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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 09/09/2022 Scarica PDF
Beyond the shadow of interlocking directorates: minacce e opportunità di un trapianto giuridico parziale
Serena Maurutto, Docente a contratto presso il dipartimento di scienze aziendalistiche e Docente al Master Universitario di II livello "Crisi d'impresa e ristrutturazioni aziendali" presso l'Università degli Studi di BergamoSommario: 1. Definizione di interlocking directorates e prime disambiguazioni prospettiche. – 2. Il contesto statunitense e la diffusione del fenomeno – 3. Il Decreto Salva Italia: una difficile quadratura del cerchio. - 4. Tra soft e hard law nelle more della frammentazione relativistica dell’approccio normativo italiano. – 5. L’accusa di limitazione alla concorrenza dei sistemi di imprese interlocked: rischio reale o caccia alle streghe? 6. L’opportunità di un Business Interlocked Ecosystem come modello di interorganizzazione co-competitiva.
1. Definizione di interlocking directorates e prime disambiguazioni prospettiche
L’espressione Interlocking Directorates (o Interlocking Directorship), di origine statunitense, identifica il legame di natura personale che si stabilisce tra due o più imprese[1] nel momento in cui le medesime si trovino a condividere uno o più amministratori o vertici apicali[2]. Assumendo una diversa prospettiva, l’interlocking può anche essere definito come il cumulo di incarichi di un identico soggetto in più imprese[3].
La maggior frequenza di utilizzo, nel nostro Paese, dell’espressione di derivazione americana, è dovuta al fatto che proprio negli Stati Uniti circa un secolo fa sono state dettate le prime normative di regolamentazione del fenomeno (Clayton Act, 1914)[4], con l’obiettivo di contrastare una prassi di c.d. “crossed-governance” molto diffusa tra le imprese d’oltreoceano.
Sin dagli inizi del XX Secolo il legislatore statunitense ha iniziato ad occuparsi di legami personali tra le imprese[5], guardandoli con estremo sospetto, ovvero imputando ad essi effetti evidentemente restrittivi, o quanto meno distorsivi, della concorrenza.
Se ci si riflette, corrisponde certamente al vero l’affermazione secondo la quale la presenza di rappresentanti comuni negli organi di governo di imprese concorrenti configuri un mezzo di favore per la condivisione di informazioni strategiche riservate, il confronto periodico, il coordinamento delle condotte e la definizione di accordi, nonché il controllo della fase esecutiva di simili intese e pratiche concordate. Ed è altrettanto verosimile che il raggiungimento di uno stato di cosiddetta “non belligeranza”, se non addirittura la formazione di alleanze di rilevanza strategica, possa avere come conseguenza uno stato di quieto vivere che, prima facie, possa risultare quale strumento idoneo a rappresentare un disincentivo per la competizione e il germe per lo sviluppo di concentrazioni oligopolistiche.
Tuttavia, pare eccessivamente miope sostenere che situazioni di tal natura siano semplici mezzi di distorsione della concorrenza e sembrerebbe più virtuoso chiedersi se la pratica dell’interlocking non possa invece configurarsi come strumento idoneo a costituire una leva di superamento virtuoso dei meccanismi competitivi c.d. “a somma zero” e a consolidare una più moderna prospettiva di competizione win- win in cui nuove forme di capitalismo sostenibile si generino anche attraverso la costituzione, lo sviluppo e il mantenimento di cluster governativi che favoriscano la fluidità informativa, riducendo sperequazioni, asimmetrie e opacità di conoscenza.
L’opinione prevalente, d’altronde, rimane ancorata alla lettura dei legami personali quali incentivi per fattispecie di concentrazione di rilievo ai sensi delle discipline dettate a tutela della concorrenza, ovvero di strumenti che favoriscono quei soggetti che beneficiano di posizioni di dominanza sul mercato nell’esercitare un’influenza rilevante sulle politiche commerciali delle imprese concorrenti[6].
La rilevanza del tema nell’ambito della disciplina antitrust, tuttavia, non è l’unica declinazione entro la quale si è sviluppato il dibattito, negli ultimi anni: anche nel diritto societario, infatti, a prescindere dal fatto che le imprese siano o meno concorrenti, il cumulo di incarichi gestori è stato accusato di essere un ostacolo alla contendibilità delle società[7], rappresentando ex se un elemento di scarsa efficienza ed efficacia del management rispetto agli obiettivi degli azionisti[8]. Basti pensare ai postulati della Teoria dell’agenzia e alle specifiche problematiche conseguenti alla separazione tra proprietà e controllo, ovvero allo scollamento degli obiettivi di azionisti e management e, nel caso che ci occupa, ai conflitti di interesse che possono sorgere quando gli amministratori sono chiamati a «servire più padroni» in modo leale e diligente[9].
Se, d’altra parte, il tema del cumulo di incarichi da tempo ha catalizzato l’attenzione dei vari paesi a livello di diritto societario, non si può affermare lo stesso in riferimento alla normativa antitrust.
A un secolo dall’introduzione, infatti, del Clayton Act statunitense, solo in pochi ordinamenti si è provveduto a disciplinare i legami personali tra imprese: tra questi l’Italia, che con l’art. 36 del Decreto Legislativo n. 201 del 2011 ha vietato il cumulo di incarichi, non soltanto amministrativi, in imprese concorrenti operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari.
Lo stesso legislatore europeo non si è dato pena di regolare il fenomeno in modo diretto e, d’altra parte, il nostro paese invece ha deciso di intervenire introducendo una regolamentazione che, lungi dall’aver una portata generale (come possiede il Clayton Act), è destinato a settori in cui, oltre alla tutela della concorrenza assume rilievo anche la tutela di interessi generali. Il cumulo di incarichi nelle imprese che esercitano l’attività di banca, assicurazione o che operino come intermediari finanziari, rappresenta un rischio anche per i possibili riflessi sulle istanze sottese alle discipline speciali di settore, soprattutto in un sistema bancocentrico come il nostro, in cui è costituzionalmente disciplinata la tutela del risparmio e dell’accesso al credito in quanto beni pubblici di rilevanza tale da non poter essere lasciati alla libera e autonoma regolamentazione dei privati.
La scelta di introdurre una disciplina settoriale nel nostro ordinamento apre grandi spunti e occasioni di riflessione. Prima di tutto, è opportuno chiedersi se non fosse preferibile disciplinare il divieto, senza circoscriverlo nel perimetro dei settori bancario, assicurativo e finanziario, ma estendendolo anche alle altre imprese. In secondo luogo, sembrerebbe logico domandarsi se, in termini opposti, non rappresenti una scelta eccessivamente rigorosa quella di vietare ex ante l’intreccio personale tra le imprese appartenenti ai settori suddetti bollandolo definitivamente come lesione della concorrenza.
Per poter rispondere a tali interrogativi, d’altronde, è indispensabile compiere alcune indagini preliminari: a) delimitare l’ambito di applicazione dell’art. 36 del decreto sia sotto il punto di vista soggettivo che oggettivo; b) verificare se il fenomeno dell’interlocking sia irreversibilmente ex se legato a finalità di natura collusiva o, se invece, possa essere correlato alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela; c) comprendere se vi siano degli effetti pro-competitivi o propulsivi di sinergie correlati al fenomeno del cumulo di incarichi; d) verificare se le altre norme presenti nel nostro ordinamento, in particolare in materia di regolamentazione delle intese, di abuso di posizione dominante e concentrazioni, non siano già di per se stesse sufficienti ad evitare gli effetti distorsivi dell’interlocking sulla concorrenza, così da far leggere la regolamentazione del fenomeno come un ultra petitum.
L’esame di simili questioni richiede necessariamente il supporto di un approccio comparatistico, che prenda a riferimento la pluriennale esperienza del diritto nordamericano in materia. Allo stesso scopo, è altresì imprescindibile interpretare gli effetti dei legami personali attingendo alla casistica empirica di contesti ben specifici, quale quello – che ben caratterizza il tessuto imprenditoriale del nostro paese – del capitalismo familiare, ovvero quello delle reti di imprese oppure, ancora, delle business judgement rules nell’ottica dei canoni dettati dalla responsabilità sociale d’impresa in ambito di governance.
Non basta. Per comprendere a fondo il fenomeno del cumulo di incarichi, è necessario rintracciarne tutte le contaminazioni e, per dirla con gli aziendalisti, il ruolo di “prodotto sostituto” ovvero di “prodotto complementare” che il medesimo ricopre nel momento in cui, più o meno insospettatamente, si combini o si confronti con altri pilastri del nostro ordinamento quali, per esempio, l’istituto del trust. Ed andando ancor più nel cuore della scienza economica avanzata o post-moderna, interessanti invasioni di campo si rinvengono se soltanto si riflette sulla relazione che spesso si osserva tra presenza di uno stesso amministratore presso più organi di gestione, da un lato, e, dall’altro, lo sviluppo del capitale intangibile, come per esempio, il knowledge capital – attraverso le teorie e i modelli di diffusione della conoscenza – o il capitale relazionale, con i correlati fenomeni delle reti di imprese e dei cluster territoriali sotto l’egida delle embedding theories.
Dello sforzo di aggregazione sistemica di tutti i piani precedentemente esposti è ben consapevole chi scrive. Altrettanta consapevolezza deve derivare dall’evidente osservazione di non poter trattare tutte le declinazioni del fenomeno dell’interlocking directorates in misura esaustiva se non correndo il concreto rischio di produrre un’analisi tautologica, dispersiva e perciò carente, se non priva, di interesse scientifico.
Con la consapevolezza, dunque, che il tema che ci si prepara ad affrontare è senz’altro degno di attenzione, ma altrettanto ricco di sfaccettature che lo attraversano e ne fuoriescono come la luce rifratta in un caleidoscopio, e senza ambire, per questa ragione, a elaborare una monografia assoluta che altro non sarebbe se non un poco efficace volo pindarico, chi scrive intende accompagnare il lettore verso un grado maggiore di conoscenza dell’interlocking directory, favorendo l’emersione di un pensiero critico che giunga a interpretarlo, appunto, come fenomeno poliedrico, probabilmente foriero di rischi, ma di altrettanto interessanti opportunità. Con l’auspicio che, con le opportune cautele, possa essere utilizzato virtuosamente proprio nel contesto imprenditoriale familiare che caratterizza il tessuto economico italiano, come mezzo per promuovere la condivisione di competenze e lo scambio informativo tra imprese i cui confini, data la piccola dimensione delle stesse, devono probabilmente essere travalicati proprio per reggere ai meccanismi e alle spinte di iper-competizione che dominano il mercato, in particolar modo internazionale.
2. Il contesto statunitense e la diffusione del fenomeno
A fare da culla alla disciplina del fenomeno del cumulo di incarichi è stato senz’altro il diritto statunitense. In particolare, il riferimento normativo primigenio è da far coincidere con la disciplina antitrust introdotta nel 1914 dalla Section 7 e 8 del Clayton Act, ove è prevista la possibilità di sottoporre a scrutinio (quasi) tutte le acquisizioni di partecipazioni, con l’unica eccezione rappresentata da quante siano effettuate «solely for investment»[10], nonché di intervenire in caso di interlocking directorates[11].
Questa duplice prospettiva di intervento, è connessa da un doppio filo in ragione della condivisione dell’origine storico- normativa, ossia l’emanazione dello Sherman Act nel 1890 quale strumento di contrasto alla diffusa utilizzazione del trust a fini anticoncorrenziali[12].
A seguito dell’introduzione dello Sherman Act, le imprese, al fine precipuo di non perdere gli effetti positivi generati dal precedente clima di collaborazione e controllo reciproco, hanno iniziato a sostituire sistematicamente lo strumento del trust con quello della crossdirectorship. La reazione delle autorità governative non ha tardato a concretarsi: se la prima richiesta è da attribuire al Partito Democratico che proponeva, all’interno del proprio programma per le elezioni del 1908, di introdurre una norma che vietasse la duplicazione delle funzioni di direzione presso imprese concorrenti in capo alla stessa persona, quattro anni dopo il Partito Repubblicano caldeggiava l’adozione di una legislazione di supporto a quella già dettata in materia di antitrust, che, in particolare, sancisse l’illiceità di tutte quelle condotte che si potessero essere ritenute equivalenti a tentativi di restrizione della concorrenza o che mirassero a instaurare regimi di monopolio sul mercato.
Successivamente all’emanazione dei rapporti delle due Commissioni del Senato americano[13] cui era stata assegnata l’indagine sugli gli effetti anticoncorrenziali e contrari al buon governo societario dei legami personali tra imprese concorrenti, la Sezione ottava del Clayton Act introduce il divieto di interlocking directorates, sancendone espressamente l’ingresso nell’ordinamento giuridico statunitense entro l’ambito delle discipline dettate in materia di tutela della concorrenza.
