CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 03/11/2021 Scarica PDF
Il rapporto di patronage nelle procedure concorsuali
Francesco Aliprandi, Serena Maurutto, Alessandro Turchi, Francesco Aliprandi, Dottore commercialista in Milano. Serena Maurutto, Docente a contratto presso il dipartimento di scienze aziendalistiche e Docente al Master Universitario di II livello "Crisi d'impresa e ristrutturazioni aziendali" presso l'Università degli Studi di Bergamo. Alessandro Turchi, Dottore commercialista in Milano e cultore di "Gestione d'impresa e creazione di valore" presso l'Università degli Studi di BergamoSommario: 1. Premessa 2. Evoluzione, qualificazione giuridica e funzionamento della lettera di gradimento 3. Efficacia giuridica 4. Collocamento analogico della fattispecie nell’ordinamento 5. Differenze tra patrocinio e fideiussione 6. Lettere forti 7. Lettere “deboli” 8. Il trattamento del patronage nelle procedure concorsuali 9. Conclusioni
1. Premessa
L’ampliamento dei mercati economico-finanziari ha condotto alla ricerca di forme e di strumenti di garanzia del credito commerciale flessibili, idonei a soddisfare e a conformarsi alle esigenze negoziali di soggetti privati appartenenti a ordinamenti giuridici differenti e affatto omogenei. La tutela del credito è, infatti, tra i principali obiettivi del diritto commerciale internazionale in quanto viene percepito come un rilevante strumento di moltiplicazione di ricchezza per l’economia globale.
A questo obiettivo sono asserviti diversi strumenti negoziali, con differenti intensità di ruolo ed efficacia nel time to market. Tra essi, mentre il contratto di surroga mira a promuovere un soddisfacimento immediato del credito e la cessione ha il compito di favorirne la circolazione, tra i tools posti a garanzia del credito medesimo la fideiussione e le altre forme di garanzia sono strumenti preposti ad attenuare il rischio intrinsecamente connesso alla durata del credito e all’altrettanto fisiologia incertezza del suo buon fine.
È proprio in questo contesto che trovano spazio e giustificazione giuridico-teleologica le c.d. lettere di patronage o di conforto – dette anche lettere di presentazione – che prendono forma e rilievo sostanziale a latere di operazioni di mutuo, di apertura di una linea di credito, ovvero della stipulazione di un contratto di finanziamento, e che contengono una dichiarazione epistolare attestante lo stato del debitore beneficiario delle somme emessa da un terzo soggetto che intrattiene con quest’ultimo particolari rapporti contrattuali[1].
Trattandosi di una fattispecie ibrida e non riconducibile ad alcun nomen juris, in dottrina è vivace il dibattito su quali siano gli effetti dell’inadempimento del patrocinato sul soggetto che ha rilasciato la lettera di conforto.
Salva, come vedremo, la diversa intensità delle conseguenze che sono da ricondursi a lettere con contenuto meramente dichiarativo, rispetto a quelle che, invece, presentano contenuti espressamente vincolanti, l’impossibilità di ricorrere ad una norma scritta rivela le maggiori criticità in sede di insolvenza dichiarata, ovvero quando la lettera di patrocinio è chiamata in causa nell’ambito di una procedura concorsuale in cui il curatore si rivolge al patronnant cercando un motivo di soddisfazione dei diritti del ceto creditorio.
Prima di comprendere quali sono i limiti entro i quali tali richieste possono essere debitamente formulate, è quanto mai opportuno effettuare una disamina dell’evoluzione della fattispecie e delle sue declinazioni concrete, anche in prospettiva comparata, in modo da restituirle contorni meno sfumati e dubbi.
2. Evoluzione, qualificazione giuridica e funzionamento della lettera di gradimento
Le lettere di patronage, la cui culla si ritrova all’interno degli ordinamenti di common law, si sono diffuse in Italia intorno agli anni Settanta[2] e, pur in assenza di espresso riconoscimento nel nostro ordinamento, trovano subito ampio impiego nella prassi commerciale, in particolare nell'ambito dei gruppi di società[3]. A quell’epoca si trattava di dichiarazioni con cui le multinazionali anglosassoni operanti in Italia riconoscevano una sorta di paternità “morale” dell’operazione, comunicando al creditore la loro partecipazione nella società debitrice[4].
Esse, pur denominate con molteplici nomina juris[5], trovano un’uniformità di contenuti che consentono di riconoscerne una diffusione rilevante nella prassi bancaria internazionale e, anche se non riconducibili ad omogeneità di standard, protocollo o schema comuni, assumono enunciazioni distinte e specifiche in relazione all’oggetto del singolo caso in cui sono declinate, unite dalla comune funzione di configurare una forma di compromesso tra la richiesta della banca di ricevere una fidejussione e l’indisponibilità del terzo soggetto – che in genere è la casa madre del beneficiario – di emetterla.
Nella gestione delle dinamiche finanziarie dei gruppi di società, gli istituti di credito che emettono linee di credito in favore delle controllate sempre più frequentemente richiedono alla capogruppo una conferma della ragionevolezza dell’adempimento delle obbligazioni della debitrice principale: è indubbia, infatti, la maggiore vis contrattuale di cui dispone la holding rispetto alla società controllata e, di conseguenza, la facilitazione nell’accesso al credito, con minori costi e oneri in capo alla finanziata.
Possiamo quindi affermare che per lettera di patronage si intenda, comunemente, un documento redatto in forma di lettera di intenti con contenuto variabile, che il patronnant rilascia a favore di una società che solitamente appartiene allo stesso gruppo societario, o su cui esercita un certo potere di controllo, per agevolarla nell'ottenimento o mantenimento di finanziamenti da parte di un ente creditizio o altro intermediario finanziario. La sua funzione è, perciò, diversa da quella di garantire l’adempimento del soggetto debitore, ma coincide con una sorta di rafforzamento della percezione del beneficiario erogante circa il fatto che il patrocinato farà fronte ai propri impegni.
In sostanza, le lettere di patronage sono strumenti giuridici diretti a rafforzare la protezione dei diritti del creditore ed il loro riconoscimento si giustifica per la concreta idoneità a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo quanto previsto dell'art. 1322, co. 2, c.c.
Secondo la citata fonte normativa civilistica, dalla quale il patronage rinviene inequivocabilmente la propria legittimità, la realizzazione di interessi meritevoli di tutela non deve avvenire necessariamente tramite i tipi forniti e disciplinati dall’ordinamento. Le parti rimangono, infatti, libere, secondo il principio di autonomia contrattuale, di determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge nel rispetto del principio di libertà di iniziativa economica privata ex art. 41, Cost.
La lettera di patronage ha come obiettivo principale quello di ingenerare nel terzo che eroga il credito alla società controllata, il convincimento del regolare adempimento dell’obbligazione da parte di quest’ultima. I benefici, tuttavia, non sono connessi soltanto alla dimensione soggettiva del giudizio di affidabilità.
Dal lato del patronnant, infatti, ovvero del soggetto che redige la lettera in favore della società controllata, va segnalato che lo strumento permette di evitare l’iscrizione al passivo del bilancio di importi consistenti che si avrebbe invece con la costituzione di garanzie tipiche, con la conseguenza di suscitare nei creditori e investitori diffidenza sullo stato finanziario del gruppo. Inoltre, non necessita della deliberazione assembleare richiesta altresì per la costituzione delle garanzie tipiche, ma è redatta ed inviata a cura degli amministratori. Tutto questo dota il procedimento di una evidente speditezza che da sempre è indispensabile nei rapporti commerciali per la conduzione dell’attività d’impresa con competitività ed efficienza.
