Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 12/05/2023 Scarica PDF
Brevi note sull'interazione tra caparra confirmatoria, risoluzione del contratto e risarcimento
Gaetano Anzani, Professore a contratto di Istituzioni di Diritto Privato nell'Università di PisaIl legislatore del 1942 ha inserito nella trama del Codice Civile, per il caso di inadempimento di una delle parti di un contratto, alcuni istituti connotati da funzioni sia di tutela, sia di autotutela del contraente adempiente: fermo il generale rimedio risarcitorio, sono stati previsti il diritto di recesso dal contratto con ritenzione della caparra confirmatoria, la clausola penale e la risoluzione stragiudiziale o giudiziale del contratto per inadempimento. L’effettività e la celerità della tutela, che rispondono a principi costituzionali e ad un’esigenza crescente dei traffici economici, hanno poi portato ad ampliare gli strumenti normativi a disposizione della parte adempiente, in particolare con forme di coercizione indiretta.
Dal canto suo, il giudice, nella moderna coscienza giuridica, non è e non può essere solo la bouche qui prononce la parole de la loi (espressione, peraltro, puramente ideologica)[1]. La giurisprudenza, anzi, appare sempre più consapevole di avere un ruolo anche “creativo”, talvolta fino a professare, senza falsi pudori, che i casi concreti sono risolti con regole costantemente plasmate sul sentire sociale e dotate di una forza corrispondente all’“effettività” della loro osservanza[2].
Con riguardo alle disfunzioni del sinallagma contrattuale provocate dall’inadempimento di una delle parti, il tema della relazione tra recesso con diritto a trattenere la caparra confirmatoria, da un lato, e risoluzione per inadempimento con diritto al risarcimento del danno, dall’altro, è tra quelli maggiormente indagati dalla giurisprudenza. Si tratta di un tema che offre un punto di osservazione privilegiato sulle direttrici ermeneutiche della Corte di Cassazione, la quale tenta di coniugare pragmatismo e rigore giuridico, anche con l’ausilio di una clausola generale di cui non si ha più timore, ossia della buona fede oggettiva: quest’ultima – com’è noto – si rivolge ad entrambe le parti dell’obbligazione ex art. 1175 c.c. e veicola nel sistema privatistico i principi costituzionali, tra i quali la solidarietà ex art. 2 Cost.[3]. Se è vero – come ben evidenziato da Carnelutti – che la funzione di un istituto giuridico «non è lo scopo, ma quel tanto di scopo che si attua nel risultato[,] cioè che mediante il mezzo può essere raggiunto»[4], può dirsi che la giurisprudenza ha rafforzato la funzione di tutela della caparra e della risoluzione grazie all’ampliamento del loro ambito applicativo e, quindi, delle ipotesi nelle quali è possibile realizzare il risultato a cui questi istituti tendono.
In primo luogo, la Suprema Corte, alla luce degli strumenti e delle dinamiche di pagamento che contraddistinguono la società moderna, ha attenuato il requisito della realità del negozio con cui venga pattuita una caparra, che è distinto dal contratto principale a cui pure accede. Ciò permette una più agevole e frequente applicazione dell’istituto.