Le ragioni sottostanti alla necessità di intervenire drasticamente vietando i legami personali tra le società, in quanto strumenti atti a determinare condizioni restrittive della concorrenza, non erano condivise soltanto dalle varie fazioni politiche, ma anche dai rappresentanti delle Corti che ne accentuavano i caratteri deplorevoli anche sotto profili addirittura trascendentali. Tale approccio che pare riflettere una volontà quasi esorcistica nei confronti del fenomeno, è rilevabile dal tenore delle parole pronunciate da un noto esponente della Corte Suprema[14]: «The practice of interlocking directors is the practice of many evils. It offends laws, both human and divine. Applied to rival corporations, it tends to the suppression of competition ... applied to corporations which deal with each other, it tends to disloyalty and violation of the fundamental law that no man can serve two masters. In either event, it tends to inefficiency for it removes incentives and destroys soundness of judgment».
Le previsioni in materia di cross directorship dall’Ottava Sezione del Clayton Act stabiliscono che nessuno possa, contemporaneamente, «serve as a director or officer in any two corporations (other than banks, banking associations, and trust companies) that are - (a) engaged in whole or in part in commerce; and (b) by virtue of their business and location of operation, competitors, so that the elimination of competition by agreement between them would constitute a violation of any of the antitrust laws; if each of the corporations has capital, surplus, and undivided profits aggregating more than $ 27,784,000[15]». Sono tuttavia previste prosegue, poi, una serie di esenzioni di applicazione del divieto tra le quali assumono rilievo i limiti di fatturato: qualora le vendite in concorrenza rappresentino meno del 2% del fatturato di una delle due imprese coinvolte o meno del 4% del fatturato di ambedue le imprese, queste ultime non sono tenute ad osservare le disposizioni suddette.
Ad una prima analisi dell'impianto normativo statunitense, si rileva come il modello di regolazione proposto sia molto stringente e che, di conseguenza, residui scarso spazio di emersione per dubbi interpretativi e applicativi.
Tuttavia, pare opportuno a chi scrive procedere con una precisazione. La Section 7 del Clayton Act è ambiente regolamentativo destinato a disciplinare sia le concentrazioni sia le acquisizioni delle partecipazioni di minoranza, vietando ogni acquisto di quote e azioni in società concorrenti, ma, contemporaneamente, esentando da tale divieto gli acquisti che si caratterizzano per lo scopo esclusivo di investimento[16]. In tal senso la soglia cosiddetta di “allarme” viene indicata nel punto 9 della lettera c) della stessa Section 7, ove si stabilisce che il controllo preventivo non riguarda le «acquisitions, solely for the purpose of investment, of voting securities, if, as a result of such acquisition, the securities acquired or held do not exceed 10 per centum of the outstanding voting securities of the issuer».
Il dato meramente letterale della norma farebbe propendere per il riconoscimento della caratteristica della liceità sia a tutte le acquisizioni di minority sharholding che rimangono al di sotto del 10%, sia a quelle cui sia da riferire valenza di semplice investimento.
Oltrepassando, tuttavia, un’interpretazione prima facie, è opportuno rilevare che, in concreto, l'analisi delle acquisizioni “parziali” è rimessa alla valutazione delle Autorità cui è deputata la competenza in materia – i.e. Federal Trade Commission ed Antitrust Division – che sono chiamate in causa per ogni singolo caso, determinando così una efficacia del tutto relativa dello standard di (il)legalità.
Tali conclusioni sono condivise dalla giurisprudenza americana stessa che ha affermato che la solely for investment rule non possa costituire, ex se, elemento valido a garantire l’immunità dal controllo agli acquisti di partecipazioni di minoranza che non oltrepassano la soglia del 10%, poiché laddove l'investimento manifesti in concreto un effetto anticoncorrenziale, tale regola non può trovare applicazione[17].
A conferma di tale orientamento, nel 2010, all'interno delle Horizontal Merger Guidelines[18], si è precisato che «the Agencies [...] review acquisitions of minority positions involving competing firms, even if such minority positions do not necessary or completely eliminate competition between the parties to the transaction».
Una recente ricostruzione degli orientamenti delle Autorità antitrust statunitensi, risultato delle ricerche di autorevole dottrina[19], ha evidenziato che il controllo delle transazioni aventi ad oggetto le partecipazioni di minoranza in imprese concorrenti risulta effettivamente esteso all'acquisizione di partecipazioni azionarie che arrivano anche ad una soglia inferiore al 7%. Dalle stesse ricerche è emerso che le Autorità antitrust competenti, tendono altresì a comminare importanti sanzioni di natura ablatoria e contenitiva, giungendo a ordinare all’impresa: i) il disinvestimento della partecipazione che riveli un carattere anti-competitivo, ii) la conversione di una partecipazione con diritto di voto in una priva di tale diritto, iii) l’adozione di un sistema di firewall da parte delle imprese interessate che annulli il rischio di accesso ad informazioni sensibili.
La ratio del quadro normativo statunitense, in tema di connessioni tra imprese concorrenti, si traduce nella volontà comune ai rappresentanti politici, al legislatore e ai giudici di facilitare la traduzione della previsione astrattamente determinata in applicazioni sostanziali di evidente severità riscontrabili da una duplice prospettiva: l’automatismo di applicazione del divieto, che non richiede alcuna analisi previa del caso concreto nè una propedeutica verifica di sussistenza degli effetti effetti anticompetitivi[20]; l’illiceità aprioristica della condivisione di directors o officers nominati dal board tra imprese che siano concorrenti attuali, ogni qualvolta si rilevi il superamento delle soglie minime correlate alla percentuale dei ricavi[21].
La robusta fortezza che la Section 8 ha eretto sul tema non pretende, tuttavia, di erigersi a difesa di un’inespugnabilità assoluta: al giudice investito di un'eventuale disputa è rimesso, infatti, il compito di valutare in modo ragionevole e proporzionato la multiple directorship, soppesandone cioè gli effetti positivi e negativi sul piano concreto, in seno al contraddittorio con le parti e le Autorità[22].
L’impianto normativo eretto dal diritto statunitense in relazione al fenomeno dell’interlocking directorate si propone come mezzo idoneo ad assicurare una tutela preventiva della concorrenza, operando, al netto di qualsiasi violazione, su entrambe le tipologie di legami considerati – partecipativi e personali – e cercando, nel contempo, di non trasformarsi in concreto in strumento di eccessiva prevaricazione della libertà degli operatori. Nelle due Sezioni, infatti, emerge una sensazione di equilibrio tra forma e sostanza: da una parte, l'evoluzione della Section 7 ha dimostrato di aver aderito alle valutazioni compiute dalle Autorità amministrative sulle fattispecie concrete; dall'altra la Section 8, pur essendo qualificabile quale estensione della tradizione antitrust americana, si presenta capace di assecondare non soltanto esigenze di tutela del mercato tout court, ma anche quelle di effettuare un intervento ponderato attraverso l’adattamento della previsione legale attraverso l’indicazione delle soglie minime e l’intervento dei giudici.
Non va, infine, trascurato il fatto che delle indagini condotte sul dibattito della Pujo Committee e dello Stanley Committee[23], al centro del confronto non si poneva tanto il profilo concorrenziale, quanto piuttosto il tema della buona governance delle imprese[24] e quello dei conflitti di interesse che potevano scaturire dalla pervasiva presenza di banchieri presso gli organi di gestione delle principali imprese industriali americane (il c.d. e già citato Money Trust), con le conseguenti possibili distorsioni nell’allocazione del credito[25].
Il dettato della Section 8 del Clayton Act, di fatto, colpisce solo una delle patologie che ne avevano suggerito l’emanazione e, inoltre, limitatamente ai casi in cui la concorrenza tra le imprese sia di tipo orizzontale.
Pare necessario anche contestualizzare l’introduzione del divieto di interlocking directorates sottolineando che gli assetti di governo societario dell’epoca erano notevolmente differenti, rispetto a quelli attuali. All’inizio del XX secolo, infatti, gli organi di gestione delle imprese americane non contavano molte cariche che, perlopiù, avevano un prevalente carattere esecutivo: capitava di frequente che un solo amministratore possedesse una influenza estremamente rilevante, quand’anche non decisiva, nelle decisioni delle imprese in cui rivestiva incarichi simili. Un simile contesto rendeva quanto mai desiderabile un intervento che stroncasse sul nascere ogni tentazione di procedere a condotte con effetti collusivi, introducendo un divieto coerente con gli obiettivi di tutela preventiva.
Numerosi sono gli attacchi che la normativa ha subito, inoltre, da parte della dottrina, resistendo tuttavia sino ad oggi. Con l’obiettivo di screditare l’efficacia e l’opportunità di mantenere nell’ordinamento previsioni siffatte, si sono avvicendate diverse voci di altrettanto numerosi commentatori. Si è sostenuta, da un lato, l’assenza di evidenze esplicite circa la correlazione tra la mera presenza di legami ed eventuali restrizioni anticompetitive; si è affermata, dall’altro, la maggiore efficacia di un’impostazione normativa supportata da un sistema di accertamenti improntato ad una logica di controllo ex post, ovvero a posteriori dell’applicazione della cosiddetta rule of reason; si è sottolineato, ancora, che l’evoluzione della governance societaria, nel cui ambito si è assistito ad un progressivo ampliamento della dimensione dei consigli e all’ingresso sempre più significativo degli amministratori indipendenti, lavorava di per sé in senso ostativo rispetto all’esercizio di una qualsivoglia influenza significativa dell’amministratore presente in ambedue le imprese; si è messo in evidenza l’effetto di inefficienza che il divieto avrebbe causato all’esecuzione dei compiti affidati agli organi societari, poichè rappresentava un freno alla selezione dei soggetti reputati più capaci, giungendo a influenzare negativamente la performance delle imprese, conseguenza questa soprattutto del fatto che l’introduzione di regole sempre più pervasive e severe in tema di doveri e responsabilità degli amministratori non poteva far altro che comportare una riduzione dell’offerta di «talento manageriale».
A margine di una simile ratio argomentativa, la cui matrice di dissacrazione ha raccolto inizialmente non pochi consensi, si è sviluppato nei periodi successivi un fervido dibattito, sia sul piano teorico che pratico, che ne ha ribaltato, in modo convincente, le assunzioni[26]. La scarsa incisività delle precedenti critiche, inoltre, è dimostrata dal fatto il legislatore non ha raccolto le indicazioni, se non nel limite di interventi di poco conto e nell’ambito dell’adeguamento annuale delle soglie di esenzione.
Nemmeno le numerose trasformazioni che gli organi collegiali di governo hanno subito nel corso del tempo, anche in merito a ruoli e competenze soggettive, hanno rappresentato un precedente valido a far riconsiderare l’impianto della norma sotto il profilo delle funzioni in concreto esercitate dai vari titolari di cariche. Il divieto di interlocking directorates nel diritto statunitense continua ad applicarsi tra imprese concorrenti a prescindere dal ruolo, esecutivo o non esecutivo, dei membri dei consigli di amministrazione e senza essere, allo stesso modo, condizionato dalla presenza o meno del requisito dell’indipendenza degli amministratori considerati. La sola rilevante modifica che è stata, in tal senso, apportata alla norma, è l’estensione della sua applicazione agli officers, giustificata dal ruolo di particolare rilievo che tali soggetti svolgono nell’ambito dell’impresa e dalle informazioni delle quali conseguentemente sono in possesso.
La disamina dell’apparato normativo posto dal diritto statunitense a tutela degli effetti anti-concorrenziali potenzialmente attribuiti al fenomeno del cumulo di incarichi, non può ritenersi conclusa – soprattutto per la valenza che il completamento ha nel successivo raffronto con le scelte che sul tema sono state effettuate da legislatore italiano – senza la trattazione delle disposizioni speciali emanate per le sole imprese bancarie nel Depository Institution Management Interlocks Act introdotto nel 1977[27].
Nonostante la ratio del divieto non muti, operando, il medesimo, in termini identici anche per le banche, laddove vengano superate determinate soglie dimensionali[28] oppure si trovino a competere nel medesimo territorio[29], la disciplina dei legami personali bancari (c.d. dual service) si differenzia dall’impianto generale sotto tre aspetti: i) è previsto uno specifico sistema automatico di esclusioni, e.g. quando una delle due imprese sia in stato di liquidazione o non operi negli Stati Uniti, quando l’interlocking riguardi due credit unions, oppure coinvolga una savings and loan guaranty corporation statale; ii) le autorità bancarie, quali l’Office of the Controller of the Currency, sono autorizzate a prevedere ulteriori casi di esenzione di natura generale dettando appositi regolamenti, in tutti i casi in cui il legame personale: «1) would not result in a monopoly or substantial lessening of competition and 2) would not present safety and soundness concerns to the bank». In particolare, l’esenzione opera automaticamente in caso di assenza di rilevante potere di mercato, ossia se la somma delle quote di mercato delle banche interessate in ciascuna delle aree metropolitane nelle quali competano non superi il 20%; iii) la norma attribuisce alle autorità bancarie il potere di autorizzare, su espressa richiesta delle imprese, la permanenza di interlocking directorates se, di fatto, non comportano restrizioni della concorrenza significative né problemi sotto il profilo della sana e prudente gestione. Le linee guida emanate dalle autorità bancarie sottolineano, in tal senso, che vi è una presunzione relativa di non sussistenza di effetti anticoncorrenziali qualora il dual service riguardi banche in crisi, operanti in aree depresse, oppure costituite da meno di due anni ovvero, infine, gestite o controllate da minoranze e donne. A tal fine l’analisi si incentra anche sul soggetto destinato a rivestire la doppia carica, con particolare riferimento alla competenza, esperienza ed integrità.
