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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 24/02/2020 Scarica PDF

'Processualismo', bazaar economy e altre stravaganze della disciplina della liquidazione dell'attivo nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza

Edmondo Tota, Giudice del Tribunale delle imprese di Milano


Sommario: 1. La disciplina della liquidazione dell’attivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: una riforma malriuscita. - 2. La liquidazione dell’attivo come «attività economica» e la sua incompatibilità con gli schemi dell’attività giurisdizionale: la necessità di un approccio del tipo stick and carrot. - 3. Liquidazione dell’attivo, stravaganze regolatorie e «valore di mercato». - 4. Liquidazione dell’attivo e ‘processualismo’: nostalgia verso un passato inglorioso? - 5. Ordinanza di vendita e programma di liquidazione: giudice dell’esecuzione vs. giudice delegato. I sospetti di incostituzionalità. - 6. Procedure competitive, codice di rito e proper marketing. - 7. La pubblicità nel codice della crisi, il portale delle vendite pubbliche e il bazaar di Sefrou. - 8. Le vendite telematiche: un nonsense upon stilts. - 9. I problemi di monitoring: rapporti riepilogativi e fonti normative. - 10. Il compenso del curatore e il sistema degli incentivi: pagare senza risultati? - 11. La responsabilità del comitato dei creditori e il misterioso rinvio all’art. 2407, comma 3, cod. civ.: un’occasione persa. - 12. La liquidazione controllata e i creditori: un (altro) passo falso.

       

1. La disciplina della liquidazione dell’attivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: una riforma malriuscita.

La disciplina della liquidazione dell’attivo non ha ricevuto, nella legislazione nuova sull’insolvenza, una considerazione adeguata alla sua importanza. Abbandonato rapidamente il proposito velleitario di istituire un “mercato telematico” delle vendite pubbliche (art. 7, comma 9, lett. b, della l. 155/2017) ([1]) in mancanza del know-how imprenditoriale e tecnologicoindispensabile per la gestione di una infrastruttura di tale portata ([2]) e per di più in difetto della dotazione finanziaria occorrente al suo impianto (art. 16 della l. 155/2017) ([3]), il disegno che traspare a tale riguardo dal d.lgs. del 12 gennaio 2019, n. 14, troppo ambiziosamente intitolato “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, risulta ancora per molti versi insoddisfacente, approssimativo e, in ultima analisi, assai distante dall’obiettivo, a più riprese solennemente proclamato, del «miglior soddisfacimento» dei creditori ([4]).

Malgrado la scarsa attenzione dedicata a questo tema dai redattori del codice, la ricerca di un assetto ottimale dell’attività liquidatoria costituisce un elemento di rilevanza cruciale per il successo dell’imminente riforma del diritto concorsuale ([5]) se, come si è da più parti profetizzato, l’introduzione delle procedure di allerta, accompagnata dall’inasprimento delle condizioni di accesso al concordato preventivo, non produrrà, nonostante gli auspici, un percepibile aumento dei casi di ristrutturazione delle imprese sane in difficoltà finanziarie, ma, più realisticamente, agevolerà l’emersione delle situazioni di insolvenza, veicolata dalle segnalazioni degli organi con funzioni di controllo interno (laddove nominati) e (se sarà superata la loro riluttanza) dei creditori pubblici, con un potenziale incremento, almeno nel breve termine, dei procedimenti di liquidazione giudiziale e degli attivi da riallocare sul mercato ([6]).

L’importanza delle strategie normative adottate per regolare l’attività liquidatoria potrà inoltre essere ulteriormente amplificata dall’estensione in favore dei creditori e del pubblico ministero della legittimazione a richiedere l’apertura della liquidazione controllata rispettivamente dei beni dei debitori civili e delle imprese minori (art. 268), anche in alternativa alla più farraginosa espropriazione singolare.

Il rilievo sistematico di un appropriato regime dell’attività liquidatoria è d’altro canto attestato dai ripetuti rinvii, espliciti o impliciti, contenuti in varie parti del codice alla disciplina dettata per le procedure di insolvenza (artt. 71, 81, 91, 114, 152, 212, 214, 262, 275).

È perciò decisivo cogliere l’occasione della riforma per realizzare una accurata revisione delle modalità di svolgimento dell’attività liquidatoria, disegnando misure che per un verso contengano al minimo la distruzione di valore connessa all’insolvenza e che per altro verso assicurino la tempestività dei processi di dimissione degli assets del debitore ([7]).

Ad una lettura non superficiale delle modifiche apportate al testo dell’art. 107 L.F. dall’art. 216 CCII, è dubbio, tuttavia, che il legislatore delegato abbia considerato in qualche modo l’impatto della nuova regolamentazione sugli obiettivi di trasparenza, efficienza e competitività delle operazioni di liquidazione dell’attivo (art. 7, comma 9, della l. 155/2017), valutandone consapevolmente i costi e benefici ([8]). Ed è parimenti dubbio che la disciplina delle operazioni liquidatorie disegnata dal codice soddisfi in qualche misura l’esigenza di ridurre la «durata» e i «costi» delle procedure liquidatorie attraverso il disegno di appropriate «misure di responsabilizzazione degli organi di gestione» (art. 2, comma 1, lett. l), della l. 155/2017), essendosi al contrario operata, per quanto riguarda le decisioni relative alle modalità di dismissione del patrimonio del debitore insolvente, una apparente deresponsabilizzazione dell’organo di gestione della liquidazione giudiziale (i.e. il curatore) (art. 128 CCII) in favore del giudice delegato (art. 216 CCII) ([9]); organo, quest’ultimo, per un verso, istituzionalmente privo delle competenze e degli incentivi necessari per attuare una efficiente gestione dell’attività liquidatoria ([10]) e, per altro verso, sottratto, in base allo statuto della funzione giurisdizionale, al regime di diritto comune della responsabilità per mala gestio dettato per gli altri organi della procedura dagli artt. 136 e 140 CCII ([11]).

Lo scopo di queste note è perciò quello di esaminare criticamente i principali profili di debolezza della disciplina dettata in materia di liquidazione dell’attivo e di proporre alcune modifiche essenziali dell’art. 216 (Modalità della liquidazione) nonché, in seconda battuta e di riflesso, degli artt. 114 (Cessione dei beni), 130 (Relazioni e rapporti riepilogativi del curatore), 137 (Compenso del curatore), 140 (Funzioni e responsabilità del comitato dei creditori e dei suoi componenti) e 272 (Elenco dei creditori, inventario dei beni e programma di liquidazione) e 275 (Esecuzione del programma di liquidazione) del CCII, con l’obiettivo di promuovere una governance ottimale dell’attività liquidatoria, mediante l’eliminazione delle più grossolane distorsioni introdotte dal codice o ereditate dalla legge fallimentare senza una analisi accurata dei costi e dei benefici delle diverse opzioni.

   

2. La liquidazione dell’attivo come «attività economica» e la sua incompatibilità con gli schemi dell’attività giurisdizionale: la necessità di un approccio del tipo stick and carrot.

E’ peraltro evidente che il risultato di un governo ottimale dell’attività liquidatoria potrà essere conseguito esclusivamente se riuscirà ad affermarsi definitivamente, anche sul piano culturale, la consapevolezza, purtroppo ancora scarsamente diffusa, che la liquidazione giudiziale del patrimonio del debitore, al pari della sua liquidazione volontaria ([12]), presenta tutti i caratteri di una vera e propria «attività economica» ([13]). E se riuscirà di conseguenza a prevalere l’idea che il trattamento giuridico dell’attività liquidatoria sia che riguardi l’azienda nel suo complesso sia che riguardi i singoli beni dell’impresa insolvente deve essere orientato a uno scopo del tutto analogo a quello della liquidazione volontaria: lo scopo di massimizzare, secondo canoni di corretta gestione imprenditoriale, il rendimento del processo di dismissione degli assets del debitore, entro un ragionevole orizzonte temporale, mercé il conseguimento di prezzi per quanto possibile prossimi al loro «valore di mercato» ([14])([15]).

Accettata questa premessa fondamentale, si presenta, anzitutto, la necessità di disporre di una chiara definizione dei compiti attribuiti agli organi coinvolti con funzioni di gestione e di controllo nell’esercizio dell’attività liquidatoria, con una puntuale delimitazione delle rispettive responsabilità. Ciò sia allo scopo di attuare una razionale divisione del lavoro tra i diversi organi investiti della procedura sia, soprattutto, al fine di assicurare che la loro azione sia effettivamente allineata con l’interesse della collettività dei creditori al miglior realizzo dell’attivo, mitigando gli agency problems che affliggono le relazioni creditori/curatore, creditori/giudice delegato e curatore/giudice delegato ([16]).

A tale proposito deve radicalmenteescludersi l’opportunità di inquadrare l’attività di dismissione del patrimonio del debitore insolvente negli schemi dell’attività giurisdizionale, attribuendo, direttamente o surrettiziamente, al giudice delegato (o al tribunale concorsuale) poteri discrezionali di direzione dell’attività liquidatoria. In disparte per il momento la questione se un’opzione di questo tipo sia rispettosa della delega legislativa in mancanza di una esplicita base normativa ([17]), almeno tre serie di inconvenienti sconsigliano decisamente, infatti, una simile soluzione. Da un lato, come si è da tempo osservato, gli organi giurisdizionali, indipendentemente dalla formazione culturale e dalle abilità personali di singoli magistrati e indipendentemente dalle prassi più o meno ‘virtuose’ elaborate in questo o quell’altro tribunale, sono privi, tanto più in mancanza di una adeguata specializzazione, della professionalità richiesta per l’esercizio di un’attività che deve essere orientata essenzialmente dal calcolo economico e da giudizi di convenienza completamente estranei allo ius dicere ([18]). Dall’altro, è elevato il rischio che le scelte gestorie del giudice delegato (o del tribunale concorsuale) siano afflitte da asimmetrie informative a causa delle difficoltà materiali e giuridiche in cui incorrono gli uffici giudiziari per procurarsi, riscontrare ed elaborare, al di fuori del contraddittorio processuale tra gli interessati, i dati e le informazioni di mercato indispensabili per effettuare consapevoli valutazioni di convenienza economica ([19]). Soprattutto – ed è questo il dato decisivo – il regime dell’attività giurisdizionale è, almeno allo stato dell’elaborazione culturale e degli indirizzi di politica legislativa correnti, del tutto incompatibile con il disegno di un appropriato sistema di incentivi e di sanzioni che garantisca una gestione economicamente efficiente dell’attività liquidatoria da parte degli organi giudiziari ([20]).

Se si riconosce, infatti, che la giurisdizione si distingue dall’amministrazione per “l’assenza di fini propri diversi dalla attuazione della legge” e se si ritiene che esista una “differenza abissale” tra la giurisdizione e l’amministrazione perché la giurisdizione “non persegue fini propri, non gestisce interessi” ([21]), deve necessariamente ammettersi che la figura del giudice delegato, per definizione un organo disinteressato e insensibile ai profitti e alle perdite che derivano dall’attività liquidatoria, è quella meno adatta, tra i vari protagonisti del diritto concorsuale, ad assumere prerogative gestorie in una prospettiva di massimizzazione del ritorno dei creditori. D’altro canto, se lo scopo del legislatore, come è comprensibile, è quello di apprestare adeguate garanzie di legalità dell’attività di liquidazione dei beni del debitore non vi è alcuna ragione per trasformare il giudice delegato in un “agente massimizzante” snaturandone il ruolo e la missione istituzionale, essendo sufficiente a tal fine attribuire al giudice, organo terzo e imparziale, compiti di supervisione dell’andamento generale della gestione affidata al liquidatore giudiziale, al fianco dei creditori, e più specifiche funzioni di controllo della legalità (ex ante o preferibilmente solo ex post) degli atti destinati ad avere impatto più significativo sui risultati della liquidazione, ferma restando in ogni caso la responsabilità del curatore ([22]).

Per converso, laddove il legislatore scegliesse di rafforzare le prerogative gestorie del giudice delegato diverrebbe indispensabile ridefinire in modo appropriato il regime di responsabilità applicabile agli organi della procedura ([23]), atteso che risulterebbe completamente ingiustificata la differenziazione tra il regime di responsabilità degli organi giurisdizionali e non giurisdizionali comunque coinvolti nella elaborazione delle decisioni fondamentali di riallocazione sul mercato degli assets del debitore e che, in particolare, finirebbe per essere manifestamente irragionevole la disciplina della responsabilità del curatore per l’inattuazione del programma di liquidazione allorché il compito di decidere le condizioni di svolgimento dell’attività liquidatoria venisse attribuito – come oggi parrebbe emergere dalla relazione illustrativa nel commento all’art. 216 CCII e come si è sostenuto dai primi commentatori – ad un organo diverso.

   

3. Liquidazione dell’attivo, stravaganze regolatorie e «valore di mercato».

L’efficienza dell’attività liquidatoria peraltro non dipende esclusivamente dalla costruzione di un’appropriata combinazione di incentivi e sanzioni volta ad allineare l’azione degli organi della liquidazione giudiziale agli interessi dei creditori.

La definizione di un modello ottimale di procedimento liquidatorio presuppone anche che lo svolgimento dell’attività di liquidazione sia regolato in modo coerente con la natura (economica) dell’attività da regolare ossia «senza formalità ingombranti, con quegli stessi criteri di pratica convenienza e di accorta prudenza a cui si ispirano nel trattare i migliori uomini di affari» e «attraverso l’adozione di quei modi di liquidazione […] che la pratica delle libere contrattazioni ha dimostrato più celeri e più vantaggiosi» ([24]).

Ne deriva che nella costruzione di quel modello non può assolutamente prescindersi dall’osservazione dei mercati reali ([25]) in cui vengono scambiati i beni che formano oggetto dell’attività di liquidazione ([26]).. Da un lato, appare, infatti, logicamente incoerente rispetto allo scopo dell’attività liquidatoria – ossia conseguire dalla monetizzazione dei beni del debitore insolvente prezzi di realizzo quanto più prossimi al loro market value – e, in ultima analisi, lesivo del principio di effettività della tutela dei creditori (e dello stesso debitore), il ricorso a strategie e meccanismi di allocazione dell’attivo stravaganti rispetto alle pratiche osservabili nei mercati in cui deve svolgersi la vendita e, quindi, inadatti per definizione a determinare esiti equivalenti a quelli ottenibili in un contesto di mercato. Dall’altro, il principale effetto di simili stravaganze regolatorie ([27]) è quello di rendere eccentriche ([28]) ed il più delle volte patologicamente opache le vendite giudiziarie rispetto ai mercati che ne dovrebbero rappresentare l’essenziale punto di riferimento, con risultati normalmente assai negativi quanto ai tempi di perfezionamento, ai costi delle procedure e ai relativi valori di realizzo; risultati negativi cui sono associati, in definitiva, gravissimi danni reputazionali all’intero settore delle vendite attuate nell’ambito del circuito giudiziario.

Inoltre, quale che sia il grado di fiducia che può nutrirsi nelle forze di mercato, una disciplina delle operazioni liquidatorie orientata a ‘mimarne’ i meccanismi di funzionamento è resa desiderabile dal fatto che il mondo reale è un luogo di continui cambiamenti dove i gusti e i bisogni degli individui, l’offerta dei fattori di produzione e la tecnologia sono in permanente mutamento, ma «quali beni siano scarsi o quali cose siano beni e quanto essi siano scarsi o che valore abbiano sono precisamente [queste] le cose che la concorrenza deve scoprire» ([29]). E’ perciò buona regola guardare sempre con cauta diffidenza all’ambizione, talora coltivata dagli apparati burocratici, di sostituirsi unilateralmente al processo concorrenziale nella invenzione di nuovi prodotti, di nuove tecnologie e di nuovi mercati.