In Cass. civ., 24 novembre 2022, n. 34641, ord., viene sì ribadito che il patto di caparra si perfeziona solo con la dazione in favore della controparte (e non di un terzo fiduciario) di una somma di denaro o di una quantità di altra cosa fungibile[5], ma – premesso che l’assegno bancario o circolare concretamente messo nella piena disponibilità del prenditore, a differenza della cambiale, costituisce un mezzo di pagamento[6], se del caso (in virtù dell’art. 1197, primo comma, c.c.) in alternativa al denaro contante[7] – viene chiarito che «anche la traditio di un assegno bancario, suscettibile di immediata presentazione per il pagamento, perfeziona il patto accessorio di natura reale…, sempre che la consegna – non l’incasso – abbia luogo prima dell’inadempimento. In tale ipotesi, sono differiti al momento dell’effettiva riscossione solo gli effetti previsti dall’art. 1385 c.c.», sebbene – viene aggiunto – sia «certamente onere del prenditore, dopo averne accettato la consegna, di presentare tempestivamente il titolo per il pagamento: un eventuale ritardo è contrario a correttezza e impedisce di imputare all’emittente il mancato pagamento dell’assegno, di recedere, per tale motivo, dal contratto o di sollevare l’eccezione di inadempimento riguardo al versamento della caparra…»[8]. Come statuito in Cass. civ., n. 17127/2011, cit., «ove l’assegno non venga posto in riscossione, il mancato buon fine dell’assegno bancario – che preclude il raggiungimento dello scopo proprio della consegna della caparra – è riferibile unicamente al comportamento del prenditore», sicché l’obbligazione di pagamento si estingue e gli effetti della caparra restano salvi[9].
In secondo luogo, la giurisprudenza, anche con un intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ha evidenziato i profili funzionali che accostano caparra e risoluzione di un contratto in caso di inadempimento di una delle parti e, inoltre, ha delineato i margini della possibile interazione sostanziale e processuale tra i due istituti.
In Cass. civ., Sez. Un., 14 gennaio 2009, n. 553 (Cons. Est., Dott. Giacomo Travaglino), è stato anzitutto premesso che, in base ad orientamenti consolidati:
(a) l’inadempimento di una parte idoneo a giustificare il recesso della controparte adempiente dal contratto e, per di più, la ritenzione della caparra ottenuta o il diritto a ricevere il doppio di quella data è il medesimo che potrebbe legittimare la risoluzione del contratto per inadempimento, ossia un inadempimento di non scarsa importanza;
(b) la parte che ha ricevuto la caparra ed è destinataria di una richiesta di restituzione ex art. 1385, secondo comma, c.c. a causa di un asserito inadempimento ad essa riferibile può limitarsi ad eccepire a propria volta l’inadempimento della controparte per trattenere almeno temporaneamente la caparra ricevuta, senza bisogno di proporre domanda riconvenzionale di risarcimento del danno secondo le regole generali ai sensi del terzo comma della medesima disposizione;
(c) in caso di risoluzione del contratto per inadempimento,
(c1) se la parte inadempiente è quella che aveva ricevuto la caparra, detta parte sarà tenuta a restituire quest’ultima, in quanto divenuta priva di causa, alla controparte adempiente, e – siccome la restituzione non ha funzione risarcitoria – si applica il principio nominalistico, mentre
(c2) se la parte inadempiente è quella che aveva dato la caparra, la controparte adempiente che lamenti un danno ha diritto a trattenerla, in funzione di garanzia dell’obbligazione risarcitoria sorta in suo favore, fino alla conclusione del procedimento di liquidazione di tale danno conseguente alla risoluzione, ossia fino al momento in cui potrà operare l’istituto della compensazione tra l’obbligo restitutorio della caparra divenuta priva di causa ed il diritto al risarcimento dei danni – anche eventualmente da mora – dei quali la medesima parte diviene contestualmente titolare (sicché è evidente come la caparra, anche sotto questo aspetto, assolva a plurime funzioni, a seconda del momento del rapporto negoziale in cui venga in rilievo).
Le Sezioni Unite, poi, hanno preliminarmente condiviso l’opinione dottrinale secondo cui il recesso della parte adempiente, sul piano strutturale, non si contrappone ad altri strumenti idonei a conseguire in via stragiudiziale e di diritto, a fronte dell’inadempimento della controparte, l’effetto risolutivo del contratto. Il recesso, anzi, è solo una «”modalità” (ulteriore) di risoluzione del contratto, destinata ad operare, indipendentemente dall’esistenza di un termine essenziale o di una diffida ad adempiere, mercé la semplice comunicazione all’altra parte di una volontà “caducatoria” degli effetti negoziali – operante, nella sostanza, attraverso un meccanismo analogo a quello che regola la clausola risolutiva espressa». Ciò ha condotto il Supremo Collegio ad affermare che «il diritto di recesso è una evidente forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppone pur sempre l’inadempimento della controparte avente i medesimi caratteri dell’inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale: esso costituisce null’altro che uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, alla quale lo accomunano tanto i presupposti (l’inadempimento della controparte) quanto le conseguenze (la caducazione ex tunc degli effetti del contratto)».