Da questo primo raffronto con il sistema normativo statunitense, appare evidente come non poche siano le differenze tra l’approccio del legislatore d’oltreoceano e il suo “trapianto” all’interno del nostro ordinamento ad opera dell’articolo 36 del Decreto Salva Italia, la cui disamina sarà affrontata nel paragrafo successivo. Si ritiene importante riconoscere sin da subito i tratti peculiari che risulteranno essere quelli di maggiore disomogenità rispetto alla disciplina italiana: in primo luogo, in relazione al campo di applicazione, si distingue tra imprese di tipo non bancario («other than banks, banking associations, and trust companies»), oggetto specifico della disciplina generale del Clayton Act, Section 7 e 8, e banche, per le quali invece rilevano le disposizioni speciali del Depository Institution Management Interlocks Act del 1977; in secondo luogo, la concorrenza rilevante è di livello orizzontale, a condizione che le imprese superino determinante soglie di fatturato e di ricavi nei settori interessati dalla concorrenza; in terzo luogo, dal punto di vista soggettivo, la disciplina americana opera nei confronti non soltanto degli amministratori (directors) e dei “funzionari di vertice”, ma anche nei confronti di ciascun “officer”, ovvero di ogni funzionario «electet or chosen by the Board of Directors», mentre non si applica – contrariamente a quanto accade nel nostro ordinamento – ai soggetti affidatari di compiti di controllo sulla gestione dell’impresa.
3. Il Decreto Salva Italia: una difficile quadratura del cerchio
Il 26 aprile 2012 è entrato in vigore l’art. 36 del decreto legge 6 dicembre 2011 n.201 recante il titolo Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici (c.d. “Salva Italia”) convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011 n. 21412. L’art.36 del suddetto decreto, rubricato Tutela della concorrenza e partecipazioni personali incrociate nei mercati del credito e finanziari introduce il divieto di assumere o esercitare cariche in più di un organo di gestione o controllo, con applicazione limitata alle sole imprese - o gruppi di imprese - concorrenti e operanti nei mercati del credito, assicurativo e finanziario[30].
Gli interlocking directorates vietati dalla norma in quanto legami fondati su elementi personali tra imprese (o gruppi di imprese) concorrenti ricorrerebbero, perciò, allorché uno o più esponenti aziendali di un’impresa (o di un gruppo di imprese) siano altresì presenti negli organi di governo societario di un’impresa (o di un gruppo di imprese) concorrente.
Le disposizioni contenute nell’art. 36 del Decreto Salva Italia sono state introdotte con l’evidente finalità di tutelare la concorrenza e di garantire la correttezza delle dinamiche competitive in settori – quali quelli del credito, assicurativo e finanziario – che si sono storicamente caratterizzati da un elevato numero di legami su base personale fra concorrenti. Scopo che, come vedremo, non trova confronto in altri ambiti legislativi, né a livello comunitario né nel contesto statunitense.
Con l’introduzione di questa norma, dal canto proprio, il legislatore non ha fatto altro se non recepire quanto auspicato, in diverse occasioni, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e condensate nell’indagine di cui si è supra riferito. A supporto delle scarne indicazioni relative al divieto di interlocking disciplinato dall’art. 36, Banca d’Italia, Consob e Isvap hanno elaborato un documento congiunto in cui hanno resi noti i criteri applicativi del dettato normativo, in attesa che il legislatore intervenisse con gli opportuni chiarimenti[31]. Questi criteri sono stati elaborati nell’ambito di un tavolo tecnico, istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con la collaborazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Il divieto di cumulo si configura come il divieto di nominare la medesima persona, attribuendole cioè più cariche, presso più di un organo di governance, sia che si tratti di consiglio di amministrazione (inclusi i consigli di gestione o sorveglianza), sia di collegio sindacale e, comunque, attribuendo alla medesima persona l’incarico di funzionario di vertice (amministratore con sindaco, o amministratore con consigliere di sorveglianza e così via) presso diverse organizzazioni. Nel perimetro del divieto viene, di fatto, inclusa ogni carica che possa essere ricondotta concretamente, anche se non ufficialmente, a ruoli esecutivi e di controllo[32].
Il divieto, invece, non può essere esteso a ricomprendere gli incarichi di sindaco supplente fintanto che permanga la supplenza e non venga, quindi, effettivamente esercitato l’incarico.
Dal punto di vista soggettivo[33], devono essere intese come concorrenti tutte quelle imprese che operano nei mercati del credito (banche), assicurativi (compagnie di assicurazione e di riassicurazione), e finanziari (Sim, Sgr, Sicav, intermediari finanziariex titolo V del TUB e relative società capogruppo, istituti di pagamento, IMEL, Poste Italiane S.p.A. per l’attività di Bancoposta, Cassa Depositi e Prestiti). Si tratta, perciò, di tutte quelle organizzazioni l’esercizio delle cui attività è assoggettato alle speciali autorizzazioni e alle attività di vigilanza, disciplinate dalla normativa bancaria, finanziaria e assicurativa applicabile. Rimangono, invece, estranee al divieto tutte le imprese che svolgono servizi la cui natura possa essere considerata meramente accessoria o strumentale. La disciplina, inoltre, introduce una soglia di esenzione legata alle dimensioni dell’impresa, in particolare con riferimento al fatturato annuo: sono infatti escluse dal limite normativo tutte quelle società che non superano quota ricavi annui[34] pari a 47 milioni di euro[35].
Nelle disposizioni contenute nell’art. 36, al punto 2 la definizione di concorrenza viene fornita sul presupposto di un’operatività insistente entro il perimetro di mercati sovrapponibili, sia dal punto di vista geografico che del prodotto, mentre per il concetto di controllo si riportano le determinazioni previste dall’art. 7 della legge 10 ottobre n. 287[36] e con le previsioni dell’art. 2359 c.c. [37]. Viene, inoltre, richiamata l’attenzione sulle previsioni ex art. 2390 c.c.[38] e sulla disciplina contenuta nel Codice di Autodisciplina delle Società Quotate[39].
Da quanto precedentemente evidenziato, si desume che il criterio di interlocking non trova applicazione per le imprese tra le quali intercorra un rapporto di controllo, né alla cariche detenute nell’impresa comune risultante da joint venture, né alle cariche assunte in società estere anche se operanti in Italia attraverso succursali. Nel caso in cui, invece, si tratti di filiali italiane di società estere, il divieto deve essere osservato.
Il punto 2-bis dell’art.36 stabilisce un termine di 90 giorni, decorrente dalla nomina, entro il quale i titolari di più incarichi possono scegliere a quale carica incompatibile rinunciare. Qualora l’esercizio di tale opzione non venga effettuato entro il suddetto termine, la normativa prevede che gli organi competenti deliberino, entro successivi 30 giorni, la decadenza del soggetto da tutte cariche tra loro incompatibili entro ulteriori trenta giorni. Nel caso di rinnovata inerzia dell’organo deliberante, provvederà a dichiarare la decadenza l’Autorità di vigilanza competente nel settore.
Infine, il punto 2-ter prevede che, in sede di prima applicazione, il suddetto termine di 90 giorni sia aumentato a 120, con decorrenza dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (26 Aprile 2012). Qualora si presentino casi di concorrenza sopravvenuta, la valutazione sull’applicazione o meno del divieto di interlocking è rimessa alla valutazione dei competenti organi aziendali, che vi devono provvedere almeno una volta l’anno sulla base dei dati risultanti dall’ultimo bilancio depositato.
Per procedere con una corretta analisi supportata dalla necessità di comprendere la ratio dell’articolo 36, è innanzitutto necessario tenere presente che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato negli anni immediatamente precedenti all’emanazione del decreto, a margine delle analisi e dei risultati delle indagini compiute sulla diffusione del fenomeno, aveva ripetutamente richiesto misure volte a impedire i legami personali incrociati nel settore finanziario. La diffusa presenza rilevata nella realtà italiana è stata evidenziata, in particolare, nell’Indagine conoscitiva del 2008 sulla corporate governance di banche e assicurazioni[40]. In prospettiva antitrust, la preoccupazione era che forme di interlocking directorates tra imprese concorrenti potessero favorire comportamenti collusivi sui mercati o, comunque, indebolissero la concorrenza.
Nel 2009 l’Autorità garante aveva perciò sostenuto, in una segnalazione al Parlamento e al Governo sulla composizione della governance di banche e assicurazioni, la necessità di un intervento di regolazione in materia di interlocking directorates[41]. Con la di poco successiva segnalazione del febbraio 2010 al Parlamento e al Governo contenente “Proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza”[42], l’Autorità garante auspicava che il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza contenesse disposizioni di principio sul tema, lasciando poi agli statuti delle singole società di darvi concreta attuazione.
Che l’obiettivo principale della disposizione di legge abbia un connotato pro-concorrenziale dell’articolo si evince sin dal richiamo espressamente determinato nel titolo della disposizione («Tutela della concorrenza e partecipazioni personali incrociate nei mercati del credito e finanziari») ed è, altrettanto esplicitamente, confermato dalla relazione tecnica al disegno di legge di conversione, secondo la quale la disposizione deve favorire il miglioramento della concorrenza tra le imprese operanti nel settore assicurativo, finanziario e creditizio. Si tratta di un elemento importante sul piano interpretativo. In linea di principio, infatti, la portata del divieto dovrebbe essere limitata, in un’ottica sostanziale, alle fattispecie di partecipazioni personali incrociate rilevanti dal punto di vista della concorrenza nei mercati del credito, assicurativi e finanziari.
L’articolo 36 impone il divieto ai titolari di cariche «negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo», senza ulteriori specificazioni. Il divieto riguarda quindi i componenti dei consigli di amministrazione e dei consigli di gestione, anche quelli che non hanno funzioni esecutive, compresi gli amministratori indipendenti, nonché i componenti dei consigli di sorveglianza e dei collegi sindacali. Inoltre, il divieto si applica ai «funzionari di vertice». L’espressione, dal punto di vista applicativo, crea non poche incertezze. Se infatti è pacifico che il divieto riguardi il direttore generale e che sia da estendere ai manager di line cui siano state affidate responsabilità strategiche, in relazione alla realtà aziendale concreta, nel momento in cui si determinasse in quest’ambito la necessità di dichiarare l’incompatibilità degli incarichi multipli con le conseguenti decadenze, si porrebbe un problema di natura giuslavoristica: il funzionario di vertice, infatti, non potrebbe affatto perdere la propria posizione, ma soltanto la carica assunta all’interno degli organi societari.
Il divieto, inoltre, si estende alle cariche «analoghe» assunte ovvero esercitate in imprese o gruppi di imprese concorrenti. Per quanto riguarda i funzionari di vertice, è indubbia conseguenza che essi non possano ricoprire lo stesso ruolo in altre imprese né altre cariche negli organi di gestione, sorveglianza o controllo delle imprese concorrenti.
In merito ai c.d. semplici «titolari di cariche» negli organi, si potrebbe sostenere, invece, facendo leva sul concetto di analogia della carica, che il divieto colpisca esclusivamente l’assunzione o l’esercizio di una carica equivalente nell’impresa concorrente: si potrebbe, cioè, affermare che l’amministratore della banca A non può avere una carica nell’organo gestionale della banca B, ma che possa far parte del consiglio di sorveglianza di quest’ultima.
I dubbi interpretativi sollevati sono condivisi anche dall’Autorità garante, che ha emanato una specifica proposta per favorire un intervento chiarificatore da parte del legislatore[43]. L’AGCM, in particolare, ha chiesto che venga precisato che i soggetti interessati dal divieto non possano ricoprire «alcuna carica», di qualsiasi genere essa sia, in imprese o gruppi concorrenti, suggerendo di espungere dal testo della norma l’aggettivo «analoghe». Se, tuttavia, non può essere taciuto come, in prospettiva di tutela della concorrenza, la situazione in cui un medesimo soggetto sia amministratore di una società e, contemporaneamente, titolare di una carica nell’organo di sorveglianza di un diretto concorrente, generi preoccupazioni ben più rilevanti rispetto al caso in cui lo stesso soggetto faccia contemporaneamente parte degli organi di controllo delle due società; d’altra parte la riformulazione onnicomprensiva nel divieto di «qualunque» carica, potrebbe generare situazioni paradossalmente esorbitanti e affatto utili agli obiettivi pro-competitivi espressi dal legislatore.
