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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 18/05/2020 Scarica PDF
Il principio del tempus regit actum in relazione alle sanzioni amministrative. (Corte costituzionale n. 63/2019)
Michele Di Martino, MagistratoCon la sentenza del 21 marzo 2019, n. 63, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 6, co. 2, del D.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, in riferimento agli artt. 3 e 117, co. 1, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 C.E.D.U.), nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal terzo comma dello stesso articolo 6 alle sanzioni previste per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, disciplinato – come è noto – dall’art. 187 bis del D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) e dell’articolo 6, comma 2, del D.lgs. n. 72 del 2015.
La sentenza ha da subito assunto una portata dirompente, in quanto la Corte costituzionale, per la prima volta, ha ritenuto applicabile il principio di retroattività della disposizione più favorevole anche alle sanzioni amministrative.
Segnatamente, con la sentenza in commento, la Consulta ha ravvisato l’irragionevolezza dell’opzione compiuta dal legislatore di prevedere una generalizzata irretroattività rispetto a qualsivoglia violazione commessa prima dell’entrata in vigore dei regolamenti di competenza di Consob e Banca d’Italia, quand’anche la nuova normativa fosse risultata più favorevole per l’autore della condotta accertata come illecita.
La Consulta ha, dunque, sancito l’applicabilità del principio del favor rei, di matrice penalistica, anche alle sanzioni amministrative di natura “punitiva”, determinando così un significativo cambio di rotta rispetto alla ricostruzione tradizionale del sistema delle garanzie, di cui godono le sanzioni amministrative sostanzialmente penali.
Invero, mentre in passato la Corte ha distinto nettamente le garanzie penali costituzionali dalle garanzie convenzionali, sostenendo quasi che si trattasse di due sistemi di garanzie differenti, ognuno operante nella propria sfera, nella sentenza in questione tale differenza non solo non è rilevata, ma appare implicitamente negata[1].
È noto, infatti, che la giurisprudenza costituzionale ha sempre “salvato” la legge 689/81, non intaccando il principio generale (le leggi sanzionatorie amministrative più favorevoli valgono per il futuro e non sono retroattive)[2].
Anche la giurisprudenza amministrativa[3] ha sempre negato, in applicazione dell’art. 1 della legge n. 689, che, per le sanzioni amministrative, possa trovare applicazione la regola della retroattività in mitius delle norme sulle sanzioni amministrativee ha ritenuto che l’illecito amministrativo vada assoggettato alla legge del tempo del suo verificarsi.
Infatti, nel silenzio della legge, facendo leva sull’autonomia del sistema sanzionatorio amministrativo rispetto a quello penale, si tendeva ad escludere che il predetto principio potesse essere analogicamente applicato anche con riferimento alle sanzioni amministrative.
Secondo la suddetta impostazione ricostruttiva, quindi, nel campo delle sanzioni amministrative, il principio di matrice penalistica della retroattività della lex mitior trovava applicazione unicamente nelle tassative ipotesi in cui il Legislatore lo avesse espressamente previsto, appalesandosi, così, l’applicabilità dello stesso come una mera eccezione alla regola.
I motivi che inducevano a limitare l’applicabilità del principio di cui si discorre ai soli casi specificatamente previsti dalla legge erano essenzialmente individuati, oltre che nell’assenza di una specifica disposizione ad hoc nella legge 689/1981, sia nel generale principio di irretroattività della legge (art. 11 delle Preleggi), sia nel divieto di applicazione analogica di norme di carattere eccezionale (art. 14 delle Preleggi)[4].
I sostenitori di tale filone interpretativo evidenziavano, altresì, a maggior riprova della correttezza dello stesso, da un lato, che, in un sistema sanzionatorio come quello amministrativo (caratterizzato da precetti contingenti) è quantomai sensato rafforzare l’efficacia general-preventiva della comminatoria togliendo ab ovo al trasgressore ogni aspettativa di elusione della pena per una favorevole successione di leggi sanzionatorie.