Il presupposto comune al recesso ed alla risoluzione, però, deve consistere – com’è stato opportunamente precisato – in «[u]n inadempimento imputabile, poiché in assenza di esso viene meno il più generale presupposto richiesto dalla norma di cui all’art. 1218 [c.c.] affinché il debitore possa considerarsi tenuto al risarcimento del danno, del quale la caparra costituisce (almeno in uno dei suoi polifoni aspetti funzionali) liquidazione anticipata, convenzionale, forfetaria: la impossibilità dell’esecuzione della prestazione per causa non imputabile determina la risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1218, 1256 e 1463 c.c.) e la conseguente caducazione dell’intera convenzione negoziale, ivi compresa quella, accessoria, istitutiva della caparra[10]. … Pertanto[,] … occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del negozio». E deve trattarsi di un inadempimento grave, perché altrimenti «si finirebbe, da un canto, per indebolire, anziché rafforzare, il vincolo negoziale – consentendosi alla parte di sottrarvisi capricciosamente al solo annunciarsi di qualsivoglia, minima difformità di esecuzione …; dall’altro, … in presenza di un inadempimento lieve il contraente incolpevole potrebbe recedere dal contratto, ma non provocarne la risoluzione in via ordinaria (con buona pace della evidente alternatività “integrale” dei rimedi rispettivamente modellati dal comma 2 e dal comma 3 [dell’art. 1385 c.c.], e salva, peraltro, la contraria volontà delle parti che, con apposita clausola, si determinino ad attribuire rilevanza anche ad ipotesi di inadempimento lieve, attraverso una specificazione ed eterodeterminazione del regolamento negoziale espressamente convenuto in forme dissonanti rispetto allo schema legislativo)».
«Se un’alternativa si pone, allora, per la parte non inadempiente, questa» – hanno aggiunto le Sezioni Unite – «non è tanto limitata ad una scelta (in realtà, del tutto fungibile quoad effecta) tra recesso e risoluzione, ma si estende necessariamente a quella tra l’incamerare la caparra (o il suo doppio), così ponendo fine alla sua vicenda negoziale, e l’instaurare un apposito giudizio per conseguire … una più congrua quantificazione di danni dei quali egli si riserva (fondatamente) di offrire la prova». È stata ritenuta del tutto infondata, quindi, «la teoria della caparra intesa quale misura minima del danno risarcibile da riconoscersi comunque alla parte non inadempiente[,] benché questa si sia avvalsa, in sede di introduzione del giudizio, dei rimedi ordinari di tutela. … Soltanto in tema di clausola penale, difatti, il legislatore ha contemplato, per la parte (sia pur previo patto espresso), la facoltà di agire in giudizio per la risarcibilità del danno ulteriore, con ciò presupponendosi che la somma dovuta a titolo di penale risulti comunque acquisita al patrimonio dell’adempiente, il quale ha la ulteriore facoltà di provare ad incrementare la posta risarcitoria tutte le volte che, in giudizio, egli sia in grado di provare l’ulteriore danno sofferto».
Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno concluso che «l’originaria domanda di (sola) risoluzione non può ritenersi legittimamente convertibile, in sede di appello, in domanda di (solo) recesso, … soprattutto perché tale modifica potrebbe risultare callidamente e surrettiziamente funzionale a riattivare il meccanismo legale di cui all’art. 1385 c.c., comma 2 (al recesso consegue, ex lege, il diritto alla ritenzione della caparra), ormai definitivamente caducato per via delle preclusioni processuali definitivamente prodottesi a seguito della proposizione della domanda di risoluzione sic et simpliciter»; e che «[s]pecularmente inammissibile deve ritenersi la domanda di risoluzione giudiziale introdotta dopo essersi avvalsi della tutela speciale ex art. 1385 c.c., comma 2, intanto perché, dopo aver esercitato il diritto di recesso, il contratto è già risolto, ma soprattutto poiché, ancora una volta, con tale trasformazione si cercherebbe surrettiziamente di ampliare l’ambito risarcitorio in sede processuale, dopo aver incamerato la caparra, indirizzandolo verso una più pingue (ma ormai intempestiva) richiesta di risarcimento integrale».
La possibilità di tramutare una domanda di accertamento della risoluzione, già avvenuta per l’inutile decorso del termine assegnato con una diffida ad adempiere, in domanda di recesso, infine, non potrebbe essere guadagnata tramite una rinuncia della parte adempiente all’effetto risolutivo, perché tale effetto discende da una manifestazione di volontà del diffidante che contiene già la valutazione attuale e attualizzata del suo interesse allo scioglimento del contratto, si realizza automaticamente allo spirare del termine concesso alla controparte per adempiere e, ormai, è indisponibile ad opera del diffidante per la necessità di tutelare anche il legittimo affidamento nella cessazione degli effetti negoziali riferibile alla parte inadempiente, la quale potrebbe essere indotta «ad un conseguente riassetto della propria complessiva situazione patrimoniale». Il che emerge pure dal confronto con le discipline degli istituti del termine essenziale e della clausola risolutiva espressa, nonché della risoluzione giudiziale.
Ovviamente, il giudice – come precisato dalle Sezioni Unite – ha il compito di qualificare correttamente la domanda proposta come domanda di risoluzione piuttosto che di recesso, senza essere strettamente vincolato dalle espressioni letterali utilizzate dall’attore. Resta nondimeno fermo che la domanda definita dalla parte “di risoluzione”, a prescindere da come vada rettamente qualificata, non potrà essere integrata nel corso del processo con domande complementari di risarcimento o di ritenzione della caparra, in quanto nuove.
Bisogna sùbito avvertire che le Sezioni Unite si sono direttamente occupate, per escluderne l’ammissibilità, solo dell’ipotesi di consecuzione, nel corso di un processo, tra una domanda di accertamento della risoluzione di un contratto (ma lo stesso ragionamento potrebbe valere per una domanda di risoluzione giudiziale) ed una domanda di recesso, o viceversa. In quell’occasione, invece, la Cassazione non si è occupata anche dell’ipotesi in cui la parte adempiente, dopo aver ottenuto lo scioglimento del contratto in via stragiudiziale con uno strumento di risoluzione o con l’esercizio di un recesso, avanzi per la prima volta una domanda giudiziale per conseguire una tutela che, per un verso, presuppone l’avvenuta cessazione degli effetti negoziali, ma, per altro verso, è diversa da quella pianamente ricollegata allo specifico mezzo adoperato per determinare tale cessazione: ciò avviene qualora la parte adempiente chieda o il risarcimento dei danni secondo le regole generali dopo aver esercitato il recesso dal contratto, o la ritenzione della caparra dopo aver provocato la risoluzione del contratto.
La successiva giurisprudenza di legittimità non si è sempre perfettamente uniformata all’insegnamento delle Sezioni Unite.