La norma, inoltre, si applica a «imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari» al netto di qualsiasi richiamo alla tipologia soggettiva degli operatori (società, banca, impresa di assicurazione, SGR, SIM, etc.).
La disciplina ricorre invece al concetto di operatività nei mercati, con l’impostazione tipica del diritto della concorrenza. Proprio basandosi sulla prospettiva del diritto della concorrenza è da ritenere che il riferimento alle imprese operanti nei mercati finanziari riguardi i soggetti la cui attività d’impresa consiste nel fornire servizi finanziari sul mercato (i prestatori di servizi finanziari). La disciplina, quindi, non dovrebbe applicarsi a soggetti quali gli emittenti non finanziari, gli acquirenti di prodotti finanziari e le holding di partecipazione in quanto tali. Ciò che conta è l’attività di prestazione di servizi svolta nel mercato.
Le attività di prestazione di
servizi creditizi, assicurativi e finanziari sono tipicamente sottoposte a
vigilanza. Si comprende quindi il richiamo effettuato dall’articolo 36, comma
2-bis, alle autorità di vigilanza di settore.
È da ritenere che queste siano le autorità competenti a rilasciare, laddove
prevista, l’autorizzazione all’esercizio dell’attività. Si tratterà, ad
esempio, di Banca d’Italia per le banche e le SGR, dell’Isvap per le imprese di
assicurazione, della Consob per le SIM.
Il divieto di cui al comma 1 dell’articolo 36 si applica solo ai cumuli di incarichi in imprese o gruppi di imprese tra loro concorrenti. Ai fini dell’applicazione del divieto, perché vi sia un rapporto di concorrenza devono essere soddisfatte due condizioni: a) le imprese o i gruppi di imprese interessati non sono legati tra loro da rapporti di controllo ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 287/1990; b) le imprese o i gruppi di imprese interessati operano nei medesimi mercati del prodotto e geografici. L’articolo 36 lascia quindi impregiudicata la possibilità di assumere o esercitare cariche in imprese o gruppi legati tra loro da rapporti di controllo e in imprese o gruppi che non operano nei medesimi mercati del prodotto e geografici.
4. Tra soft e hard law nelle more della frammentazione relativistica dell’approccio normativo italiano
Se il Decreto Salva Italia, come abbiamo letto, si limita a sancire la cogenza di un divieto nel limite delle imprese bancarie, assicurative e finanziarie, inquadrandone la ratio entro il limite della tutela pro-competitiva, è opportuno svolgere un’indagine finalizzata a intercettare le tracce, più o meno espresse, che nel nostro ordinamento possono testimoniare la presenza di regole che in qualche misura disciplinino l’operatività dell’interlocking directory, in modo da trovare nuovi spunti di riflessione utili a meglio inquadrare quello che al momento pare un trapianto giuridico parziale della normativa di oltreoceano.
L’esegesi compiuta tra le fonti del diritto italiano ha condotto all’identificazione di tre ambiti di rilevanza: il primo è offerto contesto di soft-law quale è quello che qualifica il Codice di Borsa; il secondo si può rintracciare in alcune norme del codice civile; il terzo si situa nell’ambito del diritto delle società e comprende elementi tratti dalla disciplina civilistica, dal TUF e da alcune leggi speciali.
Al dettato del Codice di Autodisciplina delle Società quotate e al Codice di Corporate Governance va riconosciuto il merito non soltanto di aver portato la regolamentazione della fattispecie su un piano più generale, slegandola dalla logica settoriale, ma anche di aver introdotto una nuova prospettiva non tanto di lettura del fenomeno in termini di concorrenza tra imprese, ma di efficienza ed efficacia di funzionamento della governance, configurandola nell’ambito dell’analisi delle attività e delle regole necessarie agli organi di gestione a garanzia della creazione di valore e a tutela degli interessi di tutti gli stakeholders.
Il Codice di Autodisciplina promosso da Borsa Italiana S.p.A approvato dal Comitato per la corporate governance nel marzo 2006 e successivamente modificato nel marzo 2010, e, da ultimo nel 2018, è stato redatto in esecuzione di quanto previsto dall’articolo 89-ter, comma secondo, del Regolamento Consob in materia di emittenti, in risposta alla previsione in esso contenuta secondo la quale le società di gestione dei mercati che promuovono codici di comportamento in materia di governo societario sono tenute a trasmettere a Consob e alle altre società di gestione dei mercati regolamentati italiani nei quali sono quotate azioni emesse dalle società che aderiscono ai codici di comportamento promossi, entro il quinto giorno lavorativo dall’approvazione del codice, una descrizione sintetica del contenuto del codice.
Nel 2005 Borsa Italiana ha promosso la costituzione di un Comitato per la corporate governance fortemente rappresentativo dell’imprenditoria italiana e dei partecipanti ai mercati, cui è stato attribuito il compito di rielaborare i principi di buona governance – già codificati nel precedente Codice di Autodisciplina delle Società Quotate pubblicato nel 1999 e rivisitato nel 2002 – alla luce delle linee evolutive della best practice, tenendo conto del mutato quadro normativo a livello nazionale, comunitario ed internazionale e con il supporto di un collegio di esperti autorevoli, i quali hanno coordinato l’attività di un Gruppo di lavoro tecnico composto da rappresentanti delle Associazioni di categoria e di Borsa Italiana.
L’attività si è conclusa nel marzo del 2006 con la pubblicazione sul sito internet di Borsa Italiana del nuovo Codice di Autodisciplina. Il Comitato, riunitosi nuovamente nel marzo 2010, ha approvato un nuovo testo dell’art. 7, relativo alla remunerazione degli amministratori e dei dirigenti con responsabilità strategiche, che sostituisce integralmente il testo approvato nel 2006.
Soprassedendo sui contenuti e sulle tematiche del Codice, la cui trattazione, seppur di interesse, risulterebbe fuor da ogni dubbio esorbitante rispetto alla materia che in questa sede ci occupa, ci si soffermerà sul tema del cumulo di incarichi, analizzando in tal senso le disposizioni degli articoli 1, 2 e 3 riguardanti la composizione dei consigli di amministrazione degli emittenti, individuando definizione e ruoli degli amministratori esecutivi, non esecutivi ed indipendenti.
L’articolo 1, dopo aver definito lo shareholders’ value come scopo prioritario dell’azione degli amministratori degli emittenti quotati, riaffermata la centralità del consiglio di amministrazione nel sistema di governo societario degli emittenti, prevede una serie di raccomandazioni sul ruolo che deve esercitare tale organo, in particolare identificando quegli ambiti valutativi/decisionali che dovrebbero possedere una competenza deliberativa collegiale e non essere delegati a singoli consiglieri o a comitati interni. In proposito, l’estensore del Codice segnala che, a fianco delle materie già riservate dalla legge alla competenza del consiglio, sia consigliabile che tutte le operazioni contraddistinte da un particolare rilievo strategico, economico o finanziario, nonché quelle che vedono coinvolte parti correlate, poste in essere tanto dall’emittente quanto dalle sue controllate, vengano preventivamente approvate dal consiglio di amministrazione in sede plenaria. L’articolo propone altri suggerimenti in tema di cumulo degli incarichi degli amministratori e di auto-valutazione periodica della composizione e del funzionamento dell’organo di amministrazione.
L’articolo 2, dopo aver enunciato il principio per il quale «è opportuno evitare la concentrazione di cariche sociali in una sola persona», detta specifiche raccomandazioni in relazione all’ipotesi di concentrazione della carica di presidente del consiglio di amministrazione e di chief executive officer (CEO). In tal caso – come pure nell’ipotesi in cui la carica di presidente sia ricoperta dalla persona che controlla l’emittente – viene suggerita la nomina, tra gli amministratori indipendenti, di un lead independent director.
L’articolo 3, infine, contiene
un’articolata enunciazione dei criteri e delle modalità per la corretta
identificazione degli amministratori indipendenti.
Partendo dal principio fondamentale in base al quale gli amministratori sono
tenuti ad agire e a decidere con cognizione di causa e in assoluta autonomia,
con l’obiettivo primario di creare valore per gli azionisti nel medio-lungo
periodo e che, allo stesso tempo, devono assumere condotte che garantiscano uno
svolgimento efficace delle funzioni ad essi deputate, nei criteri applicativi
viene introdotta una doppia prospettiva: da un lato, si lascia una certa
autonomia agli organi deliberanti, affinché valutino le reali esigenze
dell’impresa nel suo specifico e concreto operare; dall’altro, si pongono limiti
vincolanti per ben precise ed individuate circostanze.
Nel primo dei suddetti approcci, da rilevare il dettato dell’art. 1 in cui, innanzitutto, è attribuito ai singoli amministratori il compito di valutare autonomamente la questione della compatibilità tra incarico in seno alla governance aziendale e altri impegni di simile natura, rimettendo tale valutazione al principio della diligenza nello svolgimento dell’incarico, e introducendo l’obbligo per l’organo di gestione di svolgere un ruolo di mero rilievo informativo, richiedendo cioè che con cadenza quanto meno annuale, a seguito delle informazioni rese dai singoli amministratori, il Consiglio renda note le cariche di amministratore o sindaco ricoperte dai consiglieri nelle varie società all’interno della relazione sulla gestione.
La discrezionalità del singolo amministratore, tuttavia, non è assoluta, ma viene in certa misura limitata dalla previsione del criterio successivo, in base al quale, in ogni caso di cumulo di incarichi, spetta al Consiglio il compito di esprimere un parere in merito al numero massimo di incarichi di amministratore o sindaco che uno stesso soggetto può ricoprire presso diverse emittenti. Tale valutazione, dovrà essere improntata sulla base di due aspetti: la garanzia che lo svolgimento dell’incarico di gestione o controllo rispetti il principio precedentemente enunciato dell’efficacia; il rispetto del principio sostanziala, in base al quale per la valutazione devono essere utilizzati criteri differenziati e indentificati in base all’effettivo impegno connesso a ciascun incarico, cioè se di natura esecutiva, non esecutiva o indipendente, nonché alla natura e alle dimensioni delle società in cui gli incarichi sono ricoperti e alla loro eventuale appartenenza al gruppo dell’emittente.
Proseguendo con la regolamentazione della composizione dell’organo di amministrazione, dopo aver ribadito i principi fondamentali che devono sottostare ad un diligente svolgimento degli incarichi di governance, introduce la specifica previsione in base alla quale, indipendentemente dall’autonomia di giudizio e dei meri obblighi di informazione determinati all’articolo precedente, si ritiene poco opportuno evitare che più cariche sociali vengano concentrate in una sola persona. Non solo, le raccomandazioni si fanno più stringenti in relazione a incarichi ben determinati: è, infatti, previsto che Il chief executive officer di un emittente (A), in quanto principale responsabile della gestione dell’emittente stesso, non possa ricoprire l’incarico di amministratore di un altro emittente (B) non appartenente allo stesso gruppo, di cui sia chief executive officer un amministratore dell’emittente (A). Il divieto, la cui previsione è finalizzata ad evitare potenziali situazioni suscettibili di determinare conflitti di interesse, è tuttavia calmierato dalla successiva previsione in base alla quale è concesso che la fattispecie di esclusione del cosiddetto cross-directorship possa venir meno in tutti i casi in cui possa essere giustificato in relazione alle circostanze concrete.
Di fatto, l’orientamento del Codice di Borsa rimanda alla best practice internazionale che raccomanda di evitare la concentrazione di cariche in una sola persona, a meno che non si introducano contrappesi adeguati, suggerendo attenzioni particolari nel mantenere la separazione dei ruoli di presidente e di chief executive officer, quest’ultimo inteso come amministratore che, in virtù delle deleghe ricevute e dell’esercizio in concreto delle stesse, è il principale responsabile della gestione dell’emittente (CEO). Si ritiene infatti che, così come nella prassi internazionale – soprattutto statunitense – anche nel contesto italiano la separazione dei suddetti incarichi riesca a garantire caratteristiche di imparzialità ed equilibrio più solidi ai soggetti che tali ruoli si trovano a ricoprire.
Tuttavia, con il mero intento di assicurare condizioni di governance effettivamente migliorative, la riluttanza nell’assecondare situazioni di concentrazioni di più incarichi in capo alla stessa persona, viene meno in tutti i casi in cui per concrete esigenze di natura organizzativa – tipiche soprattutto delle imprese di minori dimensioni – l’interlocking possa invece configurarsi quale strumento di garanzia di maggior efficienza ed efficacia nella gestione.
