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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 13/03/2023 Scarica PDF
Dalla società benefit alla CRSD: modelli e paradigmi in bilico tra imprenditorialità sostenibile e green washing
Serena Maurutto, Docente a contratto presso il dipartimento di scienze aziendalistiche e Docente al Master Universitario di II livello "Crisi d'impresa e ristrutturazioni aziendali" presso l'Università degli Studi di BergamoSommario: 1. Sostenibilità e strategia aziendale: un matrimonio annunciato dalle teorie manageriali. – 2. Dalla strategia alla pianificazione di sostenibilità: obiettivi e metriche. 3. Oltre l’informazione non finanziaria nello spazio giuridico comunitario. – 4. Dalla Società Benefit alla certificazione B-Corp®: dalla normativa nazionale alla revisione made in U.S.A.; 5. La trappola del green washing: opportunità e rischi dell’outing di sostenibilità. – 6. Il Chief Sustainability Officer: dallo stakeholder engagement alla transizione sostenibile d’impresa. - 7. Conclusioni.
1. Sostenibilità e strategia aziendale: un matrimonio annunciato dalle teorie manageriali
Il superamento della prospettiva della massimizzazione del profitto come obiettivo ultimo dell’agire imprenditoriale[1] può essere senza dubbio riletto come il tempo zero da cui sono scaturite tutte le successive teorie sulla responsabilità sociale, l’etica e la sostenibilità d’impresa. L’introduzione del concetto di valore per gli stakeholder[2], superando l’approccio originario di massimizzazione del valore per gli azionisti[3], fonde la visione dell’impresa come sistema vitale[4] con la stakeholder theory[5], sottolineando l’importanza che la conduzione aziendale debba essere costantemente orientata entro un contesto relazionale in cui benefici e criticità si susseguono senza soluzione di continuità, verso soggetti diversi ciascuno dei quali ha altrettanto differenti interessi che condizionano – e sono condizionati – dall’agire imprenditoriale medesimo.
Le imprese, dal canto loro, sono rimaste per anni intrappolate entro un’interpretazione miope dell’approccio di creazione di valore, in cui hanno posto l’attenzione alla massimizzazione dei risultati finanziari di breve termine, sottovalutando i bisogni più importanti dei propri clienti e ignorando i fattori di più vasta portata che determinano il successo di lungo termine. Seguendo questa ottica ristretta si sono compiute scelte che nel tempo si sono dimostrate disastrose, come aver trascurato il benessere dei consumatori, aver contribuito sostanzialmente all’impoverimento di risorse naturali vitali, aver ignorato la salute finanziaria dei fornitori-chiave o il disagio economico delle comunità in cui producono e vendono, pensando – per esempio – che il semplice fatto di trasferire alcune attività in Paesi dove i salari sono più bassi fosse una soluzione adeguata e coerente a vincere le sfide in un contesto ipercompetitivo.
È senz’altro, quello attuale, un momento storicamente propizio ad una riconciliazione proattiva tra business, ambiente e società; una riconciliazione che, cioè, sia in grado di andare oltre alla mera mentalità da “responsabilità sociale”, nella quale le tematiche social e green si collocano alla periferia e non al centro della strategia aziendale, per abbracciare un approccio al perseguimento del successo economico completamente nuovo, in grado di creare valore anche per la società, rispondendo ai suoi bisogni e ai suoi problemi.
Un modello manageriale che a parere di chi scrive è particolarmente adatto a rappresentare efficacemente il passaggio che le imprese oggi sono chiamate a compiere, per inglobare il tema della sostenibilità non tra gli strumenti di gestione, ma a livello di definizione della complessiva strategia, è quello definito da Porter e Kramer[6] come “creating shared value (CSV)”, creazione di valore condiviso.
Secondo i due studiosi il concetto di valore condiviso si sviluppa innanzitutto da un doppio assunto di base: i) la consapevolezza che i mercati si definiscono sulla base dei bisogni della società, e non solo a partire dai bisogni economici convenzionali; ii) la constatazione che i danni sociali o i problemi sociali determinano molto spesso costi interni per le aziende, come lo spreco di energia o di materie prime, costosi incidenti e l’esigenza di addestrare i dipendenti per rimediare alle carenze della formazione scolastica.
Da qui è facile constatare che la risposta ai problemi e ai vincoli sociali non necessariamente comporta un aumento dei costi a carico delle aziende, poichè affrontare proattivamente i suddetti temi significa aprirsi all’innovazione mediante l’utilizzo di nuove tecnologie, di nuovi metodi operativi e di nuovi approcci manageriali, e di conseguenza, accrescere la produttività ed espandere i mercati.
Porter e Kramer, infatti, sottolineano che la creazione di valore condiviso non comporta la “condivisione” del valore già creato dalle imprese secondo quello che, soltanto prima facie, potrebbe sembrare un approccio redistributivo: si tratta, invece, di mettere a punto una strategia il cui out put deve consistere nell’espansione della dotazione complessiva di valore, tanto economico quanto sociale.
Sotto questa prospettiva, il concetto di valore condiviso può essere rappresentato dall’insieme delle politiche e delle pratiche operative che rafforzano il vantaggio competitivo di un’impresa migliorando allo stesso tempo le condizioni economiche e sociali delle comunità in cui opera: creare valore condiviso significa identificare e, successivamente, espandere i legami che connettono il progresso economico con il progresso sociale.
2. Dalla strategia alla pianificazione di sostenibilità: obiettivi e metriche
Definire una strategia per l’agire sostenibile dell’impresa è il primo passo da compiere per riuscire a pianificare obiettivi e operazioni con la medesima coerenti. L’assenza di un nesso eziologico tra strategia e obiettivi e, ancor di più, il fatto che tale consequenzialità rimanga soltanto sulla carta e non trovi concreta rappresentazione attraverso accadimenti che conferiscano evidenza allocativa a ciascun elemento, rappresenta un concreto rischio di distruzione di valore.
Recenti fatti riportati dai media in relazione alla rilevata incoerenza tra obiettivi dichiarati di sostenibilità e scelte di gestione che, al contrario, hanno rivelato un’evidente contraddizione con essi, hanno messo in luce la rilevanza di due aspetti chiave difficilmente eludibili: i) il fatto che le imprese siano chiamate a perseguire obiettivi extra economici in conseguenza delle esternalità che le rispettive attività provocano nell’ambiente e nel contesto sociale in cui sono inserite, rappresenta un’esigenza generalmente riconosciuta e sulla quale tutti gli stakeholder sono allineati; ii) le dichiarazioni, le etichette e le certificazioni di cui l’impresa si forgia per comunicare la propria intenzione di agire in modo sostenibile, non sono più sufficienti a guadagnarsi l’assenso di stakeholder sempre più sensibili, critici e attenti a verificare che alle parole seguano i fatti; iii) la verifica ex post, da parte dei medesimi stakeholder, della mancata corrispondenza tra dichiarazioni di sostenibilità e fatti con le medesime coerenti, rappresenta un volano che innesta una spirale negativa di distruzione di valore che è sempre più minacciosa e la cui gravità è direttamente correlata alla crescita della sensibilità delle comunità verso questi temi, così come alla velocità di diffusione delle informazioni.