In Cass. civ., 3 novembre 2017, n. 26206 (Cons. Est., Dott. Vincenzo Correnti), la Suprema Corte ha affermato che la parte adempiente, la quale abbia ricevuto una caparra confirmatoria e abbia provocato la risoluzione del contratto mediante diffida ad adempiere, può poi agire in giudizio per esercitare il diritto di recesso e ritenere definitivamente la caparra, senza ottenere il risarcimento del danno. Il che è coerente con l’omogeneità strutturale degli strumenti idonei a caducare gli effetti negoziali e non comporta la violazione dei principi processuali ostativi alla conversione di una domanda in un’altra. Tuttavia, in quest’occasione, la Cassazione sembra aver voluto giustificare la propria decisione con il richiamo all’orientamento favorevole alla rinunciabilità dell’effetto risolutivo del contratto, che, invece, le Sezioni Unite, nella pronuncia del 2009 sopra richiamata, non hanno inteso accogliere: viene citato il precedente di Cass. civ., 18 novembre 2002, n. 16221, in cui, per la verità, la Cassazione aveva affermato esplicitamente solo che la ritenzione della caparra sarebbe una tutela più ridotta del risarcimento del danno e, quindi, che la parte adempiente potrebbe invocarla anche dopo aver dapprima ottenuto o domandato la risoluzione del contratto in funzione di un pieno risarcimento del danno.
Di recente, i principi enunciati dalle Sezioni Unite sono stati ribaditi e precisati, con estrema chiarezza, in Cass. civ., 8 giugno 2022, n. 18392 (Cons. Est., Dott. Remo Caponi), in cui è stato affermato che:
(a) la lettera dell’art. 1385, secondo comma, c.c. non impone di ritenere che la ritenzione della caparra sia possibile solo a seguito dell’esercizio del diritto di recesso dal contratto e non anche a seguito della risoluzione dello stesso tramite una diffida ad adempiere e l’inutile decorso del termine concesso alla parte inadempiente per eseguire la prestazione, perché ciò contrasterebbe con una “ragionevole aspettativa di senso” rivolta al testo normativo;
(b) questo risultato ermeneutico, però, non può discendere dalla rinuncia all’effetto risolutivo prodottosi con la diffida ad adempiere, così da far rivivere la facoltà di recesso, perché il potere di sciogliere il contratto si è ormai estinto con la diffida;
(c) piuttosto, siccome la caparra, nonostante la risoluzione del contratto, mantiene la propria “conclamata poliedricità funzionale” pure sotto l’aspetto di una predeterminazione forfettaria della pretesa risarcitoria, che viene ad identificarsi nell’importo convenzionalmente stabilito, la parte adempiente, appunto per questa ragione ed in via stragiudiziale, continua a potersi avvalere della tutela offerta dall’istituto della caparra anche dopo aver già ottenuto la risoluzione del contratto tramite una diffida ad adempiere rimasta inevasa;
(d) sul piano processuale, quindi, è ben possibile che la parte adempiente proponga sia una domanda di mero accertamento dell’effetto risolutorio del contratto già realizzatosi con lo strumento della diffida ad adempiere, sia un’altra abbinata domanda volta a vedersi contestualmente riconosciuto il diritto (non al risarcimento integrale dei danni, bensì unicamente) alla ritenzione della caparra ricevuta o, a seconda dei casi, alla corresponsione del doppio di quella data alla controparte;
(e) in ambito processuale, nondimeno, resta fermo che, dopo che siano state proposte in giudizio un’azione di risoluzione del contratto ed un’abbinata azione di risarcimento dei danni, non è possibile tramutarle, rispettivamente, in un’azione di recesso ed in un’abbinata azione di ritenzione della caparra o – a seconda dei casi – di pagamento del doppio di essa (come se la domanda risarcitoria potesse essere “ridotta” alla ritenzione della caparra, con rinuncia ad un maggiore risarcimento), perché altrimenti la caparra perderebbe la funzione di predeterminare convenzionalmente il risarcimento per evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso.
La giurisprudenza, allora, ha cercato di svolgere al meglio il compito, da un lato, di tradurre le istanze di adeguatezza della tutela provenienti dalla comunità sociale in interpretazioni evolutive e spesso correttive degli istituti approntati dal legislatore e, dall’altro, di armonizzare tali istituti anche in una prospettiva di proficua interazione, con attenzione non solo ai risvolti di diritto sostanziale, ma anche a quelli di diritto processuale, in un’ottica di ragionevole durata e di economicità del giudizio.