Il Codice di Borsa, in particolar modo a seguito delle modifiche apportate dal Comitato nel luglio 2015, ha valore di raccomandazione per tutte le società quotate che vi aderiscono essendo redatto sulla scorta del modello "comply or explain" ovvero in base al principio secondo il quale le disposizioni in esso contenute non devono essere necessariamente osservate dalle società quotate aderenti le quali possono non osservarle, salvo, tuttavia, l’obbligo di motivare in modo adeguato tale mancata implementazione – ancorchè parziale – all’interno della relazione annuale sul governo societario, ai sensi dell'art. 123-bis, comma 2, lett. a) del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.
L’orientamento del testo autoregolamentativo, soprattutto se si riflette sul principio guida dell’autonomia nel recepimento e nella autodeterminazione dell’implementazione delle best practices, è chiaramente volto a recepire i più recenti approcci in materia di corporate social responsibility, emersi con peso maggiore nel contesto internazionale ed europeo, anche al fine in una prospettiva di maggiore effettività dei principi di legalità e di trasparenza.
Se ben si riflette, sempre più spesso le imprese si trovano a ragionare sulla possibilità di vivere la responsabilità sociale come un’opportunità e una sfida intorno alla quale rimodulare, in primis, l’assetto della propria governance. Dove, infatti, è presente un’adesione alle molteplici declinazioni della CSR (Corporate Social Responsibility), la corporate governance si pone al centro tra relazioni con gli stakeholders, profilo strategico e processi interni, capitale umano. Il coinvolgimento del vertice aziendale è condizione necessaria: il management e/o l’imprenditore sono gli artefici del riorientamento della mission dalla massimizzazione dei profitti alla massimizzazione di un valore che prescinde dalle sole performance economiche e che trova una fonte nella modifica della direzione aziendale e delle regole che la governano. Dato per assodato che esiste una relazione positiva tra adesione alla cultura della responsabilità sociale e sistemi di governance evoluti e che tale correlazione assume una connotazione specifica nelle piccole e medie imprese, rispetto a quanto si verifica nelle aziende di grandi dimensioni, il Codice di Borsa sembra aver colto l’essenza di tale approccio sia come ratio dominante, di fondo, sia nella prospettiva specifica di regolamentazione “soft” del fenomeno dell’interlocking directorates, scollegando il conflitto eventualmente dagli stessi scaturente dalle logiche anti-concorrenziali e riconfigurandolo, pare a chi scrive, più correttamente entro l’ambito delle best practices aziendali adottate con la necessaria autonomia della cosiddetta board evaluation e orientate a garantire livelli maggiori di creazione di valore e di tutela per tutti gli stakeholder. L’approccio del Comitato estensore del Codice, inoltre, pare, anche con una regolazione di tal peso e inquadramento, essere supportato dalla volontà di introdurre nella practice delle emittenti i principi di ESG (Environment, Social, Governance), nell’ambito di quei modelli ci crescita sostenibile che richiedono, soprattutto da parte degli organi di gestione, l’orientamento verso l’adozione di comportamenti eticamente caratterizzati.
Nel contesto del diritto societario, così come disciplinato dal Codice civile, si ritrovano una serie di norme di corporate governance che, pur senza espressi riferimenti, manifestano una stretta attinenza rispetto al fenomeno del cumulo di cariche. La prima è sicuramente rappresentata dall’art. 2390 c.c. che disciplina specificamente il «divieto di concorrenza» per gli amministratori di società per azioni. L’efficacia pro-concorrenziale di questa norma trova, tuttavia, limite nella possibilità di rimuovere il divieto da essa previsto tramite la semplice autorizzazione assembleare, la quale, a sua volta, può essere data anche in via generale e preventiva tramite apposite disposizioni statutarie. Più indirettamente, al tema può riconnettersi anche In presenza di interlocking directorates può venire in rilievo anche la disciplina prevista dall’art. 2391 c.c. in tema di conflitto di interessi che, tuttavia, prevede unicamente che gli amministratori diano notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse del quale siano portatori per conto proprio o di terzi in una determinata operazione e obbliga a motivare adeguatamente la deliberazione.
Come si può intuire, pur in assenza di una traccia di regolamentazione specifica, si possono intercettare alcune analogie nelle norme dettate dal codice civile in ambito di governance delle imprese rispetto alla ratio pro-concorrenziale dell’art. 36 del Decreto Salva Italia, senza che tuttavia la percezione del rischio che il fenomeno potrebbe avere un effetto restrittivo della competitività sia mai divenuto prevalente rispetto alla libera autonomia contrattuale delle parti.
È bene porre l’attenzione sul fatto che la finalità delle norme del codice civile è evidentemente quella anche di garantire condizioni di efficienza ed efficacia all’esercizio delle funzioni gestorie, esulando cioè dal contesto di tutela meramente concorrenziale: l’amministratore che siede nei consigli di più società concorrenti, necessariamente influenzato dalle informazioni in suo possesso, è chiamato ad una costante mediazione tra interessi ed obiettivi delle imprese coinvolte. Nel fare questo, per rispettare i canoni di diligenza professionale e buona fede (di cui all’art. 2392 c.c.), l’interlocked director dovrà utilizzare tutte le informazioni in suo possesso e promuovere decisioni che non danneggino le imprese da lui amministrate[44].
Sull’onda degli scandali finanziari che hanno caratterizzato i primi anni 2000 il legislatore ha reagito emanando, attraverso una serie di importanti provvedimenti normativi, una più pregnante disciplina dell’informativa societaria, della governance ed in particolare dei controlli. Si tratta della Legge 28 dicembre 2005, n. 262, recante il titolo «Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari», del Decreto Legislativo 29 dicembre 2006, n. 303, «Coordinamento con la legge 28 dicembre 2005, n. 262», del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (T.U.B.) e del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (T.U.F.).
Nel contesto di tali provvedimenti ha visto la luce anche l’articolo 148-bis, rubricato «Limiti al numero degli incarichi» del Testo Unico Finanza. Esso dispone che un regolamento della Consob stabilisca i limiti al cumulo degli incarichi di amministrazione e controllo che i componenti degli organi di controllo delle società quotate o emittenti strumenti finanziari diffusi fra il pubblico possono assumere presso terze società. La Consob, nel disciplinare la fattispecie, dovrà tenere in conto sia l’onerosità che la complessità di ciascun tipo di incarico, anche in rapporto alla dimensione della società, al numero e alla dimensione delle imprese incluse nel consolidamento, nonché all’estensione e all’articolazione della sua struttura organizzativa. La norma, dopo aver introdotto una clausola di salvaguardia a tutela del dettato dell’art. 2400 c.c., stabilisce che i componenti degli organi di controllo delle società suddette, debbano fornire adeguata informazione circa gli incarichi di amministrazione e controllo da essi rivestiti presso tutte le società terze alla Consob, la quale può dichiarare la decadenza dagli incarichi assunti dopo il raggiungimento del numero massimo previsto dal regolamento.
La ratio delle disposizioni introdotte dall’articolo 148-bis, secondo Consob, si dovrebbe identificare nella necessità di tutelare lo specifico interesse pubblico al corretto svolgimento delle funzioni di controllo al fine di «garantire una adeguata disponibilità in termini temporali, per l’espletamento dell’incarico assunto nelle società quotate da parte dei componenti degli organi di controllo, tenendo conto anche dell’impegno richiesto dagli altri incarichi di amministrazione e controllo nelle società di capitali, anche non quotate e incentivare la creazione di una categoria di professionisti la cui attività è focalizzata sul controllo delle società quotate e diffuse»[45].
In realtà la Relazione delle Commissioni permanenti VI (Finanze) e X (Attività Produttive, Commercio e Turismo) presentata alla Camera dei Deputati il 18 febbraio 2005 aveva affermato vi fosse un generale interesse pubblico che la scelta degli incaricati negli organi di controllo cada su «soggetti cui l’eccesso di occupazioni non impedisca di adempiere effettivamente alle funzioni di controllo, le quali costituiscono presidio per la correttezza e la legalità della gestione societaria».
In entrambi i casi, a prescindere dalle polemiche interpretative relative all’intento della norma, sorgono spontaneamente una serie di interrogativi. Innanzitutto, viene da chiedersi perché l’eccesso di occupazioni riguardi soltanto l’attività di sindaco o amministratore, e non ogni altra attività professionale svolta dal soggetto nel libero esercizio della propria attività professionale, la quale in egual misura potrebbe impedire l’effettivo adempimento delle funzioni di controllo; pare, altresì, lecito interrogarsi sul motivo per cui si sia scelto di utilizzare un cannone per sparare ad una mosca, ovvero uno strumento normativo primario in luogo di un intervento di moral suasion da parte delle Autorità cui compete la vigilanza sul mercato (Consob, Banca d’Italia, Borsa Italiana), al fine di ottenere un comportamento socialmente responsabile in concreto, da parte dei destinatari dell’intervento stesso.
A parere di chi scrive la risposta ad entrambi i quesiti è da rintracciarsi nella sequenza dei fatti sopra ricordati, ovvero nella assenza di norme deontologiche, da un lato, e nel momento di emergenza e di conseguente necessità di regole moralizzatrici, dall’altro.
Pare che, sotto il profilo della ratio, dunque, l’articolo 148-bis si configuri come un intervento normativo dettato da un eccesso di moralismo del legislatore, una disciplina di facciata che prescinde dall’effettiva utilità nel conseguimento del suo obiettivo. Nella sostanza, infatti, potrebbero emergere profili di dubbia costituzionalità del disposto dell’art. 148-bis che sembra poter incidere sul libero esercizio di un’attività lavorativa professionale, quella di sindaco o amministratore di società appunto, ponendosi a quanto pare in contrasto con l’articolo 4 della Costituzione anche perché i mezzi utilizzati per raggiungere il fine non appaiono certamente idonei a garantire il soddisfacimento dell’interesse pubblico coinvolto.
La norma in discussione sembra discriminare anche i sindaci (e gli amministratori) delle società cosiddette commerciali rispetto, ad esempio, ai revisori contabili e società di revisione delle medesime società, in quanto l’assunzione di incarichi di mero controllo contabile di cui all’art. 2409-bis c.c. non vengono sottoposti ad alcuna limitazione. Deve ritenersi, infatti, che con l’espressione «componenti degli organi di controllo» debbano intendersi i componenti effettivi del collegio sindacale, del consiglio di sorveglianza o del comitato di controllo sulla gestione per cui sono esclusi dagli organi di controllo i revisori contabili o le società di revisione, e quindi il mero incarico di controllo contabile ex art. 2409-bis c.c. (quando non congiunto all’attività di sindaco) non è soggetto ad alcuna limitazione. Ulteriore ed inopportuna distinzione sembra operata dalla norma anche tra i sindaci (e gli amministratori) delle medesime società commerciali e gli amministratori, sindaci o revisori di enti pubblici (territoriali o meno), o di consorzi e società consortili, anche se aventi veste giuridica di società commerciale, di società cooperativa, di mutue assicuratrici, di fondazioni di origine bancaria, di società non residenti in genere, etc.: di fronte a situazioni che nei fatti e nella sostanza dell’attività professionale svolta si presenterebbero del tutto identiche, verrebbero sottoposte ad una disciplina giuridica diversa in ragione unicamente della differente natura giuridica del destinatario del servizio. In questo senso, dunque, pare violato pure il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Le ultime perplessità riguardo al contenuto dell’art.148- bis attengono al fatto che vi è previsto che Consob possa essa stessa pronunziare la decadenza d’ufficio dalla carica acquisita dal sindaco o amministratore, non presso le società emittenti (soggette avigilanza Consob), bensì presso società terze rispetto alle società stesse, limitando con ciò il diritto delle assemblee di tali società di nominare un amministratore o un sindaco di proprio gradimento, qualora lo stesso sia anche sindaco di una società emittente ed abbia superato la “soglia” stabilita dal regolamento Consob.
A questo punto, delle due l’una: o la norma avrebbe dovuto prevedere, nel caso di superamento della “soglia” stabilita dal regolamento Consob, un ulteriore motivo di decadenza dalla carica tra quelli indicati nell’articolo 2399 codice civile, primo comma, consentendo un’efficacia automatica della decadenza, senza necessità che qualcuno la decretasse espressamente; oppure avrebbe dovuto disciplinare un’ipotesi di decadenza dalla carica presso la società emittente, ipotesi in cui potrebbe risultare coerente una pronunzia espressa da parte di Consob a pronunziarla, in qualità di Autorità di vigilanza sulle società quotate.
Il fatto che, invece, la norma affidi a Consob la dichiarazione di decadenza nei confronti di società commerciali escluse dal suo controllo, pare configurare un’ipotesi di inopportuna – e forse illegittima – invasione di campo dell’Autorità nel contesto di operatività di società non soggette a vigilanza con palese contrasto rispetto alle stesse disposizioni del Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58.