Tali assunti mostrano come sia del tutto necessario che le imprese che scelgono di intraprendere un percorso di sostenibilità che adegui a multiforme e differenziate istanze le proprie attività, non possano che passare attraverso una ridefinizione della strategia di fondo che si traduca poi in una programmazione dell’agire imprenditoriale che si sostenga, da un lato, su obiettivi chiari e coerenti e, dall’altro, che possa essere ex post misurato attraverso metriche e misure razionali, e non opache, e adeguatamente comunicato.
Pare utile richiamare all’attenzione del lettore il concetto di «triple bottom line»[7], secondo il quale le aziende dovrebbero lavorare simultaneamente su tre diverse linee di bilancio: quello tipico, basato su profitti e perdite, quello legato alla società civile e quello legato all’ambiente. In altre parole, lo sviluppo sostenibile di un’azienda è il processo di miglioramento continuo delle prestazioni economiche (profit), ambientali (planet) e sociali (people) e la sostenibilità non è altro che il risultato della gestione olistica di questo processo. All’interno di un simile meccanismo, un ingranaggio addizionale, o meglio complementare, è rappresentato dal fattore tempo, la cui dimensione fa sì che la sostenibilità evolva nella capacità di un’organizzazione di continuare le proprie attività indefinitamente, tenendo conto dell’impatto che queste hanno sul capitale umano, sociale e ambientale.
In questa ottica, per qualsiasi organizzazione economica diventa fondamentale identificare, innanzitutto, gli obiettivi di lungo e lunghissimo termine, così come è importante misurare continuamente sia lo scostamento e la distanza rispetto a tali obiettivi, sia la coerenza delle proprie azioni. Gestire, misurare e comunicare la sostenibilità sono i tre passaggi essenziale nel perseguimento di un percorso concretamente coerente con l’orientamento strategico di fondo.
Un’azienda, infatti, deve essere in grado di analizzare tutti gli elementi che compongono la propria strategia e il proprio modello di business, così come il grado in cui i suddetti elementi influenzano gli aspetti legati alla sostenibilità tra i quali, per esempio, i diritti umani, il cambiamento climatico e la conservazione dell’ambiente. Gli elementi in grado di generare un impatto sulle tre dimensioni della sostenibilità sono, di conseguenza, legati al tipo di business e alla localizzazione fisica dell’azienda e degli altri attori della filiera.
Gli aspetti che appaiono più critici, per un’azienda che decide di perseguire una strategia sostenibile, sono connessi proprio dalla difficoltà di misurare e interpretare correttamente gli effetti del proprio operato, non tanto in termini economici, ma soprattutto ambientali e sociali. In questo senso, allo scopo di definire coerentemente una politica aziendale rivolta alla sostenibilità è indispensabile partire dalla mappatura di tutti gli aspetti potenziali e attuali legati alla stessa.
I principi della Global Reporting Initiative (GRI)[8] indicano come elemento fondante di tali aspetti tali aspetti il principio della cosiddetta materialità, il quale, considerato l’inevitabile impatto ambientale o sociale dell’agire imprenditoriale nel suo complesso, stabilisce che solo determinati aspetti del business debbano essere presi in considerazione per la misurazione delle proprie prestazioni in termini di sostenibilità: essi devono essere perciò individuati sulla base della significatività e dell’influenza che essi esercitano sulla Triple Bottom Line.
Dopo che tutti gli aspetti rilevanti sono stati individuati, l’impresa può occuparsi della definizione degli obiettivi di miglioramento, i quali, in linea generale, sono rivolti al perseguimento di un duplice risultato: i) la minimizzazione delle risorse impiegate; ii) la massimizzazione del valore. Per esempio, si può decidere di perseguire l’obiettivo della riduzione del consumo di energia, il miglioramento della sicurezza degli impianti, la riduzione delle emissioni di CO2 o il miglioramento della qualità della vita per la comunità all’interno della quale opera l’azienda.
Gli indicatori che si predispongono al fine di misurare tali obiettivi sono solitamente definiti KPI, Key Performance Indicators, un cruscotto di strumenti robusti e di immediata applicazione capaci di declinare concetti ampi e complessi come quello della sostenibilità in termini numerici, o misure descrittive, in grado a loro volta di orientare il processo decisionale del management. In poche parole, i KPI possono essere definiti come un sistema di informazioni semplificate, sintetiche e comunicabili, che rispondano ai requisiti di misurazione, gestione e comunicazione identificati dalla strategia come funzionalmente connessi al perseguimento dell’obiettivo guida della sostenibilità.
Nell’ambito del framework che oggi rappresenta l’insieme delle proposte di identificazione e descrizione di linee guida utili alla redazione di report di sostenibilità, un ruolo centrale è ricoperto dalla Global Reporting Initiative che, sin dalla prima edizione, ha identificato una serie di indicatori fondamentali per la misurazione della performance aziendale, suddividendoli in 3 gruppi: gli standard universali, che si applicano a tutte le organizzazioni; gli standard di settore, che si rivolgono a settori mirati; gli standard specifici, che elencano le informative pertinenti per un particolare tema.
Un sistema che si pone come complementare, più che alternativo, rispetto al cruscotto GRI è rappresentato dalla metodologia CTI, Circular Transition Indicators, sviluppata dal World Business Council for Sustainable Development (WBSD)[9] e basato su un concetto di eco-efficienza che può essere descritto come un rapporto tra il valore prodotto e l’impatto generato. Se l’aspetto positivo della metodologia basata sull’eco-efficienza è che essa non si applica soltanto al contesto di un mero efficientamento delle risorse, ma riguarda una riduzione dell’impatto globale dell’agire imprenditoriale, essa presenta il limite di riferirsi, in tal senso, solo a due delle tre dimensioni del bilancio di sostenibilità: quella economica e quella ambientale. Anche se di recente i temi legati alla sostenibilità sociale sono stati inclusi a vario titolo nel concetto di eco-efficienza, partendo dall’assunto che, anche con una maggiore efficienza delle risorse, il cambiamento non avverrà mai se l’80% delle risorse continua a essere gestito dal 20% della popolazione globale, l’applicabilità delle misure di carattere sociale in questo modello rimane ancora, ad oggi, molto limitata.
Un terso gruppo di indicatori che, pur in misura residuale rispetto ai precedenti, risultano tuttavia funzionali per l’identificazione e selezione del percorso necessario alla valutazione e al miglioramento della performance dell’azienda rispetto alla sostenibilità, è contenuto nella ISO 14031, la quale definisce gli standards EPE, ovvero un sistema di indici utili al fine della valutazione delle prestazioni ambientali.