[1] Sulle varie sensibilità in materia, v. P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in Riv. dir. proc., 1939, I, 105, che si mostrava ancora cauto.
Tuttavia, nell’alternativa leibniziana tra ars inveniendi, cioè l’arte di scoprire qualcosa che prima era ignoto eppure già presente, e ars combinatoria, cioè l’arte di comporre dati di conoscenze già acquisite per escogitare qualcosa che prima era inesistente, taluno vede la funzione giudiziale non nell’elaborazione di regole ex novo, bensì nella scoperta di una regola implicita nel sistema alla cui stregua rendere giustizia. Per un verso, «[l]e eventuali valutazioni degli interessi in gioco, che orientino il giudice nella scelta fra diverse soluzioni interpretative, tutte coerenti con il dettato legislativo, sono pienamente compatibili con ... la sua funzione». Per altro verso, «il dettato legislativo rappresenta l’invalicabile limite oltre il quale il giudice non può spingere le proprie valutazioni circa gli interessi cui prestare protezione». Così si legge in F. Galgano, La giurisprudenza fra ars inveniendi e ars combinatoria, in Contr. e impr., 2012, 77, spec. 84 ss., 87, 89.
L’interpretazione e l’applicazione della legge, però, sono anche, e forse soprattutto, ars combinatoria. In primo luogo, non vanno sottovalutate le reciproche influenze tra la fase di ricostruzione di un determinato fatto storico, la fase di ricostruzione delle plurime fattispecie giuridiche astratte nelle quali tale fatto potrebbe essere sussunto, e la fase del confronto tra il fatto e le varie fattispecie. In secondo luogo, l’operatore giuridico combina sempre enunciati e concetti, così come si avvale di tutti gli strumenti intellettuali necessari a concretizzare una norma. «È del tutto vano pensare di rinvenire in un singolo enunciato legislativo la regola completa del rapporto», dato che «il porsi della legge come sistema implica che il significato dell’enunciato legislativo venga corretto, integrato, precisato dal significato di altri enunciati ...». Così si legge in E. Russo, Ars inveniendi e ars combinatoria, in Contr. e impr., 2012, 627, spec. 634 ss.
[2] Cfr., in giurisprudenza, Cass. civ., 23 gennaio 2014, n. 1361, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 396, con nota di A. Gorgoni. In Cass. civ., 8 giugno 2022, n. 18392 (nella banca dati on line del sistema DeJure), resa in materia di caparra confirmatoria e di cui si dirà ancora infra, si legge che «uno dei principali difetti dell’art. 12 preleggi» è «l’idea che sia possibile scoprire un senso che di per sé sia “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. In realtà, il significato che nel mondo del diritto si è tenuti a discernere è quello che si rende (più o meno) palese dalle ragionevoli aspettative di senso che i casi della vita rivolgono ai testi normativi mentre – attraverso le opere dei giuristi – vanno alla ricerca della loro disciplina giuridica».
Sul principio di effettività, che «contribuisce alla conversione del fatto in diritto», così da «[f]are coincidere la forma con la sostanza nella garanzia dei diritti e nell’attuazione dei doveri», v., in dottrina, G. Vettori, Persona e Mercato al tempo della pandemia, in Persona e Mercato, 2020, 8.
[3] In dottrina, v. U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. di dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu-F. Messineo, continuato da L. Mengoni, XVI, t. 1, Il comportamento del creditore, Milano, 1974, passim; S. Rodotà (Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, 111 ss.), il quale (alle pagg. 132 ss.) precisa che la portata della buona fede si estende anche alle obbligazioni di fonte non negoziale; A. di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. Cod. Civ. V. Scialoja-G. Branca, a cura di F. Galgano, sub artt. 1173-1176, Bologna-Roma, 1988, 116 ss.; F.D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, spec. 543 ss.