Dal lato dell’ente erogante il credito, la banca ha, inoltre, la possibilità di venire a conoscenza della situazione patrimoniale e finanziaria della holding, della controllata e del gruppo nella sua interezza, potendo così valutare anche la convenienza dell’apertura di eventuali nuove linee di credito.
In merito alla natura della fattispecie, il dibattito è stato per lungo tempo alimentato dal dubbio tra l’ipotesi di inquadramento come contratto atipico o, in alternativa, quale negozio unilaterale, di una promessa del fatto del terzo o, infine, di mandato di credito.
L’istituto si avvia, oggi, ad imporsi quale forma di garanzia atipica, sostituendo il ruolo preponderante sino ad allora detenuto dalle garanzie ordinarie, onerose e strettamente vincolanti dal punto di vista della responsabilità, data la loro natura contrattuale dettagliatamente regolamentata dal Codice.
In ogni caso, inoltre, l’istituto va inserito nell’ambito dei rapporti di forza dei gruppi di società così come disciplinati dall’art. 2359 c.c.
Allo scopo di evidenziare l’esistenza di contratti atipici, vale la pena ricordare che sotto la vigenza del Codice civile del 1865, venivano utilizzate espressioni quali “contratti innominati” o “contratti non appartenenti ai tipi previsti”. Il contratto atipico rappresenta la più evidente espressione dell’autonomia privata, proprio come promana dai disposti dall’art.1322 c.c., e risponde all’esigenza pratica di non fossilizzare in schemi prefissati le fattispecie economico-finanziarie in continua evoluzione in ogni tipo di settore.
L’atipicità del contratto si contrappone al principio di tipicità vigente in altri settori del diritto civile, talché si possono evidenziare settori del diritto dove si può parlare di tipicità dei negozi, delle società, delle promesse unilaterali, che, peraltro, sono sottoposti a numerose critiche e tentativi di superamento di tale principio[6].
Pertanto, ritenuta ammissibile nel nostro ordinamento la presenza di fattispecie contrattuali atipiche ai sensi e per gli effetti dell’art. 1322 c.c., è doveroso affermare che, in ogni caso, non si può prescindere dal concetto di autonomia contrattuale che è alla base delle norme relative della formazione del contratto.
Nell’ambito delle garanzie personali, accanto alle garanzie tipiche quali la fideiussione, regolata dall’art. 1936 c.c. o al mandato di credito, sono nate e si sono diffuse nella prassi commerciale diverse figure quali il garantievertrag, la fideiussione omnibus, il sale & lease-back, nonché, appunto, le lettere di patronage. Tali fattispecie sono forme di garanzia dettate principalmente dall’esigenza o necessità di ampliare la possibilità di ottenere forme di credito o di finanziamento da parte degli operatori economici, e nelle quali si assiste a uno stretto legame tra causa di garanzia e causa di finanziamento. Tuttavia, per ognuna di tali fattispecie si pongono alcuni problemi comuni, non certamente dissimili da quelli che usualmente sorgono innanzi a nuove figure negoziali. In particolare, ci si pone il problema se si tratti di contratti realmente atipici dal punto di vista della qualificazione giuridica, e, conseguentemente, se siano o meno meritevoli di tutela, in base alle norme dell’ordinamento, e quale possa essere la disciplina a essi applicabile.
In estrema sintesi, alla luce delle opinioni espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza relativamente alle fattispecie di garanzie atipiche, sembra possibile affermare che dinnanzi a nuovi contratti, che conseguono un certo grado di tipicità sociale, il primo problema da porsi sia quello del loro inquadramento giuridico, nella consapevolezza che da tale scelta discende la soluzione dei problemi relativi alla disciplina applicabile.
Nell’ambito di questo processo ermeneutico, le opinioni espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza sono accomunate dalla considerazione che hanno del problema. Infatti, entrambe, in prima analisi, cercano di ricondurre le fattispecie atipiche nell’ambito di figure tipiche, e, solamente in un secondo momento, tentano di dare loro una diversa qualificazione giuridica in modo tale da potere inquadrare la fattispecie in esame nella categoria contrattuale più contigua.
3. Efficacia giuridica
Proprio in conseguenza al rilevante utilizzo nella prassi commerciale delle dichiarazioni di patronage, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si sono trovate ben presto a confrontarsi con il tema della loro efficacia giuridica[7].
Un primo orientamento cosiddetto “negazionista”, e a dire il vero decisamente minoritario[8], ne esclude la rilevanza giuridica per un duplice ordine di motivi. Il primo di natura soggettiva, attinente alla sfera psicologia delle parti, il secondo di matrice oggettiva: i) la rinunzia all’utilizzo alternativo di strumenti di garanzia espressamente previsti dall’ordinamento è letta come segno inequivocabile della volontà delle parti di non costituire alcun vincolo giuridico a carico del patronnant, ma di regolare in questo modo soltanto una sorta di correttezza commerciale; ii) la sostanziale difformità rispetto ad altre garanzie tipiche, come il mandato di credito o la fideiussione, è un elemento oggettivo che ne conferma la valenza di istituto “metagiuridico”[9]. Secondo tale primo orientamento, in nuce, l’impegno dichiarato andrebbe letto come fonte di un’obbligazione naturale il cui unico effetto sarebbe quello di far sorgere il diritto di ritenzione al destinatario verso il quale si realizzi l’adempimento spontaneo della prestazione.
Tale orientamento è stato ampiamente superato dalla dottrina più e meno recente[10]e dalla giurisprudenza stessa[11], che attribuiscono indubbia connotazione giuridica agli effetti di suddette dichiarazioni.
Le argomentazioni principali che si pongono alla base di questo secondo prevalente orientamento vertono sia sul fatto che una differente interpretazione contrasterebbe con i principi fondamentali dei sistemi di civil law, sia sulla constatazione dell’enorme diffusione dello strumento nella prassi ove il valore di condizione posta alla base dell’erogazione del credito mal si concilierebbe con il mero riconoscimento sociale del vincolo. Il terzo ordine di motivazioni posto a presupposto della c.d. “presunzione di giuridicità” della lettera di patronage, possiede una ratio attinente ai principi della logica, secondo i quali, considerato che i soggetti negoziali danno – in via ordinaria e comune – vita a rapporti e relazioni che trovano specifica regolamentazione in norme di diritto, parrebbe naturale ritenere che la dimostrazione di una diversa volontà delle parti costituisca un’eccezione da cui sorge un onere probatorio in capo al terzo. In altri termini, a patto di dimostrare una diversa volontà delle parti, il rapporto sorto sulla base e nei limiti della lettera di conforto dovrà intendersi come soggetto alle regole del diritto.
Il punto focale che ha portato a tale esclusione sta nell’espressa intenzione che viene fatta, attraverso la lettera, di non voler prestare garanzia. Inutile è cercare di interpretare qualsiasi altra chiave di lettura: le società sottoscrivono tale lettera proprio per evitare di legarsi con le banche a un vincolo contrattuale, per evitare altresì di dover pagare un debito nel caso di fallimento della società controllata. Se le società volessero un diverso accordo, differente sarebbe stata la modalità, come ad esempio i già citati mandato di credito o fideiussione.
4. Collocamento analogico della fattispecie nell’ordinamento
Se la valenza giuridica delle lettere in esame, a prescindere dal contenuto specifico e diversamente modulabile, è appurato che rappresenti un dato condiviso tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, la riconduzione analogica all’uno o all’altro istituto ivi espressamente disciplinato non lo è affatto. Il problema va detto, non è prettamente attinente alla teoria, ma presenta importanti risvolti di carattere pratico, proprio in vista della riconosciuta qualificazione giuridica della lettera e, allo stesso tempo, della natura della responsabilità del mittente. Tali criticità sono, altresì, esacerbate dal fatto che in una lettera possono essere presenti una pluralità di dichiarazioni che differiscono quanto a diversa intensità di impegno connesso. Accade, infatti, non raramente di incontrare un intreccio di mere dichiarazioni assertive, o di scienza, e di affermazioni che comportano l’assunzione di vere e proprie obbligazioni in capo all’estensore.