3. Oltre l’informazione non finanziaria nello spazio giuridico comunitario
La disciplina della cosiddetta informazione non finanziaria rappresenta un tassello fondamentale nell’ambito della più ampia architettura legislativa diretta a favorire lo sviluppo di un modello imprenditoriale più sostenibile. A dicembre 2019 la Commissione Europea ha annunciato il Green Deal europeo, ovvero una nuova strategia che ha l’obiettivo di trasformare l’Unione Europea in una società equa e prospera, con un’economia moderna, efficiente, competitiva e carbon-neutral entro il 2050 e dove la crescita economica non vada di pari passo all’utilizzo di risorse. In questo nuovo contesto si prevede che gli aspetti non finanziari o ESG (Environmental, Social, Governance) dovranno essere ancor più integrati nelle strategie e nelle reportistiche aziendali facendo sì che il sistema finanziario e gli investitori siano sempre più informati circa la sostenibilità dei loro investimenti. Ciò comporterà una domanda sempre crescente di dati riguardanti gli aspetti non finanziari, che necessiterà al tempo stesso un concreto miglioramento della trasparenza verso gli stakeholder e l’adozione di metriche comuni per misurare gli impatti ambientali e sociali e le proprie performance in relazione agli obiettivi preposti.
Anche il contesto normativo europeo della reportistica non finanziaria si sta ovviamente adattando in relazione al nuovo contesto di riferimento e in relazione alle necessità emergenti. La consultazione pubblica che la Commissione europea ha lanciato nel febbraio 2020 al fine di procedere con una revisione della Direttiva 2014/95/UE, ha condotto alla pubblicazione, il 22 dicembre scorso, della CSRD, Corporate Sustainability Reporting Directive, che ha introdotto nuove regole per il report di sostenibilità per le imprese.
Essa, stabilisce pertanto nuovi principi per la reportistica di sostenibilità delle imprese, estendendo ad una platea di imprese molto più ampia l’obbligo di divulgare informazioni in merito alle tematiche di sostenibilità, in termini di impatto ambientale, diritti sociali, diritti umani e fattori di governance.
La Direttiva chiarisce, innanzitutto, il principio della «doppia rilevanza» o «double materiality», richiedendo alle imprese di considerare sia l’impatto delle proprie attività sulle persone e sull’ambiente, sia il modo in cui le tematiche di sostenibilità incidono sull’impresa (i.e. impatto dell’impresa e impatto sull’impresa): le imprese dovranno, cioè, considerare ciascuna prospettiva di rilevanza singolarmente e comunicare sia informazioni che sono rilevanti da entrambe le prospettive, sia informazioni che sono rilevanti da una sola prospettiva. Prevede, inoltre, l’adozione di standard europei obbligatori per la rendicontazione della sostenibilità (ESRS - European sustainability reporting standards), il cui compito di redazione è stato assegnato all’EFRAG, il gruppo consultivo europeo in materia di rendicontazione finanziaria. La Commissione UE adotterà la versione finale delle norme sotto forma di atti delegati, al termine della consultazione con gli Stati membri.
Con la nuova Direttiva, tutte le imprese di grandi dimensioni e le PMI quotate, ad eccezione delle microimprese quotate, avranno l’obbligo di rendicontare le informazioni di sostenibilità secondo nuovi criteri e contenuti, con una deroga ulteriore che riguarda le sole PMI quotate per le quali sarà possibile conformarsi alle previsioni della Direttiva a partire dal 2028. Per le PMI non quotate, invece, non rientrando nel campo di applicazione della CSRD, non è previsto alcun obbligo di redigere il report di sostenibilità, ma un mero suggerimento, basato sulla constatazione dell’attenzione che ormai sia i cittadini che il sistema economico e finanziario pongono su questi aspetti, in base al quale si dispone che l’adozione della reportistica potrà avvenire su base volontaria.
Obiettivo della CSRD è quello di aumentare la trasparenza in materia ambientale, sociale e di governance, contrastare il greenwashing e irrobustire l’impronta sostenibile dell’economia e del mercato europeo, rafforzando, nel contempo, le norme attualmente in vigore sulla rendicontazione non finanziaria della Non-financial Reporting Directive (NFRD), per adeguarle alla transizione dell’UE verso un’economia sostenibile.
Al momento l’EFRAG ha redatto 12 bozze di standard «sector agnostic», ovvero applicabili indipendentemente dal settore di appartenenza dell’impresa, di cui si prevede l’emanazione da parte della Commissione Europea tramite Atti Delegati entro fine giugno 2023. Questo primo pacchetto di standard si compone di due blocchi: i) Standards «cross-cutting», dei quali il primo riguarda i principi generali da adottare nella rendicontazione e il secondo il contenuto dei requisiti generali (governance, strategia, organizzazione); ii) Standards «topical», di cui cinque riguardano informazioni ambientali, quattro quelle sociali e uno la governance.
Inoltre, in accordo al principio di proporzionalità, verranno emanati degli standard di reporting specifici semplificati per le PMI quotate, così come degli standard di carattere volontario destinati alle piccole e medie imprese non quotate.
Le novità di maggior rilievo introdotte dalla Direttiva CSRD riguardano: i) l’utilizzo della locuzione «informazioni sulla sostenibilità» in luogo dell’espressione «informazioni di carattere non finanziario», in quanto la prima implica che le informazioni in questione possano anche essere pertinenti sul piano finanziario, non potendo ciò essere escluso a priori; ii) l’estensione del perimetrodi applicazione a tutte le imprese di grandi dimensioni (quotate e non quotate), e a tutte le altre imprese medie e piccole quotate in borsa (con eccezione delle sole microimprese), con coinvolgimento anche di quelle che, pur avendo la sede legale in paesi terzi, svolgono una parte significativa della loro attività nel territorio dell’Unione e le imprese figlie, di grandi dimensioni e piccole e medie di interesse pubblico, stabilite nel territorio europeo la cui impresa capogruppo è soggetta al diritto di un paese terzo; iii) l’introduzione di obblighi di rendicontazione più dettagliati che devono comprendere tutte le informazioni necessarie alla comprensione dell’impatto delle attività dell’impresa sugli aspetti ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro la corruzione, con visioni prospettiche e retrospettive, secondo l’essenziale prospettiva della «doppia rilevanza» o «due diligence», secondo la quale non assume rilievo il mero impatto delle attività dell’impresa sulle persone e sull’ambiente, ma anche il modo in cui le questioni di sostenibilità incidono sull’impresa; iv) l’implementazione di ciò che concerne la comunicazione di informazioni relative alle risorse immateriali essenziali, definite come «risorse prive di consistenza fisica da cui dipende fondamentalmente il modello aziendale dell’impresa e che costituiscono una fonte di creazione del valore per l’impresa», e l’indicazione del modo in cui il modello aziendale dell’impresa dipende fondamentalmente da tali risorse e come tali risorse costituiscono una fonte di creazione del valore per l’impresa (i.e.: le abilità, le competenze e l’esperienza dei dipendenti, la loro fedeltà nei confronti dell’azienda, i beni e i servizi; così come la qualità delle relazioni tra l’impresa e i suoi portatori di interessi, compresi i clienti, i fornitori e le comunità coinvolte); v) l’obbligo per le imprese di grandi dimensioni e le piccole e medie imprese, ad eccezione delle microimprese, che sono enti di interesse pubblico, di comunicare le informazioni sulla sostenibilità in un’apposita sezione chiaramente identificabile della Relazione sulla Gestione, così da facilitare il collegamento tra le informazioni sulle questioni di sostenibilità e le informazioni di carattere finanziario e, nel contempo, evitare un poco opportuno differimento di pubblicazione tra le due categorie di informazioni; vi) la pubblicazione in formato digitale (gratuito) delle informazioni, per favorire la reperibilità e la fruibilità delle stesse; vii) l’obbligo di attestare la conformità della rendicontazione disostenibilità con le disposizioni dell’Unione da parte di un revisore legale, un’impresa di revisione contabile o un prestatore indipendente di servizi di attestazione della conformità accreditato[10].