Se si esaminano insieme tutti i precedentemente esposti elementi di criticità, l’articolo 148-bissembra non soltanto imputabile di incostituzionalità, ma anche foriero di aspetti ulteriori di illegittimità e di contrasto con il nostro ordinamento, che varrebbe la pena fossero affrontati da commentatori ed attori con interventi ben più autorevoli – ed efficaci – rispetto a quelli di chi scrive.
A seguito dell’emanazione del 148-bis, con non poche difficoltà ed incidenti di percorso, è stato redatto e pubblicato il relativo regolamento Consob, che non ha fatto altro che rendere ancora più opache le caratteristiche sopra evidenziate, aggiungendo una sorta di “bilancino da farmacista” per il calcolo degli incarichi e dei relativi pesi.
5. L’accusa di limitazione alla concorrenza dei sistemi di imprese interlocked: rischio reale o caccia alle streghe?
Il fenomeno del cumulo di incarichi è stato, suo malgrado, vittima di dissertazioni che spesso hanno dimostrato natura di mera presunzione e pregiudizio.
Per comprendere meglio la proporzione del fenomeno e le derive dello stesso, è opportuno a questo punto dell’elaborato procedere con una disamina delle scuole di pensiero che hanno riunito, negli anni, i vari pensatori che si sono occupati di studiarlo.
Ancor prima, tuttavia, è forse utile fare un passo indietro e domandarsi perché le imprese condividono gli amministratori.
L’ampia letteratura, prevalentemente giuridica, sociologica e manageriale, che ha affrontato il tema dei legami tra imprese attraverso gli amministratori, è partita proprio da questo interrogativo, avanzando diverse possibili risposte.
La principale e più risalente tra di esse riguarda la volontà delle imprese coinvolte di colludere per influire sul funzionamento del mercato e sulla formazione dei prezzi. La ratio sottostante alla cosiddetta teoria della collusione è che attraverso la condivisione degli amministratori le imprese potrebbero più facilmente comunicare tra loro aumentando così le possibilità di trovare un accordo che limiti la concorrenza sui mercati, di controllarne l’applicazione ed eventualmente di sanzionarne il mancato rispetto. Sebbene vi sia evidenza del fatto che la concentrazione del mercato di riferimento sia un elemento almeno in parte favorevole all’instaurarsi di interlocking directorates[46], le informazioni statistiche su cui questi studi si basano rendono estremamente difficile stabilire la direzione del nesso causale tra interlocks e concentrazione del mercato e, principalmente, non consentono di stabilire qual è l’effetto degli interlocks sui concreti atteggiamenti collusivi.
Sempre collegate al tema della maggiore disponibilità di informazioni reciproche e alla riduzione delle asimmetrie informative, vi sono le teorie della dipendenza e dell’infiltrazione[47], che considerano gli interlocks come una modalità per un’impresa di aumentare il controllo sulle risorse di un’altra impresa considerata centrale per la propria attività. Queste teorie sono state utilizzate per spiegare in particolare gli interlocks tra banca e impresa. In questo caso, le imprese, specie se in fase di rapida crescita, ovvero se molto indebitate, potrebbero essere interessate a inserire un proprio rappresentante nelle banche per garantirsi un flusso costante di risorse finanziarie a costi più contenuti. Allo stesso tempo, le banche potrebbero trovare utile partecipare ai consigli di amministrazione dei propri creditori, specialmente durante le fasi in cui la loro solvibilità si deteriora, per poter svolgere una più efficace azioni di selezione e controllo. In questi casi, molto spesso gli amministratori coinvolti sono amministratori interni alla banca o all’impresa.
L’evidenza empirica in favore di queste teorie è mista. I primi lavori per gli Stati Uniti[48] indicavano che le imprese meno solide e più indebitate erano quelle con una maggiore probabilità di avere un interlock con una istituzione finanziaria. Questi lavori, però, non erano in grado di stabilire se l’interlock interveniva o meno con la principale banca debitrice. La ricerca successiva, si è quindi concentrata sul rapporto tra banca e impresa, invece che sui dati aggregati relativi al grado di indebitamento dell’impresa giungendo, però, a indicazioni opposte. Ad esempio, alcuni autori[49] trovano che le banche americane tendono a non avere propri rappresentanti nelle imprese con cui sono maggiormente esposte, mentre altri[50] trovano che i titoli delle banche sui mercati finanziari reagiscono negativamente all’annuncio di un nuovo interlock con un’impresa con essa indebitata.
Infine,
seguendo l’intuizione di Fama e Jensen[51],
molti autori hanno suggerito che il cumulo di cariche in più consigli di
amministrazione in capo ad un soggetto, potrebbe riflettere la qualità delle
sue capacità manageriali, segnalata dai successi delle imprese in cui ha
servito come amministratore.
Una discussione più generale sulla funzione della condivisione degli
amministratori come strumento per stringere rapporti commerciali e ridurre
l’incertezza economica è da molti considerato un mezzo che produce risultati
aziendali mediamente inferiori a riprova del fatto che il cumulo delle cariche
tende a peggiorare la qualità del loro impegno nell’azienda[52].
Oltre a motivazioni di tipo aziendale, gli interlocking directorates rispondono a motivazioni sociali e personali riguardanti gli amministratori coinvolti. Ad esempio, diversi autori hanno sottolineato che gli interlocks rappresentano un fenomeno di classe, essendo uno strumento per rafforzare la coesione di un gruppo sociale – sia esso «la classe capitalista» o «il salotto buono» – che intende imporsi come perno della vita economica, sociale e politica del paese[53].
A dimostrazione della loro tesi, tali autori evidenziano l’evidenza che spesso quando un amministratore smette di ricoprire un incarico presso una delle due società interrompendo così il legame tra le due, entrambe le società reagiscono solitamente con la costruzione di nuovi interlocks che, nella maggior parte dei casi, coinvolgono non soltanto persone ma anche imprese diverse, operanti anche in settori diversi, al solo scopo quindi di mantenere i legami con il “salotto buono” dell’industria nazionale[54]. Altri suggeriscono che il cumulo di incarichi presso consigli vengono ricercati dagli amministratori stessi con l’intento di sviluppare nuovi contatti e aumentare le loro possibilità di carriera anche al di fuori dell’azienda originaria, oltre che per aumentare i loro guadagni immediati. In linea con questa spiegazione, altri commentatori[55] trovano che negli Stati Uniti la probabilità che tra due società si sviluppi un incrocio di incarichi attraverso i propri Chief Executive Officers è inversamente proporzionale sia alla parte di remunerazione legata al possesso di stock option della società, sia all’aumentare del numero medio di riunioni che i boards delle due società effettuano su base annua.
6. L’opportunità di un Business Interlocked Ecosystem come modello di interorganizzazione co-competitiva
Il fenomeno del cumulo di incarichi, come si è avuto modo di comprendere nella parte precedente dell’elaborato, è inquadrato dai commentatori e dal legislatore quasi esclusivamente attraverso la lente monofocale della prospettiva anticoncorrenziale. Tuttavia, in particolar modo nel contesto italiano ed europeo, l’interlocking è spesso stato un mezzo per creare network di relazioni che hanno consentito, a loro volta, la gestione di criticità imprenditoriali e addirittura di congiunture sfavorevoli a livello transnazionale, divenendo, cioè, strumento di facilitazione e di miglioramento delle situazioni di tensione; lungi dal rappresentare, cioè – quanto meno sulla carta – una scelta finalizzata a determinare un maggior livello di concentrazione di imprese concorrenti nello stesso settore a scopo restrittivo della libera concorrenza, lo strumento ha offerto il volano di ricomposizione di shock asimmetrici, assumendo una particolare rilevanza in ambienti e contesti ben determinati. Osservare il fenomeno del cumulo di incarichi al di fuori dell’ambiente della tutela della concorrenza rappresenta senz’altro un approccio interessante per conoscere in misura maggiormente esaustiva il sistema di strategie, scelte e decisioni manageriali che si pongono alla base di esso. Non solo. Ci permette di interpretare la realtà interorganizzativa in cui si manifesta come contesto in cui è calato a titolo di puro e semplice strumento di gestione, adottando un’interpretazione neutrale e non falsata da un aprioristico quanto, forse, frettoloso pensiero pregiudizievole.
La letteratura, soprattutto internazionale, offre numerosi spunti di rilettura del fenomeno, che se spesso conducono a decontestualizzazioni a dir poco originali della ratio del cumulo di incarichi, altre volte ne offrono chiavi di rilettura significative e convincenti. Tali approcci assumono uno specifico rilievo se calati nel contesto italiano, il cui modello di capitalismo è stato spesso tacciato di possedere intrinsecamente una natura anacronistica e di obsolescenza manageriale, prima vera causa di un’ingessatura organizzativa che lascia l’impresa italiana fuori dalle partite dove si stabiliscono le regole della competizione globale, aggrappata al pesante marchio della “seconda manifattura europea” e condannata, perciò, ad una pericolosa emarginazione.
Essere in grado di divenire e rimanere attrattivi nel panorama internazionale passa necessariamente attraverso la riforma del nostro modello capitalistico, ripensandone la struttura formale e sostanziale. Il concetto nodale è quello di apertura. Infatti, un fattore cruciale che contribuisce all’efficacia del sistema economico è la sua capacità di agevolare il cambiamento e la mobilità dei fattori; su questo terreno le società (e le economie) aperte mostrano indubbi vantaggi adattivi. L’apertura, a sua volta, si sostiene su importanti pilastri, quali senz’altro quello della fluidità e condivisione delle competenze e quello, non meno importante, della familiarità interorganizzativa, che rappresenta un modo efficace per superare i limiti connessi alla piccola dimensione dell’impresa italiana, in favore dell’adozione di modelli di co-competizione e creazione di valore condiviso.
In tale contesto la condivisione di amministratori potrebbe assumere non soltanto connotazioni pro-concorrenziali, ovvero funzionali a interrompere la deriva della emarginazione competitiva qui le imprese italiane potrebbero essere condannate, ristabilendo equilibri di mercato meno precari, ma assumerebbe anche natura di strumento di rafforzamento di competenze che, messe in comune, agirebbero anche nel senso di garantire maggiore efficienza ed efficacia ai meccanismi decisionali.
Chi scrive ritiene che sia senz’altro necessaria una riforma organica dell’istituto, che consenta di superare le discriminazioni e l’approccio frammentario ineliminabili in qualsiasi prospettiva relativistica di trattazione, quale è quella che caratterizza il sistema attuale del diritto italiano.
Tuttavia, quando si trapiantano sistemi estranei e difficilmente compatibili con il nostro tessuto economico, è bene forse anche comprendere se i fini, prima che i mezzi, debbano necessariamente combaciare. In questo senso bisognerebbe riflettere proprio su quelle dimensioni dell’impresa italiana che, in assenza di modelli di governance evoluti e, perché no, di condivisione degli organi stessi, la stanno condannando ad un continuo ritardo competitivo. E, sempre con la lente del made in Italy, se il fenomeno dell’interlocking directorates non possa costituire il germe sano funzionale allo sviluppo di nuove forme di co-competizione in ottica “consortile” o di rete, le quali, ben lontane dal rappresentare fattispecie foriere di concentrazioni eccessive di settore, potrebbero rappresentare, al contrario, opportunità di creazione e diffusione di valore condiviso, con evidenti e positive ripercussioni sul sistema economico complessivo in cui si inseriscono.
La condivisione di incarichi tra più imprese diverrebbe, in un meccanismo virtuoso di cooperazione interimprenditoriale, lo strumento idoneo per favorire il superamento dei limiti connessi alla piccola dimensione che spesso è il primo elemento ostativo alla managerializzazione, e la vera chance per formare una rete di imprese connesse in un’arena competitiva attraverso una governance aggregata che passerebbe, poi, il testimone ad una gestione collaborativa di filiera e ad un coordinamento che aumenterebbe la forza delle PMI a resistere alle pressioni dei meccanismi ipercompetitivi globali e di affacciarsi con maggiore appeal nel panorama internazionale.
Chi scrive si augura che possa in tal senso formarsi una sorta di ecosistema interorganizzativo di co-competizione, un Business Interlocked Ecosystem, ovvero un ambiente imprenditoriale in cui lo sviluppo sostenibile sia supportato dalla messa in comune di risorse anche manageriali, in favore del superamento di un’obsolescenza gestionale che l’impresa italiana sta pagando a caro prezzo.
Se la dimensione ridotta delle imprese nazionali è difficilmente superabile, i fenomeni aggregativi si dimostrano forieri di opportunità di crescita e di maggior stabilità nel lungo periodo. Tra le risorse che possono essere condivise in questo percorso vi sono senz’altro anche gli organi di governance. Con le dovute accortezze, soprattutto atte ad evitare sovraccarichi e a garantire la prospettiva dell’agire imprenditoriale quale sistema vitale proteso a creare valore per tutti gli stakeholder, la condivisione dei soggetti preposti alla direzione potrebbe ben inserirsi in un più ampio approccio di cambiamento culturale, che riformi in primis la mentalità manageriale verso orizzonti di maggior flessibilità, competenza e responsabilità.