E, allo stesso modo di quanto accade a fattispecie prive di un consolidato, quand’anche non esplicitato, fondamento giuridico, anche con le lettere di patronage in dottrina si è tentato di ricondurre ad unità l’istituto associandolo, in particolare, ora al mandato di credito, ora alla fideiussione, ora alla promessa del fatto del terzo, o ancora al contratto con obbligazioni in capo al solo proponente e, da ultimo, al contratto atipico a prestazioni corrispettive, che si perfeziona ai sensi dell’articolo 1327 c.c.
In relazione alla sostenuta equipollenza tra lettera di patronage e mandato di credito[12], il contratto si perfezionerebbe per facta concludentia, esclusa l’imprescindibilità a tale scopo di un’espressa menzione dell’obbligo del richiedente di assumere le obbligazioni proprie del fideiussore. Tale effetto, pertanto, deriverebbe ex lege dal conferimento dell’incarico[13].
Maggiori adesioni ha ottenuto la posizione assunta dai commentatori che hanno ritenuto di ricondurre le lettere di patronage entro il perimetro della promessa del fatto del terzo[14], poggiando sulla constatazione di uniformità della ratio delle due fattispecie che rispondono alla comune esigenza di allocare il rischio di una data operazione economica, da un lato, e sul medesimo obbligo indennitario che sorge in capo al dichiarante nell’ipotesi di inadempimento incolpevole – per caso fortuito, forza maggiore o impossibilità sopravvenuta – del patrocinato[15].
Verso la fine del Secolo scorso le dichiarazioni di patronage hanno iniziato ad essere avvicinate, nelle pronunce del Giudice delle leggi, allo schema del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente di cui all’art. 1333 c.c.[16]
La Cassazione ha, infatti, in molteplici circostanze ritenuto che tale fattispecie si adattasse perfettamente alle lettere di patronage forti, ovvero dotate di contenuto impegnativo ritenendo che non sussisterebbero motivi per dubitare dell’efficacia vincolante delle dichiarazioni rese dal proponente e riconoscendo, così, la medesima efficacia al contratto con obbligazioni esclusivamente in capo al terzo[17].
Nonostante tale tesi sia stata in passato oggetto di critiche legate alla considerazione che il patrocinante assume i suoi obblighi in cambio di una controprestazione del destinatario delle lettere, consistente nell’erogazione del finanziamento al patrocinato, successive pronunce hanno riproposto l’ipotesi ricostruttiva delle lettere “forti” come fattispecie negoziali con causa di garanzia che si perfezionano secondo lo schema dell’art. 1333.
Secondo ulteriore orientamento, la dichiarazione impegnativa di conforto del patronnant configurerebbe, invece, una promessa del fatto proprio del dichiarante, inserita in un rapporto negoziale che ha ad oggetto una prestazione di facere atipica volta a realizzare indirettamente il risultato del soddisfacimento delle pretese creditorie. La violazione dell’obbligo del patronnant, laddove fosse in tal modo configurato, nell’ipotesi di inadempimento della prestazione restitutoria del patrocinato, esporrebbe il patrocinante a responsabilità di tipo contrattuale. La sussistenza di una responsabilità di tale natura, presupporrebbe perciò l’accertamento del nesso eziologico tra l’inadempimento dell’obbligo del patronnant e l’inadempimento dell’obbligo del patrocinato, da effettuarsi attraverso un giudizio fattuale, teso a rilevare l’efficienza causale dell’inadempimento del patronnant sull’adempimento del patrocinato, e attraverso un successivo giudizio di tipo ipotetico-contrattuale, volto ad accertare l’idoneità dell’inadempimento da parte patronnant ad evitare l’incapacità solutoria del patrocinato e il conseguente danno del finanziatore.
Altra parte della dottrina, qualifica l’impegno del patronnant come obbligazione di risultato che coincide con l’adempimento della prestazione restitutoria da parte del patrocinato. La responsabilità del dichiarante, in tal caso, sorgerebbe per effetto del mancato conseguimento, da parte del finanziatore, della prestazione dal debitore, a prescindere dai mezzi di diligenza e professionalità impegnati dal patronnant per consentire al patrocinato l’adempimento dell’obbligazione restitutoria.
Infine, è risultato maggioritario l’orientamento dottrinale, confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la prestazione del patronnant va riportata entro i confini dei comportamenti che devono essere posti in essere con i mezzi di diligenza richiesti dalla natura dell’affare, dall’esperienza, dalla qualità e dalla professionalità del soggetto obbligato; sicché deve ritenersi sussistente la responsabilità del patronnant nell’ipotesi di prestazione non diligente eseguita in violazione del disposto di cui all’art. 1176 c.c.
5. Differenze tra patrocinio e fideiussione
Come abbiamo visto, la lettera di patronage è una dichiarazione in forma epistolare con la quale una società esprime il proprio gradimento a favore di un’altra – che solitamente appartiene allo stesso gruppo o su cui esercita un potere di controllo ex art. 2359 c.c. – allo scopo di favorire la concessione di finanziamenti di diversa natura da parte di un istituto di credito.
L’istituto della fideiussione, disciplinato dagli artt. 1936 e seguenti c.c., è, invece, un negozio giuridico in base al quale un soggetto si obbliga personalmente verso il creditore, garantendo l’adempimento del debito qualora il debitore si rivelasse inadempiente.
Se non sorge alcun dubbio circa la lettera di patronage debole, data la natura esclusivamente dichiarativa della stessa, il dibattito si è concentrato sul patronage forte e, in particolare, sulla natura e la portata che a seguito della stessa dovessero essere fatti gravare sul patronnant.
Secondo l’orientamento della giurisprudenza prevalente, la promessa del fatto del terzo ha un contenuto complesso, poiché contiene due obbligazioni: una principale di facere e una accessoria di dare. La prima implica il compimento di una attività di convincimento da parte del promittente, che deve adoperarsi con diligenza e correttezza, affinché il terzo si obblighi a fare o compia il fatto promesso. La seconda, invece, implica corrispondere l’indennizzo.
La distinzione tra lettera di patronage forte e fideiussione appare, a questo punto, chiara, alla luce del rilievo secondo cui la prima nel caso di insolvibilità implicherebbe un obbligo di mero indennizzo in capo al terzo estensore, ma mai l’impegno di eseguire personalmente la prestazione in luogo del debitore inadempiente. Gli obblighi di facere o dare hanno ad oggetto prestazioni dal contenuto diverso da quello gravante sul debitore principale, e hanno come effetto quello di far sorgere in capo al garante, in caso di inadempimento, un obbligo risarcitorio nei confronti del destinatario della lettera di patronage.
La differenza tra fideiussione e patronage emerge, altresì, dall’autonomia degli impegni che il patrocinante assume rispetto ai debiti del patrocinato.
L’elemento dell’accessorietà, tipico della fideiussione, da intendersi come la stretta connessione tra l’adempimento del debitore e l’obbligazione del fideiussore, non è infatti riscontrabile nel patronage. E, dunque, l’obbligo assunto dal patrocinante non può che giudicarsi autonomo rispetto alla solvibilità del patrocinato.
In altre parole, l’obbligazione nel patronage consiste nell’agevolare l’erogazione di un finanziamento in favore del patrocinato. Il tutto, mediante una “rassicurazione” che viene diffusa in modo tendenzialmente epistolare verso il creditore sul buon esito dell’operazione. Ma non per questo, si intende, assumendo nei confronti del creditore un’obbligazione quale quella propria del patrocinato.