L’importanza decisiva dell’osservazione dei mercati reali in cui vengono scambiati i beni che formano oggetto dell’attività di liquidazione deriva, infine, molto semplicemente da ciò che anche per l’attività di liquidazione (volontaria o giudiziale), come per qualsiasi altra attività orientata dal calcolo economico, vale la legge universale in economia per cui there’s not such thing as a free lunch: non esistono pasti gratis; c’è sempre qualcuno che deve pagare il conto.

   

4. Liquidazione dell’attivo e ‘processualismo’: nostalgia verso un passato inglorioso?

Si trova scritto nella relazione ministeriale di accompagnamento al nuovo codice, che al giudice delegato «sono attribuite, in continuità con l’attuale impostazione [della legge fallimentare], non più funzioni di direzione della procedura, ma di vigilanza e di controllo sulla regolarità della stessa, essendo l’amministrazione dei beni del debitore rimessa al curatore» (sub art. 123) e che viene così ribadita nel codice «la netta distinzione di ruolo tra i vari organi della procedura già prevista dall’attuale disciplina» che assegna «al solo curatore l’amministrazione del patrimonio compreso nella liquidazione», fermo restando che «tutte le attività compiute dal medesimo nell’ambito delle sue funzioni [sono] soggette alla vigilanza del [giudice delegato] e del comitato dei creditori» (sub art. 128).

Sennonché, proseguendo nella lettura della relazione illustrativa, si scopre inaspettatamente che, malgrado la dichiarata intenzione di «rafforzare i poteri del curatore» ([30]), a dispetto della proclamata «continuità» con l’attuale disciplina e nonostante la volontà di ribadire «la netta distinzione di ruolo tra i vari organi della procedura», il giudice delegato «nella prospettiva della riforma, è destinato [...] a riacquistare un ruolo centrale poiché a lui è affidata la determinazione delle modalità di liquidazione dei beni attualmente rimessa alle scelte del curatore» (sub art. 216). Conferme testuali di questo ‘innovativo’ assetto che parrebbe restituire al giudice delegato un ruolo dirigente e propulsore dell’attività liquidatoria – non lontano da quello che gli era conferito dalla legge fallimentare nella sua versione originaria e che ancora oggi secondo le visuali correnti caratterizza il ruolo del giudice dell’esecuzione nel processo per espropriazione – sembrerebbero trovarsi, in effetti, nell’art. 216 del codice i cui commi 2, 3 e 5 stabiliscono rispettivamente che: a) le «vendite e gli altri atti di liquidazione […] sono effettuati dal curatore o dal delegato alle vendite tramite procedure competitive, anche avvalendosi di soggetti specializzati, con le modalità stabilite con ordinanza dal giudice delegato» (comma 2); b) che il giudice delegato «può disporre che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati vengano effettuate secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili» (comma 3); c) che il giudice delegato «dispone la pubblicità, sul portale delle vendite pubbliche, della ordinanza di vendita e di ogni altro atto o documento ritenuto utile e può disporre anche ulteriori forme di pubblicità idonee ad assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati» (comma 5).

Allargando un poco l’orizzonte oltre il testo dell’art. 216 si trova però ancora ripetuto nell’art. 213 del codice sulla falsariga dell’art. 104-ter L.F., e a differenza di ciò che accade nell’esecuzione singolare, che «non oltre centottanta giorni dalla […] apertura della liquidazione giudiziale il curatore deve predisporre un programma di liquidazione da sottoporre all’approvazione del comitato dei creditori» (comma 1) in cui «sono indicati separatamente criteri e modalità della liquidazione dei beni immobili, della liquidazione degli altri beni e della riscossione dei crediti con indicazione dei costi e dei presumibili tempi di realizzo» (comma 3), «le modalità di cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco» (comma 4), nonché «il termine entro il quale avrà inizio l’attività di liquidazione dell’attivo ed il termine del suo presumibile completamento» (comma 5). E si legge, altresì, sempre nell’art. 213 del codice che il giudice delegato «autorizza i singoli atti liquidatori in quanto conformi al programma di liquidazione» predisposto dal curatore (comma 7).

Nella regolamentazione dettata dagli artt. 213 e 216 del CCI si annida, com’è evidente, unainsidiosa antinomia tra disposizioni normative che almeno apparentemente in contraddizione tra loro attribuiscono contemporaneamente al curatore e al giudice delegato la funzione di determinare le condizioni di svolgimento della liquidazione. Il compito di ‘stabilire’ con ordinanza le modalità delle vendite e degli altri atti di liquidazione, assegnato dal codice al giudice delegato sul modello di quanto avviene nell’esecuzione singolare, appare, infatti, a prima vista del tutto inconciliabile con il dovere che incombe sul curatore di programmare l’attività di liquidazione sotto la propria esclusiva ed indeclinabile responsabilità (art. 129, comma 1, e 136 comma 1, CCII), predefinendo i ‘criteri’ e le ‘modalità’ di dismissione del patrimonio del debitore.

L’interferenza del giudice delegato in questo ambito appare altresì in contraddizione con il dovere che fa capo al curatore di fornire con il programma di liquidazione una stima dei ‘costi’ e dei presumibili ‘tempi’ di realizzo dell’attivo i quali, a loro volta, sono necessariamente influenzati dalla concreta articolazione del processo di dismissione degli assets del debitore. Sicché una volta attribuito al giudice delegato ad es. il compito di prescrivere le forme di pubblicità delle vendite immobiliari risulta completamente irrazionale la pretesa normativa di un impegno (e di una correlativa responsabilità) del curatore in relazione ai tempi e ai costi della liquidazione i quali verrebbero essenzialmente a dipendere dalle decisioni assunte da un altro organo della procedura.

Un’ulteriore incongruenza è poi ravvisabile tra il regime dettato dal comma 7 dell’art. 213 che affida al giudice delegato il compito di ‘autorizzare’ i singoli atti liquidatori prospettati dal curatore se e in quanto conformi al programma di liquidazione, da un lato, e il comma 2 dell’art. 216, dall’altro, che, come si è detto, sembra invece conferire al giudice delegato la funzione di deliberare in autonomia – come per lo più accade secondo l’opinione corrente nel processo per espropriazione individuale – le condizioni di svolgimento del marketing dei beni del debitore, relegando il curatore in un ruolo meramente esecutivo della volontà del giudice (le vendite e gli altri atti di liquidazione “sono effettuati dal curatore o dal delegato alle vendite […] con le modalità stabilite con ordinanza dal giudice delegato”).

Sennonché dovrebbe esser chiaro che l’«autorizzare» atti o attività altrui – un provvedere che secondo le classificazioni prevalenti appartiene alla tipologia degli atti di controllo ([31]) – è incompatibile con lo «stabilire», atteso che «una cosa è volere consentire il compimento di un atto, altra cosa è volere compiere il medesimo e porre in essere i relativi effetti» ([32]). Quindi delle due l’una: o il giudice delegato, nell’ambito delle sue prerogative di controllo, è competente ad autorizzare (verificata la loro conformità alla legge e al programma di liquidazione) gli atti liquidatori progettati dal curatore; oppure è competente a dettare autoritativamente le modalità della liquidazione, eventualmente sentite le osservazioni non vincolanti del curatore e dei creditori, senza che vi sia alcunché da autorizzare (i.e. da controllare); tertium non datur ([33]).

D’altro canto, l’interpretazione riduttiva secondo cui l’art. 216 conferisce al giudice delegato soltanto “la responsabilità della redazione dell’ordinanza di vendita, cioè dell’atto definitivo, contenente tutte le modalità e condizioni di vendita chiaramente enunciate e conoscibili” senza alcune ingerenza nel merito della gestione ([34]) per quanto apprezzabile, per un verso, è contraddetta dall’opinione, non vincolante ma comunque autorevole, manifestata sul punto dalla relazione illustrativa e, per altro verso, soprattutto finisce per svuotare di effetti l’ordinanza di vendita, risolvendo in un’inutile formalità l’attività del giudice che, dopo avere già autorizzato con decreto motivato (artt. 123, ult. comma, e 213, comma 7, CCII) il singolo atto liquidatorio completo di tutti i suoi elementi come prospettato dal curatore, dovrebbe poi limitarsi a recepire in un ulteriore provvedimento in forma di ordinanza le condizioni puntuali della vendita (ad es. giorno e luogo dell’asta, forme di pubblicità, scadenza del termine per la presentazione delle offerte, prezzo base, ammontare della cauzione, termine per il versamento del prezzo, eventuale rateazione, etc.) indicate nel programma di liquidazione o comunque prestabilite dal curatore e veicolate al giudice attraverso un’apposita istanza attuativa del programma.

L’incoerenza sistematica del regime delineato dal codice non sarebbe meno significativa se il disegno di recuperare “un ruolo centrale” al giudice delegato fosse limitato anche soltanto all’alternativa tra la vendita con procedura competitiva (comma 2) e la vendita effettuata secondo la disciplina del codice di rito (comma 3), atteso che quest’ultima forma, lungi dal costituire un equivalente della procedura competitiva come spesso impropriamente si sostiene in una visione esclusivamente processualistica del fenomeno ([35]), implica, almeno alla stregua delle opinioni correnti circa il ruolo del giudice dell’esecuzione nel processo esecutivo, un radicale mutamento dell’assetto delle competenze e delle responsabilità nella gestione dell’attività liquidatoria, attraverso una riappropriazione da parte del giudice delegato di compiti di direzione che in un adeguato bilanciamento del sistema di incentivi e sanzioni dovrebbero, di regola, cadere nella sfera di attribuzioni indeclinabili del curatore: prerogative che quest’ultimo dovrebbe esercitare secondo il criterio della diligenza professionale per promuovere con successo gli interessi dei suoi principal (i creditori) e la cui prestazione dovrebbe essere appositamente remunerata alla stregua dei risultati conseguiti secondo un ben disegnato sistema di tipo pay-for-performance.

Ancora più incongrua e perniciosa, se possibile, appare, infine, la norma che sembra assegnare al giudice delegato il potere discrezionale di disporre «ulteriori forme di pubblicità [diverse dalla pubblicità necessaria sul portale delle vendite pubbliche] idonee ad assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati» (comma 5), atteso che il rispetto degli impegni assunti con il programma di liquidazione (v. artt. 136 e 213, ult. comma), il successo delle operazioni liquidatorie, i tempi di realizzo e la massimizzazione del valore degli assets nell’interesse dei creditori, dipendono pressoché esclusivamente dalla capacità del curatore di disegnare sotto la propria responsabilità, eventualmente con l’assistenza di intermediari specializzati, un’adeguata campagna di promozione commerciale, selezionando i canali di pubblicità più efficaci nelle singole circostanze, di tal ché la disposizione in esame, se intesa in modo letterale, finirebbe per svuotare sostanzialmente di qualsiasi valore impegnativo il programma di liquidazione, annientando il principio di necessaria correlazione tra autonomia e responsabilità gestoria del curatore che dovrebbe costituire il fondamento di una governance ottimale delle procedure d’insolvenza.

   

5. Ordinanza di vendita e programma di liquidazione: giudice dell’esecuzione vs. giudice delegato. I sospetti di incostituzionalità.

Constatato, tuttavia, che il riconoscimento in capo al giudice delegato di poteri di direzione dell’attività liquidatoria assimilabili a quelli conferiti al giudice dell’esecuzione individuale (e in passato riconosciuti al giudice delegato dagli artt. 104-108 L.F.) è non soltanto privo di una sufficiente base normativa nella legge delega ma si pone in contraddizione con le direttive del legislatore delegante che a) mirano a rendere più efficace l’azione del curatore, valorizzando, tra l’altro, la funzionalità del programma di liquidazione (art. 7, comma 2, l. 155/2017), e b) impongono al legislatore delegato l’adozione di “misure di responsabilizzazione” degli organi di gestione al fine di conseguire il contenimento dei costi e della durata delle procedure (art. 2, comma 1, lett. l, l. 155/2017), la via per giungere ad una soluzione per quanto possibile soddisfacente e costituzionalmente conforme del problema dei rapporti tra giudice delegato e curatore nello svolgimento dell’attività liquidatoria non può che muovere rispettivamente da alcuni dati testuali e da una valutazione complessiva del sistema.

Il primo dato testuale è offerto dallo stesso art. 216 CCII il quale prevede al comma 2 che le vendite e gli altri atti di liquidazione sono posti in essere dal curatore (o da un suo delegato) mediante procedure competitive “in esecuzione del programma di liquidazione”,ossia in attuazione dei «criteri», delle «modalità», dei «costi» e dei «tempi» contemplati dal piano d’azione elaborato dal curatore (art. 213, commi 1 e 3) e approvato dal comitato dei creditori (art. 213, comma 1).

Un secondo dato testuale è offerto dal comma 7 dell’art. 213 il quale, come si è visto, dispone che il giudice delegato «autorizza i singoli atti liquidatori» prospettati dal curatore (non in quanto opportuni, utili, convenienti, etc. ma) «in quanto conformi al programma approvato» dal comitato dei creditori.

Ora, se il curatore è tenuto nel compimento dei singoli atti liquidatori ad attuare il programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditorie se il giudice delegato è chiamato ad autorizzare gli atti liquidatori progettati dal curatore previo riscontro della loro conformità al programma, ossia previa verifica che siano rispettati dal singolo atto i criteri, le modalità, i costi e i tempi previsti, tanto dovrebbe implicare logicamente non vi è alcuno spazio per un’autonoma deliberazione delle modalità di svolgimento dell’attività liquidatoria ad opera del giudice delegato che possa incidere successivamente all’approvazione del programma di liquidazione sui criteri, sulle modalità, sui costi e sui tempi prestabiliti dal curatore ([36]).

Inoltre, se l’autorizzazione del giudice delegato è vincolata al parametro della conformità dell’atto liquidatorio al programma, ciò significa, per un verso, che l’oggetto dello scrutinio del giudice è costituito propriamente dal raffronto tra i criteri, le modalità, i costi e i tempi della liquidazione declinati a livello di dettaglio dal curatore in riferimento al singolo asset, con i criteri, le modalità, i costi e i tempi programmati in riferimento alle diverse categorie di beni; per altro verso, che la valutazione demandata al giudice delegato non può eccedere tale ambito e che il giudice non può pertanto prescrivere criteri e modalità di liquidazione diversi da quelli progettati dal curatore e sottoposti al suo vaglio, ma soltanto rifiutare l’autorizzazione invitando il curatore a riesaminare l’atto progettato laddove sia difforme per qualche aspetto dal programma di liquidazione o sia contrario alla legge.

Ne risulta allora, a ben vedere, che non residuano effettivi spazi per determinazioni autonome del giudice delegato rispetto alle scelte che formano il contenuto di dettaglio dell’atto liquidatorio (giorno e luogo dell’asta, forme di pubblicità, intermediari specializzati, termine e luogo per la presentazione delle offerte, prezzo base, ammontare della cauzione, termine per il versamento del prezzo, eventuale rateazione, etc.), a meno di non annullare la portata della disposizione che ne circoscrive la competenza all’autorizzazione dei singoli atti liquidatori (213, comma 7).