4. Dalla Società Benefit alla certificazione B-Corp®: dalla normativa nazionale alla revisione made in U.S.A.
Una interessante disciplina che condivide con la normativa CSRD la ratio di stimolare le imprese a perseguire obiettivi sostenibili terzi, rispetto a quello del mero profitto, è contenuta nella Legge di stabilità per l’anno 2016, legge 28 dicembre 2015, n.208, con la quale, all’art.1, commi da 376 a 384, il nostro Paese, primo in Europa e primo al mondo dopo i trenta Stati Americani[11] cui si è ispirato, ha introdotto la qualifica, per le società di capitali, di Società Benefit.
Tale strumento giuridico è stato voluto fortemente dal legislatore sulla scorta dell’irreversibile consapevolezza che l’approccio For Benefit e la sostenibilità non siano più un’alternativa, ma un nuovo modo di fare impresa. Con la nuova qualifica giuridica un’impresa, oltre a dichiarare i propri obiettivi di profitto, si deve impegnare a perseguire anche scopi di beneficio comune, atti ad avere un impatto positivo a lungo termine sulla società civile e sull’ambiente. La Società Benefit si contraddistingue, perciò, per avere una duplice finalità, nell’ambito di un oggetto sociale bifronte, dovendo in tal senso individuare e descrivere compiutamente il beneficio comune all’interno dello Statuto. L’art. 1, comma 376, L. n. 208/2015, stabilisce che la Società Benefit, nell’esercizio di un’attività economica, a fianco allo scopo lucrativo o mutualistico, sia tenuta a perseguire «anche» una o più finalità di beneficio comune da indicare nel proprio oggetto sociale, operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di tutti gli stakeholder[12].
Il percorso ha preso avvio nel 2006, quando un movimento globale di imprese, quello delle B Corp® certificate, ha promosso l’introduzione di una sostanziale modifica nell’essenza delle aziende, ovvero nello statuto e nell’oggetto sociale. Secondo la dottrina italiana, infatti, le aziende esistono per perseguire un unico scopo, ovvero distribuire dividendi agli azionisti: questo è un elemento strutturale che limita la possibilità del management di innovare in direzioni utili per la società, oltre a rendere vulnerabili le aziende virtuose di fronte ad eventi quali cambi del management o dei suoi orientamenti, ingresso di nuovi azionisti, quotazioni in borsa ecc. Dal 2014, le B Corp® certificate italiane hanno promosso un progetto politico e giuridico che è stato depositato nell’aprile 2015. La normativa italiana sulla Società benefit è stata sviluppata da un team internazionale di giuristi, imprenditori e altri stakeholder in armonia con la disciplina delle Benefit Corporation[13]. Il suddetto disegno di legge è poi confluito, come già scritto, nella legge di stabilità 2016 ed è entrato in vigore nel gennaio 2016.
Qualsiasi società di persone e di capitali, già esistente o di nuova costituzione, può, dunque, nascere o diventare[14] società benefit: non si tratta, infatti, di un nuovo tipo sociale, ma di una qualifica attribuibile a tutte le società appartenenti ai tipi societari descritti nel codice civile dal libro V, titoli V e VI. Essa, fermo restando quanto previsto nel codice civile, deve indicare, nell’ambito del proprio oggetto sociale, le specifiche finalità di beneficio comune che intende perseguire ed ha la facoltà di integrare la propria denominazione sociale con le parole «società benefit» oppure l’abbreviazione «SB», così da rendere nota la propria qualità.
Gli amministratori della società benefit sono tenuti ad una gestione societaria che garantisca un corretto bilanciamento tra l’interesse dei soci, da un lato, e il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi delle persone, delle comunità, dei territori e dell’ambiente, dei beni e delle attività culturali e sociali, degli enti e delle associazioni e degli altri portatori di interesse, dall’altro.
Inoltre, essi devono identificare, all’interno dell’impresa, uno o più soggetti responsabili dell’effettivo perseguimento da parte della società delle finalità di beneficio comune.
Le società benefit sono sottoposte a obblighi pubblicitari e di trasparenza, in conseguenza dei quali è previsto che, in occasione della presentazione del bilancio annuale, venga redatta una relazione dalla quale emergano gli obiettivi da essa fissati e realizzati, con la spiegazione di quanto, in funzione del perseguimento del beneficio comune è stato fatto dall’organo amministrativo, nonché la descrizione degli eventuali ostacoli o rallentamenti incontrati, la misurazione dell’impatto generato secondo uno standard di valutazione esterno e la descrizione dei nuovi obiettivi per l’esercizio successivo.
Le SB rappresentano, perciò, un’evoluzione del concetto stesso di azienda. Mentre le società tradizionali esistono con l’unico scopo di distribuire dividendi agli azionisti, come abbiamo potuto vedere, esse sono espressione di un paradigma più evoluto: integrano nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sulla biosfera. Una Società Benefit è, in tale prospettiva, uno strumento legale che crea una solida base per l’allineamento della missione nel lungo termine e la creazione di valore condiviso. Consente quindi di proteggere la missione in caso di aumenti di capitale e cambi di leadership, di creare una maggiore flessibilità nel valutare i potenziali di vendita e di mantenere la missione anche in caso di passaggi generazionali o quotazione in borsa. Non si tratta di Imprese Sociali o di una evoluzione del non profit, ma di una trasformazione positiva dei modelli dominanti di impresa a scopo di lucro, per renderli più adeguati alle sfide e alle opportunità dei mercati del XXII secolo.
A suggellare la particolare mission di queste imprese, interviene la certificazione B-corp, rilasciata dall’ente no profit statunitense B-Lab, attraverso una dichiarazione che attesta l’impegno dell’azienda sulle tematiche ambientali e sociali. Il processo per ottenere tale certificazione è tutt’altro che banale, dato che è richiesta la compilazione di un questionario, denominato Business Impact Assessment (BIA), che valuta l’impegno dimostrato dall’azienda rispetto a 5 dimensioni rilevanti di seguito indicate: i) persone, con evidenziazione della rilevanza delle azioni intraprese in ambito di ambiente lavorativo, stipendi e benefit, e della formazione; ii) governance, con informazioni circa il livello di responsabilità e di trasparenza nella gestione delle comunicazioni; iii) comunità, con indicazione dell’impatto delle attività svolte in relazione al sostegno dell’occupazione, il supporto alla comunità economica di riferimento e alle località limitrofe; iv) ambiente, con precisazione delle attività volte alla riduzione dei rifiuti e alla diminuzione del consumo di energia; v) clienti, con precisazione degli effetti positivi dei prodotti e servizi sulla vita e sul benessere dei consumatori.