In giurisprudenza, la solidarietà, tramite la buona fede, è stata posta a fondamento dei revirement sulla rilevabilità ex officio della manifesta eccessività della penale ai sensi dell’art. 1384 c.c. [cfr. Cass. civ., Sez. Un., 13 settembre 2005, n. 18128 (in Corr. giur., 2005, 1534, con nota di A. di Majo), alla quale ha fatto seguito Cass. civ., 28 settembre 2006, n. 21066 (in Corr. giur., 2007, 46, con nota di F. Agnino)], sulla non frazionabilità in plurime richieste di adempimento della tutela giurisdizionale per un unico credito, o per i distinti crediti relativi al capitale ed agli interessi, ad opera del creditore (posto che la portata della buona fede investe altresì l’eventuale fase della tutela processuale delle situazioni soggettive che trovano causa nel contratto) [per la prima ipotesi, cfr. Cass. civ., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726 (in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 458, con note di A. Finessi e F. Cossignani) e Cass. civ., 22 dicembre 2011, n. 28286 (in Danno e resp., 2012, 1123, con nota di A. Rossi); per la seconda ipotesi, cfr. Trib. Foggia, 3 febbraio 2012 (in I contratti, 2012, 803, con nota di G. Petti)], sull’efficacia solutoria del pagamento mediante titoli di credito [cfr. Cass. civ., Sez. Un., 18 dicembre 2007, n. 26617, in Corr. giur., 2008, 500, con nota di A. di Majo] e sulla domanda di accertamento selettivo delle nullità dei singoli ordini di investimento in caso di nullità protettiva del contratto-quadro per mancanza di forma (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 4 novembre 2019, n. 28314). Cfr. anche Cass. civ., 18 ottobre 2004, n. 20399, in I contratti, 2005, 429, con nota di M. Selvini.
[4] Così F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, 3a ed., Roma, 1951, XIV ss., il quale precisa che «[i]n verità la funzione non è né lo scopo senza il risultato né il risultato senza lo scopo, ma il rapporto o la proporzione tra l’uno e l’altro».
[5] In tal senso, cfr. anche Cass. civ., 28 febbraio 2018, n. 4661.
Se una parte (detta cauzionante) consegna beni fungibili, di solito ad un terzo o anche alla controparte, a garanzia dell’eventuale obbligo di risarcire i danni cagionati con il proprio inadempimento all’altra parte, si perfeziona non una caparra confirmatoria, bensì il differente istituto del deposito fiduciario o cauzionale: cfr. Cass. civ., 6 febbraio 2013, n. 2832; Cass. civ., 4 marzo 2004, n. 4411.
La cauzione può nondimeno trasformarsi in caparra in un secondo tempo: cfr. Trib. Bari, 4 giugno 2015, n. 2572.
[6] Cfr. Cass. civ., 30 luglio 2009, n. 17749 (in cui si precisa che la consegna di un assegno, salva diversa volontà delle parti, si intende pro solvendo) e Cass. civ., 17 dicembre 2019, n. 33428 (da cui si desume che l’assegno, anche al fine di costituire una caparra, dev’essere messo nelle mani del prenditore).
[7] Cfr. Cass. civ., 9 agosto 2011, n. 17127.
[8] In senso conforme, cfr. già Cass. civ., 31 marzo 2022, n. 10366.
La dazione del bene costituente caparra, in ogni caso, deve avvenire antecedentemente alla scadenza delle obbligazioni di cui occorre rafforzare l’adempimento, altrimenti l’istituto perderebbe la propria funzione: nella giurisprudenza di merito, cfr. anche Trib. Ancona, 28 dicembre 2021, n. 1702.
[9] In senso conforme, cfr. anche Cass. civ., n. 33428/2019, cit.