La controprova che non sono immaginabili reali ambiti di autonomia del giudice è offerta dalle scarne e mal coordinate disposizioni dell’art. 216, comma 7, che sembrano delineare il contenuto della sua «ordinanza di vendita»: il termine per la presentazione delle offerte; il prezzo base della procedura di vendita e la cauzione. Ebbene se si riflette un attimo su questi elementi, emerge, da un lato, che il termine di presentazione delle offerte (art. 216 comma 7 primo periodo), così come il giorno e il luogo dell’asta, non possono non rientrare ragionevolmente, in una procedura competitiva amministrata dal curatore, nell’agenda propria di quest’organo e nella sfera minima della sua capacità di autorganizzazione, sicché il giudice delegato non potrebbe che limitarsi a recepire passivamente nella sua «ordinanza» le indicazioni contenute nel progetto di atto liquidatorio che gli viene presentato dal curatore. Dall’altro, il potere di determinazione del prezzo base apparentemente riconosciuto ex ante al giudice delegato dall’art. 216 comma 7 secondo periodo, non solo non trova più riscontro neppure nella disciplina delle procedure esecutive individuali dove è da tempo attribuito alla competenza del professionista delegato (art. 591-bis, comma 3, n. 1 c.p.c.), ma si pone anche in termini fortemente distonici rispetto al dovere di impedire ex post il perfezionamento della vendita, «su istanza del debitore, del comitato dei creditori o di altri interessati», «quando il prezzo offerto risulti notevolmente inferiore a quello ritenuto congruo» (art. 217). Non si vede, infatti, in quali circostanze il giudice delegato potrebbe giudicare «notevolmente incongruo» un prezzo che lui stesso ha fissato in un sistema in cui a) se il prezzo offerto dall’aggiudicatario è inferiore in misura non superiore ad un quarto il giudice può impedire il perfezionamento della vendita soltanto «in presenza di concreti elementi idonei a dimostrare che un nuovo esperimento di vendita può consentire con elevato grado di probabilità, il conseguimento di un prezzo perlomeno pari a quello stabilito [i.e. al prezzo base]» e b) in cui lo stesso giudice è abilitato a sospendere in qualsiasi momento le operazioni di vendita «per gravi e giustificati motivi» e così ad es. se siano scoperti o sopravvenuti fatti nuovi successivi all’aggiudicazione, se siano scoperte interferenze illecite che abbiano influito sul processo di vendita o se il prezzo del bene sia stato determinato in forza di dolo, scoperto dopo l’aggiudicazione ([37]).

Vero è che la disciplina dettata dall’art. 216 e il potere di sospensione previsto dall’art. 217 riacquistano invece una propria razionalità e coerenza là dove si reputi – come avviene nell’attuale legge fallimentare – che il prezzo e le altre condizioni contrattuali della vendita debbano essere determinati sotto la propria esclusiva responsabilità dal curatore quali elementi integranti il contenuto dei singoli atti liquidatori, e che al giudice resta riservato dalla legge soltanto un potere di intervento ex post condizionato alla preventiva sollecitazione di parte, essendo senz’altro preclusa qualsiasi ingerenza officiosa ex ante del giudice sul merito del prezzo e delle altre condizioni in occasione del controllo di conformità al programma di liquidazione.

La soluzione che si è qui prospettata è peraltro sostenuta da una considerazione di sistema che appare difficilmente contestabile: anche nel nuovo codice il curatore «ha l’amministrazione del patrimonio compreso nella liquidazione giudiziale [ed è abilitato a compiere] tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite» (artt. 128 e 132 CCII). E, si badi, il potere di amministrazione conferito dalla legge al curatore non riguarda solo il compimento degli atti dell’amministrazione ordinaria del patrimonio in liquidazione ma si estende, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, al compimento – e quindi alla decisione delle condizioni economiche e giuridiche – di tutti gli «atti di straordinaria amministrazione» quale che ne sia il valore (art. 132 CCII), sicché le decisioni riguardanti le modalità di vendita dei beni, il pricing e le altre condizioni contrattuali non possono essere sottratte al curatore senza sovvertire completamente il criterio generale di ripartizione delle competenze stabilito dalle norme in esame e senza creare una ingiustificabile differenza tra gli atti di amministrazione straordinaria che si configurano anche come atti liquidatori e quelli che, pur essendo atti di straordinaria amministrazione, non sono in senso stretto liquidatori. Per altro verso, anche nel nuovo codice competono al giudice delegato esclusivamente funzioni di supervisione e di controllo volte ad assicurare la “regolarità” nonché “il corretto e sollecito svolgimento della procedura” (art. 123 CCII); funzioni che si esprimono ancor oggi tipicamente nella forma di «autorizzazioni» preordinate al controllo di legittimità di atti, istanze e operazioni progettati ed attuati dal curatore sotto la propria responsabilità (artt. 123, 136, 211, 212, 213), nonché nella forma di decisioni su reclami per violazione di legge contro gli atti di amministrazione e le omissioni del curatore e, nei casi più gravi, nella proposta motivata di revoca al tribunale concorsuale (art. 134) ([38]). In alcun caso il giudice delegato è invece abilitato dalla legge ad emanare ordini, istruzioni o direttive vincolanti in materia di gestione o a sostituirsi all’organo amministrativo nel compimento di singoli atti gestori ([39]), non essendo configurabile un generale dovere di obbedienza del curatore al di fuori dell’ipotesi in cui sia accolto un reclamo contro il suo operato o siano altrimenti riscontrate dal giudice violazioni di legge nella sua condotta (nel qual caso il curatore «deve conformarsi alla decisione del giudice delegato» ex art. 133, comma 2) e dovendosi certamente escludere, per altro verso, che l’eventuale obbedienza de facto del curatore a ordini, istruzioni o direttive del giudice delegato possa valere quale causa di esonero dalla responsabilità nei confronti dei creditori per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività liquidatoria (art. 136) ([40]).

Da tutto ciò il rilievo che le modalità della liquidazione “stabilite” dal giudice delegato secondo la lettera dell’art. 216, comma 2, CCII, altro non sono, in realtà, che gli stessi criteri, condizioni e modalità progettati dal curatore e “autorizzati” dal giudice delegato con decreto, ai sensi dell’art. 213, comma 7, CCII e, in definitiva, la conclusione che le vendite e gli altri atti di liquidazione devono essere compiuti dal curatore in esecuzione del programma di liquidazione tramite procedure competitive, non già secondo le modalità «stabilite con ordinanza» del giudice delegato come apparentemente risulta dall’enunciato del comma 2 dell’art. 216, bensì più propriamente con le modalità autorizzate con decreto dal giudice delegato. Risultato, questo, anti-letterale che tuttavia non può sorprendere eccessivamente l’interprete se si tiene conto della modesta qualità tecnica del codice (destinato a subire correzioni e integrazioni ancor prima di entrare in vigore e per i due anni successivi giusta la legge 8 marzo 2019, n. 20) ([41]), della presenza di vari refusi (v. ad es. gli artt. 125, 197, 262 ove è ancora riportata la parola “fallimento” abolita dal lessico della riforma) e della imprecisione del dettato legislativo che caratterizza l’intero art. 216, dovuta al frettoloso innesto di frammenti sparsi di disciplina delle espropriazioni individuali ([42]). Innesto frettoloso e scarsamente meditato come appare subito evidente appena si considera, tra l’altro, che: a) i provvedimenti del giudice delegato sono sempre pronunciati con decreto motivato e non con ordinanza (art. 123, ult. comma); b) l’autorizzazione dei singoli atti liquidatori di cui all’art. 213, comma 7, in mancanza di diversa disposizione, deve esser data con decreto motivato sicché l’interpretazione letterale della disposizione conduce, tra l’altro, ad un’inutile duplicazione di provvedimenti in forme diverse con aggravio ingiustificato del lavoro del giudice e delle cancellerie; c) non è prefigurato dal codice alcun rimedio tipico avverso le “ordinanze” del giudice delegato mentre è stata pressoché integralmente confermata la disciplina del reclamo contro i decreti del giudice delegato e del tribunale concorsuale (art. 124); e) in altra disposizione è previsto che il giudice delegato stabilisce con decreto (e non con ordinanza) il tempo della vendita, determinandone le modalità a norma dell’art. 216, dei beni posti a garanzia dei crediti assistiti da pegno e privilegio (art. 152, comma 2).

   

6. Procedure competitive, codice di rito e proper marketing.

Le considerazioni svolte fin qui, dirette, per un verso, a neutralizzare i sospetti di incostituzionalità che incombono sulla disciplina dettata dall’art. 216 CCII e, per altro verso, a consentire una corretta attuazione del principio di correlazione tra potere e responsabilità gestoria nell’attività di liquidazione, agevolano altresì la ricostruzione del significato dei commi 3 e 5 della disposizione in esame.

Rilevato, infatti, che le vendite e gli altri atti di liquidazione devono essere posti in essere «in esecuzione del programma di liquidazione […] dal curatore o dal delegato alle vendite […]» dovrebbe derivarne anzitutto che il potere, ora riconosciuto al giudice delegato dal comma 3 dell’art. 216, di «disporre che le vendite di beni mobili, immobili e mobili registrati vengano effettuate secondo le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili» deve collocarsi temporalmente in un momento anteriore all’approvazione del programma di liquidazione, atteso che la legge non abilita il giudice a modificare ex post il programma approvato dal comitato dei creditori ma gli conferisce soltanto il potere di autorizzarne “la sottoposizione al comitato dei creditori per l’approvazione” ed è quindi in questa fase che può eventualmente profilarsi un intervento dell’organo giurisdizionale.

Va altresì osservato che, una volta venuta meno in base al comma 3 dell’art. 216 la possibilità che le vendite «vengano effettuate dal giudice delegato», secondo la previsione dell’attuale art. 107, comma 2, L.F., anche le vendite realizzate secondo le disposizioni del codice di rito dovrebbero rientrare nella sfera di competenza esclusiva del curatore o di un soggetto delegato dal curatore secondo la disciplina dell’art. 129 CCII. Dovrebbe, infatti, considerarsi tipologicamente incompatibile con il sistema di ripartizione delle responsabilità gestorie disegnato dal CCII l’istituto della delega delle operazioni di vendita a favore di un professionista nominato dal giudice qual è previsto per il processo esecutivo individuale (artt. 534-bis e 591-bis c.p.c.) e ciò sia (i) perché il giudice delegato, diversamente dal giudice dell’esecuzione, non è titolare di autonomi poteri di nomina, ad eccezione dell’ipotesi di cui all’art. 123, comma 1, lett. g) (nomina di arbitri da esercitarsi peraltro significativamente «su proposta del curatore») sia (ii) soprattutto perché, ragionando altrimenti, finirebbe per attribuirsi al giudice delegato il potere discrezionale di disporre unilateralmente delle competenze gestorie del curatore sottraendolo alla responsabilità per l’amministrazione del patrimonio in liquidazione che gli deriva, per legge, dalla designazione del tribunale concorsuale; organo, questo, cui in via esclusiva spetta nominare il curatore (e «se utile, uno o più esperti per l’esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore» ai sensi dell’art. 44, comma 3, lett. c), CCII).

Ne deriva, sempre nella medesima prospettiva, che il giudice delegato non è dotato di un generale potere di avocazione delle operazioni liquidatorie e che l’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile non può implicare una alterazione dell’ordine delle competenze (e delle responsabilità) degli organi della procedura. Devono, quindi, considerarsi tipologicamente inconciliabili con la disciplina della liquidazione giudiziale anche le disposizioni del codice di rito che, sulla base del generale potere di direzione dell’espropriazione forzata, attribuiscono al giudice dell’esecuzione il potere di stabilire con ordinanza i criteri, le modalità, i tempi e le condizioni giuridiche ed economiche delle vendite (ad es. 530 e 569) nonché quelle disposizioni che gli attribuiscono il potere di aggiudicare e trasferire con decreto all’aggiudicatario il bene espropriato (art. 587 c.p.c.), atteso che il compito di programmare le modalità delle vendite e di attuare il trasferimento dei beni che compongono il patrimonio del debitore sottoposto a liquidazione giudiziale ricadono nell’area delle prerogative di amministrazione di cui è titolare esclusivo il curatore.

Ne risulta che la portata del rinvio nei limiti di compatibilità alle disposizioni del codice di rito deve intendersi circoscritta alla possibilità per il giudice delegato di prescrivere, nell’esercizio dei suoi poteri di controllo sulla legittimità dell’azione gestoria (art. 123 CCII), l’adozione delle regole materiali dettate per le vendite mobiliari e immobiliari dal codice di procedura civile e in particolare il potere di prescrivere che le operazioni di vendita, pur sempre dirette dal curatore, si svolgano, in tutto o in parte, secondo la disciplina integrativa delle vendite senza incanto o con incanto, senza che vi sia però alcuna possibilità per il giudice di interferire nella determinazione delle condizioni giuridiche ed economiche delle singole operazioni ([43]).

Il principio di necessaria correlazione tra autonomia e responsabilità gestoria impone altresì una interpretazione dell’art. 216, comma 5, coerente con la competenza indelegabile del curatore (art. 129, comma 1, e 136 comma 1, CCII) per quanto riguarda la definizione dei ‘criteri’ e delle ‘modalità’ di dismissione del patrimonio del debitore, nonché dei ‘costi’ e dei presumibili ‘tempi’ di realizzo dell’attivo i quali sono a loro volta necessariamente influenzati dalla concreta articolazione del processo di dismissione. Ne discende allora, da un lato, che deve essere mantenuta ferma la responsabilità gestoria del curatore per la scelta (da compiersi secondo il canone della diligenza professionale) dei canali e dei metodi di promozione commerciale più appropriati; dall’altro, che il potere del giudice delegato di disporre – in aggiunta alla pubblicità sul portale delle vendite pubbliche – «anche ulteriori forme di pubblicità idonee ad assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati» non può implicare alcuna ingerenza nel merito della gestione ma deve essere inteso, ancora una volta, come esplicazione della funzione di controllo sulla regolarità della procedura riconosciuta al giudice delegato dall’art. 123 CCII. Con la conseguenza che il potere in esame potrà essere attivato dal giudice soltanto allorché emerga l’incompatibilità delle strategie di commercializzazione prefigurate dal curatore nel programma di liquidazione con il principio che impone che le vendite dei beni del debitore siano precedute da un «proper marketing» al fine di conseguire prezzi il più possibile allineati ai valori di mercato ([44]). Ne deriva altresì che tale potere dovrà essere esercitato dal giudice nell’ambito del riscontro della legittimità del programma di liquidazione e prima di autorizzarne la trasmissione al comitato dei creditori per l’approvazione (art. 217, comma 7). E ne discende ulteriormente che l’intervento del giudice può essere rivolto esclusivamente a prescrivere l’adozione da parte del curatore di idonee «forme di pubblicità», mentre deve respingersi l’idea che il giudice possa legittimamente imporre al curatore l’impiego di specifici canali di pubblicità o specifici mezzi di informazione (ad es. questo o quell’altro sito internet, questo o quell’altro giornale, etc.), traducendosi l’eventuale ordine di utilizzare un particolare mezzo di pubblicità in una indebita immistione di fatto nell’attività di amministrazione.