[1] Mentre nell’accezione d’oltreoceano l’espressione si riferisce esclusivamente alle imprese concorrenti, nel prosieguo essa sarà utilizzata in riferimento ad un concetto di più ampia portata e, sovrapponibile con le espressioni di “cumulo di incarichi”, “legami personali”, “intrecci personali”, indicherà qualsiasi tipologia di legame personale, compresi quelli instaurati tra imprese non concorrenti.
[2] Per facilità d’espressione con la locuzione “vertici apicali” si sostituisce quella di “officers” cui fanno riferimento in modo espresso le normative statunitensi in materia.
[3] L’interlocking directorates è stato definito anche come «a director who simultaneously serves on the board of two or more corporations that deal with each other or have allied interest» (Black, Black’s Law Dictionary, St. Paul Minnesota, 2004, p. 493).
[4] Le disposizioni contenute nella Sezione Ottava del Clayton Act (15 U.S.C. par. 19), dedicata all’Interlocking Directorates è, pur con le successive modifiche, tutt’ora vigente.
[5] Sembra che il primo caso di Interlocking sia da farsi risalire al 1790. In seguito, il fenomeno si diffuse soprattutto nel settore delle banche e assicurazioni, tanto che agli inizi del XX Secolo presso tutte le principali istituzioni bancarie neworkesi si potevano rintracciare situazioni di legami personali con le maggiori imprese del paese. Il dibattito sul tema della pericolosità del cumulo di incarichi rispetto alla libera concorrenza dei mercati, si accese negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo, quando il Senato americano evidenziò nel Pujo Committee che la diffusione del fenomeno dell’interlocking directorates avrebbe comportato pericolosi effetti restrittivi della concorrenza. Furono proprio le determinazioni avanzate dal Comitato a fornire un contributo decisivo all’introduzione della Sezione VIII nel Clayton Act. Cfr. L. Brandeis, Other’s people money and how the bankers use it, e, in particolare, il celebre l’intervento con cui il futuro Giudice della Suprema Corte condannò il fenomeno affermando che, se visto dalla prospettiva di un’impresa terza e concorrente, «tends to the suppression of competition [... and] to inefficiency» in quanto evidentemente «undemocrat», New York, 1914.
[6] Tale approccio è alla base dell’introduzione, nel contesto della disciplina antitrust statunitense, come vedremo più approfonditamente, di un ben specifico divieto di interlocking: «no person shall, at the same time, serve as a director or officer in any two corporations [...] that are (A) engaged in whole or in part in commerce; and (B) by virtue of their business and location of operation, competitor, so that the elimination of competition by agreement between them would constitute a violation of any of the antitrust laws» (Clayton Act, Sezione VIII). Il divieto, pertanto, non è assoluto, ma si applica in tutti i casi in cui vengano superate determinate soglie calcolate sul valore del patrimonio netto e del volume delle vendite delle imprese coinvolte. A seguito dell’introduzione del Clayton Act, peraltro, sono seguite molte altre normative speciali che hanno disciplinato la materia del cumulo di incarichi tra imprese concorrenti in diversi settori, quali, per esempio, quello delle banche, delle comunicazioni e dei trasporti.
[7] Si è sostenuto, per esempio, che gli interlocking directorates rappresentino un efficace strumento di difesa contro i take over ostili.
[8] Secondo questa ulteriore lettura del fenomeno, molti autori sostengono che i legami personali favoriscono l’incremento dei costi di agenzia conseguenti ad un maggior scollamento della separazione tra proprietà e controllo, ovvero che costringono la proprietà ad aumentare la vigilanza rispetto all’operato del management. Ulteriori elementi di inefficienza sono associati anche alla correlazione positiva che altri commentatori ritengono di rintracciare tra il cumulo di incarichi e la remunerazione degli amministratori esecutivi. Da un lato, perciò, si ravvede il rischio di riduzione della concorrenza nel mercato del controllo societario e, di conseguenza, la diminuzione per gli amministratori degli stimoli ad operare in modo efficace; dall’altro, proprio a causa della concentrazione del mercato del controllo, l’effetto inflattivo sul livello di remunerazione degli organi di governance.
[9] Nel nostro ordinamento, il rinvio è alle disposizioni del Codice Civile che disciplinano il divieto di concorrenza e gli interessi degli amministratori (artt. 2391, 2391, 2475-ter).
[10] La Section 7 del Clayton Act definisce concentrazione qualunque acquisizione dell’intero o parte del capitale di un’altra impresa. Da questa prospettiva, l’acquisizione di una partecipazione in un’altra impresa, di qualunque genere sia, può essere considerata una concentrazione (U.S. v. E.I. duPont de Nemours & Co., 353 U.S. 586 (1957)). La Section 7(3) prevede la c.d. solely for investment exception, per le partecipazioni acquisite come investimento, che però non pare applicabile ai casi in cui la target sia un’impresa concorrente dell’acquirente (FTC, Statement of Basis and Purpose for the Hart-Scott-Rodino Regulations, in Federal Register, 31 luglio 1978, 43, 33465, n. 5). È possibile sottoporre a scrutinio l’acquisto di partecipazioni non conferenti il controllo anche in Bosnia, Brasile, Canada, Chile, India, Israele, Giappone, Corea, Russia, Africa del Sud e Ucraina. Si legga, in tal senso, Pfister, Les participation minoritaires: quel effet sur l’analyse de concurrence, in Petit-déjeuner Droit & Economie organisé par Concurrences en partenariat avec Allen & Overy et MAPP, Parigi, 2013.
[11] La Section 8 del Clayton Act vieta l’interlocking tra amministratori (e amministratori e officers) di imprese concorrenti il cui fatturato sia superiore a determinate soglie, aggiornate periodicamente, e le attività in concorrenza superino una determinata percentuale del loro fatturato.
[12] Sul tema G. Amato, Il gusto della libertà: l’Italia e l’antitrust, Roma-Bari, 2000, 5, scrive: «[I]l trust veniva utilizzato per concordare le condotte imprenditoriali di imprese potenzialmente concorrenti. [...] Si concepì questo congegno: i consiglieri di amministrazione di una società affidavano ai loro concorrenti il diritto di votare nei propri consigli, ottenendo da questi la stessa opportunità. Si creava così un sistema in cui pochissime persone erano in grado di concordare strategie di varie imprese. In altre parole, a decidere erano in pochi».
[13] Si tratta della Stanley Committee e la Pujo Committee (H.R. Rep. No. 62-1127 (1912) e No. 62-1593 (1913). In relazione alle ricerche effettuate nell’ambito dell’industria siderurgica, che all’epoca controllava numerose società del comparto ferroviario, la prima delle due Commissioni aveva rilevato che i membri dei consigli di amministrazione ricoprivano cariche simili in tutte le 29 società del campione e che tale circostanza assumeva particolare rilevanza e richiedeva un altrettanto urgente intervento poiché il patrimonio complessivo di tali imprese superava il valore di 16 bilioni di dollari. La successiva Pujo Committee, a seguito dell’indagine svolta nell’ambito del cosiddetto “Money Trust”, presentò i seguenti risultati: «Board members of J.P. Morgan & Co. held 72 interlocked positions in 47 large listed companies; The CEO, P, VP of First National Bank of New York held 46 positions in 37 large listed companies; The CEO, P, VP of National City Bank, New York held 32 positions in 26 large listed companies; [...]».
[14] L. BRANDEIS, cit., (1913).
[15] L’ importo è stato stabilito, da ultimo, il 2 febbraio 2012 dalla Federal Trade Commission sulla base di un’espressa delega ad essa conferita nella stessa Section 8.
[16] In particolare: «no person engaged in commerce or in any activity affecting commerce shall acquire, directly or indirectly, the whole or any part of the stock or other share capital [...] of another person engaged also in commerce or in any activity affecting commerce, where in any line of commerce or in any activity affecting commerce in any section of the country, the effect of such acquisition may be substantially to lessen competition, or to tend to create a monopoly. No person shall acquire, directly or indirectly, the whole or any part of the stock or other share capital and no person subject to the jurisdiction of the Federal Trade Commission shall acquire the whole or any part of the assets of one or more persons engaged in commerce or any activity affecting commerce, where in any line of commerce in any section of the country, the effect of such acquisition, of such stocks or assets, or the use of such stock by voting or granting of proxies or otherwise, may be substantially to lessen competition, or tend to create a monopoly. This section shall not apply to persons purchasing such stock solely for investment and not using the same by voting or otherwise to bring about, or in attempting to bring about, the substantial lessening of competition». Cfr. Clayton Act 1914 par. 7, 15 U.S.C. par. 18 (2013).
[17] A fini di completezza espositiva si evidenzia che per molto tempo non sono stati chiari i criteri seguiti dalle due Autorità per autorizzare o vietare acquisizioni di partecipazioni che non veicolano il controllo.
[18] Disponibili su: www.justice.gov/atr/public/guidelines/hmg-2010.html. In particolare, si veda la Section 13.
[19] Cfr. Cuomo-Changrong-Malaise, Partial acquisitions: recent MOFCOM action suggests possible divergence with U.S. Standard, in Antitrust Chronicle, 1, 2012, 3-4.
[20] Cfr. Waller, Corporate governance and competition policy, in George Mason Law Rev., 2011, 18, 4, 857. Inoltre, la norma opera ex ante e segnatamente essa prevede che: «(a) (1) No person shall, at the same time, serve as a director or officer in any two corporation (other than banks, banking associations, and trust companies) that are- (A) engaged in whole or in part in commerce; and (B) by virtue of their business and location of operation, competitors, so that the elimination of competition by agreement between them would constitute a violation of any of the antitrust laws; if each of the corporations has capital, surplus, and undivided profits aggregating more than $ 10,000,000 (updated $ 28,883,000) as adjusted pursuant to paragraph (5) of this subsection». Cfr. Clayton Act 1914 par. 8, 15 U.S.C. par. 19 (2013); si veda anche, Federal Trade Commission, «Revised jurisdictional thresholds for Section 8 of the Clayton Act», Monday, January 14, 2013, 78 Fed. Reg. No. 9, 2675.
[21] La Section 8 stabilisce che il divieto non opera laddove le «competitive sales», cioè il ricavo lordo per tutti i prodotti o servizi venduti in concorrenza con l'altra impresa coinvolta siano inferiori a un milione di dollari (soglia aggiornata a $ 2,888,300 il 14 gennaio 2013), oppure al due percento delle vendite complessive di ciascuna impresa; oppure ancora nell'ipotesi che la somma delle competitive sales delle due imprese sia inferiore al quattro percento della somma delle loro vendite complessive. Cfr. Federal Trade Commission, «Revised jurisdictional theresolds for Section 8 of the Clayton Act», Monday, January 14, 2013, 78 Fed. Reg. No. 9, 2675; Antitrust Emendament Act of 1990, Pub. L. No. 101-588, 104 Stat. 2879 (1990); Farrington, Nuts and Bolts of Section 8. What can you do with your equity interest in a competitor?, April 21, 2010, disponibile su: www.apps. americanbar.org/antitrust; Wilson, Unlocking interlocks: the on-again off again saga of Section 8 of the Clayton Act, in Antitrust Law Journal, 1976, 45, 317.
[22] Ciò trova prove pratiche in diversi casi, tra i quali si cita una decisione del tribunale dell’Illinois in cui si è affermato: «it is an abuse of legal system to cram unnecessary litigation down the throats of firms whose directors serve on multiple boards, and then use high costs of antitrust suits to extort settlements (including undeserved attorneys' fees) from the targets. [...] Usually serving on multiple boards demonstrates breadth of experience, which promotes competent and profitable management. If the Antitrust Division or the FTC sees a problem, there will be time enough to work it out». Cfr. i casi Ronald Booth Trust e Ronald Gross v. Crowley, United States Court of Appeal for the Northern District of Illinois, No. 09 C5314, June 13, 2012.
[23] Rispettivamente, H.R. Rep. No. 1127, 62nd Conf., 3d Sess. (1913) House Comm. on Banking and Currency, Investigation of Concentration of Control of Money and Credit ; H.R. Rep. No. 1127, 62nd Conf. 2d Sess. (1912), House Comm. on Banking and Currency, Investigation of United States Steel Corporation.
[24] Cfr. Areeda-Hovenkamp, Antitrust Law, vol. 5, 2nd ed., New York, Aspen, 2002, p. 325. È del resto arcinota l’affermazione di Louis Brandeis secondo la quale «the practice of interlockings directors [...] applied to corporations which deal with each other it tends to disloyalty and violation of the fundamental law that no man can serve two masters. In either event, it tends to inefficiency for it removes incentives and destroys soundness of judgment. It is undemocratic for it rejects the platform “a fair field and no favors” – substituting the pull of privilege for the push of manhood» (BRANDEIS, The Endless Chain – Interlocking Directorates, in Harper’s Weekly, Dec. 6, 1913, pp. 13-14; e anche Id., Other People’s Money and how the Banker Use it, 1914, pp. 31 ss.).