[10] L’«inadempimento» è una mancata o inesatta esecuzione della prestazione per causa imputabile almeno alla colpa del debitore. Il criterio d’imputazione dell’inadempimento, però, si esaurisce nel «mancato adempimento», ossia nell’elemento oggettivo della mancanza o dell’inesattezza materiale della prestazione, sebbene l’elemento soggettivo della colpevolezza, nella dimensione del diritto sostanziale, contribuisca ad integrare l’inadempienza. V. U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. di dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu-F. Messineo, continuato da L. Mengoni, XVI, t. 2, Il comportamento del debitore, Milano, 1984, 78; L. Bigliazzi Geri-U. Breccia-F.D. Busnelli-U. Natoli, Diritto Civile, III, Obbligazioni e contratti, Torino, 1992, 142.
La prova richiesta al debitore dall’art. 1218 c.c. esenta da conseguenze giuridiche sfavorevoli e, perciò, viene spesso definita “liberatoria”. Tuttavia, l’elemento soggettivo – come si è detto – è costitutivo della responsabilità al pari degli elementi oggettivi, sicché al debitore, nel giudizio instaurato dal creditore, tocca dimostrare che la fattispecie della responsabilità non si è perfezionata, non un fatto estintivo o impeditivo della stessa. In proposito, v. G. Anzani, Raggio protettivo e funzioni delle due specie di responsabilità civile, in Jus civile, 2022, 1263.
Contra, con riguardo all’art. 1225 del previgente Codice Civile, F. Carnelutti (Appunti sulle obbligazioni, II, Distinzione tra colpa contrattuale e colpa extracontrattuale, in Riv. dir. comm., 1915, 620 ss., spec. 622 ss.), che attribuiva a questa disposizione natura sostanziale, in quanto avrebbe imposto di considerare l’elemento della colpa quale fatto (non costitutivo, bensì) impeditivo della responsabilità, e ne propugnava l’applicazione analogica anche in area aquiliana. Anche secondo A. Nicolussi (Voce «Obblighi di protezione», in Enc. Dir., Annali, VIII, Milano, 2015, 659 ss.), «la colpa è elemento costitutivo soltanto della responsabilità extracontrattuale …, mentre la responsabilità da violazione di obblighi è connotata da una diversa fattispecie alla quale la colpa è estranea. Infatti, a norma dell’art. 1218 c.c., il fatto costitutivo della responsabilità, coerentemente coll’esistenza stessa del vincolo, è il semplice inadempimento o il ritardo, senza bisogno della colpevolezza. La (mancanza di) colpa rileva in via eventuale ad integrare l’elemento impeditivo della impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile, il quale è altresì modo di estinzione dello stesso rapporto obbligatorio».
L’obbligazione risarcitoria rientrante tra i vari effetti tipici della responsabilità da inadempimento, poi, ha come elementi costitutivi sia un inadempimento, sia un danno cagionato da quest’ultimo al creditore.
Secondo M. Giorgianni [Voce «Inadempimento (Diritto privato)», in Enc. Dir., XX, Milano, 1970, 888], tuttavia, «può affermarsi che l’«imputabilità» dell’inadempimento costituisce il necessario presupposto del solo risarcimento del danno. L’art. 1218 si pone, perciò, esattamente sullo stesso piano dell’art. 2043 che regola le conseguenze della responsabilità cosiddetta extracontrattuale. Se volesse trovarsi un fondamento teorico alla ragione per la quale solo il risarcimento del danno presuppone la colpa del debitore, mentre le altre conseguenze dell’inadempimento ne prescindono, potrebbe osservarsi che i rimedi posti a disposizione del creditore hanno un diverso presupposto a seconda che colpiscano la violazione del dovere consumata dal debitore, o tentino invece di realizzare l’interesse del creditore. Il risarcimento del danno costituisce appunto la tipica sanzione civile, ed essa viene applicata solo nei confronti del debitore colpevole ovvero «imputabile» ai sensi degli art[t]. 1176 e 1218, oltre che delle altre norme e principi».
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