   

7. La pubblicità nel codice della crisi, il portale delle vendite pubbliche e il bazaar di Sefrou.

Notava acutamente F. Carnelutti nelle sue Lezioni di diritto processuale civile, a proposito della vendita forzata, che lo «scambio di cosa contro denaro esige […] in primo luogo l’incontro tra i due soggetti dello scambio» e che «questo incontro non è quasi mai fortuito» poiché «anche nella vendita volontaria uno dei due, precisamente quello che prende l’iniziativa dello scambio, ricerca l’altro». Scriveva F. Carnelutti che «in questa ricerca giova anzitutto la mediazione e, in secondo luogo, sempre meglio, nelle varie sue forme la pubblicità» ([45]). L’illustre scrittore, inoltre, registrando già a quel tempo la «scarsissima diffusione del foglio degli annunzi giudiziari» osservava che «certo nessun privato ricorrerebbe a mezzi di pubblicità così fatti» e auspicava che la riforma del processo esecutivo si orientasse verso «forme più efficaci e soprattutto [per l’impiego] della pubblicità comune il cui costo [avrebbe eventualmente potuto] essere moderato imponendo agli imprenditori di essa un dovere processuale» ([46]). A quasi un secolo di distanza dalle notazioni dell’autorevole giurista, può affermarsi con sicurezza che la pubblicità costituisce una leva cruciale del processo di commercializzazione di qualsiasi tipologia di bene e, quindi necessariamente, anche del marketing dei beni venduti nel circuito dell’esecuzione individuale e dell’esecuzione collettiva ([47]). Uno dei principali problemi dei mercati a concorrenza imperfetta messi in luce dalla teoria economica a partire dal XX secolo riguarda, infatti, le difficoltà e i costi in cui incorrono i partecipanti al mercato nella scoperta dei prodotti resi disponibili dalle imprese, dei loro prezzi, delle relative qualità e dei luoghi dove reperirli; nel linguaggio degli economisti le attività attraverso le quale si raccolgono questo tipo di informazioni prendono il nome di “processo di ricerca” (search process). Poiché la ricerca “è un attività economica costosa” – si è scritto – e siccome “il cercare termina prima che tutta l’informazione rilevante sia ottenuta” anche se esistono migliori offerte perché “è semplicemente troppo costoso trovarle” ([48]), i mercati hanno sviluppato – come già scriveva F. Carnelutti – due principali strategie per rimediare al problema dell’informazione limitata: a) gli intermediari dell’informazione (ad es. i grandi magazzini, le agenzie immobiliari, i supermaket, i siti di comparazione dei prezzi, etc.) i quali guadagnano la loro reputazione grazie alla capacità di selezionare per conto dei consumatori i prodotti offerti sul mercato dalle imprese; b) la pubblicità commerciale che svolge l’importante funzione di mettere in contatto imprese e consumatori, informando i potenziali acquirenti dei prodotti offerti, dei prezzi e dei luoghi dove trovarli ([49]).

La regolamentazione legislativa della pubblicità nelle procedure liquidatorie, collettive e singolari, svolge o dovrebbe svolgere quindi il compito essenziale di facilitare l’attività di ricerca dei potenziali acquirenti, mettendo in contatto venditori e compratori. Se il disegno del meccanismo pubblicitario congegnato dal legislatore non è in grado di adempiere la funzione che il sistema economico gli assegna l’offerta dei beni del debitore insolvente troverà, infatti, più difficilmente dei destinatari e non potrà che rivolgersi a favore di una platea assai ristretta di insiders muniti di privilegi informativi per la vicinanza al debitore, ai creditori o agli organi della procedura, con effetti negativi sui valori di realizzo, sui tempi di liquidazione e, non ultimo, sulla reputazione complessiva del sistema.

Non è un caso, d’altro canto, che lo svolgimento di «un’adeguata promozione commerciale» rappresenti un elemento costitutivo dello stesso concetto normativo di «valore di mercato» recepito dal diritto dell’Unione europea, il quale consiste, appunto, nell’importo stimato al quale un bene può più probabilmente essere scambiato «after proper marketing» (art. 4, par. 1, n. 76), del Regolamento (UE) N. 575/2013). Da questa definizione normativa emerge, infatti, chiaramente che senza una pubblicità adeguata, senza un’adeguata promozione commerciale idonea a stimolare la domanda di un certo bene da parte di una pluralità di compratori in concorrenza tra loro, il prezzo ricavato dalla vendita non può che discostarsi significativamente dal suo market value in quanto prodotto dall’incrocio del tutto accidentale tra l’offerta e la domanda isolata di quel bene da parte di un compratore in posizione di monopolio.

Ebbene, l’impressione che si ricava esaminando la disciplina in tema di pubblicità contenuta nel nuovo codice è piuttosto sconfortante. L’ambiente in cui si svolge il processo di dismissione dei beni del debitore insolvente disegnato dal legislatore italiano riproduce le stesse proprietà della bazaar economy illustrate da Clifford Geertz ([50]): anche per il ‘nuovo’ diritto dell’insolvenza del XXI secolo, come per il bazar di Sefrou, può predicarsi che l’informazione “è povera, scarsa, maldistribuita e comunicata in modo inefficiente”. Dalla lettura dell’art. 216 CCII sembra invero emergere la credenza che l’incontro tra l’offerta dei venditori e la domanda dei compratori in una moderna economia di mercato sia il prodotto fortuito di azioni casuali piuttosto che il risultato razionalmente preordinato della pubblicità commerciale e dei servizi di marketing prestati in modo professionale da intermediari specializzati. Con un bizzarro rovesciamento dei criteri che dovrebbero guidare la selezione delle diverse forme di comunicazione al mercato, fino ad oggi opportunamente stabiliti dall’art. 107 L.F., l’art. 216 CCII s’incarica, infatti, anzitutto di prescrivere sulla falsariga dell’art. 490, comma 1, c.p.c. che la pubblicità venga effettuata avvalendosi del «portale delle vendite pubbliche»: un misterioso servizio di pubblicità legale on line ancor oggi di scarsissima diffusione, come già il foglio degli annunzi giudiziari criticato da F. Carnelutti agli inizi del ‘900, privo di qualsiasi riconoscibilità, stante la mancanza di adeguati investimenti volti a rafforzarne la rinomanza, gestito dal Ministero della giustizia secondo una logica burocratica anziché imprenditoriale ([51]); un servizio la cui caratteristica saliente, inoltre, data la vistosa mancanza di affidabili criteri di ricerca, visualizzazione e localizzazione dei beni offerti in vendita, è quella di essere completamente inservibile all’attività di ricerca dei potenziali acquirenti, in contraddizione con gli obiettivi di competitività e trasparenza delle vendite giudiziarie pure professati dalla legge delega ([52]).

Il codice sembra relegare poi tra le forme meramente eventuali la pubblicità commerciale e, quindi, anche i relativi siti internet specializzati, ossia i ‘luoghi’ (veri e propri supermarket on line) dove ormai si svolge in larghissima parte l’offerta dei venditori e l’attività di ricerca dei potenziali acquirenti, le cui potenzialità dovrebbero invece essere al centro del disegno legislativo di rafforzamento del marketing delle vendite pubbliche. Con l’ulteriore incongruenza, già segnalata, di affidare apparentemente alla discrezionalità del giudice delegato la scelta delle «ulteriori» forme di pubblicità così sottraendo la relativa decisione gestoria al regime di responsabilità di diritto comune, là dove, alla stregua dell’attuale art. 107 L.F., incombono sul curatore sia l’obbligo di assicurare con «adeguate forme di pubblicità», la più ampia informazione e partecipazione degli interessati, sia la connessa la responsabilità per i danni derivanti ai creditori concorsuali dalla vendita attuata senza un «proper marketing».

Lo stesso art. 216 continua inoltre ad avallare la pratica gravemente distorsiva, diffusissima presso i nostri tribunali e frettolosamente convalidata anche dalla giurisprudenza di legittimità ([53]), di fissare tempi di pubblicità eccessivamente brevi («almeno trenta giorni prima della vendita»), manifestamente incompatibili con i principali caratteri dell’attività di ricerca di un consumatore e a maggior ragione con l’attività di ricerca di un investitore o di un potenziale acquirente di un bene immobile o di un’azienda ([54]). Pratica, questa, che si pone in contrasto con il principio che impone al curatore di massimizzare l’interesse dei creditori concludendo transazioni a «valore di mercato» nel significato desumibile dall’art. 4, par. 1, n. 76), del Regolamento (UE) N. 575/2013 il quale, a sua volta, richiede lo svolgimento di una appropriata attività di commercializzazione e presuppone un sufficiente periodo di esposizione dell’offerta sul mercato, proporzionato alle diverse tipologie di beni, per permettere che ogni asset sia portato all’attenzione di un numero appropriato di attori di mercato.

Tutto ciò con la conseguenza indesiderabile di ostacolare la trasparenza del mercato, di favorire pratiche collusive e di ridurre a vuoto simulacro la competitività delle vendite. E con il risultato certamente inintenzionale ma assai deplorevole e pericoloso di riservare di fatto le vendite giudiziarie a una ristretta cerchia di persone, per lo più appartenenti alle categorie “family & friends”, così perpetuando l’opinione tradizionale che le liquidazioni giudiziali sono il «campo preferito delle speculazioni e delle frodi» ([55]).

L’insufficiente considerazione della materia non trova peraltro rimedio neppure nelle bozze di decreto correttivo fatte circolare di recente. Se è vero, infatti, che la riformulazione degli artt. 71 e 81, dedicati rispettivamente all’esecuzione del piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore e del concordato minore, opportunamente ([56]) ripristina, per le vendite che si svolgono in questi particolari ambiti, il principio fondamentale già stabilito dall’art. 107 L.F. nella sua originaria versione (e v. l’art. 212 CCII) secondo cui deve essere assicurata “con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati”, eliminando ogni riferimento al portale delle vendite pubbliche e alle vendite con modalità telematiche, il testo di queste norme, come dimostra la più recente giurisprudenza di legittimità, rischia inconsapevolmente di veicolare l’idea pericolosa che lo standard di adeguatezza si riferisca soltanto ai mezzi della pubblicità e non anche al timing della informazione al mercato,laddove anche i tempi dell’informazione sono altrettanto essenziali e devono essere stabiliti secondo criteri di coerenza e proporzionalità, tenendo conto della natura, delle caratteristiche e del valore dei beni, al fine di consentire ai potenziali offerenti lo svolgimento di una accurata due diligence, un sufficiente spatium deliberandi e la ricerca delle più convenienti fonti di finanziamento.

D’altro canto risulta piuttosto oscuro il motivo per cui i redattori dello schema correttivo hanno scelto di adottare formulazioni diverse, in tema di marketing dei beni (pubblicità, portale delle vendite pubbliche e vendite telematiche), negli artt. 71, 81 e 216 CCII così come è ancor più oscuro, alla luce della disciplina semplificata contenuta negli artt. 71 e 81, il significato del rinvio contenuto nell’art. 275, comma 2, CCII, dettato per la liquidazione controllata (una procedura anch’essa ‘minore’), alle “disposizioni sulle vendite nella liquidazione giudiziale in quanto compatibili”.

 

8. Le vendite telematiche: un nonsense upon stilts.

Il comma 4 dell’art. 216 CCII prevede che le vendite nella liquidazione giudiziale sono effettuate “con modalità telematiche tramite il portale delle vendite pubbliche, salvo che tali modalità siano pregiudizievoli per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura”. Il comma 7 della medesima disposizione aggiunge inoltre che “le offerte […] sono presentate attraverso il portale delle vendite pubbliche”. La disciplina dettata a questo proposito appare ancora una volta caratterizzata da una inspiegabile sciatteria. Anzitutto il legislatore ha perduto l’occasione di definire in modo appropriato le condizioni di applicazione del regime delle vendite telematiche: è noto infatti che a fronte dell’entusiasmo inizialmente manifestato in una parte della giurisprudenza, soltanto una minima parte dei tribunali italiani ha adottato, nell’ambito dei processi per espropriazione immobiliare, il modello della vendita telematica nella sua forma pura (sincrona o asincrona); la stragrande maggioranza dei tribunali ha scelto invece di optare per sistemi di vendita c.d. misti (telematica e analogica), consentendo la presentazione delle offerte anche in forma non telematica per evitare una riduzione delle vendite e il rallentamento dei processi esecutivi, mentre una parte significativa dei giudici dell’esecuzione ha ritenuto fino ad oggi che le barriere tecnologiche e i costi del sistema delle vendite telematiche, in assenza di una domanda di mercato sufficientemente diffusa nel settore immobiliare, giustifichino un’estesa applicazione della clausola di salvaguardia prevista a favore dei creditori e a garanzia della speditezza delle procedure dagli artt. 530 e 569 c.p.c.. E, infatti, poiché l’interesse dei creditori può esser pregiudicato da qualsiasi circostanza suscettibile di provocare alternativamente (a) una riduzione dei prezzi di realizzo o (b) l’aumento dei costi dell’esecuzione o (c) la dilatazione dei tempi di conclusione della vendita, si è da più parti sostenuto che l’obbligo del giudice di ordinare la liquidazione attraverso canali telematici debba intendersi condizionato alla prognosi che tale mezzo esecutivo non sia destinato ad incidere negativamente sul rendimento dell’esecuzione forzata (i.e. sul livello dei prezzi, sull’entità dei costi o sui tempi di alienazione del bene) che si otterrebbe comparativamente attraverso i canali fisici.

E’ prevedibile, quindi, che anche nel nuovo codice, così come nel processo esecutivo immobiliare, stante la «clausola di salvezza» adoperata dall’art. 216, il regime delle vendite telematiche venga considerato non tanto come un regime ‘ordinario’ cui contrapporre un eccezionale regime di ‘esenzione’, quanto piuttosto come una tecnica di commercializzazione dei beni da adottare, a seconda della natura, della localizzazione e del valore del singolo asset, a condizione che non pregiudichi il rendimento dell’attività liquidatoria e la speditezza delle vendite ([57]).

D’altro canto, anche per la liquidazione dei beni regolata dal CCII vale il rilievo che il modello delle vendite telematiche non appare idoneo a soddisfare con un apprezzabile grado di certezza alcuno dei presunti interessi pubblici che in ipotesi dovrebbe tutelare. Così può dirsi in riferimento all’obiettivo della ‘trasparenza’ delle procedure competitive, il quale può essere realizzato soltanto attraverso l’implementazione di adeguate strategie di commercializzazione in grado di veicolare efficacemente l’offerta ad una platea più possibile vasta e numerosa di potenziali acquirenti. Lo stesso può ripetersi in riferimento all’obiettivo della ‘competitività’ delle procedure di vendita atteso che la partecipazione di una pluralità di potenziali acquirenti alla procedura di vendita è anch’essa quasi esclusivamente influenzata, come accade nei mercati reali, dall’efficacia dei canali di pubblicità commerciale nonché dalla serietà e qualità complessiva del servizio di vendita (rapidità dei tempi di trasferimento del bene, capacità informativa della relazione di stima, garanzie per vizi, etc.). Completamente estraneo alla disciplina legislativa della vendita telematica appare, inoltre, a dispetto dell’opinione talora affiorata in letteratura, anche il proposito di sterilizzare i rischi di turbativa delle aste o di collusione tra i partecipanti. Da un lato, infatti, un siffatto interesse non può essere realisticamente soddisfatto dalle procedure telematiche in tutti i casi (ad es. le vendite immobiliari) in cui i potenziali acquirenti hanno bisogno di svolgere preventivamente una accurata due diligence sul bene prima di presentare un’offerta e devono quindi necessariamente prendere contatto diretto con la procedura e con i suoi attori. Dall’altro, le caratteristiche di segretezza e anonimato offerte dai gestori delle piattaforme telematiche non sono in alcun modo presidiate da uno statuto normativo che possa seriamente garantire, anche attraverso un autonomo apparato di sanzioni penali o amministrative, la serietà dei relativi servizi e, comparativamente, assicurarne una maggiore affidabilità rispetto al modello di vendita tradizionale. Inoltre, se la funzione essenziale del modello della vendita telematica fosse davvero quella di garantire la segretezza delle offerte e l’anonimato delle gare tale modalità non offrirebbe in realtà alcun significativo vantaggio supplementare rispetto alle forme della vendita tradizionale e finirebbe per presentarsi come una mera alternativa alla forma dell’offerta “in busta chiusa”, che è anch’essa certamente segreta (ex art. 571, comma 4, c.p.c.), e alla modalità della gara “tra presenti” che è anch’essa suscettibile di svolgersi, a scelta degli offerenti, in forme anonime e spersonalizzate mediante la nomina di sostituti professionali (ex art. 579, commi 2 e 3, c.p.c.). Senza dire, infine, che se il compito assegnato alle vendite telematiche fosse da ravvisare nell’obiettivo di minimizzare il rischio di turbative dovrebbe senz’altro negarsi la legittimità della vendita telematica nella forma denominata “sincrona mista” così come disciplinata dal D.M. 32/2015, dato che in questo caso, la concreta possibilità di un contatto tra i partecipanti alla gara, immanente al modello, non sarebbe idonea ad escludere i rischi di inquinamento delle aste organizzate secondo lo schema tradizionale.