[25] Particolarmente suggestiva era la rappresentazione con cui le riviste dell’epoca si sono occupate dei legami personali tra banche: una piovra gigante che, attraverso i propri numerosi e lunghi tentacoli, controlla e assoggetta al proprio sinistro volere le imprese e l’economia americana. La minaccia – a più riprese formulata nella campagna elettorale – di un intervento repressivo da parte del Governatore (poi divenuto Presidente) W. Wilson indusse tuttavia i vertici delle principali banche a dimettersi dalle cariche ricoperte nelle grandi imprese industriali.
[26] Se il lettore fosse interessato a compiere un’analisi più approfondita della letteratura che si è espressa sull’argomento, così come dell’evoluzione della norma e delle interpretazioni che della medesima la giurisprudenza ha dato, nell’ambito del periodo storico successivo all’emanazione del Clayton Act, quindi dal 1914, ai primi anni ’80 del secolo scorso, lo si rinvia ai seguenti contributi: Axinn-Proger-Yoerg, Interlocking Directorates under Section 8, Monograph/American Bar Association, Section of Antitrust Law, 10, 1984; Kramer, Interlocking Directorships and the Clayton Act After 35 Years, in Yale L. J., 59, 1950, pp. 1266 ss.; Murphy, Keys to Unlock the Interlocks: Dealing with Interlocking Directorates, in U. Mich. J. L. Reform, 11, 1978, pp. 361 ss.
[27] Per un approfondimento delle tematiche relative alla disciplina applicabile nel settore bancario si veda OCC, Management Interlocks–Comptroller’s Licencing Manual, Washington, 2009.
[28] Le attuali soglie dimensionali si riferiscono alle attività e sono di almeno 1,5 miliardi di dollari per ciascuna delle due banche e 2,5 miliardi di dollari per almeno una delle due.
[29] Ossia che, in forza della clausola 348.2, abbiano attività nella stessa area statistica metropolitana per almeno 50 milioni di dollari, oppure abbiano filiali nella medesima comunità (definita come la medesima città o villaggio, oppure città e villaggi contigui).
[30] L’articolo 36 dispone quanto segue: «1 – E’ vietato ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti. 2 - Ai fini del divieto di cui al comma 1, si intendono concorrenti le imprese o i gruppi di imprese tra i quali non vi sono rapporti di controllo ai sensi dell'articolo 7 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 e che operano nei medesimi mercati del prodotto e geografici. 2.bis. Nell'ipotesi di cui al comma 1, i titolari di cariche incompatibili possono optare nel termine di 90 giorni dalla nomina. Decorso inutilmente tale termine, decadono da entrambe le cariche e la decadenza è dichiarata dagli organi competenti degli organismi interessati nei trenta giorni successivi alla scadenza del termine o alla conoscenza dell'inosservanza del divieto. In caso di inerzia, la decadenza è dichiarata dall’Autorità di vigilanza di settore competente. 2.ter - In sede di prima applicazione, il termine per esercitare l'opzione di cui al comma 2 bis, primo periodo, è di 120 giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
[31] I Criteri per l’applicazione dell’art. 36, individuati anche con la collaborazione e la condivisione dell’AGCM, sono stati pubblicati nel 2012 con l’obiettivo di promuovere l’applicazione uniforme della norma da parte del mercato e la trasparenza della loro azione.
[32] Tra i funzionari di vertice vanno perciò inclusi di certo i direttori generali e, nelle società quotate, anche i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari previsti dall'art. 154-bis TUF.
[33] Per quanto riguarda i profili soggettivi del divieto, nei Criteri applicativi (imprese interessate; cfr. par. 3.1.2, lett. B), si precisa che «[...] in attesa di ulteriori chiarimenti normativi» il divieto debba trovare perimetro di applicazione circoscritto ai casi di cariche incrociate detenute in imprese (o gruppi) di dimensioni tali da poter assumere rilievo sotto il profilo della tutela della concorrenza, considerando, come riferimento normativo utile per identificare la significatività delle imprese ai fini dell’applicazione del divieto di interlocking, la legge n. 287/90 (c.d. l. “antitrust”),con particolare riferimento al disposto dell’art. 16) che, nella determinazione dell’ambito entro il quale le concentrazioni devono essere ritenute rilevanti, stabiliscono una soglia minima di fatturato totale realizzato dall’impresa (o gruppo di imprese) oggetto dell’acquisizione.
[34] Ai fini del computo dei ricavi complessivamente rilevanti a determinare il superamento della soglia dimensionale, si ricorda che Il fatturato annuo nazionale di banche e di altri intermediari finanziari si computa come decima parte dell’attivo dello stato patrimoniale, con esclusione dei conti d’ordine; per le imprese di assicurazione, invece, si fa riferimento al valore complessivo dei premi incassati su base annua. Tali criteri e valori sono calcolati ex legge 10 ottobre 1990 n.287.
[35] I Criteri applicativi stabiliscono inoltre che gli aggiornamenti periodici della suddetta soglia prevista dalla legge 287/90 si estendono automaticamente anche ai fini dell’applicazione del divieto di interlocking. In particolare, la soglia è stata innalzata a 50 milioni con provvedimento n. 26471 del 14 marzo 2017 dell’AGCM, pubblicato nel Bollettino dell’AGCM n. 11 del 27 marzo 2017. Successivamente, con la legge 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), l’art. 16 della legge antitrust è stato significativamente modificato nei suoi presupposti applicativi, sia in relazione all’obbligo, che non si riferiscono più al fatturato della sola impresa di cui è prevista l’acquisizione, ma al «fatturato totale realizzato individualmente da almeno due delle imprese interessate»; sia alla soglia di materialità delle imprese singolarmente considerate, ridotta a 30 milioni di euro. In conseguenza di tale ultima modifica, le Autorità di Vigilanza hanno adeguato i criteri applicativi (Paragrafo 3.1.2, lett. B), ove ora si legge: «B) Rilevanza dimensionale delle imprese/gruppi. In linea con le finalità perseguite dalla norma, deve ritenersi – in sede di prima applicazione e in attesa di ulteriori chiarimenti normativi – che il divieto sia operante nei casi di intrecci di cariche tra imprese di dimensioni potenzialmente in grado di assumere rilievo sotto il profilo della tutela della concorrenza. In particolare, il divieto di interlocking opera quando almeno due delle imprese (o gruppi di imprese) in cui il soggetto detiene cariche presentano individualmente un fatturato totale, realizzato a livello nazionale dall’impresa o dal gruppo di appartenenza, superiore a 30 milioni di euro. Per fatturato si intende, per le banche e gli altri intermediari finanziari, un decimo del totale dell’attivo dello stato patrimoniale, esclusi i conti d’ordine; per le imprese di assicurazione, il valore dei premi incassati. La soglia e il relativo metodo di calcolo sono stati identificati sulla base di quanto previsto dalla legge n. 287/90 (art. 16, commi 1 e 2) per la valutazione delle operazioni di concentrazione tra imprese a fini antitrust, con riferimento al fatturato totale realizzato individualmente da almeno due delle imprese (o gruppo di imprese) interessate; questo approccio è finalizzato comunque a garantire piena efficacia al dispositivo di cui all’art. 36 del d.l. “Salva Italia”. Gli aggiornamenti periodici della citata soglia previsti dalla legge 287/90 (art. 16, comma 1) si estendono automaticamente anche ai fini dell’applicazione del divieto di interlocking.
[36] L’art. 7 della Legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante titolo Norme per la tutela della concorrenza e del mercato, recita: «1. Ai fini del presente titolo si ha controllo nei casi contemplati dall'articolo 2359 del codice civile ed inoltre in presenza di diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono, da soli o congiuntamente, e tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto, la possibilità di esercitare un'influenza determinante sulle attività di un'impresa, anche attraverso:
a) diritti di proprietà o di godimento sulla totalità o su parti del patrimonio di un'impresa
b) diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono un'influenza determinante sulla composizione, sulle deliberazioni o sulle decisioni degli organi di un'impresa.
2. Il controllo è acquisito dalla persona o dalla impresa o dal gruppo di persone o di imprese
a) che siano titolari dei diritti o beneficiari dei contratti o soggetti degli altri rapporti giuridici suddetti;
b) che, pur non essendo titolari di tali diritti o beneficiari di tali contratti o soggetti di tali rapporti giuridici, abbiano il potere di esercitare i diritti che ne derivano».
[37] L’art. 2359 c.c. definisce come società controllate: «1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria; 2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa» computando, ai fini dell’applicazione delle disposizioni relative al calcolo dei voti, «anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta» restando, invece, esclusi i voti spettanti per conto di terzi.
[38] L’art. 2390 c.c. stabilisce che «gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un'attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell'assemblea [...]».
[39] Sul Codice di Autodisciplina, si rinvia al paragrafo successivo, in cui si approfondiranno contenuti e ratio delle norme che si occupano della fattispecie.
[40] Cfr. Autorità garante della concorrenza e del mercato (2008), Indagine conoscitiva sulla corporate governance di banche e assicurazioni, disponibile sul sito internet dell’Autorità (www.agcm.it). Nell’Indagine viene constatato come «le principali banche, compagnie di assicurazione e SGR attive in Italia si caratterizzino per l’esistenza di numerosi legami fra concorrenti (...). Con riferimento ai legami personali, l’analisi svolta indica come l’80 per cento dei gruppi esaminati presentino all’interno dei propri organismi di governance soggetti con incarichi nella governance di gruppi concorrenti».
[41] AS 496, in Bollettino AGCM n. 3/2009. Cfr. anche audizione del Presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato nell’ambito dell’Indagine conoscitiva della 6a Commissione del Senato sui rapporti tra banche e imprese con particolare riferimento agli strumenti di finanziamento, 10 febbraio 2009 (disponibile sul sito internet www.agcm.it, alla sezione Attività di segnalazione- Audizioni parlamentari).
[42] AS 659, Bollettino AGCM n. 4/2010.
[43] Cfr. la segnalazione dell’Autorità contenente Proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza, AS 901, del 5 gennaio 2012, in Supplemento al Bollettino AGCM n. 51/2011.
[44] Cfr. Ghezzi, Legami personali tra intermediari finanziari e diritto della concorrenza. Sull’opportunità di introdurre uno specifico divieto anti-interlocking nell’ordinamento italiano, in Riv. Soc., 2010, p. 997 e ss. L’obbligo di diligenza quindi, lungi dall’essere pro-concorrenziale, può determinare risvolti collusivi quando le caratteristiche del mercato, delle imprese che vi operano e dei legami tra queste, rendano congiuntamente più conveniente la scelta di instaurare o mantenere un equilibrio di tipo collusivo.
[45] Cfr. documento di consultazione Consob del 7 febbraio 2007, p. 2.
[46] Si legga, in tal senso, Pennings, Interlocking Directorates. Origins and Connections among Organization’s Boards, Michigan, 1980; e BURT, I legami di cooptazione nell’industria americana, Stansford, 1983
[47] Per un approfondimento sulla teoria delle infiltrazioni, si legga Mizruchi, Structure of Corporate Political Actions: Interfirm relations and their consequences, Michigan, 1980.
[48] I contributi cui ci si riferisce sono quelli di Dooley, The interlocking directorate, in American Economic Review, 59(3), 314-323, New York, 1969; e di PFEFFER, Size and composition of corporate boards of directors: The organization and its environment, in Administrative Science Quarterly, 17(2), 218-228, Stanford, 1978.
[49] Krozner-Strahan, Bankers on boards: monitoring, conflicts of interest and lender liability, in Journal of Financial Economics, 2001, vol. 62, issue 3, 415-452.
[50] Kracaw-Zenner, Affiliated directors: puppets of management or effective directors?, New York, 1988.
[51] Fama-Jensen, Separation of ownership and control, Journal of Law and Economics, 26: 301-325, 1983.
[52] In tal senso, v. Schoorman-Bazerman-Atkin, Interlocking directorates: A strategy for reducing environmental uncertainty, in Academy of Management Review, vol. 6, pp. 243- 251, 1981.
[53] Così Zeitlin, Corporate ownership and control: the large corporation and the capitalist class, in America Journal of Sociology, vol. 79, pp. 1073-119, 1974.
[54] Di questo parere, Koenig-Gogel-Sonquist, Models of the significance of interlocking corporate directorates, in American Journal of Economics and Sociology, vol. 38, pp. 173-86,1979.
[55] Fich-Shivdasani, Why do CEOs reciprocally sit on each other’s boards?, in Journal of Corporate Finance, vol. 11, pp. 175-195.
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