Le lettere di patronage quale forma di garanzia atipica devono essere distinte dalla fideiussione non soltanto dal punto di vista formale, ma soprattutto da quello sostanziale, dalla principale forma tipica di garanzia che è data dalla fideiussione[18]. Come è noto, tale figura negoziale non costituisce l’unica forma tipica di garanzia conosciuta dal nostro ordinamento, atta a dare vita a un vincolo di carattere obbligatorio, anziché di carattere reale. In base alla previsione di cui all’art. 1937 c.c., «la volontà di prestare fideiussione deve essere espressa»; pertanto non è sufficiente che la semplice volontà di obbligarsi venga espressa, bensì sarà necessario che tale volontà sia diretta verso un particolare contenuto del negozio, corrispondente a quello tipico della fideiussione, così come delineato dalla Codice civile. Ciò sta a significare che per aversi una fideiussione il dichiarante dovrà esprimere la volontà di adempiere la medesima prestazione cui si è obbligato il debitore principale, pertanto, la lettera di patronage si differenzia e non può essere ricondotta a una fideiussione proprio per il fatto che il patronnant si obbliga a un facere variabile che, comunque, non gli impone di adempiere come se fosse il debitore principale. Altresì, le lettere di patronage devono essere distinte dal mandato di credito in quanto in queste è normalmente assente un obbligo assunto dalla banca nei confronti del patronnant di fare credito al patrocinato. La circostanza che la banca decida, a seguito della ricezione della lettera da parte del patronnant, di concedere credito al patrocinato non costituisce, comunque, il perfezionamento di un obbligo contrattualmente assunto, poiché la banca, anche in presenza di una lettera di patronage, potrebbe determinarsi a non concedere alcun tipo di credito, ovvero di mantenerlo o revocarlo, in base a proprie valutazioni di opportunità e, ciò, proprio in considerazione del fatto che non esiste alcun vincolo contrattuale in tal senso.
La dottrina meno recente[19] era molto orientata ad assegnare alle lettere di patronage una funzione di garanzia, almeno in senso lato, anche se taluni già osservavano che la causa di garanzia ricorre quando un soggetto si impegna verso un altro soggetto a proteggere l’interesse che quest’ultimo si attende venga soddisfatto da un terzo in via primaria: questa senza dubbio è una nozione non generica di garanzia.
Si è già, peraltro, in tempi non recenti da diversi autori affermato che il patronage si caratterizza come un surrogato della garanzia data dalla fideiussione[20], e, in questa veste, si caratterizza come contratto di garanzia indennitaria. Tale teoria ha avuto l’avallo della giurisprudenza che ha rinvenuto nelle dichiarazioni di patronage una fattispecie negoziale con causa di garanzia, capace di dar luogo a responsabilità indennitaria. In particolare, le dichiarazioni di patronage appaiono dirette a evitare il rischio di perdite cui la banca può incorrere nel concedere il credito, rafforzando la probabilità del suo soddisfacimento, Dunque, da questo punto di vista, si tratta di promesse rette da causa di garanzia e, pertanto, possono essere considerate alla stregua delle garanzie personali, benché i loro effetti non includano quello di rimborsare il credito.
Dal punto di vista economico, non vi sono ostacoli nel considerare la funzione delle lettere di patronage come funzione di garanzia. Al contrario, il problema si pone allorché si cerchi di tradurre questa funzione in una causa di garanzia in senso tecnico-giuridico. Anche in tale ipotesi, non si riesce ad accedere a una soluzione unitaria in ordine alla causa giuridica delle stesse. Pertanto, appare necessario effettuare una distinzione, ponendo da una parte le lettere che contengono solo dichiarazioni di scienza di tipo informativo a cui deve negarsi la sussistenza di una causa di garanzia giuridica corrispondente, poiché il patronnant non assume alcun impegno negoziale in ordine al soddisfacimento dell’interesse economico del creditore. Dall’altra parte, quando le dichiarazioni rese prevedono l’assunzione di impegni, occorre ulteriormente accertare, attraverso criteri ermeneutici, se si tratti di impegni giuridici, ovvero vincolanti meramente sul piano dell’onore o della cortesia. In quest’ultimo caso la funzione di garanzia opera solo sul piano economico, e non su quello giuridico.
Nell’ipotesi di impegni di natura negoziale, appare indiscussa la sussistenza della causa di garanzia ove la fattispecie sia riconducibile alle garanzie quali il garantievertrag, il mandato di credito, la fideiussione, la promessa del fatto del terzo. In conclusione, è lecito ritenere che le lettere di patronage «non assolvono a una causa di garanzia in senso tecnico-giuridico, ma mirano a soddisfare l’interesse del creditore all’adempimento attraverso condotte diverse da quelle tipiche del garante: o mediante attività informativa, o tramite impegni d’onore, con prestazioni di facere che sono contenutisticamente diverse dalla prestazione principale»[21]. Quindi, lo scopo delle lettere di patronage appare piuttosto quello di agevolazione del credito, a favore di una società del gruppo: la causa deve essere rinvenuta nella promozione del credito, causa certamente più ampia e generica rispetto a quella di garanzia in essa conglobata.
6. Lettere forti
Nonostante l’ampia condivisione circa la riconosciuta assoggettabilità al diritto degli effetti delle lettere di patronage, l’intensità di tale rilevanza non è sempre la stessa, ma varia in relazione allo specifico contenuto, che può avere natura informativa o impegnativa. Pertanto, è possibile, rispettivamente, parlare di lettere di patronage impegnative o “forti” e di lettere informative o “deboli”, con conseguenze altrettanto diverse sugli obblighi assunti dalla patrocinante società capogruppo o controllante.
Quando le lettere di patronage hanno contenuto impegnativo si parla di lettere di patronage c.d. forti. Con esse il patronnant non si limita a rappresentare fatti e circostanze pregresse o attuali, ma assume specifici obblighi nei confronti del destinatario della dichiarazione (i.e. la conferma del mantenimento della titolarità della partecipazione al capitale sociale della società debitrice, l’esercizio dell’attività di direzione e controllo, la vigilanza sulla consistenza del patrimonio della sussidiaria, etc.), che sono direttamente correlati allo scopo di rafforzare il convincimento del creditore circa la concessione di credito ex novo o alla conferma e rinnovo di linee già concesse.
In questo caso il perimetro entro il quale possono essere fatti risalire eventuali profili di responsabilità connessi alla violazione degli obblighi assunti è strettamente connessa alla qualificazione giuridica di tali obblighi.
Secondo un primo orientamento la dichiarazione impegnativa di conforto del patronnant è equiparabile ad una promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c.
Tale qualificazione comporta, sul piano della responsabilità da inadempimento, l’obbligo del patronnant di indennizzare il destinatario della dichiarazione anche ove si fosse adoperato diligentemente per assicurargli l’adempimento dell’obbligazione restitutoria del patrocinato e anche se l’inadempimento non fosse imputabile al debitore.