A fronte di questi rilievi, la disciplina dell’art. 216, comma 4, CCII, come si diceva, risulta imprecisa, lacunosa e rischia di produrre gravi incertezze interpretative. E così anzitutto essa pone la questione se, in difetto di un puntuale rinvio alle disposizioni del codice di procedura civile (rinvii di cui pure è ricco lo stesso art. 216), le vendite telematiche previste dall’art. 216 del CCII si identifichino con quelle regolate dagli artt. 530 e 569 c.p.c., 161-ter disp. att. c.p.c. e dal D.M. 32/2015 e, quindi, ad es. se possano svolgersi, nel silenzio della legge, con l’intermediazione dei gestori delle vendite telematiche iscritti nel registro dei gestori delle vendite telematiche di cui al D.M. 32/2015 o se, dato il riferimento al portale delle vendite pubbliche, debbano svolgersi attraverso una infrastruttura centralizzata creata ad hoc dal Ministero della giustizia.

Ammesso per ipotesi che l’art. 216 contenga un rinvio implicito al codice di rito e considerata la previsione che impone senza eccezioni la presentazione delle offerte «attraverso il portale delle vendite pubbliche» vi è inoltre da chiedersi se siano applicabili alle vendite telematiche del CCII tutte le forme di vendita telematica contemplate dal D.M. 32/2015 o se, per avventura, il legislatore abbia inteso vietare il sistema di vendita telematica c.d. misto che permette la simultanea presentazione di offerte telematiche e analogiche.

Nel silenzio della disposizione dell’art. 216, comma 4, vi è poi da domandarsi se il regime delle vendite telematiche sia applicabile anche ai beni diversi dai beni mobili e immobili e in caso positivo quale sia il regime applicabile ad es. alle vendite telematiche delle aziende e dei rami d’azienda atteso che né il codice di procedura civile né il D.M. 32/2015 dettano una disciplina al riguardo.

Last but non least, il comma 7 dell’art. 216 solleva l’interrogativo se le offerte di acquisto debbano sempre e in ogni caso essere presentate «tramite il portale delle vendite pubbliche» anche quando non possa applicarsi il regime delle vendite con modalità telematiche o se, al contrario, come appare ragionevole, debbano essere presentate tramite il portale soltanto le offerte effettuate nelle procedure di vendita che si celebrano in forma telematica.

   

9. I problemi di monitoring: rapporti riepilogativi e fonti normative.

Un’efficiente supervisione dell’attività gestoria presuppone che i flussi informativi periodicamente indirizzati al giudice delegato, al comitato dei creditori e ai singoli creditori risponda a principi di chiarezza, completezza e correttezza (art. 2423 c.c.). L’art. 130, comma 9, CCII dispone che il curatore deve presentare ogni sei mesi “un rapporto riepilogativo delle attività svolte e delle informazioni raccolte […] accompagnato dal conto della sua gestione e dagli estratti del conto […] della procedura”. Così come l’attuale art. 33 L.F. l’art. 130 non impone l’utilizzo di particolari schemi o strutture di redazione dei rapporti semestrali. E’ vero infatti che secondo l’art. 16-bis, comma 9-septies del D.L. 179/2012: “I rapporti riepilogativi periodici e finali previsti per le procedure concorsuali […] devono essere depositati con modalità telematiche nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, nonché delle apposite specifiche tecniche del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia”. E’ certo tuttavia che questa disposizione non costituisce una base normativa sufficiente a legittimare la predisposizione di schemi standard dei rendiconti semestrali atteso che, per un verso, la fonte regolamentare è abilitata esclusivamente a dettare disposizioni riguardanti “la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici” e che, per altro verso, le “specifiche tecniche” del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia non hanno il rango di fonte del diritto. E’ peraltro chiaramente inaccettabile che un sistema di informazione essenziale per l’attività di supervisione affidata al giudice delegato e per il monitoraggio dei creditori sia ‘delegato’ ad un’entità priva di competenza normativa e per di più sfornita di qualsiasi competenza specialistica in materia, così come deve ritenersi del tutto inaccettabile che il buon funzionamento delle procedure di insolvenza (la cui regolamentazione, occorre ricordare, è innanzitutto preordinata al miglior soddisfacimento dei creditori) possa essere piegato alle esigenze statistiche del Ministero della giustizia. Mentre sarebbe senz’altro auspicabile che strutture e contenuti dei rendiconti siano definiti quantomeno da un regolamento ministeriale, adottato previa consultazione pubblica di tutti gli stakeholders coinvolti nell’andamento delle procedure di insolvenza (ad es. tribunali, ordini professionali e associazioni di categoria), secondo principi di better regulation già da tempo utilizzati dalle autorità amministrative per l’adozione degli atti normativi di rango regolamentare in sede europea e nazionale.

Le stesse riflessioni circa il rango delle fonti utilizzate dal codice possono peraltro replicarsi anche in riferimento alla struttura e ai contenuti delle relazioni di stima previste dall’art. 216, comma 1, del codice. Anche in questo ambito, infatti, non può ammettersi che il contenuto e la struttura delle stime per i beni diversi dagli immobili (si pensi ad es. alle aziende o rami d’azienda) sia determinato attraverso lo strumento di “modelli informatici” o “specifiche tecniche” prive di qualsiasi valore normativo, secondo un processo di elaborazione opaco, sottovalutando completamente la rilevanza normativa, interna ed esterna alle procedure, delle informazioni che sono contenute nelle relazioni.

   

10. Il compenso del curatore e il sistema degli incentivi: pagare senza risultati?

L’art. 137 del codice stabilisce, sulla falsariga dell’art. 39, comma 1, L.F., che il compenso del curatore è liquidato con decreto del tribunale «secondo le norme stabilite con decreto del Ministero della giustizia». La disciplina primaria, come in passato, non detta alcun criterio o principio direttivo in grado di orientare la normativa di rango subordinato. Gli unici criteri specifici che possono desumersi dal sistema complessivo della legge sono contenuti nell’art.129 del codice (già art. 32) il quale prevede che il compenso del delegato, liquidato dal giudice, «è detratto dal compenso del curatore», mentre del compenso riconosciuto ai tecnici e alle altre persone retribuite che coadiuvano il curatore più genericamente «si tiene conto ai fini della liquidazione del compenso del curatore».

Il tema delle politiche di remunerazione degli amministratori di società è invece da tempo al centro del dibattito internazionale sulla corporate governance ([58]). Dal dibattito internazionale emerge chiaramente che i sistemi di remunerazione e incentivazione degli organi di gestione, da un lato, devono essere tali da attrarre e motivare persone dotate delle qualità professionali richieste per gestire con successo gli affari della società; dall’altro, devono essere definiti in modo tale da allineare gli interessi del management con il perseguimento dell’obiettivo prioritario della creazione di valore per gli azionisti. A tal fine si segnala da tempo in particolare la necessità che una parte significativa della remunerazione sia legata al raggiungimento di specifici obiettivi di performance predeterminati e misurabili.

L’indicazione che proviene da quel dibattito è che il disegno di un appropriato sistema di tipo pay-for-performance rappresenta uno strumento essenziale di riduzione degli agency costs presenti nelle relazioni curatore/creditori e, più in generale, una leva cruciale di governo delle prestazioni degli organi di amministrazione delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Considerato che la politica di remunerazione dei curatori e dei liquidatori può influenzare in modo significativo l’andamento delle operazioni liquidatorie e quindi il successo delle procedure liquidatorie sarebbe opportuno che la normativa primaria dedicasse particolare cura nella regolamentazione di questo aspetto dettando almeno alcuni principi base da attuare in sede di regolamentare. Tanto più che l’art. 2, comma 1, lett. l), della legge delega impone al legislatore delegato di attenersi al principio generale di “ridurre la durata e i costi delle procedure concorsuali, anche attraverso misure di responsabilizzazione degli organi di gestione e di contenimento delle ipotesi di prededuzione, con riguardo altresì ai compensi dei professionisti, al fine di evitare che il pagamento dei crediti prededucibili assorba in misura rilevante l'attivo delle procedure”).

A questo proposito potrebbe avere grande rilevanza ad es. commisurare il livello del compenso al risultato economico netto conseguito dal curatore piuttosto che all’attivo realizzato, atteso che l’ammontare dell’attivo realizzato è un dato che non tiene in alcuna considerazione l’entità dei costi sostenuti dal curatore mentre il rendimento della procedura liquidatoria per i creditori dipende in modo decisivo dall’entità dell’attivo realizzato dedotte le spese sostenute per l’attività liquidatoria. La disciplina attuale riguardante la determinazione del compenso del curatore rischia pertanto di produrre gravi distorsioni poiché, da un lato, non fornisce alcun incentivo al risparmio di risorse da destinare ai creditori concorsuali; dall’altro, neppure penalizza in alcun modo il curatore che, pur avendo realizzato performance liquidatorie molto soddisfacenti, mostri una scarsa propensione al controllo dei costi della gestione.

Sarebbe molto importante inoltre, per evitare che il curatore, come spesso accade, si trasformi da agente massimizzatore dell’utile da distribuire ai creditori concorsuali in spettatore inerte dell’attività liquidatoria condotta dal giudice delle esecuzioni, chiarire in modo inequivoco le modalità di determinazione del compenso del curatore allorché l’attività liquidatoria si svolga nell’ambito di procedure esecutive introdotte o proseguite dal creditore fondiario o proseguite dallo stesso curatore dopo l’apertura della liquidazione giudiziale. Tenuto conto, in particolare, che in queste ipotesi il curatore non assume la responsabilità dell’attività liquidatoria e che la liquidazione viene condotta sotto l’impulso del creditore fondiario ed è comunque diretta dal giudice dell’esecuzione, sarebbe importante affermare chiaramente la regola, recentemente adombrata anche dalla giurisprudenza di legittimità ([59]), che non può considerarsi ‘realizzato’ dal curatore l’attivo liquidato nell’ambito di procedure esecutive individuali comunque proseguite dopo l’apertura delle procedure concorsuali, in armonia, del resto, con la logica sottostante alla previsione che impone di detrarre dal compenso del curatore il compenso liquidato in favore dei suoi delegati.

   

11. La responsabilità del comitato dei creditori e il misterioso rinvio all’art. 2407, comma 3, cod. civ.: un’occasione persa.

Il legislatore delegato ha ritenuto di non avvalersi della possibilità offerta dalla legge delega di semplificare la gestione delle procedure meno complesse sostituendo il comitato dei creditori con forme alternative di consultazione del ceto creditorio (art. 7, comma 3). Più in generale il legislatore delegato non ha colto l’occasione della riforma per intervenire sull’istituto correggendone le più gravi disfunzioni. In particolare non si registra alcun intervento sul regime della responsabilità dei membri del comitato.

L’art. 140, comma 7, dedicato alle Funzioni e responsabilità del comitato dei creditori e dei suoi componenti, rinvia quanto ai criteri di determinazione della responsabilità dei membri del comitato dei creditori, tra l’altro, all’art. 2407, comma 3, c.c.. Questo rinvio, sia pure nei limiti di compatibilità, appare tuttavia incomprensibile atteso che le disposizioni del codice civile ivi richiamate (gli artt. 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis e 2395 c.c.) risultano inconciliabili con la natura del comitato dei creditori e con la struttura organizzativa della procedura di liquidazione giudiziale. D’altro canto, l’incertezza creata dal regime di responsabilità del comitato costituisce verosimilmente una delle principali cause, anche se non l’unica, di malfunzionamento dell’istituto. Cosicché là dove il legislatore delegato non intendesse orientarsi nel senso di circoscrivere la responsabilità del comitato dei creditori ai danni cagionati con dolo o in conflitto di interessi (escludendo la responsabilità per colpa), sarebbe comunque opportuno eliminare il rinvio all’art. 2407 c.c., precisando adeguatamente i confini della responsabilità al fine di ridurre il grado di incertezza connesso all’accettazione della carica, come peraltro consentito dal principio della legge delega di cui all’art. 2, comma 1, lett. m).

   

12. La liquidazione controllata e i creditori: un (altro) passo falso.

La disciplina della liquidazione controllata del debitore sovraindebitato, contenuta nel Capo IX del Titolo V del codice, non reca una disposizione generale che, nei limiti di compatibilità, autorizzi l’estensione della disciplina dettata per la liquidazione giudiziale. E’ vero che il Capo IX è inserito nel Titolo V dedicato alla procedura ‘maggiore’ di tal ché potrebbe supporsi la volontà del legislatore delegante di considerare la “liquidazione controllata” una specie del genereliquidazione giudiziale” e tuttavia l’art. 65, comma 2, del codice circoscrive il rinvio alle norme del Titolo III. Inoltre nel Capo IX si riscontrano una serie di disposizioni puntuali (270, comma 5, 272, comma 2 e 275, comma 2) che espressamente richiamano la disciplina della liquidazione giudiziale nei limiti di compatibilità onde potrebbe ritenersi del tutto preclusa l’applicazione delle norme del Titolo V che non siano puntualmente richiamate anche nel Capo IX.

La questione assume particolare rilevanza per quanto riguarda i poteri di controllo dei creditori sullo svolgimento della liquidazione controllata.

Per quanto riguarda il regime della liquidazione dell’attivo del debitore civile e delle imprese minori, gli artt. 272 e 275 CCII delineano, infatti, un sistema nel quale i creditori paiono estromessi da qualsiasi forma di partecipazione e/o di monitoraggio della gestione. L’art. 272 stabilisce infatti che il programma di liquidazione predisposto dal liquidatore “è depositato in cancelleria e approvato dal giudice delegato”; l’art. 275, comma 1, dispone poi che il programma di liquidazione è eseguito dal liquidatore che ogni sei mesi “ne riferisce al giudice delegato”; il successivo comma 3 stabilisce infine che una volta esaurita la liquidazione il liquidatore presenta il rendiconto al giudice che lo approva senza alcun coinvolgimento dei creditori. Non è inoltre prevista alcuna comunicazione dei rapporti riepilogativi di cui all’art. 130 CCII. Tale sistema appare assai discutibile atteso che non pare sorretta da alcuna plausibile giustificazione, soprattutto nelle procedure di minori dimensioni che presentano un numero di creditori più ridotto (v. l’ art. 7, comma 3, D.lgs. 155/2017), la scelta di azzerare qualsiasi forma di coinvolgimento nella gestione o quantomeno di informazione periodica del ceto creditorio, rendendo completamente opaca l’attività del liquidatore per l’intera durata della procedura.



([1]) “Si tratta”, è scritto nella relazione allo schema di legge delega per la riforma delle procedure concorsuali datata 29 dicembre 2015, “del c.d. sistema “Common”, già delineato dalla Commissione ministeriale istituita il 4 agosto 2014, che si basa essenzialmente su tre elementi complementari: a) la creazione di un mercato telematico unificato a livello nazionale, per tutti i beni posti in vendita dalle procedure concorsuali, dotato di massima visibilità e che funge da piattaforma di formazione dei prezzi attraverso meccanismi d’asta differenziati, ampliando la platea dei potenziali acquirenti; b) la possibilità di acquisto di beni su tale mercato non solo con denaro corrente ma anche con appositi titoli, che incorporano un diritto speciale attribuito ai creditori delle procedure di cui sia certificata la concreta possibilità di soddisfazione, da parte di un organismo terzo a un valore minimo prudenziale, a fronte di una garanzia formata dagli attivi più facilmente vendibili e di valore durevole; c) la creazione di un fondo nel quale siano conferiti i beni rimasti invenduti, in vista della loro valorizzazione”.

