 2010, n. 1900, per il quale lo strumento dell’accesso documentale ex l. n. 241 del 90 e la relativa tutela processuale non possono essere piegati << al perseguimento di una generica attività informativa che, quand’anche legittima, deve assumere forme diverse di esercizio (e di tutela giurisdizionale). >>.
[39] Di questo avviso Cons. St. n. 7955 del 2004, Tar Lazio n. 1934 del 2018 e Tar Lazio n. 500 del 2019 citate.
[40] In tal senso sembra orientata quella giurisprudenza che non dubita che il titolare di trattamento pensionistico possa ottenere dall’I.N.P.S., ai sensi dell’art. 54 legge n. 88 del 1989 (o comunque ai sensi della legge n. 241 del 1990) e mediante ricorso ex art. 116 c.p.a., i dati utilizzati per il calcolo della pensione (Tar Lecce, sez. II, 20 gennaio 2021, n. 94) oppure il dettaglio di ciascun rateo a lui spettante, con precisazione degli emolumenti già liquidati e di quelli ancora da erogare, comprensivi degli accessori (Tar Lecce, sez. II, 23 marzo 2018, n. 482). Più articolata è la posizione espressa da Cons. St., sez. V, 25 luglio 2019, n. 5256, per il quale colui che partecipa ad un procedimento amministrativo ai sensi dell’art. 10 legge n. 241 del 1990 e che ha diritto di conoscere l’”unità organizzativa competente” ed il “nominativo del responsabile del procedimento”, può farlo valere mediante ricorso ex art. 116 c.p.a., trattandosi di accesso documentale ex legge n. 241 del 1990, con la precisazione che se, invece, il procedimento non è stato ancora avviato ed il responsabile non è stato ancora nominato, l’interessato dovrà attivare il rito del silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a..
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