Stante la difficoltà, mai superata, di circoscrivere il perimetro dei contenuti che consentono di distinguere una lettera forte da una lettera debole, pare utile riportare le indicazioni che, in tal senso, la Corte di Cassazione ha fornito, identificando, in particolare, i seguenti contenuti come tipici della prima delle due fattispecie:
· dichiarazioni di futuro mantenimento della partecipazione: quelle in cui il patrocinante esprime all’ente erogatore del credito la volontà di voler mantenere invariata la propria partecipazione o di richiedere il previo consenso della banca prima di cederla;
· dichiarazioni di influenza: in cui il patrocinante si impegna ad esercitare la propria influenza sul patrocinato affinché questi adempia alle obbligazioni assunte;
· dichiarazioni con cui il patrocinante s’impegna a non pregiudicare la solvibilità del patrocinato, garantendo una certa consistenza di capitale e/o patrimonio netto;
· dichiarazioni di solvibilità: con cui il patrocinante s’impegna direttamente a rimborsare il credito richiesto
All’interno della categoria di lettere forti, nella prassi si rileva spesso una seconda distinzione, tra c.d. lettere di patronage forti stricto sensu, da un lato, e “impegnative forti” dall’altro. Tale distinzione, tuttavia, non potendo sostenersi su specifici e tipizzati contenuti differenti per l’uno e l’altro caso, pare trovare ragione nell’ambito delle conseguenze, come vedremo, in ambito di responsabilità del patrocinante per inadempimento del debitore ovvero per dichiarazione non veritiera o mendace.
7. Lettere “deboli”
Si classificano come lettere “deboli” le dichiarazioni epistolari in cui il contenuto sia meramente informativo, rappresentando esclusivamente la conferma dell’esistenza della posizione di influenza e la comunicazione circa le condizioni patrimoniali, economiche e finanziarie del patrocinato. Per esse si ritiene, pertanto, da escludersi il sorgere di qualsivoglia vincolo di natura negoziale per il patronnant. Quando, infatti, attraverso la lettera suddetta una società riconosce che una sua sussidiaria controllata è in grado di mantenere puntualmente gli impegni finanziari assunti, seppur previo un proprio controllo, e dichiara di essere solita ad adottare i provvedimenti necessari a tal fine, ovvero si limita ad affermare l’esistenza di un proprio interesse al mantenimento in essere di linee di credito già concesse dalla banca al patrocinato, non si ravvisa che da simili affermazioni possa emergere alcuna forma di obbligazione in capo alla dichiarante.
Il patrocinante viene, infatti, ad inserirsi nello svolgimento di trattative avviate tra altri soggetti, proprio al fine di agevolarne la positiva conclusione e di rafforzare il convincimento del creditore, creando così ragionevoli aspettative sul buon esito dell’operazione. La Suprema Corte[22] ha ritenuto che tale situazione sia sufficiente a giustificare l’applicazione di quelle regole di diligenza, di correttezza e di buona fede dettate proprio al fine di evitare che gli interessi di quanti partecipano alle trattative possano essere pregiudicati da comportamenti altrui scorretti, e quindi in violazione dell’art. 1337 c.c., che impone difatti alle parti l’osservanza della buona fede nelle trattative e nello svolgimento del contratto.
All’interno di questa seconda categoria, spesso si sente parlare anche di dichiarazione di policy, con le quali, cioè, il patronnant illustra alla banca la situazione della società controllata e raccoglie tutte le informazioni che sono necessarie o richieste dall’istituto stesso per poter avviare l’istruttoria e deliberare il finanziamento.
Si tratta, in altre parole, di lettere con carattere meramente informativo circa la situazione patrimoniale e finanziaria di controllante e controllata.
Non sono accolte unanimemente da dottrina e giurisprudenza, vista l’assenza di portata giuridica che viene da molti contestata. Possono essere assimilate in senso lato ad una due diligence[23] della società, con la quale la banca può ottenere tutte le informazioni necessarie per una valutazione sulla convenienza dell’erogazione del credito.
Vista l’assenza totale di vincoli, ad esclusione di quelli derivanti da eventuali dichiarazioni mendaci rese dalla società controllante che espongono a risarcimento danni, non sono spesso utilizzate, tranne qualora la banca accetti di correre il rischio di apertura o continuazione del credito verso la controllata per garantirsi rapporti commerciali con una holding blasonata e rilevante sul panorama economico globale.
A questa categoria possono, perciò, essere ricondotte.
· le "dichiarazioni di consapevolezza", con cui il patronnant dichiara di essere al corrente del rapporto di finanziamento già in corso o in via di perfezionamento tra patrocinato e banca;
· le "dichiarazioni di approvazione", con cui il patronnant dichiara di approvare il detto rapporto;
· le "dichiarazioni confermative di controllo", con le quali si enuncia la percentuale del pacchetto azionario del patrocinato posseduto (direttamente o indirettamente) dal patronnant;
· altre dichiarazioni eterogenee, con le quali si forniscono informazioni più o meno riservate, atte a rassicurare il destinatario (banca) circa la solidità economico-finanziaria e la solvibilità del patrocinato.
8. Il trattamento del patronage nelle procedure concorsuali
Diversamente dalle lettere dichiarative, che non possono far sorgere alcun tipo di obbligazione in capo al patrocinante, quelle cosiddette forti, contenendo esplicite dichiarazioni di assunzione di obblighi, implicano il sorgere di una responsabilità ex art. 1218 c.c.
La situazione, peraltro, si complica ulteriormente quando, in presenza di una dichiarazione forte di patrocinio, si innesta una procedura concorsuale nell’ambito della quale la stessa è riconducibile ad una forma di “finanziamento indiretto” alla società patrocinata.
In questo contesto emerge in tutta la sua evidenza la necessità di tracciare un netto confine tra fattispecie fidejussoria e patronage.
Se la prima, infatti, obbliga tipicamente il garante ad eseguire la prestazione in luogo del garantito inadempiente, l’istituto del patrocinio, anche se assunto nell’ambito di una dichiarazione forte, non può mai determinare in capo al patronnant l’impegno di eseguire l’adempimento, potendo essere tenuto esclusivamente a pagare un indennizzo e non all’integrale adempimento della prestazione del garantito[24].
Nel caso in cui incorra in procedura una società che ha rilasciato nei confronti di una sua controllata una dichiarazione vincolante di patronage, è frequente che l’istituto bancario che ha erogato un finanziamento in favore della patrocinata, chieda che il suo credito venga ammesso al passivo fallimentare.
Tale ammissione possiede, quindi, natura risarcitoria o indennitaria nei confronti di un credito oggetto di una garanzia atipica con sottostante impegno al mantenimento di una condotta di solvibilità. L’inadempimento di una prestazione strumentale ad assicurare l’adempimento del patrocinato contenuta in una lettera dipatronage c.d. forte comporta, in tal senso, in capo al patronnant una responsabilità di tipo contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c. e un conseguente obbligo risarcitorio nel caso di inadempimento dell’obbligazione del patrocinato.
Il credito derivante da una lettera di patronage c.d. forte deve essere, pertanto, ammesso al passivo del fallimento.
Rappresentando, detto in altro modo, una forma di inadempimento di una prestazione strumentale ad assicurare l’adempimento del patrocinato, la dichiarazione contenuta in una lettera di patronage c.d. forte comporta in capo al dichiarante il sorgere di un obbligo risarcitorio nel caso di inadempimento dell’obbligazione del patrocinato e, per tale ragione, deve essere ammesso al passivo del fallimento[25].
Ulteriore fattispecie è, invece, se nel momento in cui si apre la procedura concorsuale della società beneficiaria del patrocinio, l’inadempimento sia già stato eccepito dall’istituto erogante il quale abbia altresì già ottenuto risarcimento dal patronnant. In questa ipotesi, si aprono nuovi importanti interrogativi, riguardanti: (i) il diritto di insinuazione al passivo del socio patrocinante; (ii) il titolo con il quale tale insinuazione possa essere effettuata.
In particolare, se quanto al primo punto non vi sono dubbi circa il fatto che tale insinuazione sia fondata, in merito al secondo punto si rintracciano posizioni contrapposte circa l’applicazione o meno dell’art. 2467 c.c., ovvero in relazione alla necessità di far rientrare tale credito tra i finanziamenti soci il cui rimborso è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori.