([2]) A dispetto dell’intento dichiarato nella relazione allo schema di legge delega di voler procedere alla “adozione di un sistema di vendita dei beni che è frutto di una rivisitazione complessiva della relazione oggi esistente tra le procedure fallimentari ed il mercato, tale da consentire, anche tramite l’adozione di moderne tecnologie telematiche, migliori prospettive di soddisfazione delle ragioni dei creditori”, l’artificiale creazione in via legislativa di un unico punto di incontro tra venditori e potenziali acquirenti dedicato alle vendite forzate, cioè la creazione di un market place amministrato dal Ministero della giustizia rappresenta, per usare una celebre formula di Jeremy Bentham, un vero e proprio «nonsense upon stilts», come dimostra in modo emblematico la desolante esperienza del portale delle vendite pubbliche, in quanto la creazione di una infrastruttura di mercato: (a) presuppone elevati investimenti iniziali e on going; (b) deve fondarsi su una gestione imprenditoriale dei relativi servizi che gli apparati amministrativi non sono per loro natura in grado di assicurare (come dimostra il portale delle vendite pubbliche) sia per i vincoli di finanza pubblica che ne limitano l’azione sia e soprattutto per il difetto della necessaria expertise; (c) si pone in controtendenza rispetto all’evoluzione delle forme organizzative dei mercati, come attesta l’esempio delle borse valori, le quali hanno subìto, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, un processo di privatizzazione, almeno nell’attuale fase storica irreversibile, per l’incapacità degli Stati di garantirne l’efficiente funzionamento e il rapido adattamento all’evoluzione tecnologica, cfr. R. COSTI, Il mercato mobiliare, 2017, passim, eM. ONADO, Mercati e intermediari finanziari, 2000, passim.

([3]) E’ piuttosto emblematico della sciatteria con cui il legislatore delegante si è approcciato al tema quanto si trova scritto a tale riguardo nella lettera di accompagnamento degli schemi di decreti attuativi della legge delega 19 ottobre 2017, n.155, indirizzata dal Presidente della Commissione ministeriale per la riforma della legge fallimentare al Ministro della giustizia il 22 dicembre 2017, ove si segnala che non è stato possibile «al momento [della predisposizione della bozza di decreto delegato], dare attuazione all’innovativa previsione di cui all’art. 7, comma 9, lett. b), della legge delega (relativa al sistema dei c.d. commons), stanti le riserve avanzate dai rappresentanti del Ministero dell’economia e finanze circa la necessità di una copertura finanziaria attualmente non prevista [dalla stessa legge delega che ne imponeva l’istituzione]» (corsivo aggiunto).

([4]) Per una prima lettura della disciplina dettata dagli artt. 213 e 216 del codice, A. PALUCHOWSKY, La liquidazione dell’attivo nella liquidazione giudiziale, Fall., 2019, 1219-1220; G.B. NARDECCHIA, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Disciplina, novità e problemi applicativi, 2019, 149-153; L. PANZANI, Dal “fallimento” alla liquidazione giudiziale. Note minime sulla nuova disciplina del CCII, Fall., 2019, 1144 ss..

([5]) L’importanza di un disegno efficiente della procedura di liquidazione giudiziale è stata particolarmente sottolineata dalla Banca d’Italia nella Memoria sullo Schema di decreto legislativo recante Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155, Senato della Repubblica, 26 novembre 2018, 4 ss. ove il rilievo che tale proceduraè destinata a divenire, nella prospettiva della legge delega, lo strumento principale per la liquidazione delle imprese insolventi, essendosi ridotto in modo significativo lo spazio per alternative negoziali di dismissione degli attivi. Ne consegue che dal suo funzionamento dipenderà in misura rilevante l’efficacia della riforma nel ridurre i tempi di recupero dei crediti. La questione è rilevante anche per il ruolo che la liquidazione giudiziale riveste nella più ampia prospettiva della regolamentazione del credito. Nuove regole prudenziali in via di approvazione, infatti, imporranno alle banche svalutazioni minime sui crediti deteriorati (NPL) basate su una scansione temporale predefinita (cosiddetto calendar provisioning) indipendentemente dalla durata delle procedure di recupero, accrescendo gli incentivi a cedere sul mercato tali esposizioni. È quindi essenziale disporre di un quadro normativo che riduca i tempi di realizzazione e accresca i tassi di recupero degli NPL, contribuendo allo smaltimento della loro consistenza”.

([6]) Così tra i tanti, A. JORIO, Orizzonti prevedibili e orizzonti improbabili del diritto concorsuale, Trattato delle procedure concorsuali, diretto da A. Jorio e B. Sassani, 2017, 1337 ss.; L. STANGHELLINI, Il codice della crisi di impresa: una primissima lettura (con qualche critica), Corr. giur., 2019, 449 ss.; S. AMBROSINI, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, in www.ilcaso.it, gennaio 2019, 30; A. ROSSI, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, ilcaso.it, gennaio 2019, 11.Per il rilievo che nella loro attuale conformazione “gli strumenti di allerta rischia­no di dare vita a segnalazioni di indizi non già di crisi, bensì, paradossalmente, di sostanziale insolvenza”, anche P. VELLA, L’epocale introduzione degli strumenti di allerta nel sistema concorsuale italiano, Questione giustizia, 2/2019, 250.

([7]) Cosi Banca d’Italia, Memoria sullo Schema di decreto legislativo cit., 16 ss. con un riferimento più generale alla disciplina della liquidazione giudiziale.

([8]) Ne è dimostrazione il silenzio serbato su questo tema dalla, invero piuttosto scarna, Analisi di impatto della regolamentazione che accompagna lo schema di decreto legislativo recante il “Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”.

([9]) Così espressamente L. PANZANI, Dal “fallimento” alla liquidazione giudiziale, cit., 1144 ss., il quale a proposito dell’art. 216 CCII osserva che è “sufficiente comparare questa disciplina con quella dettata dalla legge fallimentare per rendersi conto che la riforma ha ridotto l’autonomia del curatore in favore di una “riconquistata” centralità nella procedura del giudice delegato, i cui poteri vengono ad assomigliare a quelli che egli aveva prima della riforma Vietti. In questi termini del resto si esprime anche la Relazione osservando che “il giudice delegato, nella prospettiva della riforma, è destinato a riacquistare, dunque, un ruolo centrale poiché a lui è affidata la determinazione delle modalità di liquidazione dei beni, attualmente rimessa alle scelte del curatore”. La scelta è coerente con tutta l’impostazione della riforma, che ha fatto dire ad un autorevole commentatore che “Se vi è un’idea forte nel CCII, questa consiste nel ripristino di un pieno controllo del giudice sulla soluzione della crisi d’impresa e nell’ampliamento delle ipotesi di intervento del pubblico ministero in tali situazioni”. Nello stesso senso G.B. NARDECCHIA, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Disciplina, novità e problemi applicativi, cit.. Non pare cogliere invece il problema L. ABETE, Gli organi preposti alla liquidazione giudiziale, Fall., 2019, 1151 ss. Particolare e la posizione di S. LEUZZI, L’esercizio dell’impresa e la liquidazione dell’attivo nel codice della crisi, ilfallimentarista, 2019, il quale annette e all’ordinanza del giudice delegato una pluralità di funzioni.

([10]) Per il condivisibile rilievo che “la nuova disciplina incide solo in parte sugli incentivi dei soggetti coinvolti nella liquidazione (debitore, creditori, curatore)”, Banca d’Italia, Memoria sullo Schema di decreto legislativo cit., 19.

([11]) Per la sottrazione del giudice delegato alla responsabilità di diritto comuneprevista per gli altri organi della procedura, con alcune puntualizzazioni, già G. CASELLI, sub art. 24, Organi del fallimento, Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, a cura di Bricola, F. Galgano e G. Santini, 1977, 86 e 95. Più di recente, F. DE SANTIS, Il giudice delegato, Trattato delle procedure concorsuali, cit., 716 e L. ABETE, Gli organi del fallimento e i reclami endofallimentari, 2016, 103.

([12]) Che la fase della liquidazione volontaria delle società costituisca attività d’impresa è oramai un dato indiscusso nella letteratura di diritto societario, TURELLLI, Gestione dell’impresa e società per azioni in liquidazione, 2012, passim.

([13]) Per alcuni spunti in questo senso A. BONSIGNORI, voce Fallimento, Dig. disc. priv. sez. comm., 1990, 366 ss. e in riferimento all’espropriazione individuale, G. COSTANTINO Degiurisdizionalizzazione della espropriazione immobiliare, Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 1053 ss.; più di recente G. COSTANTINO, Note sulle proposte di riforma del processo esecutivo nel d.d.l. delega approvato dal Consiglio dei Ministri il 5 dicembre 2019, inexecutivis.it, dicembre 2019.

([14]) Là dove per «valore di mercato» di un determinato bene deve intendersi l’importo stimato «al quale un’attività o passività dovrebbe essere scambiata alla data della valutazione in un’operazione svolta tra un venditore e un acquirente consenzienti alle normali condizioni di mercato dopo un’adeguata promozione commerciale, laddove entrambe le parti abbiano agito con cognizione di causa, con prudenza e senza essere soggette a costrizioni», secondo la definizione recepita dall’art. 4, par. 1, n. 76), Regolamento (UE) N. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento (cfr. anche le Linee guida per le banche sui crediti deteriorati, BCE, marzo 2017).

([15]) Banca d’Italia, Memoria sullo Schema di decreto legislativo, cit., p. 5 ove il rilievo che la “riduzione dei tempi di realizzo dei crediti e l’incremento dei tassi di recupero dovrebbero quindi costituire gli obiettivi prioritari del Codice della crisi”. Per la tradizionale osservazione che il risultato dell’esecuzione forzata diverge normalmente dal risultato dell’adempimento volontario del debitore «in quanto profitta di meno al creditore e in quanto costa di più al debitore» e che tuttavia la «politica del processo esecutivo deve tendere naturalmente ad aumentarne il profitto per il creditore e a diminuirne il costo per il debitore», F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile: processo di esecuzione, I, 1929, il quale aggiungeva con un certo scetticismo che «la esperienza insegna come la vendita forzata avvenga assai difficilmente a condizioni pari con la vendita volontaria per quanto riguarda il profitto del venditore. Quanto più urgente è il bisogno di vendere del proprietario di una cosa tanto meno egli ricava dal negozio […]. Se il lettore riflette che la vendita forzata è tipicamente una vendita che non può non essere fatta, si renderà conto di questa inevitabile causa del suo minore rendimento. Contro questo pericolo deve naturalmente lottare la politica del processo esecutivo […] ma conviene rassegnarsi ad ammettere che, nonostante ogni avvedimento, la conversione in denaro dei beni in sede di espropriazione forzata renderà sempre meno che in sede di alienazione (veramente) volontaria». Per un analogo rilievo nella dottrina specialistica più di recente, L. STANGHELLINI, La crisi di impresa tra diritto ed economia, Le procedure di insolvenza, 2007, 98.

([16]) In generale su questo concetto, AA.VV., Diritto societario comparato, 2006,e in particolare H. HANSMANN E R. KRAAKMAN, Problemi di «agency» e strategie normative, 29 ss.. Per una esemplificazione riferita al sistema della vecchia legge fallimentare, R. FONTANA, Il programma di liquidazione, in Le nuove procedure concorsuali, a cura di S. Ambrosini, 2008, 222, ove si osserva che “la posizione formalmente subordinata del curatore al giudice delegato anche con riferimento alle scelte gestionali si risolve, in assenza di un effettivo esercizio da parte del giudice delegato dei poteri di direzione attribuitigli dalla normativa antecedente la riforma nonché degli stessi poteri di vigilanza, sostanzialmente in un fattore di deresponsabilizzazione del professionista e nel contempo viene a costituire una sorta di scudo protettivo di gestioni fallimentari del tutto inefficienti”.

([17]) L’attribuzione al giudice delegato di poteri di direzione dell’attività liquidatoria, come si vedrà, evocata esplicitamente dalla relazione illustrativa che accompagna il codice (sub art. 216), in realtà non solo è priva di una base normativa ma si pone manifestamente in contrasto con le previsioni della legge delega che miravano (non a depotenziare quanto piuttosto) “a rendere più efficace la funzione del curatore” (art. 7, comma 2, l. 155/2017), tra l’altro, attraverso misure rivolte a specificare il contenuto minimo del programma di liquidazione” e ad attribuire “al curatore, previa acquisizione delle prescritte autorizzazioni, i poteri per il compimento degli atti e delleoperazioni riguardanti l'organizzazione e la struttura finanziariadella società, previsti nel programma di liquidazione […]”.

([18]) Così già G. CASELLI, sub art. 24, Organi del fallimento, cit., 86; A. BONSIGNORI, voce Fallimento, Dig. disc. priv. sez. comm., 1990, 366 ss. il quale notava che “il fallimento odierno rappresenta un’evoluzione, ma non già una rottura, rispetto all’istituto […] quale sorge nell’esperienza comunale italiana e nelle successive elaborazioni delle fiere francesi e dei commerci europei e della sua cristallizzazione nell’Ordonnance du commerce del 1667, con l’aggravante di una sempre maggiore giurisdizionalizzazione di un’attività economicamente liquidatoria [corsivo aggiunto]. Il che, se ha indubbiamente rappresentato un’accentuazione della tutela dei diritti del debitore e dei creditori, ha poi finito per far piombare il fallimento nel marasma odierno dei procedimenti giurisdizionali di lunghezza sempiterna e di scarsissimi risultati concreti nei quali la figura predominante è rappresentata dal giudice delegato. Viceversa il curatore fallimentare non ne costituisce che un umile ausiliario, i creditori sono spogliati di qualsiasi potere, se si eccettui qualche residuo in tema di deliberazione dell’esercizio dell’impresa e di approvazione del concordato, mentre il fallito finisce per rivestire i triste ruolo del mozartiano convitato di pietra, passivo spettatore della dissoluzione del suo patrimonio”. G. COSTANTINO, Degiurisdizionalizzazione della espropriazione immobiliare, Riv. trim. dir. proc. civ., cit., 1053 ss. e 1061 per il rilievo, ancora troppo trascurato, che la “trasformazione in denaro dei beni è un’attività economica, l’esercizio della quale presuppone capacità professionali nel significato che tale attributo assume nell’art. 2082 c.c.” e che “gli organi dell’ufficio esecutivo […] istituzionalmente non hanno e non possono avere quella professionalità economica che tale attività presuppone”.

([19]) Si pensi ad es. al problema della selezione degli intermediari specializzati chiamati ad assistere il curatore nel processo di vendita o alla selezione dei canali pubblicitari da utilizzare per la commercializzazione degli assets del debitore e al rischio che anche in questo settore, stante l’incapacità dei giudici delegati di trovare soluzioni di mercato, si riproponga la prassi assai discutibile – sorprendentemente avallata dal CSM (cfr. delibera del 28 maggio 2018 n. 244/VV/2017 e 152/VV/2018 - Nuova disciplina delle vendite forzate nelle procedure esecutive immobiliari: risoluzione sulla nomina dei gestori delle vendite telematiche e aggiornamento della modulistica) – diffusa in molti tribunali di ‘affidare’ i servizi di pubblicità delle vendite attraverso ‘convenzioni’ che prevedono, tra l’altro, la “messa a disposizione degli uffici di personale qualificato” da parte delle società che gestiscono la pubblicità, così di fatto imponendo illecitamente ai creditori delle procedure esecutive il costo supplementare di “servizi aggiuntivi”, diversi dalla pubblicità, non richiesti dai creditori e non previsti dalla legge.