Se l’esito finale del questionario di auto-valutazione è di almeno 80 punti su 200, l’azienda potrà avviare il percorso di validazione, sottoponendosi all’audit delle proprie attività da parte di B Lab. A seconda del settore, del numero di dipendenti, delle geografie in cui opera l’azienda, il questionario online regola i coefficienti delle diverse domande, per aumentare o ridurre la loro rilevanza. È ovvio, quindi, che le aziende manifatturiere avranno un coefficiente rinforzato (e dovranno faticare di più per ottenere o mantenere la certificazione) nella categoria “ambiente”, mentre quelle che hanno molti dipendenti avranno coefficienti più pesanti nella categoria “persone”. A seguito delle ulteriori verifiche della documentazione fornita, B Lab deciderà se conferire o meno la certificazione. Una volta ottenuta, per mantenerla le aziende devono sottoporsi a una valutazione periodica delle proprie performance e mantenere entro determinati range il punteggio di valutazione: la certificazione vale, infatti, per tre anni dalla data di ottenimento, oltre al quale periodo, sarà necessario chiedere il rinnovo[15]. Ogni anno, tuttavia, l’azienda è tenuta a rendicontare la propria attività, presentando a B Lab e pubblicando sul proprio sito Web una relazione in cui sono indicati gli obiettivi fissati e quelli raggiunti, oltre alla definizione di un piano d’azione contente le iniziative che intende attuare l’anno successivo per migliorare il proprio impatto.
5. La trappola del green washing: opportunità e rischi dell’outing di sostenibilità
Strumenti giuridici nuovi e procedimenti di certificazione eteronomi non si sono rivelati, tuttavia, sufficienti ad evitare a diverse imprese di cadere nella trappola del greenwashing. Molto spesso, infatti, si è constatato che fare outing verso il pubblico, dichiarando di essere imprese sostenibili, si è dimostrato un fatto disastroso quando, a causa di politiche e strategie di marketing poco coerenti, si sono fornite informazioni fuorvianti su come i prodotti o le azioni di un’azienda siano rispettosi dell’ambiente, al solo scopo di attirare i clienti, senza che, tuttavia, alla forma dichiarata corrispondesse una conforme sostanza.
Tutela e sostenibilità ambientale sono sempre più importanti per i consumatori, concordi nell’attribuire alle aziende una grande responsabilità nel far fronte attivamente al cambiamento climatico e allo spreco di risorse del Pianeta. E i consumatori sono anche sempre più consapevoli e capaci di cogliere l’insincerità, per non dire la falsità, di attività e claim cosa peraltro perseguibile a livello legale. È il cosiddetto fenomeno del greenwashing, inteso come tentativo di capitalizzare la crescente domanda di prodotti e comportamenti rispettosi dell’ambiente[16].
È opportuno precisare, peraltro, che non è sempre identificabile una volontà consapevole alla base delle azioni che le aziende compiono in questo senso, in quanto a volte si tratta di azioni intraprese pensando davvero di fare del bene, che però non si concretizzano in risultati e dati realmente significativi. Che si tratti o meno di mala fede, il risultato è, allo stesso modo, spesso estremamente penalizzante: la cosiddetta sostenibilità di facciata, quando scoperta, è sanzionata sempre più pesantemente dagli stakeholder, in particolare dai consumatori, particolarmente attenti, informati e critici sul tema, divenendo un boomerang che colpisce in modo implacabile e proporzionale alla divergenza che c’è tra realtà e percezione. Quanto più il brand è noto, è evidente, tanto più saranno impattanti gli effetti di distruzione di valore connessi alla scoperta, da parte del mercato, delle informazioni mistificatorie diffuse.
Si tratta a tutti gli effetti di una pratica che mira a ingannare il destinatario, usata come strategia di marketing da alcune aziende per dimostrare un finto impegno nei confronti dell’ambiente con l’obiettivo di catturare l’attenzione dei consumatori attenti alla sostenibilità, che oggi rappresentano una buona fetta di pubblico. Viene declinata attraverso campagne e messaggi pubblicitari o, in qualche caso, persino iniziative di responsabilità sociale. L’obiettivo del greenwashing quindi è duplice: valorizzare la reputazione ambientale dell’impresa e ottenere i benefici in termini di fatturato (perché l’obiettivo è aumentare il bacino di clientela).
Tra i tratti che accomunano gli strumenti attraverso il greenwashing si traduce in comunicazione mediatica, spesso si riscontra l’utilizzo di un linguaggio vago e approssimativo o, al contrario, tanto gergale e tecnico da essere incomprensibile ai non addetti ai lavori. Allo stesso modo l’utilizzo di immagini suggestive, con prevalenza di tonalità di verde o di soggetti naturali che evocano un certo interesse del brand o del prodotto verso le questioni ambientali, possono trarre in inganno. In generale la comunicazione si caratterizza, frequentemente, per i seguenti contenuti: i) assenza di informazioni o dati significativi che supportino quanto dichiarato nel messaggio pubblicitario; ii) informazioni e dati dichiarati certificati quando invece non sono riconosciuti da organi accreditati e autorevoli; iii) enfasi su caratteristiche singole dei prodotti pubblicizzati, ritenendole di per sé sufficienti a classificarli come prodotti; iv) indicazioni sul prodotto così generiche da generare facili fraintendimenti; v) inserimento di etichette false o contenenti parole o certificazioni contraffatte; vi) pubblicazione di asserzioni ambientali che sono semplicemente false.
Se la Federal Trade Commission (FTC) americana è stata la prima organizzazione a stilare, negli Anni Dieci del Duemila, linee guida utili a disciplinare gli environmental marketing claims, imponendo alle aziende specifici principi di chiarezza e trasparenza, non solo nel definire entità e portato del proprio impegno, ma anche, per esempio, nelle scelte stilistiche e linguistiche, in Italia fino al 2014 non esisteva un riferimento legislativo specifico per il greenwashing, ma il controllo era affidato all’Antitrust sotto la disciplina della “pubblicità ingannevole”. Nel marzo di quell’anno l’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato la 58° edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che introduce per la prima volta un esplicito riferimento all’abuso di diciture che richiamino la tutela ambientale. Oggi il fenomeno in Italia viene considerato un genus autonomo rispetto alla pubblicità ingannevole in senso lato, ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che è già intervenuta emettendo diverse sentenze di condanna[17].
Ma cosa succede quando il greenwashing coesiste con certificazioni che sono tutt’altro che assenti, ma regolarmente concesse e valide? Si pensi al recentissimo caso passato alle cronache attraverso un servizio realizzato da Report per RaiTre, che ha riguardato uno degli allevamenti di Fileni, società che vanta la certificazione B-Corp rilasciata dall’ente americano B-Lab soltanto un anno fa e che, ad oggi, si è riservata di deliberare sulla revoca della certificazione suddetta a conclusione del processo di revisione già avviato.
Mentre la certificazione B Corp, lo ricordiamo, è un riconoscimento attribuito alle imprese che si impegnano a misurare e considerare le proprie performance ambientali e sociali con la stessa attenzione tradizionalmente riservata ai risultati economici e che credono nel business come forza positiva che si impegna per produrre valore per la biosfera e la società, Report ha mostrato immagini di maltrattamenti e uccisioni di polli all’interno degli stabilimenti, denunciando il – supposto – mancato rispetto del disciplinare bio.