La citata norma civilistica prevede che «il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito».
Pare, inoltre, che la lettera di patronage possa essere senz’altro qualificata quale forma di “finanziamento indiretto” in favore del beneficiario, e che quindi possa rientrare tra le ipotesi disciplinate dall’art. 2467 c.c. che infatti, al secondo comma, rinvia espressamente a finanziamenti «in qualsiasi forma effettuati».
A questo punto, assume rilevanza proprio il momento in cui il finanziamento diretto, e quello cosiddetto indiretto, sono stati effettuati, dato che il suddetto articolo pone quale condizione per la postergazione che essi siano stati concessi «in un momento in cui anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento».
Nel caso della lettera di patronage, quindi, per verificare la sussistenza delle condizioni della postergazione del credito deve guardarsi al momento della prestazione della garanzia e a quello contestuale – ma anche successivo, ma comunque funzionalmente collegato – in cui il terzo eroga il credito (o se del caso, a sua volta, la garanzia perché altro terzo lo fornisca), e non invece al momento del pagamento effettuato da parte del socio in adempimento della garanzia prestata, pagamento che invero potrebbe avvenire anni dopo ed anche dopo la dichiarazione di fallimento della società “finanziata”[26].
9. Conclusioni
Le lettere di patronage costituiscono il punto di incontro di interessi contrapposti, che trovano la loro soddisfazione proprio attraverso tale forma di garanzia. Infatti, da una parte, la società holding può avere svariate ragioni, più o meno reali, di non volere utilizzare una delle tipiche forme di garanzia che normalmente sarebbe in grado di soddisfare l’interesse della banca.
Tali ragioni possono essere costituite dal convincimento di una semplificazione delle procedure interne di deliberazione, ovvero dalla volontà di non volere procedere a iscrizioni in bilancio o ad adempimenti valutari. Infatti, è indubbio che la holding abbia una forza contrattuale nei confronti delle banche nettamente superiore rispetto a quella di una propria controllata e, in questo modo, ha la possibilità di procurare mezzi finanziari senza fare ricorso alle comuni forme di garanzia tipica. Dall’altro lato, la banca ottiene dalla holding un impegno che va ad aggiungersi a quelli gravanti per legge sulla società stessa e che, al contempo, le permette di sentirsi maggiormente garantita dal rischio di mancato rimborso del credito erogato.
Dal punto di vista della banca, il valore aggiunto fornito dalle lettere di patronage è dato dal fatto che, proprio tramite questa, l’istituto di credito viene a conoscenza della situazione sia societaria che patrimoniale della società patrocinata, nonché degli assetti proprietari e in parte delle sue modalità operative, in modo da consentirle di avere un quadro completo della situazione e in particolare delle probabilità di ottenere il rimborso del credito nelle tempistiche previste.
Sulla base delle posizioni e opinioni raccolte e ut supra rappresentate, chi scrive ritiene che sia in dubbio che le lettere di patronage consentano di segnare un punto di incontro e composizione tra interessi contrapposti che, nella prassi degli scambi e delle relazioni commerciali chiamano necessariamente in causa un secondo sistema di rapporti di matrice economico-finanziaria accessori, le quali abbisognano di fattispecie di regolamentazione flessibili e snelle, caratteristiche proprio di tale forma di “garanzia”.
La preferenza, così largamente accordata nella prassi, a questo strumento, è probabilmente da far risalire alla valenza di compromesso nel raggiungimento, per entrambi, di un livello accettabile di rischio nel raggiungimento e nella soddisfazione dei reciproci obiettivi.
La società concedente il patrocinio potrebbe, infatti, non volere utilizzare una delle forme di garanzia tipiche normalmente impiegate a soddisfazione dell’interesse della banca per ragioni differenti, quali, a titolo esemplificativo, il convincimento che la lettera di patronage consentirebbe una semplificazione delle procedure interne di deliberazione, ovvero che la stessa, a dispetto delle obbligazioni fideiussorie, possono non essere appostate a bilancio nella società controllante: è evidente che la società che redige la dichiarazione ottiene una forza contrattuale nei confronti delle banca destinataria nettamente superiore rispetto a quella della propria controllata assicurandosi, cioè, mezzi finanziari senza dover far ricorso alle comuni forme di garanzia tipica.
La banca, a sua volta, ottiene dalla società dichiarante un impegno che va ad aggiungersi a quelli comunque gravanti per legge sulla società stessa e che, al tempo stesso, le permette di sentirsi maggiormente tutelata dal rischio di mancato rimborso del credito erogato. Per la banca, pertanto, tale valore aggiunto è connesso alla circostanza che in tal modo viene a conoscenza della situazione sia societaria che patrimoniale della società patrocinata, nonché degli assetti proprietari e, ancora, almeno in parte, delle sue modalità operative, così da avere un quadro ben più esaustivo completo della situazione che le consente una sensibile riduzione dello stato di asimmetria informativa e, di conseguenza, di ridurre la probabilità di incorrere nel mancato o parziale rimborso del credito.
In conclusione, le ragioni che spingono l’istituto bancario ad accettare la lettera, sebbene essa dia minore garanzia di soddisfazione rispetto, ad esempio, alla fideiussione tipica, si rinvengono proprio nel rapporto che lega patrocinante e patrocinato, sulla cui solidità il destinatario fa affidamento.
Del resto, la banca fa leva anche sull’interesse concreto del patronnant ad evitare l’insolvenza della società partecipata, tenuto conto delle inevitabili ripercussioni negative che tale eventualità potrebbe comportare sia per esso che per l’intero gruppo.
Pare quasi di poter sostenere che, nell’accettazione di un compromesso simile dalle parti, si realizzi, in concreto, una miglior performance per entrambe, a conferma che, ricorrendo alla similitudine con il Dilemma del prigioniero della Teoria dei giochi, la lettera di Patronage può essere definita alla stregua di un vantaggioso equilibrio di Nesh[27].
La ricerca di una soluzione che, in tale prospettiva, non rappresenta il tradizionale gioco a somma zero, perde di appeal nel momento in cui, a causa dei contorni sfumati di una disciplina quasi totalmente assente, nel nostro ordinamento, delega il riempimento della lacuna alla giurisprudenza e ai propri organi e, in special modo, a quelli chiamati in causa dalle procedure concorsuali. In esse, soprattutto, un trattamento eccessivamente creativo sulle implicazioni della lettera di patronage non fa che determinare un effetto dissuasivo nell’applicazione di una soluzione che, nel momento economico attuale, potrebbe invece essere determinante per la ripartenza di molte imprese.
[1] Per approfondimenti sul tema della qualificazione giuridica della fattispecie, si segnalano, inter alia: F. Macario, Garanzie personali, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2009, 573 ss.; N. Soldati, Le lettere di patronage nella prassi bancaria, in Ventiquattrore avvocato, n. 9, 2008, 47 ss.; F. Fezza, Le garanzie personali atipiche, in Trattato di diritto commerciale, Sez. II, Tomo 3, diretto da V. Buonocore, Torino, 2006; F. Mastropaolo, Le lettere di patronage, in I contratti di garanzia, nel Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno-E. Gabrielli, Torino, 2006, 1675; F. Maimeri, Le garanzie bancarie improprie, Torino, 2004; A. Mazzoni, Le lettere di patronage, Milano, 1986.