([20]) Lo sottolineava G. CASELLI, sub art. 24, Organi del fallimento, cit., 86, il quale osservava che la linea di tendenza generale dell’ordinamento secondo la quale soltanto eccezionalmente agli organi giudiziari sono affidate funzioni attive di amministrazione di patrimoni o di singoli beni trova fondamento, da un lato, nella «considerazione dell’insufficiente idoneità degli organi giudiziari […] o, comunque, dell’inopportunità di affidarle ad essi, distraendoli conseguentemente dalle altre funzioni cui essi sono preposti» e, dall’altro, «trova un’ulteriore ragione nella necessità di instaurare una relazione tra esercizio del potere amministrativo e assunzione di responsabilità: relazione evidentemente inesistente, in sostanza, quando il potere amministrativo spetti ad organi giudiziari». Questo rilievo è per lo più trascurato da chi, per formazione processualistica, continua, ad esempio, a sostenere più o meno esplicitamente la sostanziale fungibilità tra il regime normativo delle operazioni liquidatorie dettato dall’art. 107 L.F. e il regime dell’attività liquidatoria nell’espropriazione forzata individuale, a dispetto della circostanza che il sistema di incentivi e di responsabilità nei due ambiti sia radicalmente mutato a seguito dell’abolizione dei poteri di direzione del giudice delegato attuata dalla riforma della legge fallimentare del 2006-2007. Tra i tanti ad es. A. SALETTI, La liquidazione dell’attivo nel fallimento tra vendite «competitive» e codice di rito, Il dir. fall., 2012, 641 ss.; G.BONGIORNO, La liquidazione dell’attivo nel fallimento e le c.d. «procedure competitive», Il dir. fall., 2012, 140-142; L. IANNICELLI, Le vendite dei beni nel fallimento, Trattato delle procedure concorsuali, cit., 448 ss.;P. FARINA, L’aggiudicazione nel sistema delle vendite forzate, 2012, 401-403; id. La liquidazione dell’attivo - Le modalità delle vendite ed il potere di sospensione del giudice delegato, Le riforme delle procedure concorsuali, a cura Didone, I, 2016, 1049-1051, la quale, dopo aver premesso correttamente che la disciplina della liquidazione dell’attivo e quella dell’esecuzione forzata sono accomunate dallo scopo di conseguire il miglior risultato utile per la soddisfazione dei creditori, osserva a proposito delle procedure competitive che “sembra però che della riforma del fallimento si sia occupato un legislatore ignaro delle rilevanti innovazioni adottate dal codice di rito nel quale sono stati recepiti efficienti modelli di prassi virtuose”. Per una analoga impostazione di fondo più di recente, R. D’ALONZO, Il procedimento di vendita nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: quanto la disciplina dell’esecuzione individuale diventa modello virtuoso, inexecutivis, dicembre 2019. Senonché, come dimostrano le statistiche per lo più avvilenti dei valori e dei tempi di realizzo nelle procedure esecutive immobiliari, i cosiddetti “modelli di prassi virtuose” adottati dal codice di rito – se si prescinde ancora una volta dalle indiscutibili abilità personali di singoli magistrati – sono tutto fuorché ‘virtuosi’ ed ‘efficienti’, essendo costruiti sull’idea tradizionale che il giudice, un organo, cioè, sostanzialmente irresponsabile per i risultati dell’attività (economica) di vendita, sia investito, in quanto titolare del potere di direzione del processo, di una funzione ‘propulsiva’ dell’attività liquidatoria, a sua volta organizzata attorno a sistemi di promozione commerciale rudimentali e il più delle volte distorsivi.

([21]) Così autorevolmente A. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 2014, 10.

([22]) Non può pertanto condividersi ad es. l’opinione piuttosto diffusa tra i giudici delegati secondo cui “la possibilità di avvalersi degli schemi processuali elaborati nel codice di rito per l’esecuzione individuale e, correlativamente, [la possibilità di] avvalersi dell’attività professionale del giudice delegato quale giudice dell’esecuzione concorsuale” conferisce alla vendita “una sorta di certezza, di un valido crisma di legalità, sacralità quasi […] specie in presenza di beni di valore ingente”, particolarmente apprezzata dagli operatori i quali ”ricercano un’alta dose di attendibilità, serietà e sicurezza” che solo il giudice può fornire “per la sua indubitabile posizione di terzietà ed imparzialità” (così testualmente S. DE MATTEIS, sub art. 107 Codice commentato del fallimento, a cura di Lo Cascio, 2017, 1491; A. PENTA, La liquidazione dell’attivo fallimentare, 2016, 193). E invero la “sacralità” dell’intervento del giudice è smentita immediatamente dal rilievo che l’art. 107 L.F. non consente di avvalersi delle presunte garanzie degli “schemi processuali” e della presunta maggiore “attendibilità, serietà e sicurezza” derivante dalla “attività professionale del giudice delegato” per la vendita dell’azienda o di rami d’azienda, ossia proprio per la più importante tra le attività liquidatorie demandate agli organi delle procedure di insolvenza. Per altro verso, se le garanzie offerte dall’intervento giudiziale fossero così elevate, non si comprende come mai, per conferire “certezza”, “crisma di legalità” e “sacralità” all’attività negoziale dei privati, il legislatore non abbia mai preso in seria considerazione l’ipotesi di generalizzare l’intervento del giudice nella formazione degli atti negoziali o almeno di garantire l’intervento del giudice negli atti aventi per oggetto “beni di valore ingente” (ad es. abilitandolo alle vendite immobiliari per decreto in luogo dei notai).

([23]) L’opportunità di introdurre una specifica disciplina della responsabilità del giudice delegato “in relazione alle attività non aventi natura strettamente giurisdizionale” è ora sottolineata da F. DE SANTIS, Il giudice delegato, Trattato delle procedure concorsuali, cit., 716.

([24]) Così già la Relazione al codice di procedura civile, al §15 intitolato Le forme processuali: semplicità e modernità del procedimento, ove si affermava che «anche il processo esecutivo si avvicinerà alla vita, quando la vendita o l'assegnazione del beni espropriati potranno avvenire senza formalità ingombranti, con quegli stessi criteri di pratica convenienza e di accorta prudenza a cui si ispirano nel trattare i migliori uomini di affari. Tutto il processo deve diventare più umano, nel senso che esso appaia al popolo non più come una specie di cerimonia cabalistica nella quale solo gli iniziati possono farsi intendere, ma come un accessibile rifugio messo dallo Stato a disposizione di tutti coloro che credono nella giustizia e che per farsi ascoltare non hanno altri titoli che il buon senso e la buona fede».

([25]) Per l’invito a «studiare la pratica mercantile dominata com’è dalle grandi leggi economiche, facendo dello studio del diritto una scienza di osservazione», C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, Milano, 1893, prefazione alla Iª edizione.

([26]) Così anche, L. STANGHELLINI, La crisi di impresa tra diritto ed economia, cit., 98.Ciò peraltro secondo l’aspirazione tradizionale del legislatore a «perfezionare i mezzi volti ad accrescere il rendimento economico della esecuzione, attraverso l'adozione di quel modi di liquidazione del bene che la pratica delle libere contrattazioni ha dimostrato più celeri e più vantaggiosi», assicurando che «i beni di cui il debitore è espropriato siano venduti per il loro giusto prezzo e non gli siano strappati per cifre irrisorie da chi vuol profittare della sua disavventura per spogliarlo del patrimonio» (cfr. Relazione al codice di procedura civile, cit.). «Su questo terreno», si trova scritto nella Relazione, «la tutela del creditore onesto e la difesa del debitore sciagurato coincidono: il nuovo Codice […] ha cercato di dare al processo esecutivo quella scioltezza e quella adattabilità di forme che permetterà, secondo le circostanze, di trovare nella espropriazione quello stesso rendimento economico che potrebbe essere raggiunto sul mercato attraverso le intese fra privati».

([27]) Costituiscono vere e proprie stravaganze regolatorie, prodotte dal deficit di cultura di mercato che affligge il settore pubblico in generale e l’amministrazione della giustizia in particolare, il “portale delle vendite pubbliche” e il regime delle “vendite telematiche” introdotti rispettivamente con il d.l. 83/2015 e con il d.l. 59/2016 nella falsa credenza che l’impiego della tecnologia possa contribuire di per sé accrescere la trasparenza e l’efficienza delle vendite effettuate nel circuito giudiziario senza considerare che queste ultime si collocano in un ambiente competitivo caratterizzato dalla presenza di forme di pubblicità, strumenti di promozione commerciale e canali di distribuzione già sperimentati nel sistema degli scambi volontari e che qualunque deviazione dalle forme, dagli strumenti e dai canali impiegati nelle transazioni di mercato non può non implicare un allontanamento dai risultati di quel sistema in termini di aumento dei costi medi o di riduzione dei prezzi medi ricavati dalle vendite.

([28]) Per una risalente ma sempre attuale critica dell’inclinazione del legislatore italiano ad emanare normative che non sono precedute «dal necessario esame della nostra realtà economica» e per l’assenza di studi e ricerche «volti ad accertare la frequenza e il ricorso a determinati istituti giuridici», T. ASCARELLI, Il codice civile e la sua «vigenza», Saggi di diritto commerciale,1955, 461 ss.

([29]) F.A. VON HAYEK, La concorrenza come procedimento di scoperta, Competizione e conoscenza, (rist.) 2017, 94.

([30]) Così la relazione allo schema di legge delega per la riforma delle procedure concorsuali del 29 dicembre 2015. Sulle disposizioni della legge delega dirette a rafforzare il ruolo del curatore, A. BENOCCI, Dal fallimento alla liquidazione giudiziale: rivoluzione culturale o make-up di regolamentazione?, Giur. comm., 2017, 759 ss..

([31]) M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, 2000, 27-28 e 327-328.

([32]) Così G. CASELLI, sub art. 24, Organi del fallimento, cit., 163.

([33]) E’ particolare invece la posizione di S. LEUZZI, L’esercizio dell’impresa e la liquidazione dell’attivo nel codice della crisi, ilfallimentarista, 2019, il quale osserva che “l’ordinanza [di vendita del giudice delegato] – collocandosi in un momento posteriore a quello in cui il magistrato avrà effettuato il proprio controllo – servirà, con ogni evidenza, a plurime funzioni: innanzitutto, a dare un ordine specifico ed un’uniformità di modello e indirizzo, a livello di Ufficio, ad operazioni di dismissione di beni, che, altrimenti, risulterebbero inutilmente parcellizzate, tanto da disorientare gli utenti; in secondo luogo, a inserire in una cornice strutturata ed univoca autorizzazioni all’esecuzione degli atti liquidatori che, diversamente, risulterebbero isolate e pedisseque, in quanto meramente adesive alle relative richieste del curatore di acconsentirvi; ancora, a rendere possibile una ulteriore disamina sulla legittimità e liceità delle operazioni de quibus o – se si vuole – a prevenirne ogni irregolarità in rapporto alla normativa vigente; altresì, a saggiare e “convalidare” la consonanza dell’iniziativa liquidatoria alla disciplina preconfezionata in concreto dal programma di liquidazione, consentendo, in tal modo, al giudice delegato di esprimere un esame sull'attività del curatore dinamico e non circoscritto alla valutazione statica e aprioristica dei contenuti del piano; infine, ad individuare, almeno tendenzialmente, un “solo” provvedimento impugnabile, concentrando su di esso gli eventuali reclami e, in certo senso sterilizzandoli in ragione del sedimentarsi, nei singoli uffici, di ordinanze “tipo”. Probabilmente la ratio della previsione relativa all’ordinanza risiede, poi, nell’esigenza precipua di rinvigorire le prescrizioni di piano con una sorta di vessillo di certezza o valido “timbro” di legalità. Il grado di attendibilità che la “firma” del giudice delegato riesce ad assicurare, per la sua posizione di terzietà e imparzialità, fa sì che la vendita rassicuri l’utenza che ci si accinge ad intercettare”.

([34]) Così A. PALUCHOWSKY, La liquidazione dell’attivo nella liquidazione giudiziale, Fall., cit.. la quale, posto l’interrogativo se, alla lucedella riforma, possa ritenersi che “il giudice abbia recuperato anche una parziale e rilevante facoltà di indirizzare il merito della gestione, in antitesi con la scelta della legge delega […]”, risolve in senso negativo la questione osservando che “sembra più probabile, alla luce della obiettiva situazione confusa che si è prodotta dopo la L. n. 132/2015, che al giudice sia stata data la responsabilità della redazione dell’ordinanza di vendita, cioè dell’atto definitivo, contenente tutte le modalità e condizioni di vendita chiaramente enunciate e conoscibili, tra cui principalmente la scelta se la vendita debba essere competitiva ai sensi del comma 2 o con adozione diretta delle formalità del c.p.c. ai sensi del comma 3”.

([35]) Così tra i tanti ad es. P. FARINA, L’aggiudicazione nel sistema delle vendite forzate, cit., 402ove si trova che “non è chiaro quale pregiudizio possa subire in concreto la procedura della vendita eseguita direttamente dal giudice delegato a norma degli artt. 569 ss. se si considera che tutte le modalità regolate dal codice di rito sono intrinsecamente «competitive» [e] che lo svolgimento delle operazioni di vendita da parte del giudice delegato rappresenta per i potenziali acquirenti un incentivo ad offrire, poiché il giudice, da sempre, è espressione di massima garanzia e affidabilità”.

([36]) Alcuna ingerenza del giudice delegato nelle scelte gestorie contenute nel programma di liquidazione può naturalmente ammettersi, nella nostra visuale, neppure nella fase di formazione del programma. Un argomento contrario non può essere desunto dalla previsione del comma 7 dell’art. 213 il quale ora stabilisce che il programma “è trasmesso al giudice delegato che ne autorizza la sottoposizione al comitato dei creditori per l’approvazione”. E, infatti, la disposizione in esame non conferisce al giudice delegato una competenza autorizzativa analoga a quella che gli conferiva il d.lgs. 5/2006 (“il curatore predispone un programma di liquidazione da sottoporre, acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori, all’approvazione del giudice delegato”), tanto meno estesa al merito delle scelte del curatore, ma richiede più semplicemente che il programma sia trasmesso al giudice prima della sua presentazione al comitato dei creditori. In base a questa disposizione il giudice delegato non ha il potere di imporre la modificazione del programma di liquidazione formulato dal curatore bensì deve limitarsi a riscontrare, nell’esercizio delle sue prerogative di controllo, che il piano sia conforme alla legge, come dimostra il rilievo che il comitato dei creditori può sempre rifiutare l’approvazione del programma anche se ‘condiviso’ dal giudice delegato e che, ammesso per ipotesi un potere giudiziale di determinazione delle strategie liquidatoria, ne deriverebbe in capo al comitato un anomalo potere di veto sulle decisioni giudiziarie.

([37]) Così secondo l’insegnamento di Cass. sez. III, 21 settembre 2015, n. 18451.

([38]) Ed in questi limiti soltanto – nei confini cioè del controllo di legittimità dell’azione gestoria – può quindi giustificarsi l’esenzione del giudice delegato (e del tribunale concorsuale) dal regime della responsabilità di diritto comune a cui sono sottoposti il curatore e il comitato dei creditori nell’esercizio delle rispettive funzioni.

([39]) Così E.F. RICCI, Note sugli organi del fallimento dopo le riforme, Giur. comm, 2008, 190 ss. Più di recente, P.F. MONDINI, Il ruolo del curatore nella gestione della procedura fallimentare. Autonomia e personalità nell’esercizio delle funzioni, Banca borsa tit. cred., 2015, 215 ss..