La crisi reputazionale ha creato un’enorme onda d’urto che si è propagata a grande velocità soprattutto attraverso i social, dove si sono moltiplicati i commenti di migliaia di utenti che hanno dichiarato di non voler più acquistare le carni di Fileni, invitando i propri followers a boicottare l’azienda, e colpendo non soltanto quest’ultima, ma gli stessi enti certificatori, contro i quali si è sollevata una serie infinita di dubbi sulla reale tutela che le certificazioni da essi rilasciate garantiscono al consumatore.
Ferma restando, per poter emettere un giudizio concreto sulla condotta del gruppo, la necessità di attendere che le indagini giungano al termine, e che i fatti riportati dalla trasmissione di RaiTre vengano verificati, anche dalla commissione incaricata dall’ente certificatore stesso, non si ferma lo tsunami mediatico che sta coinvolgendo sempre più stakeholder, dai semplici consumatori, agli attivisti, a varie tipologie di associazioni. Indipendentemente, cioè, dalle pronunce che verranno emesse dai competenti organi, esistono le sentenze del mercato che, sempre più spesso, hanno effetti particolarmente devastanti e distruttivi del valore economico di un’impresa, in quanto minano le basi del capitale reputazionale. Giungendo, in casi come questo, a mettere a rischio proprio la tenuta di quel sistema che sta costruendo un’architettura idonea a dimostrare e verificare che la strategia di sostenibilità dichiarata dalle aziende non si risolva in un fenomeno di ingannevole window dressing.
Indipendentemente dalle sorti che avrà il caso rimbalzato all’attenzione dell’opinione pubblica, l’accaduto ci dimostra che, forse, qualche elemento su cui intervenire esiste: a parere di chi scrive è infatti indubbio che legare la concessione di un punteggio a un questionario che, pur complesso, non è nient’altro che uno strumento di auto-dichiarazione, connesso ad una valutazione eterologa ex post, pone evidenti dubbi circa la necessaria autonomia di giudizio che dovrebbe, invece, caratterizzare una reportistica obiettiva resa presupposto di una così importante certificazione. È in tal senso palese la presenza di un conflitto di interessi esistente in ogni situazione in cui vi è coincidenza tra il controllante e il controllato. Rischio che probabilmente potrebbe essere evitato conferendo ad un terzo indipendente proprio la compilazione di quel famoso questionario e, in primis, la verifica della sostanzialità dei contenuti che in esso verranno dichiarati.
6. Il Chief Sustainability Officer: dallo stakeholder engagement alla transizione sostenibile d’impresa
Il ruolo di cui sopra potrebbe essere svolta da una nuova figura, il Chief Sustaiability Officer, inteso quale professionista specializzato e indipendente dall’azienda entro la quale andranno avviati, certificati o revisionati i percorsi avvisti in ambito di sostenibilità.
Il CSO è, in tal senso, un professionista incaricato di presidiare le performance organizzative fornendo una serie di valutazioni costantemente aggiornate delle stesse in termini di sostenibilità ambientale e sociale. In termini di posizionamento all’interno delle gerarchie aziendali e di organigramma, il Chief Sustainability Officer dovrebbe riportare direttamente all’Amministratore Delegato o al Consiglio di Amministrazione gli obiettivi, le attività e i piani di miglioramento, nonché il cruscotto di parametri e KPI per gestire e misurare i risultati ottenuti.
Il suo ruolo principale consiste nello sviluppo di una strategia di sostenibilità a lungo termine, identificando le inefficienze e le opportunità di ottimizzazione inerenti a ciascun processo e connesse con l’impatto ambientale e sociale, e mappando le modifiche che tale impatto subisce attraverso l’introduzione di cambiamenti migliorativi all’interno dell’organizzazione.
L’introduzione di questa figura all’interno di un’organizzazione d’impresa richiede senza dubbio un forte cambiamento culturale che, a sua volta, chiama in campo una serie di attività ordinate e sequenziali che iniziano con la verifica della compliance normativa, passano per la integrazione della sostenibilità nella dimensione strategica aziendale e culminano con la traduzione in atto di politiche innovative e concretamente sostenibili.
La prima fase fondamentale è, sotto questa prospettiva, rappresentata da tutte quelle attività iniziali in cui il CSO supporta il top management nelle iniziative essenzialmente connesse al rispetto del quadro normativo di sviluppo sostenibile. In questa fase non si può ancora parlare propriamente di approccio strategico, e il ruolo del Chief Sustainability Officer è solo una risorsa di base propedeutica all’avvio del processo di trasformazione, tanto culturale quanto strategico.
La seconda fase ha come obiettivo sia l’emersione della consapevolezza, da parte della governance aziendale, del tema della sostenibilità come elemento imprescindibile di un quadro metodologico integrale, necessario a ridefinire l’efficienza e l’efficacia operativa dell’intero sistema vitale aziendale, sia la nascita del bisogno di adottare una visione e una metodologia che riducano al minimo l’impatto socio-ambientale delle attività dell’impresa.
La seconda e ultima fase è quella in cui il beneficio dell’introduzione del CSO si ha per realizzato e coincide con il momento in cui la sostenibilità, incentrandosi entro un approccio di innovazione, diventa reale e concreta, e si traduce sistematicamente in una serie di azioni che massimizzano la redditività a lungo termine: il business stesso diventa una trasformazione positiva dell’ambiente e del contesto sociale in cui l’azienda opera.
In altre parole, il CSO deve superare il grande ostacolo che è rappresentato dalla difficoltà di incorporare i criteri ESG in misura trasversale in tutta l’organizzazione, mediante la creazione di una strategia, la definizione di ruoli connessi a processi di efficientamento attraverso la costruzione di sistemi di responsabilità espliciti, ripensando in ottica di miglioramento tutti i processi aziendali.
Inoltre, essendo, come sopra evidenziato, compito di questo professionista guidare l’azienda entro la transizione sostenibile, un compito essenziale cui deve attendere consiste nel coinvolgimento costante degli stakeholder che assumono una posizione di rilievo ne confronti dell’organizzazione medesima, proprio per avviare quei processi di innovazione dei prodotti e dei servizi che siano concretamente in grado di ridurre l’impatto socio-ambientale delle attività di business, garantendo non soltanto la compliance dell’offerta, ma allineandola agli standard di qualità e ai fabbisogni extra-economici richiesti dal mercato, dagli investitori e dai clienti.
7. Conclusioni
Secondo l’ultimo report dell’Osservatorio Governance della Sostenibilità, redatto da CSR Manager Network e ALTIS Università Cattolica, in collaborazione con Assonime[18], l’Italia è prima tra i Paesi membri dell’Unione Europea nel processo di integrazione della sostenibilità nella governance aziendale: è stato infatti rilevato che sulle 40 aziende quotate FTSE-MIB, ben 35 hanno eletto un Comitato interno al Consiglio di Amministrazione con il compito specifico di presidiare i temi di sostenibilità. In Germania il rapporto scende drasticamente a 4 su 30, mentre siamo a 14 su 35 in Spagna, a 29 su 40 rispettivamente e della Francia. Nel Regno Unito il rapporto è di 26 su 40.