[2] Merita ripercorrere, seppur brevemente, l’evoluzione storica che ha accompagnato nascita e sviluppo di varie forme di garanzia nell’ambito delle transazioni commerciali. Brevemente, per scoprire le origini storiche delle garanzie personali, occorre risalire indietro nel tempo, fino al 2250 AC circa, epoca alla quale viene fatto risalire il codice di Hammurabi; si ritiene questo essere il primo codice ad aver disciplinato questa materia. Anche i Romani avevano sviluppato una complessa disciplina delle garanzie personali: nell’epoca giustinianea, la fideiussione era largamente utilizzata nei commerci. Il diritto romano ispirò successivamente la composizione di molti codici, includendo quindi l’ambito delle garanzie, ma non per quanto riguarda il diritto inglese, che su questo campo ha subìto uno sviluppo totalmente autonomo ma non per questo troppo differente; anche nel mondo anglosassone, le garanzie erano un requisito indispensabile di ogni transazione. Una legge dell’epoca addirittura dichiarava come«nessun individuo può acquistare e barattare senza garanti o testimoni». Circa nel XIV secolo si è visto il graduale passaggio dalla pratica della garanzia tramite testimoni ad una visione prettamente contrattuale del rapporto tra le parti.
[3] Circa le origini della fattispecie, si legga P.M. Tabellini, Rilevanza valutaria delle lettere di patronage, in Riv. dir. econ. valutaria, 1980, p. 591.
[4] In realtà, ben poco cambia tra common e civil law: la lettera di patronage si è sviluppata e continua a farlo circa allo stesso modo; in Francia e Belgio, vi è la “lettre de patronage”, in Germania, Austria e Svizzera parlano di “patronatjerklarung”, in America e Gran Bretagna si parla, come abbiamo visto, di comfort letter.
[5] La sistematica statunitense le aveva, ad esempio, classificate in origine come gentlemen’s agreement, ovvero accordi tra gentiluomini, riponendo la garanzia dell’adempimento dell’obbligazione sottesa, al mero rapporto di fiducia dei contraenti, in quanto «il mancato rispetto [della restituzione del prestito] avrebbe comportato un tale discredito da risultare maggiore di un qualsivoglia indennizzo di natura monetaria». Così, N. Soldati, La lettera di patronage nella prassi bancaria, in Ventiquattrore Avvocato, Il Sole 24 Ore, settembre 2008, n. 9, p. 47.
[6] De Nictolis, Nuove garanzie personali e reali, Padova, 1998, p. 3.
[7] A parere di F. Severini, Il patronage tra la promessa unilaterale atipica e la promessa del fatto del terzo, in Giur. comm., 1991, I, 885, la difficoltà riscontrata circa il mancato consolidamento di un orientamento unitario in tema di efficacia giuridica della fattispecie è da ricondursi alla sua stessa origine storica, assodato che tali dichiarazioni in origine «hanno avuto la sola funzione di un mero gentlemen’s agreement». Della stessa opinione anche F. Chiomenti, Le lettere di conforto, 1974, pp. 346 ss.
[8] Tra di essi, si ricorda B. Gardella Tedeschi, Gentlemen’s agreement, in Riv. dir. civ., 1990, pp. 730 ss.
[9] Sulla c.d. “efficacia metagiuridica” della lettera di patronage, si rinvia a P. Caliceti, Brevi note in tema di patronage, in Giur. it., 1996, I, 3011 ss.
[10] Cfr. F. Caringella, Studi di diritto civile, I, Milano, 2003, pp. 1231 ss.; A. Mazzoni, Le lettere di patronage, cit.; M. Segni, La “lettre de patronage” come garanzia personale impropria, in Riv. Dir. civ., 1975, I, p.126.
[11] In particolare, Cass. civ. n. 10235/1995 cit., ove si legge che «la specifica funzione che assolvono siffatte dichiarazioni [...] non è tanto quella di "garantire" l'adempimento altrui, nel senso in cui tale termine viene assunto nella disciplina della fideiussione e delle altre garanzie personali specificamente previste dal legislatore (nelle quali il "garante" assume l'obbligo di eseguire la (stessa) prestazione dovuta dal debitore), quanto quella di rafforzare nel (futuro) creditore, cui la dichiarazione è indirizzata, il convincimento che il patrocinato farà fronte ai propri impegni».
[12] La posizione ha raccolto limitate condivisioni. Tra i pochi sostenitori, si segnala in particolare F. Galgano, Diritto civile e commerciale, cit.
[13] Le motivazioni che impediscono di condividere la tesi sono riconducibili entro un doppio livello di motivazioni: in primis, l’assenza nel patronage di un qualsiasi obbligo di far credito e, in secundis, per il fatto che l’assunzione da parte del mandante della responsabilità propria del fideiussore si porrebbe in netto contrasto con la volontà del patronnant di non prestare una garanzia.
Sotto il primo punto di vista, anche se pare pacifico che le lettere di patronage svolgano in concreto anche la funzione di indurre, o, comunque, “convincere” la banca a concedere il finanziamento, non è possibile, tuttavia, affermare che si tratti - ai fini della configurabilità del contratto di cui all’art. 1958 c.c. – di una prestazione cui la banca è tenuta per effetto dell’impegno contrattuale assunto. Ciò appare ancor più vero se si riflette sul fatto che, anche solo sulla scorta di valutazioni proprie, la banca potrebbe decidere di non attribuire il credito qualora continui a ritenerla rischiosa nonostante le “rassicurazioni” del patronnant.
Tanto la dottrina quanto la giurisprudenza, infatti, concordano nell’escludere che alle lettere di patronage possa essere in alcun modo riconosciuta la natura di obbligazioni fideiussorie. A ben vedere la differenza fra le due figure emerge proprio dall’autonomia degli impegni che il patronnant assume rispetto alle vicende dell’obbligazione del patrocinato, posto che il presupposto dell’accessorietà – inteso quale nesso imprescindibile tra adempimento del debitore e obbligazione del fideiussore – non trova materia di innesto nel patronage. L’obbligo scaturente in capo al patronnant, anche qualora si configuri quale garanzia di solvibilità del patrocinato, rimane per sua stessa natura autonomo rispetto a quello di quest’ultimo.
Oltre a ciò pare opportuno sottolineare come il patronage e la fideiussione differiscano anche quanto a finalità: se il primo si pone l’obiettivo di agevolare l’erogazione del finanziamento rassicurando il creditore circa l’adempimento negoziale del debitore, senza che si possa in alcun modo attribuire al patrocinante alcuna volontà, seppur implicita, di provvedere all’adempimento in luogo del patrocinato, tale solidarietà nell’adempiere è proprio il fondamento su cui poggia la fideiussione, per espressa volontà del garante ex art. 1937 c.c.
[14] Tra gli aderenti cfr. fra gli altri, F. Severini, Il patronage tra la promessa unilaterale atipica e la promessa del fatto del terzo, cit., pp. 895 ss.; M. Prosperetti, Lettres de patronage, in Diz. dir. privato, I, Diritto civile, Milano, 1980, p. 561. In relazione, invece, all’inquadramento della fattispecie di promessa del fatto del terzo, si rinvia a F. Alcaro, Promessa del terzo, in Enc. Dir., XXXVII, 1988, p. 77; R. Sacco, Il contratto, in Trattato di dir. civ. it., dir. da Vassalli, vol. VI, t. 2, Torino, 1975, p. 500.
[15] Anche questa tesi, nel tempo, ha sollevato critiche significative obiezioni. Innanzitutto, si è dubitato che l’impegno del mittente possa ritenersi volto a garantire un fatto altrui, ma che, invece, vada inteso consiste come rassicurazione circa fatto proprio che il patronnant assolve mantenendo il controllo sullo stato patrimoniale della società patrocinata ed attivandosi con la diligenza richiesta, al fine di assicurarne la solvibilità. Si è, anche, osservato che l’assimilazione alla fattispecie dell’art.1381 c.c. parrebbe plausibile nella sola evenienza in cui risultasse in modo chiaro ed inequivocabile che l’erogazione del credito non sarebbe avvenuta senza l’intervento del patrocinante avendo svolto l’istituto erogante, in capo a quest’ultimo, una trasposizione del rischio dell’operazione contratta.