Così opinando, quindi, si finiva, in rigoroso ossequio al principio tempus regit actum, per ritenere irrilevanti le sopravvenute modifiche normative favorevoli al reo e a stabilire, di conseguenza, che l’unica legge da prendere in considerazione è quella vigente almomento in cui la condotta illecita è stata posta in essere.
Con la sentenza 63/2019, i Giudici, mutando il proprio precedente orientamento, affermano che la regola della lex mitior non è affatto riconducibile all’ambito applicativo di cui all’art. 25, co. 2, Cost., il quale, limitandosi sic et simpliciter a vietare l’operatività per il passato delle disposizioni che stabiliscano nuove incriminazioni, sancisce soltanto l’opposto principio dell’irretroattività della legge più sfavorevole e non già un generale divieto di applicazione retroattiva delle norme penali .
Vi è più che il principio di retroattività favorevole trova il suo fondamento, oltre che sul piano interno, anche su quello internazionale ed europeo.
Invero, applicando il criterio del cd. maximun standard ed operando con metodo comparatistico, la Corte E.D.U., con la sentenza del 17 settembre 2009 (- Ricorso n.10249/03 - Scoppola c. Italia), ha ritenuto imprescindibile includere, tra i principi enucleati dall’art. 7 C.E.D.U., anche quello dello retroattività in mitus.
E il tutto al fine di conformare il livello di tutela garantito da tale norma rispetto a quello riconosciuto da omologhe disposizioni di carattere sovranazionale, da cui si evince che tale principio costituisce un “principio fondamentale del diritto penale”, che, come tale, deve essere riconosciuto e garantito anche dalla C.E.D.U..
Del resto, dall’elaborazione della Corte E.D.U., la nozione di “pena” o di “sanzione penale” è significativamente più ampia rispetto a quella conosciuta dall’ordinamento nazionale, atteso che mentre quest’ultimo utilizza essenzialmente un criterio di qualificazione prevalentemente giuridico – formale, in ambito europeo rilevano anche criteri di carattere sostanziale e funzionale[5].
Muovendo da tali premesse, la Consulta ha ritenuto che rispetto a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità punitiva, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della materia penale non può che trovare applicazione.
Tale esito interpretativo risulta giustificato, in primo luogo, dalla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi sulla base dell’art. 3 Cost. in ordine alle sanzioni propriamente penali.
Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura punitiva, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti dell’autore dell’illecito tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento.
E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressati di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo vaglio positivo di ragionevolezza, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale.
Dunque, sulla scorte di tali argomentazioni, la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. 72/2015, nella parte in cui ha escluso l'applicazione retroattiva della diminuzione delle sanzioni amministrative previste per gli illeciti disciplinati dagli art. 187-bis e 187-ter del d.lgs. 58/98 (T.U.F.).
Trattasi, con tutta evidenza, di una sentenza che assume una particolare rilevanza sistematica, avendo costituito il punto di partenza di un nuovo e decisivo sviluppo di quella operazione di complessivo ridisegno del sistema amministrativo punitivo, nel quale la retroattività della lex mitior sembra conquistare nuovi terreni applicativi.
Alla luce della sentenza n. 63 del 2019, che è indubbiamente innovativa riguardo alle sanzioni amministrative nei settori bancario e finanziario, occorre interrogarsi se i profili di irragionevolezza censurati siano identificabili al di là delle specifiche fattispecie sanzionatorie in essa considerate.
Ebbene, il bilancio che si può trarre fino a questo momento è che la pronunzia della Consulta ha animato ulteriormente il dibattito in ordine alla portata applicativa del principio della lex mitior in relazione alle sanzioni amministrative.
Invero, a distanza di un anno dalla sua pubblicazione, non vi è unanimità di consensi da parte della dottrina e della giurisprudenza di merito successivamente formatasi.
Ciò che probabilmente non ha persuaso fino in fondo è la considerazione secondo cui la sentenza avrebbe dato ingresso, nell’ordinamento giuridico italiano, al principio della retroattività della legge più favorevole nel sistema delle sanzioni amministrative.
A ben vedere, la sentenza 63/2019 non si è occupata affatto del sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì di una singola e specifica disciplina sanzionatoria, sia pure con caratteristiche punitive.