La crescita del rapporto è stata particolarmente rapida, se solo si pensa che nel 2013 il medesimo rapporto dell’Osservatorio riportava un rapporto, a parità di campione di riferimento, del solo 25%. Uno dei fattori che hanno fatto da spinta per questa rapida crescita è da ritrovarsi senz’altro nell’introduzione d nuove normative in materia di rendicontazione non finanziaria: numerosi Comitati si sono costituiti proprio nel 2017, anno in cui è entrata in vigore la disciplina che ha introdotto l’obbligo di Dichiarazione Non Finanziaria[19].
I Comitati per la sostenibilità ricoprono un ruolo essenziale nei processi di integrazione della sostenibilità economica, sociale, ambientale all’interno della strategia delle imprese e svolgono funzioni di controllo e di indirizzo nei confronti del Consiglio di Amministrazione, al preciso scopo di implementare processi e iniziative di sviluppo sostenibile lungo la catena del valore.
Anche il report EY “Seize the Change Futuri Sostenibili”, condotto nel 2022 su un campione di oltre 300 aziende italiane appartenenti a diversi settori, ha confermato questa robusta tendenza alla transizione sostenibile, mettendo in evidenza come il 69% delle imprese interpellate abbia sviluppato negli ultimi anni un piano di sostenibilità aziendale e nel 44% dei casi (il 6% in più rispetto al 2019) fissato un vero e proprio piano strategico con precisi obiettivi quantitativi. Solo il 35% delle aziende ha però definito le tempistiche per il raggiungimento degli obiettivi. Tra le imprese che ancora non hanno un piano di sostenibilità, infine, solo il 15% dichiara di prevederne lo sviluppo in futuro.
Risulta del tutto evidente come la transizione sostenibile costituisca un elemento essenziale del vantaggio competitivo delle aziende. Un ulteriore passo da compiere, dopo aver acquisito definitiva consapevolezza circa i vantaggi indotti da politiche concretamente orientate alla riduzione dell’impatto ambientale e sociale delle imprese, è probabilmente quello che richiede il superamento dei modelli competitivi tradizionali, cosiddetti a somma zero, per ridefinire il concetto stesso di concorrenza all’interno della catena del valore e approcciare nuovi paradigmi di co-competizione attraverso i quali avviare strette collaborazioni anche con le aziende competitor. Per arrivare alla formazione di veri e propri cluster che coinvolgano non soltanto le imprese, ma anche i governi, autorità regolatorie, università, istituti di ricerca e ONG, in modo da affrontare insieme le nuove sfide della sostenibilità e realizzare così un sistema di creazione e diffusione di valore condiviso.
Il raggiungimento di tali obiettivi, ovvero la creazione di un vero e proprio “ecosistema sostenibile”, sarà realizzabile soltanto attraverso la progressiva implementazione di standard omogenei e chiari, cui non possono che affiancarsi sistemi di revisione esterni, affidati a organismi indipendenti, che evitino la tentazione di riprodurre meccanismi di sostenibilità apparenti o di mera facciata.
[1] Evolutasi negli ultimi 30 anni del secolo XIX, la teoria neoclassica, o marginalista, il cui corpo teorico venne sistematizzato da Alfred Marshall, fu la prima corrente dottrinale a sostenere che la massimizzazione del profitto dovesse rappresentare l’obiettivo principale di tutte le imprese. I postulati di tale scuola furono ripresi negli anni ’70 del XX secolo da M. Friedman, il quale affermò che la massimizzazione dei profitti fossero l’unica responsabilità sociale dell’impresa. Infatti, egli contestava il fatto che la demonizzazione dei profitti, partita dagli executives, avrebbe poi minacciato la stessa economia di mercato. Se i CEO, in qualità di individui, sono certamente liberi di compiere qualsiasi gesto filantropico, nel momento in cui agiscono sulla base del ruolo aziendale, debbono accettare un mutamento prospettico e, in qualità di agenti incaricati dagli azionisti, perseguire proprio l’obiettivo della massimizzazione dei profitti quale forma di massimizzazione della remunerazione degli investimenti di questi ultimi.
[2] Senza soffermarsi sulle classificazioni e i significati attribuiti alla locuzione stakeholder, basti ricordare che la chiave di lettura è che l’impresa ha necessità del sostegno di tutti gli stakeholders, cui deve in vario modo prestare attenzione, in funzione della possibilità di influenza di ciascuna categoria nei vari momenti del proprio ciclo vitale. Tale influenza è correlata alle caratteristiche di potere, legittimità e urgenza dei vari stakeholders e all’ottica di medio-lungo periodo.
[3] La teoria della creazione del valore introduce la massimizzazione del valore del capitale economico come obiettivo ultimo dell’agire imprenditoriale, in luogo dell’obiettivo di massimizzazione del profitto, durante la seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso. In tale prospettiva l’impresa deve essere assimilata ad un investimento in un qualsiasi bene: il valore del capitale dell’impresa può essere ottenuto, pertanto, attraverso l’attualizzazione dei flussi di cassa che la stessa genererà per l’investitore-azionista entro un orizzonte di tempo determinato. Tra i vari autori si rinvia, in particolare, a L. Guatri, La teoria di creazione del valore: una via europea, Milano, 1991; A. Renoldi, Valore dell’impresa, creazione di valore e struttura del capitale, Milano, 1997.
[4] Si legga, fra i più recenti e significativi contributi sul tema, S. Barile, L'impresa come sistema. Contributo sull'Approccio Sistemico Vitale (ASV), Torino, 2008.
[5] Si legga, fra tutti, di E. Freeman,fondatore della Stakeholder Theory, Strategic Management: a Stakeholder Approach, 1984.
[6] Si leggano E. Porter - M. Kramer, Creating Shared Value, Harvard Business Review, 2011.