[16] Va detto che anche parte della dottrina ha aderito all’orientamento prevalente di legittimità. Cfr., inter alii, A.M. Musy, L’art. 1333 e le lettere di patronage c.d. forti, cit., p. 2254; M. Segni, La “lettre de patronage” come garanzia personale impropria, cit., p.135; F. Di Giovanni, Le lettere di “patronage”, Padova, 1984, p. 36 ss.; A. Mazzoni, Le lettere di “patronage”, cit., 117.
[17] In particolare, la Cassazione, pur avendo precedentemente accolto la tesi del numero chiuso degli atti unilaterali, utilizza lo strumento di cui all’art. 1333 c.c. proprio per violare l’intangibilità del dogma della suddetta tassatività. Con pronuncia n. 10235 del 1995 la Suprema Corte afferma che il patronnant si esporrebbe ad una responsabilità di tipo contrattuale in quanto le dichiarazioni contenute nelle lettere “forti” rappresenterebbero negozi unilaterali che producono effetti senza che sia necessaria l’accettazione della controparte ex art. 1333, norma «dalla quale è possibile arguire che, nel nostro ordinamento, i rapporti giuridici con obbligazioni a carico di una sola delle parti possono costituirsi per effetto della sola volontà dell’obbligato, salvo il potere di rifiuto del destinatario... e, quindi, in definitiva, per effetto di un atto unilaterale».
[18] Cfr. sul punto, Severini, Lettere di patronage, applicabilità della normativa relativa alla fideiussione, in Giust. civ., 2004, II, p. 169.
[19] Si veda, in particolare, Scotti-Camuzzi, Le lettere di patrocinio, in Riv. dir. comm., 1980, I, p. 180.
[20] Così Fusaro, In tema di fideiussione, patronage, promessa del fatto del terzo, in Giur. it., 1985, I, 2, 36
[21] De Nictolis, op. cit., p. 389.
[22] Cass. civ. sez. I, sent. n. 10235 del 27/09/1995
[23] «La principale finalità della due diligence è quella di accertare attraverso una raccolta mirata ed analitica di informazioni se vi siano le effettive condizioni di fattibilità dell’operazione programmata ovvero se sussistano elementi e profili di criticità che possano comprometterne il buon esito», così L. Bragoli, La due diligence nell’ambito delle operazioni di acquisizione, Milano, 2007.
[25] Così anche Tribunale di Roma, Sez. Fall., 23 novembre 2017, n. 4791.
[26] Si veda, in senso uniforme, Trib. Udine, D. del 16 marzo 2012.
[27] «Due sospettati, A e B, sono arrestati dalla polizia. La polizia non ha prove sufficienti per trovare il colpevole e, dopo aver rinchiuso i due prigionieri in due celle diverse, interroga entrambi offrendo loro le seguenti prospettive: se uno confessa (C) e l’altro non confessa (NC) chi non ha confessato sconterà 10 anni di detenzione mentre l’altro sarà libero; se entrambi non confesseranno, allora la polizia li condannerà ad un solo anno di carcere; se, invece, confesseranno entrambi la pena da scontare sarà pari a 5 anni di carcere. Ogni prigioniero può riflettere sulla strategia da scegliere tra, appunto, confessare o non confessare. In ogni caso, nessuno dei due prigionieri potrà conoscere la scelta fatta dall’altro prigioniero». Questa è la celeberrima forma, potremmo dire “forma base”, con cui è noto il Dilemma del prigioniero, studiato da Merrill Flood e Melvin Dresher al RAND nel 1950 e successivamente formalizzato da Albert W. Tucker, a cui dobbiamo anche il nome del dilemma, tramite la matrice dei payoff (Poundstone, 1992). Il Dilemma del Prigioniero è un classico esempio della Teoria dei Giochi, teoria che analizza le situazioni in cui i giocatori prendono “decisioni strategiche”, cioè decisioni in cui ciascun giocatore tiene conto delle azioni e delle reazioni di ognuno degli altri. Il Dilemma del Prigioniero è un gioco non-cooperativo in quanto i due prigionieri sono stati interrogati separatamente e non hanno potuto accordarsi preventivamente né venire, in qualche modo, a conoscenza della strategia adottata dall’altro giocatore/prigioniero.
I prigionieri in questione sono di fronte ad un dilemma. Se entrambi fossero in grado di concordare di non confessare (in un modo che sia vincolante), allora ciascuno verrebbe condannato ad 1 solo anno di carcere. Ma essi non possono comunicare e, anche se potessero farlo, potrebbero fidarsi l’uno dell’altro?
Il primo ad essere interrogato è il prigioniero A (i cui payoff sono indicati per primi ed in rosso). Trattandosi di un gioco non-cooperativo, per ogni prigioniero è “meglio” confessare perché, indipendentemente dalla scelta dell’altro giocatore, il suo payoff è più alto confessando. Infatti, indipendentemente dalla giocata di A, per B sarà più conveniente confessare. Esaminiamo il perché: se A avesse confessato (C), a B converrebbe confessare (C) perché in questo modo sconterebbero entrambi 5 anni di carcere; se A non avesse confessato (NC), a B converrebbe a maggior ragione confessare (C) perché così facendo lui sarebbe libero, mentre A sconterebbe 10 anni di carcere.
L’equilibrio del gioco è posto dunque in C-C: i due prigionieri sconteranno entrambi 5 anni di carcere. Questa situazione di equilibrio è detta “pareto-inefficiente” perché, pur essendo quella razionale, essa non rappresenta la migliore delle situazioni possibili.
Secondo la Teoria dei Giochi, la scelta di confessare (C) operata dai due prigionieri alla luce del precedente ragionamento è detta “strategia dominante”: essa è infatti definita come la strategia ottimale indipendentemente da ciò che fa l’avversario.
Tuttavia, appare evidente come in realtà sarebbe molto più conveniente per entrambi i prigionieri non confessare (NC-NC), poiché così facendo sconterebbero entrambi soltanto un anno di detenzione. Ma questa giocata non sarà mai possibile!
Infatti, essa risulta estremamente rischiosa, poiché se l’avversario confessasse (come è razionale che faccia) allora chi non ha confessato sconterebbe ben 10 anni di carcere, mentre l’avversario sarebbe libero.
L’unica variante che renderebbe vantaggioso per entrambi NC è che si tratti di un gioco cooperativo, ovvero che i due giocatori abbiano la possibilità di accordarsi preventivamente sulla strategia da adottare. Ma anche in questo caso, anzi, soprattutto in questo caso, la tentazione di non cooperare (e dunque di confessare) sarebbe ancora maggiore, poiché così facendo (certi del fatto che l’avversario cooperante giocherà NC) il prigioniero “leale” starà in carcere 10 anni, mentre il prigioniero “traditore” (che non ha rispettato l’accordo preventivo) sarà immediatamente libero.
La lettera di patronage, di fatto, rappresenta una sorta di equilibrio di un gioco cooperativo in cui il rischio di “tradimento” è ridotto dalla sottoposizione al principio di correttezza e buona fede ex art. 1375 c.c.: la cooperazione, in questo senso, consente grazie alla rinuncia al massimo livello di pretese iniziali delle parti come presupposto (i.e. l’ottenimento di una fidejussione stricto sensu da parte della controllante versus la completa estraneità della medesima nel rapporto tra banca e controllata) la riduzione effettiva del rischio e la massimizzazione del risultato finale (i.e. il rilascio del finanziamento e la maggior chiarezza e trasparenza delle informazioni necessarie ad una esaustiva valutazione di merito da parte dell’istituto finanziatore).
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