Muovendo da tali considerazioni, potrebbe ritenersi che la pronuncia non abbia introdotto un principio generale di retroattività della sanzione amministrativa più favorevole, ma abbia solo ed esclusivamente censurato una specifica disposizione di diritto transitorio (ovvero l'art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 nella parte in cui esclude l'applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l'illecito disciplinato dall'art. 187-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58).
In altri termini, le conseguenze del ragionamento elaborato dalla Corte Costituzionale resterebbero confinate a una parte soltanto degli illeciti delineati dal t.u.i.f.: ciò pur a fronte dei connotati di accentuato rigore che l’apparato sanzionatorio amministrativo di t.u.i.f. e t.u.b. ha assunto a seguito dei numerosi e frequenti interventi di modifica che, anche recentemente, lo hanno interessato.
Del resto, l’art. 1 della l. n. 689 del 1981 (letto in combinato disposto con l’art. 11 delle Preleggi) continua a disporre la indiscriminata applicazione irretroattiva delle sanzioni amministrative, che disciplina – in assenza di disposizioni ad hoc di diritto transitorio che dispongano diversamente – anche le modifiche in mitius di sanzioni a carattere punitivo.
Dall’altra parte, invece, vi sono coloro chehanno salutato con favore la sentenza della Corte Costituzionale, con cui il principio della retroattività della legge più favorevole avrebbe trovato definitivamente riconoscimento anche nell’ordinamento interno in relazione alle sanzioni amministrative punitive, alle quali andrebbe applicato il complesso delle garanzie proprie della materia penale.
Sotto questo angolo prospettivo, allora, viene in rilievo la recente ordinanza di remissione del Consiglio di Stato alla Corte Costituzionale.
La sesta sezione del massimo Giudice amministrativo, infatti, proprio sulla scorta dell’applicazione della legge posteriore più favorevole, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge 5 marzo 2001 n. 57, per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 C.E.D.U., nella parte in cui, nell’introdurre una nuova disciplina sanzionatoria delle infrazioni gravi in materia di interesse lesive della concorrenza e di abusi di posizione dominante sul mercato, per le quali la sanzione pecuniaria da applicare non contempla più il minimo edittale dell’uno per cento del fatturato specifico dell’impresa interessata, non prevede anche che tale disciplina più favorevole sia da applicare retroattivamente.
Nella giurisprudenza, anche amministrativa, più recente si è, dunque, dinanzi ad una nuova questione imposta dalla costante interpretazione secondo cui, in omaggio al canone ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, il silenzio di una specifica disposizione normativa impone di ritenere la stessa non retroattiva in conformità alla previsione generale di cui all’art. 1 della legge 689/1981.
Rebus sic stantibus, è senz’altro auspicabile un intervento del legislatore che prenda atto del nuovo orientamento affermatosi e ciò anche al fine di evitare un costante flusso di rimessioni in ragione della pluralità di fattispecie amministrative punitive sparse nell’ordinamento giuridico ed aventi le medesime problematiche (si pensi, a titolo esemplificativo, alla sanzioni amministrative in materia urbanistica).
Non è, infatti, esigibile che una risposta immediata provenga dai banchi della Corte, non potendo quest’ultima sostituirsi al potere legislativo.
[1] La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale, 27.11.2019, pag. 22 e ss.;
[2] Corte Costituzionale, sentenza n. 193, del 6.07.2016, con la quale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale);
[3] ex multis, Consiglio di Stato n. 1566/2017; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 21 marzo 2012, n. 2685;
[4] Per questa impostazione in dottrina cfr. C.E. PALIERO-A. TRAVI, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano 1988, 185; G. PAGLIARI, Profili teorici della sanzione amministrativa, Padova 1988, 220; A. VIGNERI, Profili generali della sanzione amministrativa, in N.L.C., 1982, 876. Anche in giurisprudenza l’orientamento è consolidato. Cfr. per un quadro complessivo I. NACCI, Rassegna di giurisprudenza sulle sanzioni amministrative (anni 1995-1999) in Resp. civ. e prev. 2000, 262;
[5] Consiglio di Stato Sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1596.
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