[7] Il termine è stato coniato da J. Elkington. Partnerships from cannibals with forks: the triple bottom line of 21st-century business, in Environmental Quality Management, 1998, pagg. 37 e ss., scaricabile in https://edisciplinas.usp. br/pluginfile.php/5578099/mod_resource/content/1/Elkington_Triple_Bottom_Line.pdf
[8] Il Global Reporting Initative è un ente senza scopo di lucro nato con l’obiettivo di fornire supporto concreto alla rendicontazione di una performance sostenibile agli organizzatori di attività, aziende e istituzioni di qualsiasi dimensione in qualsiasi luogo del mondo. Fondato a Boston nel 1997, era inizialmente una divisione del CERES (Coalition for environmentally responsible economies) creata per sviluppare un sistema di contabilità sostenibile che permettesse alle aziende di tenere traccia del loro impatto ambientale. In questo modo per loro sarebbe stato più facile perseguire obiettivi all’interno di una responsabilità sociale più ampia. Il dipartimento GRI è stato poi riconosciuto come organismo indipendente nel 2002, quando l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) ha condiviso i suoi principi perché le nazioni facenti parte dell’organismo ne rispettassero le direttive. Negli anni a venire, il GRI si è sviluppato sempre di più, andando ad allargare il numero di attività a cui i suoi principi si rivolgono. Il GRI nasce a Boston, ma attualmente ha sede ad Amsterdam. Tra gli strumenti più importanti che la Global Reporting Initiative mette a disposizione delle attività globali ci sono i Global Reporting Initiative Standards, anche detti GRI Standard. Si tratta sostanzialmente di parametri di rendicontazione della sostenibilità, che permettono alle organizzazioni di misurare in maniera univoca e uniforme il loro impatto sul pianeta Terra e di renderlo pubblico in un formato comprensibile anche dai non esperti del settore. Nel gennaio 2023 è entrata in vigore la nuova versione di standard per la rendicontazione della sostenibilità le cui principali innovazioni riguardano gli Universal Standard, che sono le fondamenta del processo di rendicontazione. In particolare sono stati introdotti: il GRI 1, Foundation (in sostituzione del GRI 101: 2016) che introduce lo scopo e il sistema di rendicontazione GRI, stabilendo i concetti chiave, i requisiti e i principi a cui tutte le organizzazioni devono attenersi per rendicontare in conformità con i GRI Standards; il GRI 2, General Disclosures (in sostituzione del GRI 102: 2016) che disciplina le informative aggiornate e consolidate relative alle pratiche di rendicontazione, alle politiche sul lavoro, alla governance, strategie e policy aziendali, coinvolgimento degli stakeholder; infine, il GRI 3, sui Temi materiali, Temi materiali (in sostituzione del GRI 103: 2016), che fornisce una guida dettagliata per determinare i temi materiali e, inoltre, spiega come usare gli Standard di settore (altra grande novità) in questo processo. Con temi materiali si intendono gli argomenti che rappresentano l’impatto più significativo di un'organizzazione sull'economia, l'ambiente e le persone, incluso l'impatto sui loro diritti umani.
[9] Il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD), fondato nel 1995, è un'organizzazione guidata da CEO di oltre 200 aziende sostenibili leader a livello mondiale. È una piattaforma con la missione di guidare le aziende verso la transizione ecologica combinando obiettivi di protezione ambientale e crescita economica è anche collegato a 70 consigli d'affari nazionali e regionali e organizzazioni partner. L’organizzazione lavora per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) attraverso la strutturazione di una rete di partner locali in tutto il mondo lungo sei direttrici di azione: economia circolare, città e mobilità, clima ed energia, cibo, terra e acqua, persone, e ridefinizione del valore. Lavora non solo con aziende ma anche con governi, ONG, società civile ed una serie di altri attori. Questa vasta e articolata gamma di partners lo ha accreditato come punto di riferimento nel campo dell’armonizzazione dei sistemi di misurazione della sostenibilità
[10] Precedentemente il revisore legale o l’impresa di revisione contabile certificava solamente l’avvenuta presentazione della dichiarazione di carattere non finanziario (DNF) da parte delle aziende che rientravano nel campo di applicazione della NFRD.
[11] La culla delle società con scopo di beneficio comune è da rintracciarsi proprio negli Stati Uniti d’America ove, a partire dalla seconda metà dello scorso decennio, sono state approvate le prime leggi a sostegno della nascita e dello sviluppo di tali società, definite con l’espressione di «Benefit Corporation». Nell’Aprile 2010 il Maryland è stato il primo Stato federale ad approvare la legislazione per le Benefit Corporation, seguito da California, Hawaii, Illinois, Louisiana, Washington, Massachusetts, New Jersey, New York, Pennsylvania, South Carolina, Vermont, Virginia, Delaware, Colorado, Washington DC e Arkansas.
[12] La normativa Benefit definisce come portatori di interesse le persone, le comunità, i territori e l’ambiente, i beni e le attività culturali e sociali, gli enti e le associazioni e, in via residuale, tutti coloro che sono comunque coinvolti dall’attività di impresa. La normativa prevede altresì l’obbligo per gli amministratori di bilanciare l’interesse dei soci (shareholder) con gli interessi degli stakeholders (comma 380 dell’a art. 1, L. n. 208/2015).
[13] La disciplina, di respiro internazionale, sviluppatasi inizialmente negli USA è stata di recente introdotta anche in Colombia (2018), Porto Rico (2018), Ecuador (2019), Canada – British Columbia (2019), Perù (2020) e Ruanda (2021).
[14] Nel caso di società già esistente, è infatti sufficiente provvedere a modificare lo Statuto inserendo le clausole previste nello specifico per lo strumento giuridico.
[15] Gli ultimi dati ufficiali rilasciati da B Lab mostrano che le B Corp certificate sono oltre 5.700, suddivise tra 158 industrie in 85 nazioni. In Italia se ne contano quasi 150. Aboca, Alessi, Chiesi Farmaceutici, Davines, Fratelli Carli, Fileni e Illy sono solo alcune delle realtà italiane che possono fregiarsi del logo B Corp sui propri prodotti.
[16] Il termine è un gioco di parole che deriva da “whitewashing”, un concetto che si rifà al mondo cinematografico (quando venivano impiegati attori caucasici per qualsiasi ruolo, anche di personaggi di altre etnie), che significa in pratica usare informazioni fuorvianti per sorvolare su comportamenti scorretti. Letteralmente “dare una mano di bianco”… o di verde, in questo caso. Il termine viene fatto risalire agli anni ’60, quando l’industria alberghiera affisse i primi avvisi nelle camere d’albergo per chiedere agli ospiti di riutilizzare gli asciugamani, a salvaguardia dell’ambiente. In quel momento storico, l’obiettivo degli hotel era semplicemente quello di beneficiare di minori costi di lavanderia.
[17] Tra i numerosi casi, uno dei più noti riguarda ENI e, in particolare, lo spot di ENIdiesel+, trasmesso tra il 2016 e il 2019, che fu multato come “pratica pubblicitaria ingannevole”. Questo perché il prodotto veniva descritto come un carburante biologico, green e rinnovabile, ma dalle analisi effettuate queste affermazioni risultarono non del tutto veritiere. La sentenza è costata all’azienda energetica ben 5 milioni di euro di sanzione. Se in questi casi, però, si parlava ancora semplicemente di pubblicità ingannevole in senso lato, la prima sentenza italiana intervenuta ufficialmente a sanzionare il greenwashing è davvero recente, ovvero del novembre 2021, ed è stata emessa dal Tribunale di Gorizia per sanzionare Miko, un’azienda specializzata in tessuti e microfibre “naturali”. Questo precedente giuridico sembrava gettare le basi contro i green claim, ovvero le presunte e generiche qualità “sostenibili” dei prodotti, senza prove scientifiche a supporto delle virtù di ecocompatibilità affermate. A marzo 2022, però, il Tribunale di Gorizia ha accolto il reclamo di Miko e ha revocato l’ordinanza di primo grado ritenendo infondata l’azione di concorrenza sleale promossa da Alcantara nei confronti dell’azienda.
[18] Lo studio, risalente al novembre 2021, descrive le recenti evoluzioni delle forme di governance e gestione della sostenibilità, mettendole a confronto con gli anni precedenti e con i principali benchmark europei. È stato elaborato grazie al supporto di A2A, Enel, KPMG, Message, Pirelli e Terna.
[19] Si tratta del decreto legislativo del 30 dicembre 2016, n. 254 di Attuazione della direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2014, recante modifica alla direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni.
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