([40]) Per converso l’indebita ingerenza del giudice delegato in materia gestoria che si esplichi attraverso ordini, istruzioni o direttive indirizzati al curatore non può che comportare, a nostro avviso, l’estensione nei confronti del giudice, in quanto amministratore di fatto del patrimonio in liquidazione, dello stesso regime di diritto comune della responsabilità gestoria dettato per l’organo titolare di funzioni amministrative e quindi, in sostanza, determinare la responsabilità solidale del giudice delegato e del curatore per i danni cagionati nello svolgimento dell’attività liquidatoria.

([41]) Nello stesso senso autorevolmente anche A. NIGRO, I gruppi nel codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: notazioni generali, www.ilcaso.it, 2020, p. 9, ove il rilievo più generale che “l’intero Codice è ricchissimo di imprecisioni, duplicazioni, errori, lacune, forzature, e così via, per non parlare dei numerosissimi e vistosissimi eccessi di delega […]” e subito dopo la considerazione che “è […] difficile rendersi conto del perché un processo di riforma così lungo ed in cui si sono impegnati, a quanto risulta, stuoli di persone, abbia dovuto avere un esito così pieno di “ombre”, per usare un eufemismo. In particolare, non si può dire se questo sia il risultato della fretta che, inspiegabilmente, ha fin dall’inizio connotato i lavori; o di una scarsa chiarezza di idee sul modo in cui le nuove regole avrebbero dovuto essere declinate: o di una scarsa capacità tecnica; o di una combinazione, allora micidiale, di tutti questi fattori”.

([42]) Si pensi, a parte l’anomalo riferimento all’ordinanza di vendita, ad es. ai richiami, talora diretti e puntuali, a singole norme del codice di rito (artt. 161 comma 3 e 173-bis disp. att. c.p.c., 560, commi 3 e 4, 569, comma 3, terzo periodo, 574, comma 1, secondo periodo, 585 e 587, comma 1, secondo periodo); talora obliqui e incerti come ad es. a proposito delle “vendite […] con modalità telematiche tramite il portale delle vendite pubbliche” e alla presentazione delle offerte “tramite il portale delle vendite pubbliche”. Disposizioni queste ultime che, in mancanza di un rinvio puntuale alle corrispondenti norme del codice di rito, sollevano una pluralità di questionie così almeno: a) se le vendite telematiche previste dall’art. 216 del CCII si identifichino con le vendite telematiche regolate dagli artt. 530 e 569 c.p.c., 161-ter disp. att. c.p.c. e dal D.M. 32/2015; b) se le vendite telematiche del CCII possano svolgersi con l’intermediazione dei gestori delle vendite telematiche iscritti nel registro dei gestori delle vendite telematiche di cui al D.M. 32/2015; c) se siano applicabili alle vendite telematiche del CCII tutte le forme di vendita telematica contemplate dal D.M. 32/2015; d) se il regime delle vendite telematiche sia applicabile anche ai beni diversi dai beni mobili e immobili e in caso positivo quale sia il regime applicabile ad es. alle vendite telematiche delle aziende e dei rami d’azienda; e) se le offerte debbano in ogni caso essere presentate “tramite il portale delle vendite pubbliche” anche quando non possa applicarsi il regime delle vendite con modalità telematiche.

 

([43]) Cosicché ad es. deve escludersi che il giudice delegato possa legittimamente disporre che la vendita si svolga a mezzo di commissionario o addirittura per il tramite di un commissionario individuato dal medesimo giudice delegato (art. 532 c.p.c.) atteso che spetta esclusivamente al curatore valutare, sotto la propria responsabilità, i costi e i benefici dell’impiego di «soggetti specializzati» nelle vendite di particolari tipologie di beni (art. 216, comma 1, primo periodo). Così come deve escludersi che il giudice delegato possa disporre che la liberazione degli immobili caduti nella liquidazione si svolga secondo la disciplina dettata dall’art. 560 c.p.c. anziché in base alla procedura prevista dall’art. 216, comma 2. Il giudice potrà invece imporre che la vendita sia effettuata dal curatore nel rispetto delle condizioni stabilite dal codice di rito per le vendite all’incanto o senza incanto che non siano derogate dalla disciplina della liquidazione giudiziale. E cosi ad es. potrà prescrivere per la vendita dei beni mobili si svolga con l’applicazione alla procedura competitiva degli artt. 534, comma 1, 537, 538, 540 e 571 c.p.c. e per la vendita degli immobili degli artt. 571, 572, 573, 576, 579, 580, 581, 584, 585 e 587 c.p.c.

([44]) La nozione di “valore di mercato” dettata tradizionalmente dagli International Valutation Standards e recepita dall’art. 4, par. 1, n. 76), Regolamento (UE) N. 575/2013, qualeimporto stimato «al quale un’attività o passività dovrebbe essere scambiata […] dopo un’adeguata promozione commerciale […]», pone al centro il concetto di «proper marketing». Quest’ultimo a sua volta deve essere inteso, secondo gli standard internazionali, nel senso che “the asset would be exposed to the market in the most appropriate manner to effect its disposal at the best price reasonably obtainable in accordance with the market value definition. The method of sale is deemed to be the most appropriate to obtain the best price in the market to which the seller has access. The lenght of exposure time is not a fixed period but will vary according to the type of asset and market conditions. The only criterion is that there must have been sufficient time to allow the asset to be brought to the attention of an adequate number of market participants”.

([45]) F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile: processo di esecuzione, cit., 264.

([46]) F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile: processo di esecuzione, cit., 267.

([47]) Alcuni dei più influenti economisti del XX secolo hanno del resto dedicato i loro studi alla rilevanza della pubblicità per il funzionamento dell’economia di mercato. Oltre a J.K. GALBRAITH, The affluent society, NY, 1958, passim, N. KALDOR, The economic aspects of advertising, The review of economic studies, 1950, passim, e soprattutto, G. STIGLER, The economics of information, Journal of political economy, 1961, passim (ove si trova l’affermazione che “advertising is, among other things, a method of providing potential buyers with knowledge of the identity of the sellers. It is clearly an immensely powerful instrument for the elimination of ignorance – comparable in force to the use of the book instead of the oral discourse to communicate knowledge”). P. NELSON, Information and consumer behaviour, in Journal of political economy, 1970, passim, id. Advertising as information, ivi, 1974, passim; J. STIGLIZ, Principi di microeconomia, Efficienza e mercati imperfetti, 2005, 332-334.

([48]) J. STIGLIZ, Principi di microeconomia, Efficienza e mercati imperfetti, cit.

([49]) G. STIGLER, The economics of information, Journal of political economy, 1961, cit.

([50]) C. GEERTZ, The Bazaar Economy: Information and Search in Peasant Marketing, American Economic Review, vol. 68, 1978, 28-32.

([51]) Un indice affidabile dell’illusorietà del portale delle vendite pubbliche è costituito dal confronto tra gli investimenti in pubblicità effettuati da qualsiasi impresa di non piccole dimensioni e la modestia degli investimenti di lancio e funzionamento stanziati nel bilancio dello Stato con l’art. 13, ult. comma, del d.l. n. 83 del 2015, ove è stabilito che per «gli interventi informatici connessi alla realizzazione del portale delle vendite pubbliche di cui al comma 1, è autorizzata la spesa di euro 900.000 per l'anno 2015 e, per quelli concernenti la manutenzione e il funzionamento del medesimo portale, di euro 200.000 annuia decorrere dall'anno 2016».

([52]) Che il largo pubblico dei consumatori ignori l’esistenza del portale delle vendite pubbliche è dovuto naturalmente alla circostanza, sottolineata sin dagli dagli anni ’60 del secolo scorso da N. KALDOR e G. STIGLER, che la pubblicità richiede ingenti investimenti («advertising itself has its own limitations: advertising itself is an expense»G. STIGLER, The economics of information, cit., 216) che il portale delle vendite pubbliche, nonostante il sussidio accordato dall’art. 490 c.p.c., dall’art. 107 L.F. e ora dall’art. 216 L.F. non è in grado di sostenere in misura significativa.

([53]) Per un caso esemplare in cui era stato fissato un termine di 20 giorni per la pubblicità della vendita di un’azienda del valore di circa due milioni di euro, Cass. 6 settembre 2019, n. 22383 la quale ha affermato che l'art. 107 l.fall., “nel testo applicabile ratione temporis, prima dell'efficacia delle modifiche introdotte dall'art. 11 del d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015, attribuisce al curatore ampia discrezionalità circa le modalità di liquidazione dei beni fallimentari tramite procedure competitive, sicchè non è necessario il rispetto del termine di quarantacinque giorni previsto dall'art. 490, comma 2, c.p.c., purchè la vendita avvenga con pubblicità idonea ad assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati”. Senonché la Corte omette evidentemente di considerare che il rispetto del principio di adeguatezza della pubblicità, o meglio l’esatto adempimento dell’obbligo del curatore di assicurare un proper marketing degli assets da liquidare, non presuppone soltanto la adeguatezza dei mezzi prescelti per veicolare l’informazione al mercato ma anche la adeguatezza del periodo di esposizione dell’offerta sul mercato, in mancanza del quale nessun mezzo di pubblicità è idoneo a creare una competizione tra una pluralità di offerenti. Così come sembra trascurare che la adeguatezza del periodo di esposizione deve essere stabilita secondo uno standard di proporzionalità: appare infatti del tutto irragionevole sostenere che il periodo di esposizione di un’offerta in vendita di un tavolo o di una autovettura di modesto valore possano essere equiparati al periodo di esposizione dell’offerta di un immobile del valore di centinaia di migliaia di euro o di un’azienda del valore di alcuni milioni di euro.

([54]) L’attività di ricerca presuppone normalmente che il consumatore o l’investitore dispongano di un tempo minimo di scoperta e apprendimento dell’informazione e che al potenziale acquirente sia dato il tempo di valutare e comparare le alternative presenti sul mercato; l’attività di ricerca richiede, inoltre, un tempo sufficiente per esaminare il bene (ad es. visitare l’immobile), nonché, nei casi che implicano un investimento più significativo di risorse, la possibilità di effettuare una due diligence incaricando un professionista e, quasi sempre, quello di ricercare idonee fonti di finanziamento. Esigenze queste che molto difficilmente possono essere soddisfatte nel breve arco temporale di 45 o 30 giorni, almeno nel caso della vendita di immobili o di aziende, come dimostra, tra l’altro, la circostanza che i tempi medi di vendita delle agenzie immobiliari nel mercato immobiliare nazionale oscillano mediamente tra i 6 e gli 8 mesi (così il Sondaggio congiunturale sul mercato delle abitazioni in Italia pubblicato dalla Banca d’Italia il 16 novembre 2017) di modo che una campagna pubblicitaria della durata ristrettissima consentita dalla legge sostanzialmente vanifica l’intento di diffondere quanto più possibile l’informazione al mercato.

([55]) Così la Relazione al codice di procedura civile del Ministro Guardasigilli, cit.

([56]) Naturalmente si prescinde qui dall’esame della scelta piuttosto discutibile di riservare al consumatore e più in generale al debitore civile o all’imprenditore minore – cioè a soggetti normalmente inesperti o comunque meno esperti di un imprenditore non piccolo – il compito di provvedere direttamente alle “vendite e alle cessioni tramite procedure competitive […]” sia pure “sotto il controllo e con la collaborazione dell’OCC”, laddove per il concordato preventivo il legislatore ha optato per attribuire la relativa competenza ad uno o più liquidatori di nomina giudiziale (art. 214 CCII).

([57]) Costituisce, infatti, una vera e propria petizione di principio l’idea secondo cui la vendita attraverso canali fisici si atteggerebbe oramai ad ‘eccezione’ rispetto alla nuova regola ‘generale’ costituita dalle vendite telematiche (così tra gli altri esplicitamente E. FABIANI, La vendita forzata telematica, in Quaderni della Riv. dir. civ., 2018, 95 ss.). A quest’opinione può replicarsi anzitutto con il rilievo di ordine sintattico per cui le frasi subordinate eccettuative introdotte dalle locuzioni “salvo che”, “eccetto che”, “a meno che”, “tranne che”, etc., a dispetto dell’apparenza, non hanno la funzione esclusiva di descrivere eventi poco probabili o eccezionali rispetto ad asserzioni di validità generale contenute nella proposizione principale (così ad es. 135, 176 c.p.c.), ma assumono quasi sempre o comunque il più delle volte il valore semantico di proposizioni di tipo ipotetico o condizionale (così ad es. artt. 299 e 306, comma 3 c.p.c.). Nella maggioranza dei casi, dunque, le locuzioni “salvo che” e simili introducono una forma di condizionamento della proposizione principale, indicando un’esigenza che deve essere soddisfatta perché l’evento o l’azione descritti nella proposizione principale possano effettivamente compiersi (v. L. SERIANNI, Grammatica italiana, Italiano comune e lingua letteraria, 2016,593e619), senza che sia però dato a priori conoscere, in mancanza di ulteriori informazioni ricavabili dal contesto, la probabilità dell’evento o dell’azione condizionante e, quindi, indirettamente la probabilità dell’evento o dell’azione condizionati. Basti pensare alla norma dell’art. 211 CCII (già art. 104 L.F.) con cui si dispone che con “la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, il tribunale autorizza il curatore a proseguire l’esercizio dell’impresa […] purché la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”. Nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che questa norma pone una ‘regola’ (la prosecuzione dell’attività di impresa) e una ‘eccezione’ (l’interruzione dell’attività d’impresa). E, infatti, al di là dell’ovvio rilievo statistico che soltanto in una percentuale insignificante di casi i tribunali dispongono in caso di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) l’esercizio provvisorio dell’impresa, è certo che la norma in esame pone una condizione di compatibilità con gli interessi dei creditori da valutare di volta in volta di talché la prosecuzione dell’attività d’impresa può essere autorizzata solo se e in quanto non si ponga in contrasto con l’aspettativa di miglior soddisfacimento di questa categoria di stakeholders. Allo stesso modo, data la struttura elastica degli artt. 530 e 569 c.p.c. sembra difficilmente controvertibile che la frase: «il giudice stabilisce [la vendita con modalità telematiche] salvo che sia pregiudizievole per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura» sia del tutto equivalente a quella: «il giudice stabilisce [la vendita con modalità telematiche] se [a condizione che, purché, sempreché, quando, ogniqualvolta] non sia pregiudizievole per gli interessi dei ceditori o per il sollecito svolgimento della procedura». Abbandonato il piano sintattico e da un punto di vista logico, prescindendo, quindi, da considerazioni di ordine sistematico, è inoltre chiaro che, intanto, può parlarsi di un rapporto regola-eccezione in quanto si conoscano precisamente in anticipo le evenienze (numerose) in cui troverà applicazione la “regola” e le circostanze (poche) in cui troverà applicazione la “eccezione” (ad es. 18, 19, 50-bis, n. 1, 113, 115 c.p.c.). E però, come si è detto, il legislatore non ha dettato in proposito una norma rigida diretta a vincolare l’attività decisoria del giudice ma ha preferito delineare uno standard generico, delegandogli un potere discrezionale. E dato che non è possibile conoscere in anticipo i casi in cui il legislatore ha inteso sottrarre la liquidazione dei beni del debitore al sistema delle vendite telematiche e che simmetricamente non è possibile, quindi, stabilire a priori quando l’attività liquidatoria dei beni in esecuzione debba effettivamente essere sottoposta al regime delle vendite telematiche l’affermazione di un rapporto di regola-eccezione finisce col rivelarsi assai poco coerente con la struttura della norma.

([58]) L. BEBCHUK - J. FRIED, Pagare senza risultati. La remunerazione dei manager: una promessa mancata, 2004, passim.Per alcuni riferimenti generali anche il Codice di autodisciplina delle società quotate, luglio 2018 e gennaio 2020 e Le disposizioni di vigilanza per le banche, Parte I, Titolo IV, Capitolo 2.

([59]) Cass. civ., sez. I, 06 Giugno 2018, n. 14631.


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